Garantire l’accesso allo studio per tutti, non un reddito “scientifico”

*Perché non convince l’idea di Matteo Cerri e Valter Tucci di un reddito per i 18enni che si iscrivono a corsi di laurea scientifici.

Qualche giorno fa, il ministro dell’istruzione inglese del governo Johnson, Gavin Williamson, ha parlato di alcuni corsi di laurea che sarebbero “dead end”, delle strade senza uscita, perché lascerebbero gli studenti con un pugno di mosche in mano. Anzi no: con “nothing but debt”, con un mucchio di debiti da saldare. L’accusa non è stata circostanziata, ma è probabile che egli si riferisse agli “arts subjects”, visto che il suo ministero aveva, una settimana prima della dichiarazione, tagliato i fondi per essi del 50%. All’altro capo del Commonwealth, il governo australiano ha deciso, sul finire dell’anno scorso, di aumentare fino al 113% le tasse universitarie per i futuri studenti di diritto e humanities, con lo scopo di foraggiare le iscrizioni ai corsi di laurea nelle discipline Stem (Scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), per esercitare le quali il paese sarebbe bisognoso di importare manodopera, invece di generarla per conto proprio. Tanto è bastato per far aumentare la temperatura corporea dei cultori degli studia humanitatis, non solo nei paesi del vecchio Impero coloniale, ma anche nella provincia accademica europea, ormai assillata dal pensiero di non essere alla loro altezza, nonostante Dante, Proust e la grandiosa scienza naturale tedesca dell’800.

Quasi negli stessi giorni, il segretario del Pd, Enrico Letta, rilasciava una intervista al settimanale 7 del “Corriere della sera”, nella quale confermava la sua attenzione per i “giovani”, sostanziandola con la proposta di una dote per i diciottenni, capace di dar loro sollievo, nei diversi ambiti dell’esistenza, familiare, lavorativa, accademica. I più hanno discusso del modo attraverso cui Letta intenderebbe finanziarla, e cioè attraverso una imposta di successione sulle grandi fortune, dal milione di euro in su. Per gli egualitari si tratterebbe di un sacrificio che ormai i ricchi, diseguaglianze economiche crescendo, devono mettersi in testa di sopportare; per i disegualitari di una inaccettabile e per di più inefficace interferenza nel sacro recinto della proprietà privata.

Quel che forse è sfuggito è il senso politico della proposta: con essa, e con il proclamato impegno per l’estensione di alcuni diritti civili (il ddl ZAN) e politici (il voto ai sedicenni), si reitera l’obiettivo di arrivare alla maggioranza dei suffragi attraverso una strategia liberal, vale a dire la coalizione fra le minoranze (i giovani, la variegata galassia LGBTQ+ etc.), piuttosto che attraverso la via più diretta, vale a dire la ricerca della corrispondenza fra maggioranza politica e maggioranza economica e sociale, che imporrebbe innanzitutto e per lo più una redistribuzione a favore dei lavoratori. Le varie componenti “sinistre” del Pd hanno dimenticato di registrarlo, forse perché, persi nei fumi della sintesi fra socialismo e cristianesimo, non conoscono più l’abc non del comunismo, ma della socialdemocrazia.

Matteo Cerri e Valter Tucci fanno invece una sintesi diversa: quella fra la politica del governo Johnson in Gran Bretagna e la linea del segretario del Pd. Onde è approvata l’idea di imporre un sacrificio economico ai ricchi, ma solo allo scopo di finanziare un “reddito scientifico”, vale a dire “un reddito a quei 18enni che si iscrivono a corsi di laurea scientifici e che proseguano il percorso di studio con profitto”. Stupisce intanto che gli interventi economici a favore degli studenti, classicamente denominati “borse di studio”, vengano ribattezzati “reddito scientifico”. Ve ne sarebbe una ragione: la borsa di studio “è un sostegno allo studio, mentre lo stipendio ripaga lo studente meritevole del lavoro svolto”. Lavoro? Non si vuole scomodare qui Aristotele o Hegel, ma il lavoro è tale da produrre un oggetto, materiale o spirituale, separato o separabile dalla propria persona. Lo studio provvede invece a formare capacità, attitudini, disposizioni, inseparabili dalla propria persona [[1]]. L’economia di tipo moderno, il capitalismo, ne ha costitutivo bisogno, perché nel suo contesto non ci si limita ad acquistare valori d’uso già fatti e formati, potendoli al più solo assemblare; se fosse stato così, non avremmo assistito, negli ultimi tre secoli, a quel gigantesco aumento della produttività del lavoro che ha sconvolto le vecchie “economie di sussistenza”. Se, infatti, la riproduzione delle capacità fosse rimasta nelle mani della famiglia e delle comunità politiche o religiose, come era nei secoli precedenti, esse non sarebbero potute mutare in corrispondenza dell’applicazione della scienza e della tecnica alla sfera della produzione. L’istituzione moderna di un apparato scolastico funzionalmente differenziato è legata, insomma, alla formazione di una “persona”, libera ed eguale, la quale si affaccia sul “mercato del lavoro” potendo offrire generali capacità e non abitudini produttive trasmesse dalle generazioni passate.

Più in breve: Cerri e Tucci non colgono la differenza fra i requisiti funzionali del capitalismo e quelli dei sistemi economici e sociali che lo hanno preceduto. Per questo, ritengono che l’intento del “reddito scientifico” non sia nuovo e permetta di ricalcare “la modalità di vita dei giovani durante il medioevo. In quegli anni infatti era usanza che già a 10 anni si uscisse di casa per «andare a servizio» presso un’altra famiglia. Qui si attendeva alla vita domestica in cambio di vitto, alloggio ed un piccolo salario. Dopo alcuni anni, il giovane avrebbe cercato una bottega dove fare l’apprendista, ricevendo un piccolo stipendio in cambio della formazione. Poi, una volta ‘uomo’, forte di un piccolo capitale accumulato negli anni, e sufficiente per aprire una propria bottega e formare una famiglia, il giovane sarebbe stato pronto per la vita adulta ma anche per contribuire egli stesso alla società. Ed il ciclo della vita e della società sarebbe così ripartito”. Che fosse un ciclo che non prevedesse la libertà del lavoratore, congiunta alla formazione di un vasto patrimonio di conoscenza tecniche e scientifiche in perpetua trasformazione, e cioè che si trattasse di una società servile afflitta dalla stagnazione economica e culturale sembra non impensierire Cerri e Tucci, pur essendo scienziati impegnati nel costante rinnovamento delle applicazioni della scienza e della tecnica alla produzione.

L’indebita confusione fra la figura dello studente e quella del lavoratore, sottesa alla categoria di “reddito scientifico”, potrebbe apparire come un fatto nominalistico. Ma ha un sicuro scopo politico: promuovere la graduazione fra i corsi di laurea a seconda della percezione che essi siano più o meno “lavoro”. Il cuore della proposta di Cerri e Tucci sta, infatti, nello spostamento di un ampio contingente di risorse destinate alla formazione universitaria qua talis verso gli iscritti ai corsi di laurea “scientifici”. Ma in un paese come l’Italia, dove la quantità, oltre che la corposità, delle borse di studio è ancora fortemente insufficiente – lo rivela la figura, non ancora scomparsa al Sud, degli idonei alle borse di studio non beneficiari – e la residenzialità studentesca ancora scandalosamente ridotta (e oggi peraltro preda di operazioni immobiliari dal dubbio carattere), proporre un tale smistamento delle risorse significherebbe semplicemente proibire alla totalità degli studenti di scegliere come e in quale disciplina proseguire la propria formazione.

Se le condizioni di base per garantire tali scelte fossero assicurate, si potrebbe contemplare un’ulteriore incentivazione per quei corsi di laurea, oggi particolarmente importanti per lo sviluppo delle forze produttive, la cui attrattività risulta ancora troppo bassa. In assenza di tali condizioni, ogni altro intervento creerebbe un privilegio, alimentato da un’ingenua, e anche un po’ rozza, forma di autoritarismo culturale. Il modello di università democratica, e cioè sia di massa sia di qualità, che è disegnato dall’art. 34 della nostra Costituzione (“La scuola è aperta a tutti… I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”), ne uscirebbe distrutto.

 

*Articolo riprodotto con la gentile concessione di MicroMega. Originale al link: https://www.micromega.net/reddito-scientifico-perche-no/amp/

 

NOTA

[1] L’apprendimento rende infatti provvisori e revocabili tutti i “prodotti” del lavoro mentale e manuale, che così non acquistano mai una reale separatezza (per cui gli studenti giocano, fanno esercizi, fanno prove in laboratorio etc.). All’università, il glorioso istituto italiano della “tesi di laurea” è considerabile come il primo vero oggetto prodotto dal lavoro spirituale degli studenti, ideale transizione al mondo extra-accademico.

La scuola ci salverà

di Ivana Zuccarello

“La scuola ci salverà” è un libro che si fa carico di una promessa: rischiarare un orizzonte fosco sulle sorti della scuola italiana nel futuro. Eppure, in questo suo ultimo lavoro, Dacia Maraini semplicemente racconta il presente, lo stato dell’arte delle scuole nelle quali è entrata da scrittrice, da studentessa, da cittadina e forse anche da madre mancata.

Il suo è un reportage giornalistico ma anche una rubrica del cuore in cui memoria, storie, testimonianze, denunce e speranze s’incrociano, per portare alla luce l’unica questione dirimente, quella che trasforma l’asserzione ottimista dell’autrice nel dubbio sottinteso di chi legge: “Ma la scuola si salverà?”

Sono in tanti oggi a chiederselo, soprattutto fra gli insegnanti che, come scrive l’autrice, sostengono la scuola spesso da soli e interamente sulle loro spalle come vecchi, ma indefessi, Sisifo. Colpisce la dimensione etica, e quindi, politica della questione affrontata con i toni tenui di chi osserva dall’alto ma ascolta dal basso; pertanto, il linguaggio è semplice e, mi piace pensare, volutamente democratico poiché quando si parla di scuola non si può che essere inclusivi.

Tre parole più di altre affiorano dagli articoli editi e inediti raccolti negli anni dalla Maraini sulle pagine del Corriere della Sera e qui pubblicati: Futuro, Etica, Affetto e, purtroppo, di esse non si trova traccia né nei Piani dell’offerta formativa degli Istituti, né nelle riforme scolastiche degli ultimi decenni.

