LA DEMOCRAZIA DEL PERICLE DI TUCIDIDE

Dinanzi ai notissimi, mirabili e memorabili, Discorsi agli Ateniesi che Tucidide fa pronunciare a Pericle sulla Democrazia cittadina, colta in un certo tempo storico e attraverso modi originalmente determinati, è forse ancora non inutile cercar di circoscrivere, con tutte le cautele del caso e al di là di ogni più ricca e vasta precisazione, alcuni dei caratteri salienti e «generali» di un’esperienza storica, qual è quella delineata nel grande testo dell’acutissimo storico. Proverò qui di seguito a riassumere, secondo il mio parere, taluni di questi tratti, preceduti solo da due brevi avvertenze. La prima è che, per comodità, mi concentrerò soprattutto, ma non esclusivamente, sui capitoli centrali del secondo libro tucidideo (59-65); l’altra è che nell’esposizione terrò sempre presente la lezione di Machiavelli (seguirò più spesso la traduzione di Franco Ferrari). È noto come questi dioscuri, quello antico e quello «moderno», siano di frequente appaiati a formare, da soli, quasi l’intera sostanza di ciò che si dice «realismo politico» (una nozione che dovrebbe essere sempre ridiscussa). In particolare è la cultura tedesca tra la prima guerra mondiale e la nascita del nazismo – richiamo solo, con gli studi in proposito di Luciano Canfora, il libro del filologo classico Eduard Schwartz su Tucidide uscito già nel 1917 e ristampato dieci anni dopo – a soffermarsi spesso su Tucidide e, al tempo stesso, su Machiavelli, del resto in una sorta di larga e talora sofferta autobiografia, individuale e collettiva o nazionale.

                                                                                                                                         Il primo rilievo è che in Tucidide c’è scarso interesse per una definizione formale della democrazia. Non si tratta, come tutti sanno, di una carenza legata al tempo precoce in cui cade la riflessione tucididea. A smentire ciò basta ricordare che già in Erodoto (III 79 segg.) si trova un notissimo testo – su cui ora non mi soffermo – circa le tre principali forme di governo, attraverso la personificazione di altrettante figure-simbolo di cui una critica le posizioni delle altre. Dunque, questa scarsa cura circa la democrazia come forma di governo non è casuale. Significa forse allora che il discorso di Tucidide è generico e sfocato? Nessuno oserebbe dir questo, perché il grande storico antico tenta effettivamente di determinare la democrazia ateniese del suo tempo, ossessionato dalla ricerca della «verità», dall’acribeia, dalla precisione e dall’esattezza.

La definizione e delimitazione avviene piuttosto opponendo a «Noi» ateniesi gli altri, attraverso i caratteri differenziali che connotano l’esperienza di Atene rispetto ad altre pratiche politiche e umane. Eppure, non bisogna scambiare questa specificazione comparativa con una semplificazione dell’intero quadro. Accanto infatti al disinteresse di Tucidide per la democrazia in quanto specifica forma di governo, si deve ricordare che essa costituisce per il grande storico un fenomeno complesso e, per così dire, «globale», capace di abbracciare, nel gioco tra pubblico e privato, quasi per intero le attività umane. Escludere la specificità della forma politica vuol dire infatti includere, per il rimanente, pressoché tutte le altre sfere vitali, all’insegna della democrazia come modo o stile di vita. Si discute ancor oggi se la politica debba riferirsi solo al suo specifico e delimitato campo, con i contenziosi che ne derivano rispetto ad altre sfere, o se, per attingere sé stessa, convenga ricavarla da una considerazione à part entière dell’uomo e della sua storia, che tocchi anche ambiti in apparenza molto lontani dalle questioni politiche. Quest’ultimo è il caso di Tucidide, che tira in causa, per esempio, anche il modo degli ateniesi di fruire del «bello» e di dedicarsi al «sapere», di conquistare e usare le ricchezze, di seppellire e rendere onore ai caduti in guerra, e così via (II 40). La celebre attribuzione ad Atene di «maestra» della «scuola dell’Ellade» (II 41) si deve intendere come un insegnamento a tutto tondo, fondato sul proprio modo di agire.

La democrazia, insomma, più che una dottrina politica, si configura per Pericle come una forma di vita le cui parti si rinviano tra loro con ampiezza e coerenza. Si può pertanto anche dire che rilevanti sono nei discorsi fatti dire a Pericle non tanto le leggi quanto i costumi. E se proprio vogliamo evocare le leggi, saranno piuttosto gli agraphoi nomoi ricordati, come indefettibili regole consuetudinarie, nell’Orazione funebre di Pericle (II 34 sgg.), entro un dibattito che si era intensificato tra VI e V secolo. Queste leggi, che abbracciano – com’è noto dalla figura di Antigone e segnatamente dalla lettura datane da Hegel – cielo e terra, sono le più indicate a esprimere il carattere globale della democrazia di Pericle, cui nulla di umano è estraneo, nel pregnante coinvolgimento di privato e pubblico, gli ambiti entro cui la vita si dipana.

