Alcune considerazioni sulla «potenza» della prassi politica. La fragilità del presente e il blocco del passato.
Questo breve contributo intende partire da un passaggio importante dell’intervento di Bruno Montanari in cui egli ci spiega che «la frantumazione del legame sociale nel suo complesso è il prodotto più ravvicinato, nella sua attuale visibilità, della destrutturazione della temporalità nella mentalità dell’uomo comune», e auspica «la ri-proposta della temporalità storico-esistenziale nella mentalità della gente comune». Per elaborare una risposta soddisfacente a tale ordine di questioni, può essere utile riflettere sul rapporto problematico che intercorre tra la politica intesa come «potenza» (la pura potenzialità di un passato ancora irrealizzato) e il suo esercizio storico nella decisione risolutiva presa da parte di un leader. Entro tale contesto, il conflitto politico viene ad assumere un ruolo decisivo, proprio in ragione della coincidenza storica fra una certa prassi politica (ad esempio quella rivoluzionaria) e la potenzialità insita nel passato. Nei suoi momenti più celebri, la storia della filosofia politica mostra chiaramente come la dinamica del conflitto sia potuta diventare una vera e propria «arte» nel significato classico del termine: una tékne, un sapere pratico, proiettato, nel suo «valore d’uso» descrittivo o normativo, sulle esigenze e contraddizioni del presente, il quale, non sempre, è il risultato (effettuale, in senso hegeliano) del passato. Nel quadro storico segnato dalla Rivoluzione scientifica moderna, Machiavelli porta avanti una linea investigativa dell’ontologia sociale in termini prettamente naturalistici, orientata a definire le modalità in cui l’organismo politico può efficacemente conservare ed estendere il proprio potere entro una condizione di permanente concorrenza ostile tra i soggetti. D’altronde Machiavelli, nelle sue riflessioni politiche, deve molto a Lucrezio. Se è vero che il desiderio di conquista cresce attraverso le passioni asociali quali l’invidia, l’ingratitudine e l’infedeltà, vediamo che nell’indagine di Machiavelli la natura umana viene a delinearsi come una relazione di reciproca sfiducia tra simili, relazione che riporta al centro del dibattito politico attuale il problema dei limiti del potere, come è possibile evincere, ad esempio, dalle considerazioni del Segretario fiorentino su Girolamo Savonarola, concepito certamente come un grande politico, ma nello stesso tempo come un uomo dalla debole capacità di imporsi. Vediamo così che nella lotta infinita per l’autoconservazione dell’organismo biologico è già inscritto il desiderio di ordine e la ricerca di un agire efficace per il conseguimento del potere decisionale sui propri simili. Ciò è confermato dall’uso che fa Machiavelli della terminologia medico-biologica dell’epoca (addirittura, quando non basta la legge, il principe deve comportarsi come una bestia), in special modo della teoria degli umori come l’odio, la paura, l’invidia o l’ambizione. Dopo le conquiste teoriche di Galileo e Descartes, Hobbes concepisce l’uomo in modo meccanicistico e mostra la condizione generale che verrebbe a realizzarsi tra gli uomini (il bellum omnium contra omnes) qualora venisse ritirato dalla vita sociale ogni organismo politico di controllo. Con l’esplodere della guerra civile (1642-1651) Hobbes sente infatti come imminente la fine della sovranità. Per ottenere il rispetto delle leggi naturali e per sottrarsi alla condizione di guerra permanente è necessario l’uso della forza, la quale può derivare soltanto dalla creazione di quell’«uomo artificiale» o «Dio mortale» che è il Leviatano. La ragione che spinge gli uomini a farsi sudditi del sovrano è dunque il fine della protezione: «The end of obedience, scrive Hobbes, is protection». Una siffatta tendenza, tipica della filosofia politica moderna, a ridurre l’agire statale ad un’affermazione strategica e strumentale del potere come decisione risolutiva di un’autorità, è stata messa in discussione da Rousseau e, più in particolare, da Hegel.