Ad oggi, inoltre, non solo “nessuno ha mai composto una mappa dell’eccellenza scolastica, fuori dai giudizi stereotipati” ma si rischia anche che la ridondante richiesta di meritocrazia che proviene dalla società prima e dagli studenti, poi, rimanga inevasa.

L’idea della Maraini, quindi, è che la scuola come istituzione sia effettivamente ridotta in pezzi, ma che in essa resista una rete di insegnanti-servitori preparati e appassionati che, come il leggendario Colapesce, restano sommersi e in apnea a reggere il peso di fondamenta cedevoli.

Questi insegnanti poco pagati, ma soprattutto socialmente poco stimati, allora, vogliamo ringraziarli? Vogliamo formarli adeguatamente? Vogliamo pagarli meglio?

E, infine, vogliamo valutarli? Sì, perché “da un buon insegnante possono nascere decine di ragazzi ben preparati ad affrontare il futuro”, mentre un cattivo insegnante può rovinare per sempre la mente e la sensibilità culturale di generazioni di giovani.

Qui, però, siamo ben lontani dalla retorica (un po’ francese) dell’insegnante eroe e perno della società civile: emerge dalle righe dedicate dall’autrice alla sua infanzia scolastica un teatro di maschere-docenti, anche mediocri, talvolta anonimi, ma descritti con la clemenza di chi sapeva guardare altrove anche senza e nonostante la scuola.

Lo sguardo degli studenti resta, infatti, lo specchio più autentico, l’unico che occorrerebbe tenere sempre davanti; e allora ai giovani la Maraini dedica parole di un amore che è agàpe e che ci ricorda la scuola di Barbiana, soprattutto nella misura in cui dà testimonianza di alcune realtà scolastiche, a volte piccole e spesso periferiche, tutte caratterizzate dalla costruzione di un riconosciuto legame umano tra insegnanti e alunni.

Si può essere certamente tentati di accusare l’autrice di “indulgente ottimismo”, come lei stessa denuncia, perché la scuola che racconta sembra essere la panacea di tutti i mali (dal bullismo al femminicidio). Ma come si può negare che nella sostanza stessa dell’educazione stia il seme che generi una società sana? Lo sostenevano Platone e molti altri e, tuttavia, qui la questione è diversa, si tratta dell’implicita richiesta di regole, e quindi di politiche, che rimettano in sesto il sistema scolastico aldilà di ogni palingenesi pedagogica, la cui necessità è altra faccenda.

Chiudono il libro tre racconti straordinari: L’esame; Berah di Kibawa; Il bambino vestito di scuro.

Il filo rosso che li unisce è sempre la scuola, che entra a gamba tesa nel tempo dell’esistenza. Talvolta come pesante verdetto di fallimento mentre la vita ci forma altrove (L’Esame); a Kibawa, invece, dove la scuola non c’è, diventa necessaria, e il desiderio di istruzione si fa motore di un viaggio che salva la vita. Infine, venuto fuori da uno spazio-tempo che solo i libri di filosofia hanno il privilegio di rivelare Il bambino vestito di scuro, il più misterioso dei personaggi di questi racconti, sembra suggerirci che altrettanto misteriosa è la ragione che ci lega così profondamente alla scuola.

Che sia forse davvero (dal greco scholé) il tempo in cui per la prima volta siamo stati liberi?

L’IN-SÈ ED IL PER-SÈ NELL’AUT-AUT KIERKEGAARDIANO. Come Hegel permea in penombra la struttura esistenziale kierkegaardiana

di Simone Santamato*

«Grazie tante! Alla mia morte ci sarà parecchio da fare per i docenti. Le infami canaglie! Eppure ciò non servirà a nulla, anche se sarò stampato e ristampato, letto e riletto. I docenti mi convertiranno in un articolo di lucro; mi faranno oggetto del «docere» […]» – S. Kierkegaard, Diario, Fr. 2886

Così, lo stesso Kierkegaard, mostrava grande coscienza, grande consapevolezza (seppure qualcuno possa forse dire a ragione “grande presunzione”), di quanto la sua filosofia potesse essere rivoluzionaria, o quantomeno di quanto essa potesse essere di grande interesse in senso postumo; già presentiva, già gli era chiaro l’eco – a lui non tanto graziosa o gradita, evidentemente – della sua importanza nella Storia della Filosofia. Come evidente, la storia gli ha effettivamente dato ragione – suo malgrado – e ad oggi un qualsivoglia manuale di Storia della Filosofia che si rispetti, riporta – a volte tanto efficientemente quanto sinotticamente, alle volte in modo discutibilmente sintetico l’impalcatura generale del pensiero kierkegaardiano, poi definito esistenzialista.

Proprio questi stessi manuali, generalmente, propongono una lettura del filosofo decisamente anti- hegeliana: un Kierkegaard che rifiuta la teologizzazione dello Spirito, rinnega il panlogismo e, generalmente, nega la megalomania, la tensione all’universale, che caratterizza fortissimamente l’interezza del sistema dialettico hegeliano. Ed effettivamente, sembra essere proprio così: dando importanza al singolo in quanto singolo, affidando a lui la fiaccola del Vero il cui compito è illuminare una vita di illusioni e menzogne, sembra che Kierkegaard stia completamente rigettando la teoretica hegeliana a favore di una più concreta, singolare e unicizzante teoria del singolo. Questo è effettivamente tutto molto bello, anche molto sintetico, decisamente appetibile a tutti coloro che considerano il filosofo in questione un piccolo punto infinitesimale in un’orizzontalità filosofica pregna di giganti insormontabili; questo, salvo poi leggere qualche testo e ricredersi immediatamente. Di fatti, specialmente in Aut-Aut, la configurazione della riflessione kierkegaardiana circa l’argomento del singolo è completamente imbevuta, traboccante, di un profumo inebriante proveniente da quell’hegelismo che tanto, secondo molti[ref] E lui stesso, come più volte paradossalmente ribadisce.[/ref], avrebbe aborrito.

E questo è immediatamente manifesto – è spontaneamente scorgibile, direbbe Kierkegaard. La lingua con cui egli si esprime è quella che parla di “spirito”, di “assoluto”, e, generalmente, il lessico è chiaramente d’impostazione hegeliana, soprattutto per quanto concerne il movimento di uscita-da-sé e rientro-in-sé tipico della dialettica triadica.

Quello che ci si propone di fare, con somma modestia e umiltà, è una nuova divisione e rilettura dell’opera maggiore di Søren Kierkegaard, Aut-Aut, che tenga comunque conto della grande influenza, a quanto pare negata dalla manualistica generale (negazione effettivamente sostenuta anche dallo stesso Kierkegaard) del filosofo idealista. Quest’opera tratta specificatamente di quella sezione del pensiero kierkegaardiano riguardante lo stadio estetico dapprima, e  quello etico poi, lasciando quindi in ombra il terzo stadio, quello religioso.

Aut-Aut si presenta come un’enorme epistola il cui destinatario è chiaramente un esteta – come viene anche specificato nel corso del testo. Il mittente rappresenterebbe colui il quale ha deciso di scegliere, utilizzando lo stesso avverbio di Kierkegaard – seriamente, diventando un uomo bell’e compiuto, un uomo etico. L’uomo etico in questione, attraverso una serie di rimproveri, una sequela di suggerimenti e digressioni su vari argomenti – a dire la verità decisamente eterogenei fra loro, seppure interconnessi da un agevole fil rouge  – mostra all’esteta cosa ci voglia per essere degli uomini davvero compiuti.

Pertanto, l’opera è interamente configurata in questo modo: l’etico critica l’esteta di essere indisciplinato nella ricerca di sé, rendendolo reo di non essere sé stesso in alcun modo [ref]Questo pur riconoscendogli grande acume e intelligenza, come può evincersi a p. 28 (S. Kierkegaard, Aut-Aut/Enten-Eller, Mondadori, Milano, 2016) e come sarà a più riprese fatto.[/ref], così da mostrarci cosa, viceversa, proponga l’etica. Il dramma dell’esteta, dunque, è che non conosce niente di sé, non sa neanche chi sia davvero. Kierkegaard evidenzia in modo tanto sofisticato quanto tagliente come l’esteta, in realtà, abbia l’illusione della scelta – di fatti, sceglierebbe il piacere – eppure, in verità, la tragedia, la drammaticità di questa illusione, è tutta nel fatto che sia il piacere stesso a scegliere l’esteta, nella misura in cui questi viene soggettivizzato dal piacere stesso. A tal proposito di ciò, si dice che «[…] una scelta estetica non è una scelta. […] La scelta estetica o è completamente spontanea, e perciò non è una scelta, o si perde nella molteplicità»[ref]Ivi, p. 14[/ref]. È tutto chiaro: la spontaneità della “scelta” estetica è ciò che rende la stessa scelta una non-scelta, dal momento che non c’è una vera e seria, disciplinata, riflessione dietro la scelta stessa; ancora, la molteplicità in cui quest’ultima si perde rappresenterebbe l’impossibilità di auto-determinarsi in quanto “io” in senso rigoroso.

Viceversa, l’etico viene presentato come colui che «[…] ha lo stato d’animo e lo ha in sé»[ref]Ivi, p. 86[/ref], è lui solo che «ha visto sé stesso, conosce sé stesso, compenetra con la sua coscienza tutta la sua concretezza, non permette a pensieri indefiniti di scorrazzare in lui, a possibilità tentatrici di distrarlo coi loro incanti[…]»[ref]Ivi, p. 117[/ref]. Insomma, lo stadio etico è lo stadio che pone realmente il problema della scelta e che – non venendo rifiutato ma essendo preso seriamente in carico  dall’uomo che sceglie e risolvendosi nella scelta stessa – determina definitamente l’io, rendendolo autocosciente per davvero. In questa maniera, il contenuto dell’opera pare tendere verso un chiaro rifiuto dell’hegelismo, verso un chiaro distaccarsi dal paradigma strettamente dialettico insito nell’intera riflessione hegeliana. Le cose, però, non stanno propriamente così: sebbene Kierkegaard si esprima in questi termini, non è raro imbattersi in periodi dal senso discutibilmente “kierkegaardiano”. Ad esempio, è emblematico il seguente passo dove si parla dell’assolutizzazione dell’Io, espresso negli stessi termini dell’Assoluto di Schelling, Fichte, e dello stesso Hegelgià (seppure con le dovutissime differenze): «Il mio pensare l’assoluto è l’auto-pensarsi dell’assoluto in me»[ref]Ivi, p. 78[/ref], e ancora: «Ma cos’è l’assoluto? Sono io stesso nel mio eterno valore»[ref]Ivi, p. 67[/ref].