Una conseguenza di quanto si è appena detto sta nel fatto che non c’è nei Discorsi di Pericle nessuna volontà di dimostrare qualcosa, di giungere, partendo da premesse logiche, a prove e a conclusioni che vogliano essere necessarie e stringenti. L’unica forma di persuasione di cui il testo si occupi è l’esibizione, la plastica ostensione della vita che si conduce in Atene: «Noi facciamo così», ecco come noi qui ci comportiamo. C’è nella grande e ricca città una vita «facile» e libera, multiversa, dove, fuor dalla guerra, vige qualcosa come il goethiano precetto di vivi e lascia vivere: un’intrinseca mobilità e una disponibilità a sperimentare ciò che è particolare, insieme a quel che è universale, alle esperienze che, riguardando comuni sentimenti, toccano ciò che è giusto e di «buon senso». Da ciò che oggi diremmo «società civile» nascono, in ogni campo, manifestazioni di eccellenza che hanno un rilevante peso nella vita politica, trasferendosi direttamente e con fluidità dall’ambito civile alla specifica selezione operata dalla politica.

Se c’è un modello da paragonare alla democrazia di Pericle, a me pare che potrebbe essere quello che sarà costituito dall’Etica Nicomachea, con i suoi «per lo più» e i «presso a poco». Contingenza, precarietà e pienezza di vita convivono felicemente. Il cuore della questione è che solo i veri pensatori «realisti», come vengon detti, hanno capito, con la larghezza di vedute e la liberalità dei grandi (mentre i modesti perseguono irraggiungibili traguardi «monastici», accrescendo sempre più le loro vane pretese), che la Politica non è, né può essere una scienza; ed è perciò paradossale ma profondamente vero che proprio Tucidide, il maggior storico antico, con la sua acribeia e la sua preoccupazione per la  verità, si sia impegnato nel compito, solo all’apparenza limitato, di ricondurre i ragionamenti a più miti, fluide e dicibili pretese. Naturalmente c’è il problema prossimo della storia, ma qui ci vorranno i filosofi per appesantire e irrigidire questo campo, magari al coperto di imperiose e astratte «necessità», sostenibili solo in ambito filosofico o scientifico, ma capaci, per il resto, di essiccare ogni vivo senso della storia.

E tutto avviene, con Pericle, nella luce più sfavillante. È stato spesso avanzato il paragone tra Pericle e Cosimo de’ Medici il Vecchio circa l’eguale potenza politica dei due, priva in entrambi i casi di ogni riconoscimento formale nel governo. Ma che a Firenze ci fosse uso spregiudicato e ingannatore della complessa macchina burocratica da parte dei Medici è noto, mentre del tutto diverso è il nostro caso. All’origine si trovano i riconosciuti meriti di Pericle, esibiti alla luce del sole, a tutti visibili e da tutti, salvo che nei periodi di crisi, ammessi: qualcosa come una legittimazione originaria del suo «titolo» al potere. L’opera dell’egemon, del leader capace di «indicare la via», non si limita per altro a saper prendere le «buone» e «necessarie» decisioni, quasi agisse solo sulla subalternità del popolo e attraverso scelte calate dall’alto, ma altresì a illustrarne a tutti il senso e la direzione, dialogando tra uomini allo stesso titolo razionali. Come osserverà Machiavelli, acuendo la difficoltà, «sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere ad altrui» (Disc. I 11.11). Ma chi non fa questo, chi non illustra e spiega le proprie scelte, sta nella stessa condizione, dice Pericle, di chi non ha mai pensato alla cosa, o, peggio, di chi è ostile alla nostra città. Deriva da questo tacito patto tra eguali la feconda ambiguità del testo per la quale la parità è nello stesso tempo non servile differenza. E se voi aveste mai creduto, anche solo per un momento, dice ancora Pericle, che io possedessi «più di ogni altro» le qualità necessarie al comando, che fossi capace «più di ogni altro» di assolvere questo compito di guida, dovreste ora mantenervi fedeli a un simile vincolo.

Nel capitolo I 9 dei Discorsi, su Romolo, Machiavelli sembra affrontare in un punto la nostra questione, quando osserva che «se uno è atto a ordinare, non è la cosa ordinata per durare molto quando la rimanga sopra le spalle d’uno, ma sì bene quando la rimane alla cura di molti, e che a molti stia il mantenerla» (I 9.9-10). Perché non risponde alle nostre esigenze quest’equa spartizione dei compiti, per cui solo uno è «atto a ordinare», mentre solo i molti sono capaci di conservare a lungo la «cosa ordinata»? Perché solo uno, il grande legislatore, si deve rispondere, possiede straordinarie capacità virtuose, tali da configurare i molti del popolo, seppur atti a un importantissimo ed esclusivo compito di mantenimento, come subordinati all’azione del fondatore pleno iure, d’ incommensurabile prudenza e libertà. Anche in Tucidide si parla della differenza tra i pochi che sono in grado di dar inizio a una «Politica» e degli irresponsabili tentativi «populisti» che cercano, aprendo un’età di decadimento, di dare anche al basso popolo,  funzioni di governo. Il senso realistico di Tucidide/Pericle fa cominciare l’Archeologia, la prima parte dell’opera, dalle grandi migrazioni e dai problemi del nutrimento dei popoli (I 2), mentre è troppo disincantato per seguire l’originario mito greco dei legislatori, tanto superiori agli uomini comuni. Quel che ne deriva è una maggior eguaglianza tra gli uomini, sempre esposta a farsi egualitarismo, come condizione che imprime un peculiare carattere al dialogo tra il popolo e il suo leader. Per un certo aspetto Tucidide e il popolo sono veramente eguali, fino a quando riescono a tenere insieme, paradossalmente, eguaglianza e differenza. Le decisioni di Pericle vengono apertamente contestate, e, viceversa, il grande stratego sa parlare con durezza al suo popolo. Tucidide accetta il principio della «discussione» come un «buon» carattere proprio ed eccellente della democrazia, sebbene servendosene spesso con una costante vena pedagogica, e innescando con ciò una sofisticata strategia dialogica, dove l’intesa è raggiunta attraverso la disparità e l’asimmetria di ruoli.