Rousseau compie una «cesura antropologica» utile a spiegare il passaggio dall’amour propre all’amour de soi e finanche all’io sociale, ovvero ad un modello di alterità dipendente da interessi immediatamente coincidenti con quelli della comunità. Nella vita comunitaria, infatti, l’abisso incolmabile tra «essere» e «apparire» viene in qualche misura colmato dal bisogno di identità intesa come sinonimo di autenticità. Rousseau intende pertanto legittimare il contratto pensando la condizione di «alienazione totale» di ciascun singolo individuo nella comunità non come il risultato di una repressione secca dell’amour de soi (la quale determinerebbe solo lo scatenarsi del potere distruttivo dell’amour propre, del gretto egoismo che giustifica l’autoritarismo del decisore), quanto come l’effetto automatico di una sublimazione non repressiva del più originario amour de soi. Riprendendo le parole di Rousseau, al posto della singola persona di ciascun contraente, quest’atto di associazione politica dà la vita a un «corpo morale e collettivo» e da questo stesso atto tale corpo riceve la sua unità, il suo «io comune», la sua vita e la sua volontà. Si tratta pertanto di convertire, attraverso la dinamica del riconoscimento declinato nella modalità dello «sguardo» che valuta e stabilisce cosa sia la stima, l’amour de soi individuale in amour de soi sociale, per poter declinare nell’apprezzamento pubblico gli effetti corrosivi, conflittuali e patologici di ogni amour propre lasciato a se stesso. Concentrando l’attenzione sulla dinamica del «reciproco riconoscimento», Hegel, soprattutto nel periodo di Jena, fonda la storicità del soggetto, lo fa emergere e lo istituisce nella sua identità processuale, ponendolo in rapporto problematico con una potenzialità insita nel passato storico depositato nell’Erinnerung, nel ricordo. Hegel spiega il conflitto come un meccanismo di socializzazione, sviluppando una sorta di «contro-critica» teorica al modello di Hobbes. Come mostra bene Kojève, con il concetto di lotta per la vita e per la morte nella dialettica di signoria e servitù, Hegel ha connesso la possibilità della vita e della libertà individuale alla condizione della certezza anticipata della propria morte. Se il «merito» di Rousseau, lo si è appena visto, è stato quello di aver stabilito come principio dello Stato la volontà, secondo lo Hegel dei Lineamenti di filosofia del diritto l’«errore» di Rousseau sta nel considerare la volontà soltanto nella forma determinata della volontà singola e la volontà universale non come il razionale «in sé e per sé» della volontà. Secondo Hegel l’unione vivente degli individui è il vero fine, e non può essere abbassata ad un mezzo di realizzazione dei loro interessi particolaristici. Entro questa cornice, il concetto di Bildung riveste un ruolo centrale: occorre formare la «società civile» (che secondo Hegel è la «palestra dell’individualismo») attraverso la liberazione del lavoro e dal lavoro, contro ogni tendenza orientata all’«omogeneizzazione», proprio nel significato che a questo concetto ha voluto attribuire Charles Taylor. Se allora ci rivolgiamo a Marx, vediamo che, nelle società di massa, il problema del mutamento sociale, culturale, economico e politico assume contorni sempre più precisi. A tal proposito, Wendy Brown, nel suo volume La politica fuori dalla storia, richiamandosi tra l’altro alle analisi di Derrida in Spettri di Marx, mostra come il suo spettro sia in realtà un revenant, ciò che ritorna da un passato più che remoto e immemoriale, che passa dalla porta dell’avvenire come il fantasma del materialismo storico e dialettico, e che ci impone di tenere in dovuta considerazione le sue imprevedibili manifestazioni.