Senza troppo approfondire la questione, sembra evidente che la lingua parlata da Kierkegaard, pur nel convinto rifiuto dell’impostazione hegeliano-idealistica, sia quella di Hegel. Infatti, il lessico kierkegaardiano non parla solamente di “singolo nella sua concretezza”, di “io in quanto io”, di “scelta”, “angoscia”, o “disperazione”, e mantiene sullo sfondo l’educazione filosofica hegeliana che ne costituisce la base[ref] Emblematica e famosa per gli specialisti è, nel Diario, l’esclamazione “io, stupido hegeliano!”, a provare nuovamente come sussista, seppur in maniera non totale, un certo ribrezzo nei confronti della filosofia hegeliana.[/ref], Kierkegaard sceglie deliberatamente di mantenere il lessico dell’ex-mentore.

Si propone, dunque, di separare l’opera in due grandi parti: “in-sé” e “per-sé”, facendo capo ai due momenti chiave dell’idealismo hegeliano.

In un primo momento, il discorso si focalizza interamente nell’in-sé, e, successivamente, in un per-sé. L’in-sé sarebbe, in Kierkegaard, il porsi “in sé” dello stadio estetico ed etico, ossia un’analitica estetico-etica,  l’esporsi del funzionamento più interno di questi stessi stadi. Questo nella misura in cui lo stadio estetico viene mosso al (e dal) piacere, al desiderio, alla malinconia, all’eclissi della memoria e alla disperazione estetica, mentre quello etico viene invece caratterizzato dall’angoscia, dalla disperazione, dal dovere, dall’io auto-determinantesi[ref]Concetti tutti rigorosamente esposti nell’opera in oggetto.[/ref].

Kierkegaard conduce in primo luogo una riflessione in-sé dei vari stadi, descrivendoli in loro stessi, senza doverli configurare nell’estrinsecazione. Emblematico è come lo stadio estetico non abbia un vero in-sé, poiché la tensione estetica si rivolge sempre all’esterno. Se la concretizzazione etica è tendente dall’interno a un esterno in virtù della determinazione interna dell’io, quella estetica tende esclusivamente a un esterno senza più altri sbocchi: non v’è alcuna determinazione, ma solo un momento passeggero, un istante effimero[ref]«Chi vive esteticamente non può dare della sua vita nessuna spiegazione soddisfacente, perché egli vive sempre solo nel momento, e ha una coscienza soltanto relativa e limitata di sé stesso» (Ivi, p. 27) [/ref].

La distinzione che risulta essere maggiormente evidente è invece quella riguardante lo stadio etico, dove la sfera dell’in-sé dell’etico (fondata sul dovere)[ref] «Il dovere infatti non è una imposizione, ma qualche cosa che è compito per la personalità. […] Chi vive eticamente ha sé stesso come proprio compito» (Ivi, pp. 113, 115)[/ref] pare essere separata da quella del per-sé fondata sul lavoro [ref]Da notare come la considerazione che Kierkegaard offre del lavoro, soprattutto in alcuni passi (cfr. p. 152), pare allinearsi a quella coeva di Karl Marx.[/ref]: infatti, la determinazione etica non avviene semplicemente scegliendo seriamente, ma avviene, in senso completo e duro, nel determinarsi nel tempo e al livello della società. Avere un lavoro, essere un avvocato o un giurista (l’autore stesso porta questi esempi)[ref]Cfr. Ivi, p. 13 [/ref], oppure sposarsi, sono esempi che per Kierkegaard costituiscono il vero senso della determinazione dell’io. Eppure, l’etica, una volta che si estrinseca da sé introducendosi nel mondo esterno nella forma del lavoro, ritorna in sé portando quell’io che tanto stava ricercando.

Questo movimento decisamente hegeliano dall’interno all’esterno in funzione dell’interno non è mica un vaneggiamento pretestuoso dell’autore del presente contributo, tutt’altro, è lo stesso Kierkegaard che lo suggerisce quando così si esprime, lasciando ben poco spazio ad interpretazioni:

«Il suo io [dell’individuo] si deve piuttosto aprire in tutta la sua concretezza; ma a questa concretezza appartengono anche quei fattori la cui determinazione è di intervenire attivamente nel mondo. Così il suo movimento parte da sé stesso, attraverso il mondo, e ritorna a sé stesso» (Ivi, p. 136).

In conclusione, si è tentato di porre sotto una nuova luce le influenze dell’autore affinché si possa dare il giusto contributo del suo pensiero alla produzione filosofica e letteraria del Novecento.

*Studente di Filosofia dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Collabora con le riviste filosofiche “Gazzetta Filosofica”, “Intellettuale Dissidente”, “Pensiero Filosofico”. Interessato alla filosofia teoretica, il suo campo di interesse si rivolge soprattutto  alla filosofia kantiana, heideggeriana e kierkegaardiana.

La morte Ivàn Il’íč di Lev Tolstòj. Appunti di lettura

1
Nel primo capitolo de La morte Ivàn Il’íč di Tolstòj, nel primo dei movimenti (in senso musicale) che compongono questo sottile e misterioso racconto, non sono presenti, a rigore, né la morte né Ivàn Il’íč. La morte del protagonista è già avvenuta e, di questi, è solamente esposta – solenne, pacificata – la salma. La morte, al più, in questa sezione del racconto, è una notizia, giunta attraverso il giornale ai colleghi dello scomparso. In quanto notizia, essa genera delle reazioni individuali che si conformano alla manifestazione mondana del lutto, alle regole da mantenere in questi casi: neppure i segreti pensieri di avanzamento di carriera, che i colleghi si aspettano dalla fine di Ivàn Il’íč, si sottraggono a questa legge di conformità, a questa prevedibile ritualità.
La morte è anche un apparato, un allestimento, una recita: prevede un sistema di frasi di circostanza, una chiave di lettura del senso implicito di alcune espressioni, tanto di quelle di pena quanto di quelle di conforto, uno scambio di gesti che corrisponde ai codici di comportamento concordati e a tal punto introiettati da apparire perfettamente naturali. L’evento della morte di qualcuno, di ciascuno, è il motore di una meccanica commedia funebre a parti fisse: i colleghi, la vedova, i familiari, la servitù; il posto libero, la pensione, il cordoglio, i costi delle esequie.
La morte è anche un odore, il più terribile, il più indecoroso, ma da cui ci si allontana con rapidità, una volta espletati i riti previsti. Questo racconto è anche un balletto di personaggi che si allontanano.
Si intuisce che la morte è un grande Altrove, eppure il brulicante tumulto dei sopravvissuti, degli eredi come dei conoscenti, è dominato da un piccolo altrove, dal desiderio di non esser lì: ma si intuisce che anche questo piccolo altrove (il gioco delle carte, il teatro, l’ufficio) sia un espediente provvisorio. Non si sa bene, a pensarci, dove vorremmo stare, dal momento che, prima o poi, ogni luogo viene a noia, ogni interlocutore è di peso, ogni distrazione è sopraffatta dallo scorrere del tempo.
Ma il motivo segreto di questo primo movimento non sembra essere, o almeno non sembra soltanto, quello di una satira di costume. Si avverte un’altra necessità strutturalmente connessa alle ragioni di efficacia e persuasività del testo. Questa necessità è la distanza: il procedere da un punto lontano, quando tutto è già compiuto e irreversibile. Il procedere su una materia già fredda, inerte, come il cadavere di Ivàn Il’íč. Un cadavere non parla, un cadavere non fa smorfie. “Dall’alba della sua giovinezza l’uomo sprofonda nelle parole e nelle smorfie” scriverà Witold Gombrowicz, cinquant’anni dopo, in Ferdydurke. La prima parte del racconto tolstojano inaugura una fenomenologia (o una semiologia) delle smorfie, delle parole e dei loro sottintesi; un lavoro di primi piani (volti, schiene, mani), di inquadrature ravvicinate, allo stesso tempo proiettato davanti agli occhi del lettore come se provenisse da una remota sorgente di luce livida. È necessario che sia così, perché da questo momento in poi il piano dell’azione e dello sguardo non può che scendere, non può che calarsi nel racconto di una vicenda e accompagnarsi all’umano che di questa vicenda è emblema.

2
Quello che si diceva del giovane Ivàn: la phénix de la famille.
La medaglia appesa alla catenella che decora il suo nuovo abito da funzionario: Respice finem, recita il motto inciso sopra.
Essere portatori di equivoci (e ironici) segni di appartenenza. Alla morte.

3
La vita di Ivàn Il’íč, ci viene detto, era stata delle più semplici e delle più orribili. È uno di quei procedimenti tolstojani che ci sembra a prima vista del tutto evidente, ma conserva (ed è bene che sia così) un fondo di ambiguità. Cosa vi è di veramente orribile in una vita comune? Da dove nasce e in quale punto di un’esistenza normale, come quella del quieto giudice istruttore, può dirsi che questo orrore germini e si manifesti? Un velo di calcolata incertezza è sospeso tanto per chi legga questo racconto per la prima volta quanto per chi lo abbia assimilato in più occasioni e ne abbia introiettato le valenze filosofiche e morali. Si intuisce che la cifra di questo orrore stia proprio nella normalità (e quindi nella sua esemplarità da Everyman in veste borghese) di Ivàn Il’íč, ovvero nel sistema fittizio di convenzioni su cui questa normalità poggia, ma non possiamo essere sicuri che l’orrore non si riferisca anche alla sua malattia, alle forme della sua sofferenza e alla sua conseguente iscrizione alla categoria dei reietti, se non alla definitiva disperazione e all’abisso spirituale in cui il protagonista precipita fino a pochi secondi dal suo estremo respiro. E se orribile fosse la condizione umana tout-court, determinata sempre e soltanto da scelte irrevocabili, da strade non prese, da occasioni perdute?