Abbiamo ora alcuni elementi per cominciare a vedere quale sia nell’insieme lo speciale rapporto che lega Pericle al «suo» popolo. Che si potrebbe dire quasi un «rapporto d’amore», comprendendo in ciò anche i momenti di crisi e di ira improvvisa, d’insofferenza e di rottura, mai per altro tali, finché l’esperienza non è interamente consumata, da impedire rapidi ritorni indietro alla primitiva relazione consenziente. Ecco per esempio il punto cruciale in cui il popolo ateniese, adirato e gonfio di odio verso Pericle per le sventure e lo sconforto in cui si trova, relativo soprattutto ai rapporti tra privati, ma riguardante peraltro così il popolo con i suoi pochi mezzi come i potenti con le loro ricchezze, arrivò a imporgli una multa in denaro. Del resto anche in questi casi è singolare l’accusa del popolo a Pericle: quello di essere stato «convinto» a compiere certe scelte. Né la realtà è qui mascherata, ché l’eguaglianza dinanzi alla legge non comportava sostanziale parità di fortune e il problema era semmai se si sapeva o no combattere per liberarsi dal peso della povertà.

Senonché ben presto, come il popolo suole fare – è un punto presente e tematicamente contrastato in Machiavelli – lo rielessero stratego, affidandogli «tutti gli affari pubblici», tornando a considerare Pericle «adattissimo» per quanto concerneva i «bisogni attuali della città». Era noto che Pericle guidava con abilità e moderazione la città, che sotto la sua guida si mantenne sicura nei periodi di pace, divenendo «grandissima»; e quando scoppiò la guerra, anche in questo frangente il «primo cittadino» ne previde la gravità, e la sua preveggenza poté essere ben misurata dopo la sua morte. La questione saliente e non poco problematica era che non si sapeva fino a che punto il nostro stratego conduceva altri o se fosse a sua volta condotto. Ma, d’altra parte, non bisogna gridare subito al dolo: i facili detrattori di Pericle sembra che abbiano tutti sperimentato situazioni di purissima democrazia, del tutto trasparente e senza alcuna zona oscura.

Ci avviciniamo qui, in questa breve nota, a un punto che mi pare importante quanto difficile. In una densissima e ben conosciuta formula si legge che: «vi era così ad Atene una democrazia, ma di fatto un potere affidato al primo cittadino». Nello stesso senso si dice poco sopra che Pericle – pieno di «dignitas, di saggezza e prudenza, incorruttibile dal denaro – «dominava il popolo senza limitarne la libertà» (II 65. 8,9). L’oscurità di questo rapporto complesso, o di metafisica relazione tra il tutto maggiore dell’insieme delle parti – dove il comando di uno era la reale espressione e traduzione dell’eguaglianza dei tutti, o dei molti, il «dominio» su un popolo che non vedeva, in ciò, limitata la propria libertà – è così patente che stupisce la sua stessa formulazione, quasi ingenua. Era veramente altra cosa questa che non voler «lusingare il popolo» per fargli piacere, quasi che il potere di Pericle fosse stato conquistato con «mezzi illeciti»; o altra cosa che cercar di ricucire il rapporto dopo che si era fatto proprio il contrario di ciò che Pericle aveva suggerito: quando il leader cercava di ricostituire una positiva relazione, riconducendo il popolo al timore se era tracotante e risollevandolo invece se era depresso e abbattuto senza ragione. Naturalmente, tutte le difficoltà di un testo possono essere appianate e, in apparenza almeno, «sollecitandolo» appena un po’, risolte. Così, si potrebbe ricordare come queste affermazioni di Pericle non fossero del tutto nuove, rinvenibili in altri testi e spiegabili perciò senza eccessivi ostacoli, o, come nella citazione di II 65, 9, bisognerebbe tener in gran conto l’inizio che specifica l’esserci quasi solo a parole della democrazia e non nella realtà delle cose. Ma non mi soffermo ora su ciò, preferendo assumere le dense e concentratissime parole di Pericle come qualcosa di problematico, che tocca (o può toccare), in un coerente contesto, il fondo o l’essenza stessa del fenomeno democratico.

