Antonino Infranca, “Tecnecrate” (Castelvecchi, 2019)
di Francesca Giammei
Siracusa, IV secolo a. C.
Ma anche qui e ora. O da qualche parte nel futuro.
Tecnecrate di Antonino Infranca (Castelvecchi, 2019) è la storia di un dialogo: Theoutimene (“ciò che rimane di Dio”), figlia del tiranno Dionigi, interroga e ascolta Tecnecrate (in greco “potere dell’arte”), vecchio mendicante cieco, desiderosa di conoscere la storia della sua vita (e però – scopriremo – della vita di entrambi): fenicio per nascita, greco per scelta, offende e si inimica gli dèi di ambedue le culture; si punisce togliendosi la vista al cospetto proprio del tiranno Dionigi, ma è così che diventa – e forse solo così che può – ciò che è e che vuole essere, ormai libero anche dal suo tragico destino, ribelle e rivoluzionario, con grazia e calma e in un’immobilità soltanto apparente.
Quanto tempo occorre per raccontare una vita tanto piena? E per quanto i due si intrattengono a parlare? Il tempo del racconto si fa via via quasi incomprensibile e si dilata avvolgendo il lettore nella dimensione e nel ritmo della storia: è un libro che si fa leggere più di una volta, prima tutto d’un fiato fino ad arrivare alla preziosa postfazione dell’autore stesso, e poi ripartire di nuovo da lì per cogliere le sfumature perse, oppure un po’ alla volta come è stato scritto e poi ancora a pagine sparse, non più per comprendere ma per sentirsi compresi.
L’opera – a metà tra la saggistica e la narrativa – consegna le chiavi di accesso ai tanti argomenti trattati come un buon saggio e però anche lascia i dubbi tipici di una riuscita narrazione: Tecnecrate è davvero anche il Tecnecrate che ci è sembrato di (ri)conoscere? Quando si incomincia o si finisce di essere Theoutimene? È possibile sentirsi entrambi? Le allegorie e le metafore sono tutte opera dall’autore o a tratti alcune sempre diverse di chi legge?
Tecnecrate è un libro che educa all’attesa, alla comprensione e – attraverso la cecità di lui – alla realizzazione e al superamento della nostra: è una climax ascendente verso l’emozione, la commozione e la sensibilità dell’autore, che maturano e si svelano insieme alla lettura e ai personaggi. Così, ad esempio, Tecnecrate non nasce omosessuale dalla penna dello scrittore né lo diventa per sua volontà, ma con naturalezza rivela la sua natura, attraversando le categorizzazioni e le tradizioni che lo costringono per la necessità di liberarsene, arrivando ad essere insieme maschile e femminile o nessuno dei due o essere e basta. Allo stesso modo Theoutimene compie la sua missione di personaggio e di persona, raggiunge la sua consapevolezza e fierezza di donna, e chiude il racconto adempiendo a sé stessa e mescolandosi con Tecnecrate come con la di lui terra natia prima di morire. In noi forse dunque insieme è, può essere o deve l’uomo e la donna, l’umano e il divino; in noi è il “potere dell’arte” e allo stesso tempo siamo però tutto “ciò che rimane di Dio”. E “custodi della bellezza”, in un’epoca storica che, pagina dopo pagina, fatichiamo a identificare come successiva o precedente a quel IV secolo a.C., e da quella piazza di Siracusa, vicini o lontani.
“- È giusto. Vado. Ma rispondi, Tecnecrate, a un’ultima domanda: perché secondo te, che sei stato spesso al centro del pensiero divino, gli dèi hanno scelto proprio me per conservare e tramandare la tua storia?
– Perché sei una donna, la lingua negata dagli dèi e dagli uomini. Tu, dunque, sei il greco e il fenicio e ogni altro idioma del mondo.”
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