4
Il colpo subìto al fianco, perno narrativo che sconvolge la vita del protagonista e fa ruotare l’intera vicenda, raggiunge Ivàn Il’íč al culmine della sua carriera, di una carriera tutto sommato modesta che dà accesso a un tranquillo benessere e a un sistema di utili relazioni sociali. È probabile che l’ultimo (e insperato) avanzamento di carriera sia, più o meno, il traguardo professionale più alto a cui il protagonista possa aspirare. Anche la cura di Ivàn Il’íč nell’arredare personalmente l’ ambìto appartamento pietroburghese rivela che, per costui, questa non possa che essere la dimora definitiva. Ecco perché la sua angoscia è tanto più elementare e orribile. Se il protagonista avesse consapevolezza di poter aspirare a più alti successi, a una maggiore gloria, la sua disperazione sarebbe da attribuire al pensiero di quanto gli resti da fare: verrebbe proiettata così su uno sfondo quasi eroico. Ma il pensiero di Ivàn Il’íč è tutto rivolto a una posizione conseguita e, mano a mano che il decorso della sua malattia procede, i sentimenti del protagonista si orientano più al passato che al futuro. Al futuro è demandata la speranza di una guarigione. Possiamo chiamarla speranza ma anche superstizione: in entrambi i casi, si tratta di sentimenti ancorati alla duplice e ossessiva decifrazione degli arcani medici e dei segnali del corpo.

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Di cosa muore infine Ivàn Il’íč? Neppure di questo abbiamo particolare certezza. Egli urta con violenza contro un mobile. Dai giorni successivi, che coincidono con l’arrivo e l’insediamento del resto della famiglia nella nuova abitazione, cominciano a manifestarsi i segni del malessere. Un colpo violento, uno stato morboso e i molteplici consulti dei dottori. Le contraddizioni dei responsi, i silenzi. Le analisi. Forse il rene mobile, forse l’intestino cieco. L’attenersi disincantato alle prescrizioni e all’ottimismo incontrovertibile della scienza medica.
Non è possibile sapere di cosa muoia. Non dobbiamo saperlo. Se lo sapessimo con certezza, saremmo portati a pensare che a noi non può accadere. Che potremmo morire in molti modi ma non di quella malattia. Attiveremmo dei meccanismi di difesa, ci sentiremmo affidati al mondo dei sani, confortati dal fatto di esserlo o di essere un po’ meno malati del protagonista. L’incertezza delle diagnosi è un espediente narrativo, certo un po’ crudele. È quell’opacità che frustra nel lettore il desiderio di trasparenza: quella trasparenza (è la malattia della letteratura contemporanea) che trasforma i lettori in moralizzatori con l’istinto dei voyeurs.

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Si legge e si accredita un po’ ovunque che Gerasim, il servo che tiene sollevate le gambe di Ivàn Il’íč, per offrirgli un notturno sollievo, sia l’unico personaggio positivo del racconto. Di Gerasim sappiamo che è un servo contadino trasferito in città, è giovane, è sano, è ben pasciuto. Appare di sfuggita nel primo capitolo, si intrattiene con Ivàn Il’íč nelle fasi in cui la malattia isola costui dal contesto familiare e sociale, gli offre la propria opera con pazienza e gaia generosità. Non appare né è nominato nell’ultimo capitolo. Non sappiamo nulla della sua vita e della sua famiglia, non sappiamo come morirà, se anche lui in mezzo a brucianti sofferenze fisiche e morali o se accompagnato dalla stessa mitezza manifestata nei confronti del suo padrone. È un personaggio letterario, del resto. Vive per il tempo esatto in cui rimane in scena. Ci piace perché è giovane, perché è del popolo. Tolstoj arriva sull’orlo preciso di una descrizione di Gerasim venata di populismo (nell’accezione storica del termine), ma per fortuna se ne trattiene. L’idealizzazione appartiene più allo sguardo del lettore che dell’autore.

7
Philippe Ariès, in Storia della morte in Occidente, cita il racconto di Tolstòj come documento di storia della mentalità, come attestazione di un passaggio decisivo nella percezione di malattia e morte nella società occidentale moderna. A proposito della condizione del malato, illumina: “A poco a poco egli [Ivàn Il’íč] viene spogliato della sua responsabilità, della sua capacità a riflettere, a osservare, a decidere, è condannato alla puerilità.”

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Capire il mistero de La morte di Ivàn Il’íč. Avvertire come ogni singola frase del racconto, ogni snodo, ogni dialogo, ogni personaggio compongano un emblema complessivo della condizione umana, ma senza intenzioni edificanti. Avere anzi l’impressione che, a coglierne tutte le implicazioni (ma dopo quante letture?), la coscienza di un lettore autentico non possa non comprendere qualcosa di necessario e terribile e trarne le inevitabili conseguenze. Ma comprendere cosa? Probabilmente che la morte eccede ogni elaborazione concettuale e ogni espressione linguistica. Probabilmente che anche un racconto perfetto, come quello che abbiamo sotto gli occhi, può arrivare sino a una soglia, farsi massa critica della soglia stessa ma non può riuscire a superarla. Ivàn Il’íč è vivo, fino al punto conclusivo del racconto. Poi comincia l’oltre della pagina bianca. Può la letteratura, può l’arte sottrarsi ai suoi stessi principi costitutivi? Per natura la rappresentazione non può accedere all’Irrappresentabile: deve accontentarsi di emblemi, metafore, finzioni. È come se il racconto avesse due lati, uno aperto verso la vita (e il morire che le è connesso) e uno verso la morte. Il primo brulica di parole, speranze, intenzioni, dolore, inconcludenza, successi, rimpianti. Il secondo è privo di immagini, di parole, di pensieri, eppure la sua semplice evocazione basta a mettere in scacco le pretese di autenticità del primo. Eppure, direbbe Vladimir Jankélévitch, “è la morte a dar senso alla vita, proprio sottraendole tale senso. Essa è il non-senso che dà un senso negando questo senso”.

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Le prugne francesi, “crude e grinzose” dell’infanzia di Ivàn Il’íč. Verrebbe da associare quel ricordo al professor Isak Borg, al posto delle fragole e all’ultima sequenza dell’omonimo film di Ingmar Bergman. L’infanzia come radice di tutte le possibilità. E aggiungo: non di ciò che è dolce ma di ciò che è acerbo sono fatte le promesse dell’infanzia. La fresca asprezza di un frutto come nucleo originario di tutte le promesse destinate a fallire.

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I quattro movimenti musicali di questo racconto. L’esordio con la notizia della morte e le esequie. Il riepilogo della tranquilla e convenzionale vita del nostro eroe. L’insorgere dei sintomi della malattia e la progressiva consapevolezza della fondamentale finzione dell’esistenza. E infine: i tre giorni (con evidente corrispondenza cristologica) dell’agonia.
Il suono di questa agonia è un ululato ininterrotto. Questo suono sgretola le strutture del linguaggio e dei suoi significati, è il correlativo fisico (ma di segno opposto) della voce interiore che ha interrogato Ivàn Il’íč nelle ultime settimane della sua malattia, smontandone convinzioni e illusioni. Dentro all’urlo dell’uomo parole e intenzioni si deformano (“Voleva ancora dire «perdonami» [in russo: prostì], ma disse «lascia andare» [in russo: propustì]”), subiscono una torsione dentro la quale non è escluso che sia nascosta la vera natura del linguaggio. Questo urlo è quanto di più lucido e vitale e sconveniente il malato possa compiere. È sconveniente perché non lascia in pace gli altri abitanti della casa, ne turba il decoro; è necessario perché guida il morente a una nuova e decisiva consapevolezza. Doppio è il viatico a questa consapevolezza: prima, la visione del figlio, disperato e inerme di fronte al dolore del padre, di quel figlio così simile a lui da adolescente. E poi, quell’ È finita, pronunciato da qualcuno sopra di lui, che dà luogo all’ultimo malinteso: quell’ È finita la morte, la morte non esiste, che Ivàn Il’íč pronuncia dentro di sé. Malinteso benefico, ma pur sempre malinteso, a conferma dell’inadeguatezza di quel linguaggio che è pure l’unico modo che l’individuo ha per testimoniare la sua presenza e la sua giustificazione al mondo.

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Si possono portare alcune visioni verso estreme conseguenze. “È come una vita tra le quinte” scrive Franz Kafka in un frammento. E poi evoca la possibilità di un’evasione, attraverso fondali e attrezzi di scena, fino al vicolo adiacente al teatro “stretto, umido, buio”: il Vicolo del Teatro, appunto. Esso è reale e ha “tutte le profondità del vero”. Eppure, si può notare, esso è talmente vicino al Teatro da portarne ancora il nome. E chi ci può assicurare, aggiungo, che dal teatro non si sia evasi verso una finzione ancora più reale? O che dal vicolo non si possa evadere verso un’altra realtà ancora più profonda e da questa verso un’altra ancora?

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Vi dovrebbe essere un quinto movimento, da qualche parte, oltre il punto finale del racconto. Ma già l’espressione “da qualche parte” risulta incongrua rispetto alla morte intesa come alterità assoluta e irrappresentabile. Bisognerebbe immaginarlo come il silenzio, mai udito da alcuno, che sovrasta una terra di nessuno dopo la furia del combattimento. Ma anche questa è solo una metafora.