Che vogliono dire allora i due passi di Tucidide sopra riportati? La prima impressione è quasi del tutto scoraggiante. Cosa vorrà dire che ad Atene vi era sì una democrazia, ma che di fatto governava un potere affidato al primo cittadino? o, ancor più, che Pericle «dominava il popolo senza limitarne la libertà (II 65.8,9)? Se la prima sentenza può ancora far pensare che nella democrazia ateniese vi fosse una funzione e un titolare che detenevano una sorta di potere esecutivo, il ragionamento è comprensibile: si tratterà solo di sottrarre al testo l’impressione che il primo corno del periodo contenga solo una mistificante apparenza di potere egualitario per tutti, più o meno sorretto da vane parole, ossia che la democrazia non fosse nelle cose, mentre «in realtà» il potere era detenuto tutto da un princeps, da un «primo cittadino». Tuttavia non è così: per Tucidide come c’è una reale autorità singolare di Pericle, così c’è parimenti un effettivo potere del popolo, com’è detto esplicitamente quando si ricordano decisioni prese in comune da entrambi i «contraenti»: «assieme a me decideste la guerra» (I 64.1).

Questo del comando è un potere in molti sensi «costoso» da cui tuttavia, avendone goduto i vantaggi, non si può recedere, quasi fosse divenuto un fatale destino. Certo, il comando procura molte inimicizie e non pochi fastidi, che devono però essere accettati per fierezza e fedeltà alla propria storia; e solo per infiacchimento morale, per ignavia, qualche anima bella vorrebbe ora, da «uomo onesto», sopprimere tutto il male che è connesso alla grande responsabilità di avere un Impero. Ma il punto è qui che sarebbe ridicolo pensare per Tucidide una sorta di costituzionalismo di poteri limitati, mentre in realtà pare che il problema sia piuttosto costituito dall’aggregazione delle funzioni, dal fatto cioè che esse idealmente, come per sommatoria, agiscano insieme, e si integrino contribuendo a definire un potere unitario. Ma com’è possibile allora che tutti abbiano un pari potere?

            È nell’altra citazione che il discorso diventa esplicitamente ossimorico. In che senso si potrebbe dire infatti che è possibile «dominare il popolo senza limitarne la libertà»? Che libertà, e per di più intatta, è quella di un popolo su cui si eserciti «dominio»? Si scartino anzitutto soluzioni più facili: non si tratta di una forma di servitù volontaria, né di un mero condizionamento per ragioni tradizionali. Ma già infine più complesso è un rapporto in cui Pericle fornirebbe scelte elaborate, comprensibili contenuti, indicazioni e strumenti per la pratica della democrazia, che poi il popolo vota: una consulenza esterna da sottomettere sempre, come accade in Rousseau, alla «volontà popolare», ma che potrebbe avvenire persino in un moderno partito politico che svolga alcune delle stesse funzioni dello straordinario condottiero ateniese. Pure s’avverte subito che qui la relazione si avvia a essere troppo strutturata e rigida, mancando i tratti del rapporto in cui leader e popolo prendono «insieme» le stesse decisioni, per cui il «dominio» è semmai di tutti su tutti, la limitazione divenendo essa stessa condizione di libertà, di tutta la possibile libertà.

            Questo costituisce il mysterium fidei della democrazia, entro un’aura quasi rousseauviana: là dove si pensi di dominare, non empiricamente, il popolo, là si riafferma la sua (possibile) libertà. Come in ogni buon atto linguistico, i messaggi scorrono da entrambe le parti. Gli Ateniesi, con la propria terra per la seconda volta devastata e l’infuriar della peste, mutato parere, si «misero ad accusare Pericle come colpevole di averli persuasi a fare la guerra» – al popolo non sfuggono le sue responsabilità – donde il seguito di un cumulo di sventure (II 59.1). La totalità non è mera somma delle parti: la città se è tutta prospera è più che la somma di benessere dei suoi cittadini. La limitazione di potere fa parte essa stessa della libertà, concerne una relazione in cui non si sa chi conduce e chi è condotto. L’alternativa sarebbe, in sostituzione di una «vera» politica, quale quella che Pericle dichiara di praticare, una sorta di inesausta e piatta o quantitativa affermazione di tipo liberale. Ma nel cuore e nell’enigma della democrazia lavorava ben altra complessità.

            Il problema del rapporto tra i protagonisti di questa sorta di dialogo di cui abbiamo parlato, dove tutti, anche il condottiero, hanno da imparare qualcosa dall’altro, era quello di cercar di farsi uno, essendo in realtà due. Poiché l’impero era (ed è tale) quando ai suoi utili, pur nelle immancabili differenze quantitative, partecipano tutti i cittadini, come ricondotti a formare un singolo soggetto che sfrutta le innumerevoli occasioni di arricchimento e di potere, era facile trovar l’incontro su questa base. Senza toccar ora il complesso problema se, e in che misura, l’Impero comportasse una dimensione propriamente capitalistica, come riteneva Mommsen, o se si limitasse, come è probabile in Tucidide, solo al possesso e all’accumulo di ricchezze (ancora per Polibio sono notevoli a questo proposito gli studi di Domenico Musti), è necessario tener conto di una caratteristica circostanza. Ed è l’innovazione del «soldo» concesso, su istanza di Pericle, a tutti i cittadini che partecipassero alle Assemblee o ad altre funzioni pubbliche. Questi segni del benessere e della volontà di espandere la democrazia costituivano pur sempre la base per una maggiore intesa: qui il consenso, in qualche modo favorito «istituzionalmente», non poteva mancare. Ma quando i «vantaggi», come si dice nel testo, erano «lontani», mentre vicinissime stavano le sofferenze e i disagi, la sostanziale diversità di opinione fino all’aperta ostilità tra Pericle e il popolo non poteva che farsi aperta e stridente. Lo stesso Impero era non solo fonte di molte favorevoli occasioni, ma costituiva altresì un costo, un sacrificio che si doveva calcolare e che veniva pagato per esempio dai più duri vincoli cui, come ricordano i classici, erano costrette le città dominate da una repubblica popolare. A tal proposito Tucidide forniva sia il sostegno dell’illustrazione dei vantaggi, come quello di essere gli Ateniesi signori imbattibili del mare, sia il severo ammonimento che dall’Impero non si poteva ormai più recedere, che coraggiosamente, da esprits forts, bisognava mantenerlo, rinunciando alle facili e pure dissociazioni.

