M. Barcellona, Dove va la democrazia, Castelvecchi 2018
Mario Barcellona
Dove va la democrazia?
Castelvecchi, Roma 2018, pp. 87, € 15,00.
Il breve saggio, che con questo titolo, sarà a breve pubblicato da Castelvecchi, tratta della crisi della democrazia.
L’idea da cui muove è che all’origine di questa crisi stia uno scontro, che è insorto circa cinquant’anni fa soprattutto sul terreno del rapporto tra politica ed economia e che ha radicalmente ridisegnato la stratificazione sociale e gli immaginari individuali e collettivi. Per questo ne tratta a partire dal celebre Report su “La crisi della democrazia”, redatto a metà degli anni ’70 del secolo scorso da M.J. Crozier, S. Huntington e J. Watanuki: la crisi in esso diagnosticata suggeriva la destrutturazione delle società del Welfare ed è da questa destrutturazione che nasce, appunto, la crisi di oggi.
La Postdemocrazia di C. Crouch, la Controdemocrazia di P. Rosanvallon e la Democrazia deliberativa degli allievi di J. Habermas suggeriscono che la democrazia possa essere salvata dall’esterno delle istituzioni rappresentative, attraverso un demos che si organizzi fuori da quelle forme e da quei partiti che fino a qualche tempo fa le avevano vivificate.
La tesi di questo saggio è che, invece, non ci sia un “esterno”, un “fuori” intrinsecamente diverso dalle istituzioni della democrazia che, di per sé, sia in grado di salvarla. Perché la sua crisi comincia proprio da questo “esterno”: essa viene da una mutazione antropologica, che investe i pensieri e le prassi, che ridetermina la cifra quasi prepolitica delle relazioni sociali, che alle molteplici solidarietà della società di un tempo sostituisce una universale singolarizzazione, una individualizzazione di massa, che produce in ciascuno una percezione di sé astratta dalle proprie condizioni, materiali e spirituali, di esistenza e lo rende “impolitico” e, perciò, “irrappresentabile”.
Come si è osservato in una precedente riflessione (Tra Impero e Popolo. Lo Stato morente e la sinistra perduta, Castelvecchi, 2017) di cui qui è sembrato giovasse ricordare alcuni passaggi, la progressiva estinzione delle sovranità nazionali e la robottizzazione e informatizzazione dell’economia hanno stravolto i rapporti di lavoro e con essi gli assetti generali delle società: la stratificazione sociale ha preso la forma di una clessidra, ove la parte superiore è occupata dalle élite, dalle loro corti e dai minores che esse garantiscono ed in quella inferiore trova posto tutto il resto, l’insieme molteplice dei non protetti.
A questa modificazione dei rapporti sociali e politici si è, però, accompagnata una ancor più radicale modificazione del modo in cui gli uomini intendono sé stessi ed i rapporti tra loro: un orizzonte, ove a ognuno è dato di salvarsi da solo. Di questa modificazione, che prende forma nell’ascensa dell’ordo˗liberalismo a “pensiero unico” e che consiste in una universale singolarizzazione delle società, è figlia la “morte della politica” e sono nipoti i populismi di oggi. Essa consiste in una universale astrazione dalle condizioni di esistenza di ogni individuo e procura che il disagio di una tal “società liquida” sia esternalizzato: la singolarizzazione rende latente il conflitto e, senza conflitto, c’è solo l’indistinto del popolo, che cerca le ragioni del suo malessere in un altro da sé e riesce a vederlo solo nell’indistinto di una superfetazione parassitaria del potere o del diverso che viene da fuori. Ma le è anche parente quel che ai populismi si contrappone e che però, seppur con ben altri fini, ne ripete il paradigma, solo svestendolo dal disagio e dal risentimento: la predicazione che la distinzione tra destra e sinistra, ossia la disputa sull’ordine ed il governo sociale, è del tempo che fu.
È, per l’appunto, questa modificazione dell’immaginario che fa di questa società una società impolitica e irrappresentabile.
Le origini della politica moderna e i mutamenti cui la rappresentanza è andata incontro dal tempo dell’ideazione dello Stato moderno giovano a comprendere meglio questo passaggio cruciale.Nel grande artificio secondo il quale è stata pensata l’origine dello Stato moderno, il patto sociale esibiva una fondazione politica, che, però, dava vita ad un ordine al cui funzionamento la politica rimaneva del tutto estranea. E postulava un popolo concepito come dispera multitudo, che ha voce solo una volta e solo nella finzione della sua stipula. L’ordine, perciò, stava fuori dallo Stato, nel particolare delle relazioni private, e lo Stato metteva in scena solo l’interesse suo proprio, l’interesse generale. Questo Stato, dunque, non conosceva la politica come disputa sull’ordine e non conosceva la rappresentanza se non come rappresentazione dell’artificiale unità della moltitudine.