Testo di riferimento utilizzato: Lev Tolstòj, La morte Ivàn Il’íč e altri racconti, a cura di Igor Sibaldi, Mondadori, Milano, 1999.
Altri autori citati
Witold Gombrowicz, Ferdydurke, a cura di F. M. Cataluccio, trad. I. Salvatori e M. Mari, Il Saggiatore, Milano 2020
Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, trad. Simona Vigezzi, Rizzoli, Milano 1978
Vladimir Jankélévitch, Pensare la morte?, a cura di Enrica Lisciani-Petrini, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995
Franz Kafka, Frammenti e scritti vari, trad. Italo A. Chiusano e Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1989

La morte di Ivan Il’ič

Nel 1859, Tolstoi comunicò in una lettera la sua idea di un racconto, che scrisse e nell’anno stesso pubblicò: I tre morti. L’idea era questa: muoiono tre esseri viventi: una signora, un contadino e un albero. La morte della signora è “misera e ripugnante perché ha mentito tutta la vita”. Il contadino muore tranquillamente “proprio perché non è cristiano”: anche se per abitudine compie riti cristiani, la sua religione è la natura con cui vive: quella legge della vita, della nascita e della morte che la signora non conosce. L’albero infine muore in modo tranquillo e magnifico, “perché non mente, non finge, non teme, non si duole”. Questa semplice idea, potrebbe già farci entrare nel mondo della vita poetica e anche morale e religiosa, e persino politica di T. In tema di religione, ad esempio, riguardo al drammatico contrasto tolstoiano, che gli segnerà la vita e l’arte, tra natura “pagana” e cristianesimo radicale; o anche in merito alla scissione tra felice e spontanea creatività artistica, da “divinità” figlia della natura, e rattrappimento creativo di crisi morale e moralistica. Th. Mann ha scritto su questo cose bellissime, in un saggio dei primi anni ’20, Goethe e Tolstoj; e sempre intorno a questo tema molte cose s’imparano nell’imponente libro, documentato e a volte fine, sebbene discutibile perché troppo sbilanciato, rispetto a Tolstoj, dal lato di Dostojevskij, di D’mitri Merezkovskij.
Ma, nel caso di I.I. la religione non entra quasi per nulla, né vi entra il pauperismo e l’ansia di riforme economiche e sociali. O forse, a dir meglio, tutti questi temi possono essere recuperati nel tema originario della verità e della menzogna. Tutto ciò che corrompe la vita, la coerenza di sé, la freschezza autentica della pacifica e fraterna armonia sociale, è menzogna. E, com’è evidente, la massima menzogna è quella verso se stessi, circa la propria vita, quale si rivela in prossimità della morte. La signora che muore misera e ripugnante ha sempre mentito. Anche I.I. ha sempre mentito a se stesso, e questo, ancor più che i tremendi dolori fisici di cui soffre, è la devastante causa del suo angosciato terrore della morte, come un atto di verità che intervenga in un mondo di falsità. Ma come si mente? Tostoj non fa differenze tra le grandi menzogne politiche militari sociali proprietarie (le grandi ricchezze terriere di cui voleva e seppe disfarsi), e le piccole menzogne borghesi, sempre a tutti abituali. Un eccesso moralistico, forse, se non fosse che la grande arte narrativa di T. sa calarsi, senza preconcetti ideologici, con estrema aderenza alle figure e soprattutto ai corpi dei protagonisti, nell’ambiente sociale della loro vita pubblica e privata, da rendere leggera la menzogna, persino impalpabile, quasi risolta nelle convenienze professionali e sociali, nell’essere, secondo quanto la (scelta) cerchia di persone che si frequenta si aspetta da noi – comme il faut.
Anche per questo, il dubbio capitale di I. I. – “che forse io non sia vissuto come si dovrebbe – incontra in lui tanta ostinata resistenza: “Ma come si può dire mai una cosa simile, se io ho agito sempre in perfetta regola”. E immediatamente respinse, commenta Tolstoj, “quell’unica risoluzione di tutto l’enimma della vita e della morte, come una completa assurdità”. Ma allora, di nuovo, perché, “a che scopo, tutto questo orrore?» E poiché la risposta tornava a essere sempre la stessa: l’idea di non aver vissuto come si doveva, immediatamente la scacciava, richiamandosi innanzi l’irreprensibile correttezza della sua vita (420-21). Eppure, segni premonitori non erano mancati. Fin dall’insorgere della malattia, alla prima visita medica, I.I. nota una stretta parentela tra il suo comportamento di giudice in tribunale e quello dei medici: “sussiego affettato e dottorale”, domande e risposte scontate e inutili, ipotesi e probabilità ed esami, condiscendenza di chi dica: tranquillo, sappiamo noi proprio tutto, senza mai dare una risposta all’”oziosa domanda” sulla gravità della malattia. Proprio come accadeva a lui in tribunale, quando si “metteva una certa maschera di fronte agl’imputati” (394). In tribunale, I.I. aveva molte e riconosciute qualità, ma specialmente l’abilità di tener separati nel modo più rigoroso, l’ufficio e la vita degli interessati, escludendo del tutto “quel non so che di grezzo, di aderente alla vita che sempre impedisce il retto corso degli affari d’ufficio”, tutto ciò che non potesse venir espresso legalmente, su un “foglio con tanto d’intestazione”, riempito con formule di precisa burocrazia. (390-91).
Intorno a sé, Ivan respira finzioni; il suo “più gran tormento è ora la menzogna” sulle sue condizioni. Lo invitavano, i medici e i familiari, a star calmo e a curarsi, così sarebbe guarito, senza dirgli mai che sarebbe presto morto tra dolori strazianti. E il peggio era che, in questo cumulo di menzogne, facevano tanto da costringere lui stesso a prendervi parte, abbassando il solenne atto della morte a farmaci e diete. Né aveva forza di dire: smettetela con queste bugie. Una trama di finzione e di convenzione è con leggerezza sospesa sul racconto, che su questo, e fin dall’inizio, è mirabilmente strutturato. La notizia della sua morte, che colleghi e amici (uno, in particolare) avrebbero appreso dal giornale. Era, vi si sarebbe detto, amato da tutti; ma i primi e insopprimibili pensieri sarebbero stati sul posto che si “libera”, sui possibili avanzamenti di carriera e sulle retribuzioni che ne derivano: 800 rubli d’aumento, più l’indennità di cancelleria. E poi, la noia della visita, delle condoglianze e del funerale, i “noiosissimi doveri di convenienza”. La casa lontana, come vestirsi, come comportarsi, il penoso e insieme divertente colloquio di Pjotr con sua moglie, la vedova, informatissima di tutto, eppure ancor avida di spillar più soldi di pensione allo stato. E sempre con un “certo senso di gioia”: “è toccata a lui, e non a me”; e i segni, le parole sussurrate per accordarsi sulla partita serale a carte.
Dopo questo prologo, la fine in forma d’inizio, il racconto di Tolstoj narra la vita di I.I. Sono sette o otto pagine, ma di straordinaria intensità, ricche di penetranti osservazioni psicologiche e di felici aperture sul mondo privato: la famiglia e l’ambiente, gli studi e la carriera, la casualità del matrimonio, la precoce infelicità coniugale (un campo dove Tolstoj è maestro), i particolari sull’arredamento della casa, che è causa del primo malore di I.I. La narrazione è costantemente sottesa, come un basso continuo, da alcuni aggettivi sul modo di I.I. di concepire la vita: leggera, lieta, piacevole, corretta, approvata (dai superiori e dalla buona società); distinta, elegante – e insomma comme il faut. E quando si arriva al buio straziante e indicibile, alla solitudine astiosa, assillata da domande senza risposta della malattia terminale, altri aggettivi sottendono il discorso. Merezkovskij nota, a proposito dell’eccezionale capacità di Tolstoj di calarsi nella realtà del corpo, gli aggettivi, nessuno superfluo, per descrivere la sofferenza e il dolore di I.I. : noto, vecchio, sordo, rodente, ostinato, silenzioso, grave.
Ma, nella più atroce, interminabile solitudine, ecco che si apre la luce di Gheràsim, il giovane pulito fresco allegro leggero abile (altri aggettivi) che assiste I.I. G. si occupa, con partecipe discrezione, dei più naturali bisogni di I.I. e gli tiene per ore le gambe alzate, per un’impressione di sollievo. Ma soprattutto G. è la sola persona che non ferisca d’invidia: è puro calore umano, capacità di comprendere le stagioni della vita, la legge umana della natura; esprime ciò che è più caro a T.: i contadini russi, semplici, vigorosi, attivi, saggi. Una lezione per la buona morte, questa necessità di essere accuditi, anche da estranei (e forse solo da essi), con discrezione e accettazione aperta della morte, di essere anche vezzeggiati e accarezzati (cosa di cui I.I. sente gran bisogno). Un servizio che si rende volentieri, nella speranza che altri faranno la stessa cosa per noi, quando sarà il momento. Credo, che G. costituisca la vera svolta nel riscatto dalla menzogna e nella serena accettazione della morte di I.I.. Dopo lo strazio urlato per i tre giorni dell’agonia, c’è la risoluzione finale, avvenuta in pochi attimi. Al posto della sofferenza e del terrore, arriva la luce e la pace. La sua vita, sì, era stata fuori strada, ma ora, se non si poteva più parlare, si poteva ancora agire, preoccupandosi che gli altri non soffrissero, e “godendo”, con “esultanza” della liberazione. Dove è finito il dolore, dov’è la morte, quale morte? “Che esultanza!”. Essa, la morte non c’è più.
La morte prende senso dalle vita (fino ai suoi ultimi istanti) ed è essa stessa vita: la (buona) idea della morte è un “passaggio obbligato al sapere, alla salute e alla vita”. Lo dice Th. Mann, nella conferenza sulla Montagna incantata che nel 1939 tenne agli studenti dell’università di Princeton; e sarebbe istruttivo un confronto tra questo grande libro (i medici, la malattia, la morte) e il racconto di Tolstoi, un autore che Mann tanto amava e ammirava. “Possiamo togliere la morte o il dolore o il male dal tessuto della vita?” – si chiedeva l’ultimo Croce della riflessione sulla vitalità. Si toglierebbe la “vita stessa”. E, ancora in queste pagine crociane, leggiamo che “senza dubbio, il benessere, nel chiuso e ingenuo suo egoismo, è il male in tutte le sue conseguenze, anche le più terrificanti”. Questa è l’esatta diagnosi del male o della menzogna che opprime I.I., e di cui alla fine riesce a liberarsi.
Parlare della morte è facile e insieme tremendamente difficile. Alla fine, non si sa proprio cosa dire. Paul Ricoeur ha scritto un bellissimo libretto, all’origine una voce d’enciclopedia, intitolato Il male, tradotto anche in italiano dalla Morcelliana agli inizi degli anni ’90. Sul male e sulla morte, vi si sostiene, appunto, non c’è presso che nulla da dire. Magistralmente, Ricoeur ripercorre le soluzioni tentate dalla filosofia e dalla teologia, e vi riconosce molti insegnamenti, ma nulla sul punto decisivo, quello che giustamente I.I. voleva conoscere. I.I. insegna che molto si può fare e dire finché c’è vita, prima del silenzio. Il problema è allora quello che si può fare per vivere pienamente finché si può e, certo, pensare anche alla morte, ma fuor di ogni ossessione, come in Heiddeger. E sperare in una buona morte, senza troppi dolori, e, soprattutto, senza menzogne e sensi di colpa. Sperare insomma di morire un po’ come accade, negli ultimi istanti, a I.I.