Nessuno meglio del grande stratego ateniese, sapeva, come sarà pensiero costante di Machiavelli, che tutte le cose umane sono destinate alla morte: le difficoltà di detenere il potere a due, il popolo e il suo leader, era tanto vessillo di gloria, tanto indizio di prossimo disfacimento. Accumulando il loro peso, i contrassegni di crisi si ponevano come cause del declino e della fine, forse provvidenzialmente in parte oscurate e nascoste dagli ultimi eventi. La peste, che colpì lo stesso Tucidide, e da un certo tempo in poi fa da sfondo al nostro quadro storico, raffigurata com’è tra la freddezza di un referto medico e una raffinata arte narrativa (II 48-54), esprimeva nella maniera più evidente il clima di decomposizione che si manifestava da tutti i lati nella società.

Il testo di Tucidide comunica una sorta di ineluttabilità ai fatti, che si susseguono in maniera serrata, ma suggerisce pure, magari in controluce, che nella comune tendenza all’accumulo di potere e nella necessità del dominio, vi possono essere molte forme di Impero. Un’ultima parola la dedicherò a questo problema, che abbiamo già in altra forma incontrato, come governo di due o a due. Questa è la configurazione propria a Machiavelli, ed è costituita dalle due «classi», nobiltà e plebe, diverse e conflittuali, ma anche solidali tra loro, alla fine, per giungere a leggi «in favore della libertà». Sembrerebbe, astrattamente, una situazione difficile per la formazione e il mantenimento di un impero, ma in realtà una situazione «pluriclasse» e non «monoclasse» è comune, e si direbbe persimo «propizia», a una realtà imperiale: dall’antica repubblica romana all’Impero britannico. Non c’è rischio qui che le forme che fondano e sostengono la democrazia, finiscano anche per ucciderla, tanto forte è l’humus prima sociale e poi politico delle «inimicizie» tra le due grandi classi. Anche Tucidide, come Machiavelli (al fondo dei suoi pensieri) prevede una costituzione mista ma, contro la costituzione o governo misto che riposavano su tre momenti, di due soli termini, aristocratico e popolare. Come osservò Carl Schmitt, se il tre del governo misto è una sorta di pacifico numero sacro, il due è invece espressione di aspra e irriducibile conflittualità.

Nascere dal polemos vuol dire mantenere, sotto l’equilibrio garantito da ultimo dal Senato, sia conflitto che, prima della crisi finale, superamento delle lotte sociali e politiche, a condizione che nessuna classe cerchi di annientare l’altra, nessuna stravinca in un conflitto sempre rinnovantesi. Il popolo di Roma riuscì per Machiavelli a costruire, attraverso l’emersione della plebe e il conflitto con il patriziato, un immane Impero, in sostanza esempio inarrivabile, che durò molti secoli, e che dovrebbe sempre costituire, in stretta continuità temporale, un termine di paragone ex post per l’Impero greco di Tucidide: una synkrisis ricca, come al solito, di molti insegnamenti e molte sorprese. La varia natura degli Imperi, di questa antichissima forma di potere che non accenna a veder consumato il suo ruolo (anzi!), rappresenta sia una ricchezza storica che una guida politica. Se proprio, come tutto sembra indicare, non si può fare a meno di imperi, che almeno non ce ne capitino le forme più maligne. E le più malvagie sono quelle dove più sia richiesto e persino imposto ai «cittadini» l’«allineamento», in forme umilianti, dove non vi siano varchi di aria liberale che possano aprirsi.