Politica e rappresentanza entrano nel mondo solo quando la liquidità della dispersa moltitudine hobbesiana prende a solidificarsi e quando la società dei liberi e uguali proprietari di J. Locke prende a divedersi tra proprietari e non proprietari. Il loro presupposto è, dunque, la distinzione, ossia l’oltrepassamento della doppia astrazione su cui si è inaugurata la modernità, quella del popolo (che metteva in scena l’unità artificiale di un’indistinta moltitudine) e quella dell’eguale soggetto proprietario (che consegnava il retro-scena della ribalta pubblica all’incommensurabile singolarità dei portatori di diritti e dei loro interessi particolari).
Politica e rappresentanza, dunque, prendono la scena della Modernità solo quando il suo immaginario originario viene rimosso, solo quando il posto della dispersa moltitudine di un tempo è preso da solidificazioni, appartenenze organizzate, che pongono le condizioni imprescindibili della politica e della democrazia rappresentativa. La crisi di oggi nasce, così, da una sorta di ritorno di quell’immaginario originario: il popolo si ripresenta di nuovo come moltitudine degli individui irrelati e le solidificazioni della politica si dissolvono nella società liquida della universale singolarizzazione.
Nel domani di una tale società singolarizzata non ci può essere, allora, che una democrazia singolare. Una democrazia che, sul versante della politica, produce disincanto e rancore per fronteggiare i quali può solo consegnarsi a crescenti divaricazioni tra governo e società. E che, coniugandosi con la rivoluzione economica della tecno˗scienza, produce già, e sempre più produrrà, una società divisa, dove la nuova moltitudine degli esclusi rischia di essere confinata in una nuova riserva sussidiata proprio perché non aspiri più a lavorare.
Robot e intelligenza artificiale – si osservava nel saggio che si è prima ricordato – sembra promettano di distruggere più lavoro di quello che la crescita da essi promossa produce. Si riprospetta così, in una forma inedita, un’antica contraddizione: l’iperbolica crescita della produttività espande incessantemente le capacità di produrre merci, ma riduce incessantemente le basi salariali del loro consumo.
Probabilmente il capitalismo troverà il modo di sottrarsi ad un esito infausto del suo rinnovato matrimonio con la tecno˗scienza. Ma le conseguenze per la società si intravedono già: precarizzazione e, poi, inoccupazione, insicurezza e solitudine, e una democrazia singolare che conta sempre più sull’indifferenza e l’astensione. Lo scenario che preannunciano è quello di una società spaccata in un nucleo operoso, in grado di accedere ai consumi della produzione tecnologica, ed una grande riserva, ove il “resto” è confinato proprio per non lavorare e sono somministrate assistenza e rassegnazione.
Solo un nuovo immaginario, che riprenda a distinguere e ad aggregare, seppur nel modo necessariamente diverso che a questo tempo è proprio, potrebbe, dunque, inaugurare un ritorno della politica e il ridispiegamento di una democrazia che ridia corpo alla rappresentanza.
Se si vuole sottrarre la democrazia al destino singolare che l’oggi promette, occorre, perciò, chiedersi se e immaginare come la società possa tornare a pensarsi politicamente e ad organizzare in conseguenza la propria rappresentanza, e dunque come si retrocede o si oltrepassa l’universale singolarizzazione, dalla quale dipende, e nella quale propriamente consiste, la sua crisi.
Concepire un altro immaginario e un’altra democrazia, restituita alla politica ed alla rappresentanza, potrebbe sembrare utopico: non c’è più lo Stato su cui politica e rappresentanza erano cresciute, non ci sono più i confini a riparo dei quali esso aveva preso forma e si erano resi pensabili progetti di società, un’universale contingenza sembra la sola cifra secondo la quale il mondo di oggi si lascia trattare. Ma pensare che non si possa ormai che registrare tutto questo vorrebbe dire che le società hanno cessato di auto-istituirsi, che l’immaginazione che ne ha segnato i tempi si è ormai spenta, che la fonte delle sue significazioni si è definitivamente inaridita, che il logos della tecno-scienza sposata col mercato e la sua economia l’abbia irrevocabilmente prosciugata. E questo, forse, non è ancora detto.
Su questo, che è il vero spazio della politica e della democrazia, l’unico, occorrerebbe, allora, iniziare a riflettere.
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