Lettera ai miei docenti

di Anna – Studentessa liceale

9/03/2020, data fondamentale da ricordare poiché l’istituzione scolastica italiana si è fermata a causa dell’emergenza sanitaria più problematica del ventunesimo secolo.
Siamo stati tutti catapultati in una situazione di indubbio disagio, in cui nessuno sapeva come comportarsi e come sfruttare al meglio i molteplici (forse troppi) strumenti telematici che ci erano prospettati. Timore e totale disorientamento segnavano intere giornate passate in isolamento. Noi studenti abbiamo unito le forze e attinto alle nostre risorse per continuare il percorso scolastico al quale abbiamo, pur sempre, diritto, rivoluzionando il concetto classico di “scuola”, mettendo in discussione tutti i valori precedentemente acquisiti.
La domanda che sto per porvi richiede, per la risposta, un profondo esame di coscienza, la più sincera presa d’atto degli effetti delle decisioni prese: vi siete mai soffermati ad analizzare lo stress emotivo, e altrettanto psicologico, a cui siamo stati sottoposti?
La didattica a distanza ci ha segnato particolarmente, ma la peggiore esperienza è stata, ed è tutt’ora, la mancanza di comprensione da parte di persone che consideravamo quasi alla stregua di “modelli di vita”.
Sin da bambina, ero incuriosita da tutto ciò che mi circondava, dalle matite colorate che mia mamma riponeva nel mio zaino ogni mattina, alle singole storie che la mia insegnate era solita raccontare. La scuola è sempre stato un luogo in cui, ai miei occhi, era assente l’ignoranza (il male peggiore che possa esistere, a parer mio) e, soprattutto, la paura di essere incompresi.
15/09/2020, il Governo italiano afferma di aver lavorato incessantemente durante il periodo estivo ed è pronto a riaprire le scuole della penisola. Risultato? Tempo due mesi e sono stati costretti a richiudere; siamo punto e a capo. Sorpresi? Neanche noi.
Eravamo convinti di saper lavorare con questa dannata DAD, eppure riscontriamo gli stessi, identici problemi iniziali: scarsa connessione, problemi tecnici di ogni tipo, diminuzione della concentrazione e della voglia di continuare con questa, permettetemi di dirlo, inutile modalità. Ripeto, siete sorpresi?
Abbiamo difficoltà a farvi capire che ci sentiamo lasciati quasi allo sbando, quei “modelli di vita” di cui parlavo hanno ormai come unico obiettivo quello di farci ingurgitare più nozioni possibili, per poi farcele recitare a loro piacimento.
Eravamo coscienti di entrare in una scuola dove non c’è posto per la pigrizia e la non curanza per gli studi, certo, ma se avessimo saputo che il livello di comprensione umana sarebbe stato praticamente nullo, illustri professori, avremmo riconsiderato le nostre scelte. Non fraintendeteci, siamo fieri del percorso che abbiamo intrapreso ed essendo giunti quasi al termine di questa esperienza, non vogliamo lasciare questo ambiente così come lo abbiamo trovato. Proprio per questo vi chiediamo, ora, in questo momento così delicato, di seguirci nell’essere il cambiamento in cui tutti noi, ancora, crediamo.
La scuola non può essere un luogo in cui ansie e paure regnano sovrane, ma un posto in cui la curiosità non trova confini e l’educazione e il rispetto per il prossimo devono essere all’ordine del giorno.
Cercate di comprendere le nostre necessità, senza annientare le nostre capacità personali, e vi assicuro che non ci sarà spazio per future incomprensioni, poiché, con la giusta benevolenza, non avranno modo né luogo di esistere.

Un’indagine sul rapporto tra i giovani e la filosofia. Sull’utilità e il danno della filosofia per la vita.

Il virus, il tempo e la scienza

di Ettore Rocchi e Sara Peluso 

 

La pandemia ha alimentato in questo periodo una latente ideologia antiscientifica che da anni serpeggiava nel nostro paese. Non c’è da stupirsi. Da decenni, ormai, i governi tagliano su istruzione, università e ricerca. L’italiano medio si affida a blog a dir poco imbarazzanti per farsi un’idea. L’ultimo dei cialtroni ha la stessa visibilità sui social di un premio Nobel. Anzi, ne ha molta di più perché, rispetto a un premio Nobel, ha molto più tempo da perdere. L’analfabetismo funzionale ha raggiunto livelli da primato europeo. L’analfabetismo scientifico è diffuso come mai, probabilmente, prima d’ora e come in nessun’altra nazione del mondo occidentale. Ci mancava solo la pandemia per dare il colpo di grazia all’immagine che la scienza ha prodotto nei quattro secoli dalla rivoluzione scientifica. 

E veniamo al punto dell’immagine che la scienza ha dato di sé in questo frangente. Iniziamo col dire che la scienza ha un metodo e dei tempi che non sono adatti alle emergenze. E quindi per questo è fallimentare? No. È pur sempre il metodo migliore che abbiamo per conoscere. Semplicemente, ha modi e tempi incompatibili con delle risposte immediate. Un modello scientifico nasce da osservazioni che richiedono tempo, deve essere costruito con un lavoro paziente, e soprattutto deve essere validato: tutto ciò costa denaro, risorse umane e soprattutto tempo. E quando anche sia validato, questo sarà in grado di fare predizioni solo finché la situazione rimarrà costante, stabile (ci riferiamo soprattutto ai famigerati modelli matematici). Al cambiare delle condizioni, cambieranno modelli e previsioni. Dunque, è lecito che il non addetto ai lavori si chieda: “a cosa serve un modello che descriva l’andamento dell’epidemia?”.

Su questo bisogna essere molto chiari. Un modello epidemico serve a due cose. La prima è che ci aiuta a capire la dinamica epidemica. E quindi la modalità di trasmissione del virus. Se si costruisce un modello che risponde bene alle osservazioni sul campo, allora questo significa che gli assunti biologici che sono stati postulati come base teorica del modello sono veri (o, più propriamente, compatibili coi fatti osservati). Conosceremo meglio, quindi, le modalità dell’infezione. Poi, un modello serve a fare previsioni. Ma le previsioni saranno valide esclusivamente se la situazione – e di conseguenza i parametri del modello – rimarranno inalterati. Quei parametri che dipendono esclusivamente dalle caratteristiche biologiche del virus certamente lo rimarranno, a meno di mutazioni virali, appunto. Ma i parametri di infettività, ciò che viene definito come la forza del contagio, dipenderanno – oltre che dalle caratteristiche intrinseche al virus – fondamentalmente dalle politiche di contenimento. Insomma, nessun modello che sia valido durante un lockdown potrà essere valido anche in fase di riapertura. Purtroppo, come si diceva, la scienza ha dei tempi lunghi. 

E ha dei tempi ancora più lunghi per lo sviluppo di terapie e di vaccini, che sono approvati dalle autorità competenti solo dopo un’attenta valutazione della sicurezza e dell’efficacia. Quindi, rinunciamo alla scienza? Volentieri, se ci fosse un’alternativa più efficace. Però chiediamo che l’efficacia di un metodo alternativo non sia stabilita su base dogmatica, ma suffragata dall’impietoso vaglio dei fatti. Se dovessimo scommettere, noi siamo convinti che tale alternativa non esista, semplicemente. E certo non si trova in alghe magiche, lieviti, e in tante altre intuizioni mediate dai social, le più sgangherate e prive di fondamento.

Parafrasando Churchill e la sua celebre affermazione sulla democrazia, potremmo dire che la scienza è la peggior forma di conoscenza, eccetto per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora. È un metodo che richiede pazienza, che richiede verifiche, osservazioni che confermano le ipotesi, correzioni di queste ipotesi sulla base delle osservazioni. E tutto questo può apparire incompatibile con un’emergenza. Ma se oggi, a distanza di pochi mesi, siamo in grado di proporre dei protocolli terapeutici, per quanto non completamente risolutivi, lo dobbiamo al metodo scientifico. E se, tra qualche tempo, avremo una terapia specifica ancora più efficace e, auspicabilmente, un vaccino, lo dovremo alla scienza. Allo stesso modo in cui oggi abbiamo terapie che hanno sostanzialmente azzerato la spaventosa letalità da HIV degli anni ‘80. Se ne ricordi, chi oggi biasima la scienza.

Discorso differente meritano gli scienziati. Inutile dire che c’è stata una miserevole corsa alle apparizioni televisive e alle concioni, spesso propinate con un tono profetico che poco si addice alla scienza. Dovrebbe essere chiaro a tutti che in questi casi non parla la scienza, parlano uomini. La scienza si fa nei laboratori e si legge sulle riviste scientifiche. Scomodo? Magari sì, per un giornalista medio. Poco spettacolare? Certamente sì, per un tycoon televisivo. Ma così è, che ci piaccia o no. E persino le riviste scientifiche, lo abbiamo visto, sotto pressione possono commettere degli errori. Anche in questo caso, la fretta non è una buona consigliera.

Ma biasimare la scienza per il comportamento a volte sconsiderato di qualche scienziato, non è una mossa saggia. La scienza si basa sui fatti e, come diceva Demmings, “senza dati sei soltanto un’altra persona con un’opinione”.

La scienza, in questa circostanza, l’hanno fatta anche i medici in prima linea, quei medici che sono stati abbandonati dalle istituzioni e che hanno dovuto barcamenarsi tra le informazioni spesso veicolate da un passaparola personale e sorretti da un’etica della responsabilità, senza alcun coordinamento ministeriale (che, lo ricordiamo, a tutt’oggi non ha emanato protocolli sanitari e terapeutici). Quegli stessi medici che, eroi fino a qualche settimana fa, oggi subiscono denunce come se il virus l’avessero inventato loro.

Insomma, per sintetizzare, i media e l’opinione pubblica hanno chiesto alla scienza ciò che la scienza non poteva dare. O, perlomeno, ciò che non poteva dare in tempi così rapidi.

Avremmo chiesto a Michelangelo di dipingere la Cappella Sistina in due giorni? Lo avremmo potuto chiedere a un imbianchino, magari, ma non a un artista. Allo stesso modo, non si poteva chiedere alla scienza di risolvere il problema Covid-19 in tempo reale. Per questo, ci si sarebbe dovuti rivolgere alla magia. Peccato che non esista.

 

Valerio Magrelli, “Ora serrata retinae”, Feltrinelli, 1980.