Da ogni parte c’è da imparare e per mio conto, vicino agli imperialismi di Tucidide, comincerei col tener conto della maggior liberalità e del buon uso dell’impero che, da un certo punto di vista, era a Roma più di quanto non fosse in Atene (come più volte argomentò la storica del diritto antico Eva Cantarella). Tacito racconta a proposito della proposta di Claudio, appena imperatore, di concedere ad alcuni Galli la possibilità di diventare senatori o magistrati. Alla prevedibile opposizione dei nobili senatori, toccati nel già ridotto potere, l’imperatore rispose con un mirabile discorso di apertura, secondo il costume romano, delle cariche da tempo concesse a tutti, anche ai «figli dei nostri schiavi». Già i miti di fondazione di Roma (a cominciare dal matrimonio del migrante Enea con la figlia del re laziale e dall’asilum di Romolo), testimoniavano ciò, e quindi mostravano la capacità di trattare «nello stesso giorno, e con gli stessi popoli, ora da nemici e ora da cittadini». È questa una singolare apertura, di contro alla feroce autoctonia di Atene, nata dal seme di Efesto, che non voleva in alcun modo esser «contaminata». Basti solo pensare qui alla politica ateniese verso i meteci, numerosissimi e «produttivi» commercianti per lo più, che avevano possibilità di essere «accolti» nella città solo a condizioni iugulatorie, che prevedevano l’iscrizione di essi in un apposito registro, sotto condizione altrimenti di pesantissime pene. Un cittadino doveva garantire per il meteco, che pagava una speciale tassa, la sua uccisione valeva poco e la sua testimonianza veniva presa solo sotto tortura, come si faceva con gli schiavi. A Roma, al contrario, da sempre luogo di commistioni e integrazione, di apertura etnica e sociale, gli schiavi, diversamente dai meteci, acquistavano con la libertà anche la cittadinanza, pronti ad adottare dai vicini (si pensi solo all’orgogliosa e discrepante affermazione degli ateniesi per cui nulla essi avevano da imparare, essendo solo «modelli») i migliori costumi e le migliori leggi. Con la sua saggezza ed esperienza (oltre che con la sua passione) Machiavelli riterrà del tutto improponibile, sotto ogni aspetto, il paragone tra il modo esemplare di fare «imperio» di Roma e quello «al tutto inutile» di Spartani e Ateniesi (II 4.11-12).

Il mio Congresso mondiale di Filosofia: riflessioni dopo l’articolo di Marcello Veneziani

di Ivana Zuccarello

Non è stata una passeggiata partecipare al XXV Congresso mondiale di Filosofia a Roma dal 1 all’8 agosto sia in termini di organizzazione, sia di impegno fisico, di concentrazione, di forza di volontà e dedizione richiesti.

Ha ragione Veneziani, – e con lui molti altri -, a denunciare i disagi dovuti alla canicola romana, ai cantieri aperti con ricadute significative sul sistema trasporti, all’immondizia non ritirata, e perché non citare un grande classico, la presenza molesta dei gabbiani (ne ho visti almeno un paio stazionare fieri sulle aiuole della Sapienza)?

Di certo, un Congresso mondiale organizzato a Roma ad agosto non sembrava affatto un’idea felice, eppure vorrei raccontarvi perché ne è valsa la pena.

Ogni giorno alla Sapienza, dalle ore 9.00 alle ore 19.00, per una settimana, abbiamo avuto la possibilità di assistere e partecipare a lezioni, simposi, tavole rotonde sui più svariati temi del dibattito contemporaneo, accademico e non.

Fin dalla registrazione sono rimasta colpita dalla copiosa presenza di cinesi, giapponesi, americani, africani, indiani, forse più numerosi rispetto agli europei (ma potrebbe semplicemente trattarsi di un bias cognitivo) che già da sola bastava a comunicare l’idea di una filosofia senza confini, e perché no, “senza frontiere”. Tuttavia, è probabile che poi i cinesi siano rimasti a fare scuola fra loro e che raramente abbiano davvero interagito con gli altri.

L’interazione multietnica nel suo senso più profondo forse è mancata, eludendo, fatta eccezione per le lezioni plenarie al rettorato, dove la traduzione simultanea aiutava a superare le barriere linguistiche, la vocazione globale annunciata dal tema congressuale. Soprattutto nelle aule più periferiche del campus, infatti, in cui ci si ritrovava a discutere di micro temi o di prassi filosofiche e didattiche, -sicché più che al congresso mondiale di filosofia sembrava di stare, a volte, partecipando a un corso di aggiornamento scolastico, – era raro imbattersi in esponenti più o meno illustri delle periferie del mondo.

Il punto di debolezza del congresso, però, stando all’articolo pubblicato il 3 agosto su La Verità (forse dovremmo chiederci se intesa come epistème o come alétheia prima di andare avanti), vale a dire l’evidente assenza di grandi nomi della filosofia mondiale, ritengo sia stato, invece, proprio la cifra di fruibilità e quindi di riuscita dell’evento. Studenti, insegnanti, professori universitari, e soprattutto giovani ricercatori, vero carburante del sistema e del dibattito accademico, hanno potuto trovare uno spazio, presentare i loro papers e discuterne pubblicamente, laddove tutti noi sappiamo quanto certi spazi siano, al contrario, normalmente già occupati.

E se ho molto apprezzato la lezione sull’I.A. del prof. Mario De Caro, ascoltare Paolo D’Angelo interrogarsi sul rapporto tra ambiente e paesaggio, e ancora gli interventi della filosofa algerina Malika Bendouda sul potere delle donne in un mondo sostenibile, di Kristie Dotson sul femminismo afroamericano, sono stata soprattutto felice di aver partecipato alla tavola rotonda sull’insegnare filosofia oggi coordinata da Marco Ferrari,  di aver discusso di politica ed educazione civica col prof. e collega Andrea Suggi, di aver conosciuto il collettivo del CRIF e la loro philosophy for children e, infine,  di aver ritrovato persone amiche al topic sulle pratiche filosofiche.