Non è un caso che, proprio a cavallo tra Otto e Novecento, un outsider della filosofia come Nietzsche, il quale considerava Kant ed Hegel degli «operai della filosofia», abbia scritto che «per ogni agire ci vuole oblio», giacché un eccesso di memoria paralizza l’azione e blocca il futuro, e abbia potuto parlare dell’arte come di una Gegenbewegung, ossia di un «contromovimento». Certo, nel passaggio storico e teorico dalla modernità alla ipermodernità, il conflitto si è indissolubilmente legato non solo alla genealogia e alla metamorfosi del potere in quanto potenza (inteso appunto come una pura potenzialità insita nel passato), ma anche all’atto della sua visibilità nel «qui ed ora» della decisione presa da parte di un leader. A tutt’oggi il problema consiste nel fatto che ogni decisione risolutiva deve misurarsi con un dato talvolta inemendabile: il riversarsi del passato in blocco sul presente, proprio nei casi in cui le sue potenzialità non sono state ancora pienamente attuate. L’indagine della potenza, anche nell’accezione nietzschiana, consente pertanto di verificare come la politica sia, ancora oggi, il «luogo privilegiato» in cui il passato storico continua a riversarsi in blocco sul presente. Ciò è ben esemplificato dalla lettura del concetto bergsoniano di «pura durata» come storia da parte dello storico francese Henri Berr, il quale, a sua volta, influenzò i due fondatori e primi direttori delle Annales d’histoire économique et sociale, Marc Bloch e Lucien Febvre. Occorre dunque rinforzare l’azione politica collettiva dilatando il presente tanto verso il futuro che verso il passato, senza fare tabula rasa della memoria. Perché il conflitto, essendo vincolato al corpo del potere come sua potenzialità esclusiva, è ancora pervasivo della nostra dimensione politica su più livelli: economico, culturale, estetico e normativo. Se il potere possiede, nella sua «attuosità», un corpo che facilita la rappresentazione biopolitica della sua forza (attraverso la quale si generano altri corpi che ne riproducono fatalmente le logiche), occorre allora fare largo a una pratica del «convivere», nel significato dato a questo termine dal sociologo contemporaneo Alain Caillé. L’«arte del vivere insieme» deve poter enfatizzare il «noi» piuttosto che l’«io», ovvero un modello di relazione comprensivo delle potenzialità di ciascuno. Certo, se è vero che il conflitto è plurale, la riflessione filosofica intesa come praxis, non può mai venir meno al suo compito normativo (questo aspetto lo mette bene in chiaro, tra l’altro, Jacques Rancière) di accogliere la difficoltà, l’aporia o il «disagio» della politica. È proprio rilanciando una concezione «alta» della giustizia secondo la sua matrice platonica e aristotelica che la filosofia può e deve ancora oggi interrogarsi sul disaccordo che, come una ferita mai cicatrizzata, continua a infettare il corpo politico. Ferita «antisocratica» per eccellenza che in molti luoghi della storia è replicata da individui tiranni subordinati alla legge della forza, i quali seguono il principio trasimacheo esposto nella Repubblica platonica, secondo cui «il giusto è la volontà del più forte» che è chiamato a decidere, tagliando di netto con la potenzialità insita in ogni passato plurale ancora irrealizzato. Attualmente, giacché tutta la società è investita da una «deriva signorile», il potere è divenuto più facile da conquistare ma più difficile da esercitare e più semplice da perdere. Sulla base di questa consapevolezza, siamo tutti chiamati a compiere una vera e propria «resa dei conti» col presente della società di rete, con le forme svariate della politica mediatica globale che plasma la mente del pubblico, a volte neutralizzando, a volte fomentando il conflitto, mettendo seriamente in crisi la legittimità della politica democratica dei partiti ereditata da due secoli di guerre e battaglie politiche. La crisi resta dunque «aperta» nel futuro del presente come lo è stata nel passato del presente, ponendo la democrazia dentro la dissociazione sistemica tra potere della comunicazione e potere rappresentativo. È in questa «dissociazione» che si apre lo spazio critico della riflessione non solo per lo scienziato sociale ma soprattutto per il filosofo politico.
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