Poesia come “segreta epopea della soglia”

di Beatrice Monti

Il titolo dell’opera è indizio della “posa di scrittura” che caratterizza il fare poesia di Magrelli: Ora serrata retinae, ossia margine frastagliato della retina, superficie e limite dell’occhio; dove la poesia ha come suo luogo di appartenenza questo stesso margine, l’occhio nel punto in cui esso è apertura e insieme limite estremo di visione. È occhio che indaga il suo stesso guardare, in un incessante esercizio di torsione al fine di potersi ripiegare su stesso e farsi oggetto del suo vedere. “Senza accorgermene ho compiuto/il giro di me stesso”. Ma occhio che permane irrimediabilmente il proprio punto cieco e così insegue oggetti dove specchiarsi, cose a partire dalle quali possa far esperienza della propria potenza prensile. Poesia liminare che per sua natura si colloca sul divenire ombra della luce: interrogazione costante sul sé che interroga, indagine sull’io e sul suo corpo, corpo che tenta di toccarsi nel suo toccare il mondo. Ma, “in quanto vede o tocca il mondo, il mio corpo non può quindi essere visto né toccato. Esso non è mai un oggetto, non è mai un completamente istituito, proprio perché è ciò grazie a cui vi sono degli oggetti. Non è né tangibile né visibile nella misura in cui è corpo che vede e che tocca. Non è semplicemente sempre là. Se è permanente, lo è di una permanenza assoluta che serva da sfondo alla permanenza relativa degli oggetti suscettibili di eclissi”. (Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione). E da qui deriva l’impossibilità di una visione nitida, la difficoltà della messa a fuoco: 

 

“Io sono ciò che manca

dal mondo in cui vivo,

colui che tra tutti

non incontrerò mai.

Ruotando su me stesso ora coincido

con ciò che mi è sottratto.

Io sono la mia eclissi

la contumacia e la malinconia

l’oggetto geometrico

di cui per sempre dovrò fare a meno.”

 

Il problema dell’evento del mondo, del suo avvento, è quindi profonda occasione per analizzare i meccanismi del sé, dell’abitare umano. Non è casuale, infatti, che una poesia dell’opera sia dedicata al filosofo dell’empirismo inglese George Berkeley, per il quale l’essere è essere percepito, secondo la famosa definizione “esse est percipi”. Le cose sono idee ossia fenomeni presenti allo spirito, gli oggetti sensibili vengono a coincidere con gli oggetti della percezione. Il problema del mondo diviene problema innanzitutto del corpo proprio come punto di snodo tra l’io, inteso come autocoscienza, e il reale fenomenico. “Dietro di me ci sono io, bifronte,/ curvo sullo specchio del pensiero.”. La questione dell’esperienza si esprime, in Magrelli, nel tema costante del passaggio, sempre indagato e mai portato a definitiva spiegazione, dell’oggetto fenomenico dagli occhi al cervello. Il corpo si costituisce qui come condizione di possibilità, ma insieme impossibilità, di una visione lucida, controllata, puramente razionale, dell’oggetto. Corpo come intermediario necessario e insieme momento di dispersione del sé e del mondo: 

 

“Qui si smarrisce la vista

 e nel suo andare alla mente

si corrompe e tramonta.

Come se traversando

 pagasse ad ogni passo

il pedaggio del corpo.”

 

Il tema della difficoltà della messa a fuoco, di una visione nitida, ossia di una conoscenza cartesianamente intesa come idea chiara e distinta, secondo il tradizionale paradigma della visione, si scontra con la resistenza di un corpo proprio ma insieme estraneo. Riprendendo le riflessioni del filosofo francese Merleau-Ponty, ogni nostro agire nella realtà esterna, ossia il nostro essere-nel-mondo, implica un apriori corporeo. Un “corpo abituale”, ossia un corpo che reca traccia delle nostre esperienze passate e del cammino evolutivo della nostra specie; corpo che definisce l’ampiezza della nostra vita, e della nostra vista, l’apertura di ogni possibile orizzonte di senso. Ma questo stesso corpo ci è sconosciuto nei suoi più intimi meccanismi e ignota a ogni scienza è la connessione tra i fenomeni chimico-biologici delle cellule e i pensieri, le idee della coscienza. Questo filtro, membrana, misterioso e pure onnipresente è ciò che impedisce una chiara messa a fuoco del mondo, e in modo più radicale del sé che su questo mondo si interroga. Sempre riprendendo Merlau-Ponty: “l’ambiguità dell’essere al mondo si manifesta con quella del corpo, e quest’ultima si comprende mediante quella del tempo” (Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione). Ambiguità del corpo che si dà innanzitutto secondo la duplicità, espressa da Husserl, di Körper e Leib, corpo biologico, oggetto delle scienze, e corpo vissuto, irriducibile ad ogni paradigma scientifico. Per l’io lirico, che nel ripiegarsi su di sé ha fatto esperienza di questa ambiguità costitutiva, l’unica certezza rimasta non è che la “prodigiosa difficoltà della visione”: il soggetto è consegnato a una carne che in qualche modo lo precede, carne che determina però il luogo e la modalità della sua visione. Rivolgersi alla carne che siamo, ossia indagare questa soglia costitutiva, non può che significare il farsi carico di una visione difficile, liminare appunto. 

In Magrelli, la necessità di riflessione, fa sì che il soggetto divenga esso stesso oggetto per poter essere analizzabile, sottoponibile allo sguardo indagatore della ragione. Posto a distanza viene oggettivato e analizzato, colto nelle componenti biologiche, nel suo Körper.  Ma proprio attraverso questa esperienza conoscitiva si apre la frattura esistenziale tra il piano di un’esperienza vissuta in prima persona, il piano del Leib e della vita di coscienza dell’io lirico che dice io, e il piano di un corpo fratto, ridotto in parti, in elementi minerali. 

 

“Io abito il mio cervello

come un tranquillo possidente le sue terre.

Per tutto il giorno il mio lavoro

è nel farle fruttare,

il mio frutto nel farle lavorare.

E prima di dormire

mi affaccio a guardarle

con il pudore dell’uomo

per la sua immagine.

Il mio cervello abita in me

come un tranquillo possidente le sue terre.”

 

L’io è abitato nel suo più profondo dall’Impersonale, da una molteplicità estranea: un corpo biologico, insieme di cellule che interagiscono secondo processi fisico-chimici. In questi versi è esplicito il tema della percezione di sé nella propria unità-molteplicità, o meglio ancora, la percezione della propria alienazione in un corpo biologico-minerale: l’io lirico è un io che si dichiara esistente in una condizione di “cattività”, uno spirito che dimora nella muta e inerme carne. L’abitare dell’io nel suo cervello è un abitare tranquillo, di pacata e normale convivenza. Ma l’aggettivo “tranquillo” si scontra con il “pudore” dei versi successivi: l’io guarda con pudore la sua immagine, la sua carne, sente vergogna e disagio. Dove il pudore è indice di un sentimento di estraneità, del non riconoscerci in quel corpo che l’io sa essere il suo: la presenza del corpo è una presenza inquietante, è l’Altro che dimora nel sé. “Questo cuore stesso, che pure è il mio, resterà sempre per me indefinibile. L’abisso che c’è fra la certezza che io ho della mia esistenza e il contenuto che tento di dare a questa sicurezza, non sarà mai colmato. Sarò sempre estraneo a me stesso” (Albert Camus, Il mito di Sisifo, p. 21). Quest’abisso, l’esperienza dell’Altro che è in noi, è definito dal filosofo francese Albert Camus, l’assurdo: assurdo è il rapporto tra l’uomo e il mondo, o meglio tra l’irrazionalità del mondo, e così anche del corpo proprio, e il desiderio di chiarezza dell’uomo. Contro questa condizione di assurdità nulla possono le scienze naturali: “tutta la scienza di questa terra non potrà darmi nulla che possa rendermi certo che tale mondo mi appartiene” (Ivi, p. 22). Il senso di questa scissione sembra dimorare altrove e l’abisso che qui si spalanca non sembra poter essere cancellato: il corpo nella sua presenza non fa che manifestare la sua alterità mineraria. 

 

“Il corpo è chiuso come una muraglia,

è come un pozzo immerso nella carne

che non giunge ad avere

impressione di sé.

E le sue membra stanno

mute e cieco e fermo

nella gamba riposa il ginocchio.

Ma nella testa s’apre

l’alba del mondo:

l’osso si allarga, accoglie

dentro di sé lo sguardo.

Dolcemente si compie

il paziente travaso del vedere,

acquedotto di chiarore, strada

che porta l’essere a se stesso.

E nella radura della fronte

il portale del ciglio ha la sua luce.”

 

In Magrelli il corpo è muraglia, osso, cavità, “pietra levigata”, “terreno calpestato”, pozzo, muro, “campo desolato”, “pianta della terra”, miniera, “fruttificare di sassi”, “muta malinconia biologica”: descritto con termini propri dell’ambito geologico; è luogo ma luogo arido e deserto, inumano. A questo corpo-pietra continuamente si rivolge l’io poetico, in un dialogo precluso in partenza: è l’uomo che parla con il sasso. Il corpo permane inerme e muto difronte alle richieste di comprensione dell’io. La poesia è dunque il luogo preposto all’analisi di questo dialogo impossibile, al rapporto ambiguo tra l’io e la sua carne, tra l’io e il suo mondo. L’assurdo esistenzialista di cui il soggetto fa esperienza è trattato qui con distanza, nell’idea che solo attraverso questo posizionarsi al di fuori della propria vicenda esistenziale sia possibile una comprensione della propria condizione umana. Il dire è quindi pacato, freddo, analitico. Un dire che  insegue l’ideale di trasparenza espressiva secondo una scrittura sillogistica e paratattica. Non vi è la ricerca di nessuna oscurità formale, nessuna sperimentazione avanguardistica: la poesia è luogo di analisi, metodo di conoscenza, espressione, e quindi attuazione, di un movimento di pensiero, di un ragionamento. 

 

“Scrivere in genere è nascondere,

sottrarre alla realtà qualcosa

di cui sentirà la mancanza.

Questa maieutica del segno

indicando le cose con il loro dolore

insegna a riconoscerle.”