Chi ha criticato l’evento, infatti, ha trascurato, a mio avviso, il punto di forza, vale a dire la riuscita democratica del congresso: le voci di chi conta (poco o tanto in un momento di così alta popolarità della filosofia che importa!) mescolarsi in mezzo a tutte le altre, occhi che si guardano negli occhi aldilà delle cattedre, mani che si stringono fuori dalle aule, cartellini al collo senza titoli né gradi di onorificenza.

Forse senza, oltre, o attraverso i confini, ricordo che il tema scelto era “Philosophy across boundaries”, significa anche e innanzitutto questo: abbattere le gerarchie imperialistiche del pensiero e ritornare a discutere insieme facendo precedere l’ascolto alla parola.

Infine, se anche gli appuntamenti serali promossi e aperti alla cittadinanza sapevano più di estate romana che di cenacolo ad Heidelberg che male c’è? Portare la filosofia nelle strade, trasformarla in evento artistico, non è forse offrire un’alternativa al degradante spettacolo che sempre più spesso investe i luoghi storici delle nostre città profanati da kermesse di dubbio gusto?

Se qualcosa di sostanziale, invece, secondo me, è mancato e continua a mancare nel dibattito, filosofico ma non solo, quella è la dimensione puramente politica dello stesso: vale a dire un confronto autentico tra paradigmi ideologico-culturali che ridiscutano dell’idea stessa di confine e non solo delle modalità scelte per oltrepassarlo. “Per il vero filosofo, si sa, ogni terreno è patria” diceva Giordano Bruno, ma che cosa si voglia fare della “patria” sarebbe, forse, il caso di ricominciare a chiederselo e di interrogarsi sulla questione a partire dalla Scuola, vera frontiera dell’esercizio filosofico, terreno di militanza e diserzione, ricettacolo di norme e prassi non allineate, ma ancora e sempre prima bottega di formazione. Il resto, le biblioteche e gli studioli medievali andrebbero lasciati entro il limite di chi ancora crede cha la Filosofia si declini al singolare, vieppiù pensando che chi la insegna ai giovani debba limitarsi a raccontare la sua Storia.

Ivana Zuccarello

 

Amore, sì. Ma che tipo di amore? Le molte forme di amore che influenzano la nostra vita.

di Susi Ferrarello

traduzione di Leonardo Geri

“Oh tu Eros, scioglitore di membra!” – come direbbe Esiodo nella sua Teogonia (120-2).

Una dichiarazione di amore, specie se reciproca, ha il potere di farti sentire le gambe sciogliersi mentre una scarica di endorfine inonda il tuo corpo di pura felicità.

E tuttavia, può accadere che questo amore si mischi con degli scomodi sentimenti e cattivi atteggiamenti, come possono essere:

il non rispettare gli spazi controllando il telefono, dire delle piccole bugie innocenti, dare occasionali giudizi sminuenti qua e là, fare occasionale gaslighting, etc. La lista potrebbe andare avanti all’infinito.

Il punto è: perché una persona innamorata dovrebbe comportarsi in un modo così poco amorevole? L’amore dovrebbe essere sempre buono per definizione e tuttavia non è così. Anche se qualcuno è profondamente innamorato, potrebbe agire in maniera tale da farci del male. I giudizi sminuenti possono esser fatti per aiutarci – ci dicono, le bugie innocenti sono solo un’omissione, oppure il telefono è stato controllato perché… beh, non so come salvare questo.

Sembra che il modo in cui chiunque esprima l’amore sia complesso tanto quanto la personalità di ognuno, e questa complessità fa nascere diverse forme di amore. Ci vuole fortuna e impegno per scoprire cosa ti piace e cosa non puoi affatto digerire; cosa è doloroso e cosa ti mette di buon umore.

Spesso, chiedo ai miei clienti – che tipo di combinazione di amore vuoi ricevere nella tua vita, e sai quando dire no?

 

Quante forme di amore?

Mentre in inglese c’è una parola principale per esprimere varie combinazioni di sentimenti, nella Grecia antica si contavano almeno 10 diverse divinità dell’amore a cui pregare quando la vita sentimentale di qualcuno stava andando in frantumi.

Questa varietà sta lì per aiutarci a riflettere su che tipo di amore vogliamo attrarre su di noi.

Ecco la lista:

Il dio del sesso (Eros), il dio della passione (Photos), il dio dell’intenso desiderio erotico (Imero), il dio dell’amore reciproco (Anteros), il dio del matrimonio (Hymenaios), il dio delle parole dolci sussurrate alle orecchie (Hedylogos) – il mio preferito! Il dio dell’affetto e dei rapporti sessuali (Philotes), la personificazione della seduzione e della persuasione (Peito), Afrodite la dea della bellezza e della lussuria.

Utilizziamo quest’ultima per vedere quanto folle può diventare un amore generato dalla lussuria e della bellezza. Nella Teogonia, Esiodo ci narra che Afrodite nacque gravida di Eros, Photos e Imero (176ff). Così, un amore il cui componente principale sia la bellezza e la lussuria porta con sé la triade di lussuria, passione e intenso desiderio erotico.

Senza neanche dirlo, queste componenti divine non sono gli ingredienti per la dieta più bilanciata in termini di amore. Infatti, erano soliti commettere cose orribili alle persone.