 

Poesia come “maieutica del segno”: scrivere è strappare le cose dal reale, trasporle su una pagina e così concretizzarne il senso nel tentativo di ricomporre la scissione tra ideale e reale, tra cosa e idea. “La scrittura è una morte serena:/ il mondo diventato luminoso”. Comporre è prelevare la cosa dal divenire immemore del reale per consegnarla a un’esistenza stabile, eterna: all’esistenza dell’idea divenuta segno, parola, traccia scritta. Dove l’istanza gnoseologica è innanzitutto rivolta verso l’io lirico di modo che la poesia diventi una pratica di cura. Pratica da compiersi preferibilmente nel letto, prima di dormire: un recar traccia del sé che si è ora, che si è in questo giorno, e che l’indomani non si sarà più, un dare a questo “confuso accavallarsi del pensiero” una materia stabile, una carne. “Disegno queste parole/preparando la mia resurrezione”. La mano che annota la “secrezione/ spontanea e vegetale dell’idea” sul taccuino giallo è “gesto/che assolvendo il giorno lo dissolve”: 

 

“Questa carta è per me prima del sonno

l’incarnazione del corpo

nel velo del pane.

Comunione e consunzione

dell’ultima parola.

Come se ogni sera

lasciassi sopra il letto

una lapide quotidiana,

l’emblema per conoscere chi dorme”

 

La pagina è luogo in cui accade il rendersi corpo del senso: l’idea trasmigra, e così si presentifica al soggetto stesso, nel segno scritto. L’idea si fa esistenza materiale, permanente, essa stessa mineraria per la qualità della sua composizione, ma differente dalla mineraria impassibilità del corpo: la pagina scritta non è mai muta. In Magrelli, poesia è dunque “segreta epopea della soglia”: poesia di confine tra il corporeo-minerale e il senso-idea, tra una dimensione di materialità muta e una dimensione di trascendenza spirituale, di autocoscienza. Scrivere è il duplice movimento di trasformazione del corpo in segno-idea e del segno-idea in corpo permanente: “diventare così da carne a segno/da strumento a ossatura esile del pensiero.” È pratica di liberazione dall’alienazione della carne, costruzione di un orizzonte di senso possibile, è “dolce eclissi della materia”. È innanzitutto una postura etica. Dove, la questione è quella del vivere bene e in ultima istanza di prepararsi alla morte o quanto meno di accettarla come condizione più propria dell’umano: “c’è chi tramonta solo col suo corpo:/ allora più doloroso ne è il distacco”.

 

LABORATORIO DI POESIA VISIVA CON LAMBERTO PIGNOTTI

Progetto PCTO a cura di Kappabit s.r.l. e Filosofia in movimento

Il progetto s’inserisce nell’ambito della rassegna Pubblicittà: percorsi sinestetici tra parola e immagine, promosso da Kappabit in partnership con FiM. Tema centrale dell’iniziativa è, come si può facilmente evincere dal titolo, il rapporto tra parola e immagine, indagato a partire dall’esperienza della Neoavanguardia italiana, nella fattispecie della Poesia Visiva. L’argomento viene approcciato da diversi punti di vista, coinvolgendo i più vari ambiti di ricerca (filosofia, arti visive, sociologia e teatro) in un fitto calendario di eventi costellato da incontri, workshop, azioni artistiche ed eventi sul territorio.

In questo contesto, il progetto PCTO che qui s’illustra mira a coinvolgere gli studenti all’interno di percorsi di apprendimento e sviluppo dello spirito critico attraverso un programma di attività costituito da lezioni e workshop, tutti incentrati sull’esperienza della Poesia Visiva.

La Poesia Visiva è, più che una tendenza artistica, una variegata esperienza di contaminazione fra linguaggi: la simultanea presenza di scrittura e di immagini su una superficie. Interagendo, la parola si fa segno visivo e l’immagine assume una dimensione mentale. Infatti, proprio negli anni Sessanta, in cui domina l’arte concettuale, questa ricerca prende corpo in molti gruppi e in parti diverse del mondo (oltre che in Europa, in Brasile Argentina e Giappone). Il più numeroso e vivace è stato quello italiano, con base Firenze dal 1963. Maggiori esponenti Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini, Ugo Carrega, Emilio Isgrò, Luciano Ori, Luca Maria Patella, Nanni Balestrini, Sarenco. I precedenti storici sono in avventure sperimentali delle avanguardie del primo Novecento: Apollinaire con i Calligrammes, futuristi come Marinetti e Cangiullo con le Tavole Parolibere. Ma inserzioni di scrittura sono frequenti già nei quadri cubisti e futuristi. Il principio ispiratore è quello di attivare gli scambi tra i cinque sensi (sinestesia): infatti al movimento partecipano autori che realizzano installazioni sonore, spartiti musicali[1].

Il valore aggiunto del progetto è rappresentato dal coinvolgimento attivo nell’ambito delle attività PCTO di colui che unanimemente è considerato il padre della Poesia Visiva: Lamberto Pignotti[2].

Gli alunni coinvolti nel progetto avranno, infatti, l’opportunità d’interagire direttamente con il Maestro Pignotti, il quale, oltre a determinare l’indirizzo delle attività da svolgere, ne coordinerà in prima persona lo svolgimento.

Tale opportunità è resa possibile dallo stabile rapporto di collaborazione instauratosi tra Pignotti e la Kappabit, che, oltre a rappresentare il fondamento sul quale la stessa rassegna Pubblicittà: percorsi sinestetici tra parola e immagine è basata, nell’anno in corso ha dato vita anche a una mostra personale dell’artista ospitata dalla Galleria CONTACT artecontemporanea[3] e alla pubblicazione per le Edizioni Kappabit dei volumi Lamberto Pignotti. Controverso – Arte per fraintenditori, a cura di

Gaia Bobò (ISBN 9788894361827) e LESSICO RESISTENTE – La Poesia visiva e la critica alla società dell’immagine, In un dialogo con Lamberto Pignotti, di Antonio Cecere (ISBN 9788894361872).

Il fulcro delle attività previste dal progetto PCTO è costituito dall’analisi del rapporto tra parola e immagine quale passaggio critico dello sviluppo culturale della nostra società. Oggi la conoscenza è fortemente condizionata dalle nuove tecnologie e il Gruppo 70, fondato da Lamberto Pignotti, attraverso la Poesia Visiva, aveva compreso, molto prima di Guy Debord, la natura della società dello spettacolo. Pignotti ha scritto, prima di Edgar Morin, un’analisi circa l’influenza che il linguaggio pubblicitario ha avuto sullo sviluppo del linguaggio politico nel corso del Novecento. Per queste ragioni, Pignotti è senza alcun dubbio l’intellettuale più autorevole con il quale si possa intraprendere un percorso come quello definito da questo progetto.

Oltre a Lamberto Pignotti, saranno coinvolti nelle attività anche Marco Contini[4] e Gaia Bobò[5].

Fasi del progetto

Il progetto si articola in tre momenti che prevedono diverse modalità di partecipazione per gli studenti:

  1. Introduzione alla Poesia Visiva e preparazione degli studenti al lavoro per il workshop, a cura di Marco Contini.
  • Lavoro di raccolta dei materiali necessari allo svolgimento del workshop: in base alle indicazioni ricevute dal Tutor aziendale, gli studenti dovranno ricercare immagini e titoli su quotidiani, periodici e magazine (cartacei e on line) a loro scelta e, in seguito, operare tra questi una selezione in base ai criteri che saranno loro indicati.
  • Workshop presso la Galleria CONTACT artecontemporanea, a cura di Lamberto Pignotti (coadiuvato da Gaia Bobò e Marco Contini). Il workshop si articolerà in due fasi:
  • Nella prima fase gli studenti dovranno illustrare i criteri utilizzati nella selezione dei materiali e argomentare le loro scelte. Si procederà dunque all’utilizzo dei materiali raccolti per la produzione di alcune opere di Poesia Visiva, attraverso l’utilizzo del paradosso e del nonsense quali potenti stimoli per la riflessione, utili a rivelare sia la debolezza della nostra capacità di discernimento sia i limiti di alcuni strumenti intellettuali per il ragionamento.
  • In una fase successiva, si approfondirà l’approccio sinestetico. Si partirà con la trattazione teorica, anche attraverso la disamina di alcuni esempi tratti dall’attività artistica di Pignotti (chewing poem, drink poem, doce stilnovo, l’odore del tempo), per proseguire attraverso con l’applicazione pratica per mezzo del metodo esperienziale (ovvero, lavorando prima sulla percezione e, in seguito, sulla riflessione).

[1] Fonte: https://www.collezionedatiffany.com/glossary/poesia-visiva/

[2] Lamberto Pignotti nasce nel 1926 a Firenze. Qui si laurea e risiede fino al 1968, anno in cui si trasferisce a Roma. Nei primi anni Sessanta concepisce e teorizza le prime forme di “poesia tecnologica” e “poesia visiva”, di cui cura nel 1965 la prima antologia. Nel 1963 dà vita, con altri artisti e critici, al “Gruppo 70” e partecipa pochi mesi dopo alla formazione del “Gruppo 63”. Dal 1971 al 1996 ha portato avanti, prima come professore alla Facoltà di Architettura di Firenze e poi al DAMS della Facoltà di Lettere di Bologna, dei corsi sugli svariati rapporti fra avanguardie, mass-media e new-media. Tra le più recenti mostre personali si ricordano: La poesia ve lo dice prima, la poesia ve lo dice meglio, Opere dal 1945 al 2010, Fondazione Berardelli, Brescia, 2010; Poesia visiva tra figura e scrittura, CSAC, Università di Parma, 2012; Cinquant’anni di inquietudine. La poesia visiva di Lamberto Pignotti, Galleria Clivio, Milano, 2016; Verso libero e indipendente, Centre Pompidou, Parigi 2018. Vive e lavora a Roma.

[3] http://kappab.it/?qr=217Z

[4] Esperto di tecnologia dell’informazione e della comunicazione, specializzato in editoria elettronica multimediale, con oltre vent’anni di esperienza sul campo. Fondatore, CEO e responsabile delle attività editoriali della Kappabit, nonché direttore della Galleria CONTACT artecontemporanea.

[5] Curatrice indipendente laureata in Comunicazione e Valorizzazione del Patrimonio Artistico Contemporaneo presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Recentemente ha curato l’esposizione “Controverso. Arte per Fraintenditori” di Lamberto Pignotti presso la Galleria CONTACT artecontemporanea nonché il catalogo dell’omonima mostra (Edizioni

Kappabit, 2019). Come autrice pubblica regolarmente per Exibart; ha inoltre scritto per le riviste di settore Inside Art e Rivista Segno. Per Filosofia in Movimento è curatrice della pagina “Lamberto Pignotti, Arte per Fraintenditori” (http://filosofiainmovimento.it/arte/arte-per-fraintenditori/).