Afrodite, apparentemente, fu una pessima, pessima suocera. Era talmente gelosa di suo figlio, Eros (o Cupido in latino), che lanciò una maledizione sulla sua amante, Psyche. Anche se solo umana, Psyche era considerata essere più bella di una dea, inclusa sua suocera. Così, Afrodite la separò da suo figlio. Mancandole disperatamente, Eros la ricercò nell’oltretomba e la riportò all’eterna vita con lui, rendendola la dea dell’anima. Da allora, essere innamorati significa trovare la tua stessa anima anche se è nascosta nei posti più spaventosi a cui tu possa immaginare.

Un’altra storia vede la stupenda Afrodite rincorrere un uomo piuttosto ascetico, Ippolito. Quando Ippolito non ricambiò il suo amore, la cosa per lei più razionale fu far sì che Fedra, sua suocera, si innamorasse di lui. Successivamente, Afrodite lascerà Fedra morire per via della sua passione inappagata.

Ragionevolmente, Fedra, vittima di questo amore, parla di eros come qualcosa che addolora, ferisce, ed eventualmente uccide (vv. 392-393.395; v. 349; vv. 419-420). Ippolito fu, dopotutto, solo una persona molto prudente. Non voleva avere nulla a che vedere con l’amore. Non voleva divenire un adulto e avere una vita sessuale. Voleva solo prendersi cura della sua vita spirituale e tuttavia nella furia che circondò la vita di Fedra egli fu accusato di averla violentata e di averla indotta a suicidarsi.

In un’altra storia infelice, questa dea della bellezza e della lussuria, Afrodite, si innamora di un umano, Anchise. Il povero mortale sapeva che nessun uomo poteva sopravvivere alla bellezza di una dea, ma sapeva anche che nessun umano poteva resistere a quella bellezza. Così, dopo aver dormito con lei, egli sopravvisse ma perse per sempre la sua abilità di camminare. Se si vuole vedere il bicchiere mezzo pieno, Enea, il semidio eroe di Troia e futuro fondatore di Roma, fu la prole generata da quella costosa unione.

 

Pensa a che tipo di amore vorresti attirare nella tua vita.

 

Perché sto scrivendo tutto ciò? Ritorniamo alla mia domanda precedente: che tipo di combinazione di amore vuoi ospitare nella tua vita, e sai quando dire basta?

Quando sento che i clienti sono abbattuti dalle loro esperienze in amore, li invito a riflettere su che tipo di amore vogliono attirare nelle loro vite. Talvolta comprendo che non hanno nemmeno mai pensato alla possibilità di varie forme di amore. Pensano al tipo di persona che vogliono attrarre ma non a che tipo di forma di amore essi desiderino per loro stessi.

Vogliono passione? Bellezza? Lussuria? Questo amore è fatto di discorsi persuasivi e parole lussuriose sussurrate come Hedylogos? Oppure è fatto di solidi propositi e fatti confortanti come Anteros? È la splendida Afrodite il componente principale di una vita sentimentale?

Nel libro Fedone, Socrate osserva che il desiderio (Imero) crea una gabbia in cui il prigioniero è “il principale esecutore del suo incatenamento”. Talvolta l’Amore, quello animato da un forte desiderio, può essere sentito come una gabbia che abbiamo costruito per noi stessi. Altre volte, se aggiungiamo un po’ di Armonia (la dea dell’armonia) a Imero (desiderio ardente), possiamo ottenere esattamente ciò di cui abbiamo bisogno.

Così, invito i miei clienti a pensare a tutti questi dei e dee come a un pantheon di ingredienti che possono esser usati coscientemente nelle loro vite. Potrebbe accadere che troppo Imero (desiderio lussuoso) sia distruttivo per una buona vita ma se correttamente mischiato con Hedylogos (il dio delle dolci parole sussurrate alle orecchie) e Anteros (il dio dell’amore reciproco) potrebbe farti felice.

Amore o proiezioni?

di Susi Ferrarello

(California State University – East Bay)

traduzione di Miriam Borgia

 

Quando l’amore è dare ciò che non possiedi a qualcuno che non lo vuole

“Ti amo”, diciamo, e “mi sento amato da te”. Anche se commoventi, queste frasi risultano anche piuttosto enigmatiche. La loro elusività diventa ancora più evidente quando si sente questa stessa parola sognante – amore – usata in contesti molto più umili: “mmm…amo quel gelato!”; “amo fare esercizio ogni giorno.” Oppure, in scenari più frustranti e paradossali: “mi ha detto che mi amava, eppure mi ha lasciata”; “la amo, ma non sono innamorato di lei”.

Ma allora come dovremmo prendere l’amore? Cosa significa quando qualcuno esprime amore per noi o per qualsiasi altra cosa nella vita? Come dovremmo risolvere la “x” in questa equazione? Indica una funzione, un limite, un significato?

L’amore è un limite

Lacan userebbe la nozione di limite per descrivere l’amore. “L’amore è dare ciò che non possiedi”, dice. Ci innamoriamo delle persone che completano i nostri difetti. La vita del nostro partner rappresenta per noi un esempio per lavorare sulle nostre parti incompiute, per superare i nostri difetti, e alla fine completarci. Dichiarare il nostro amore per qualcuno ci rende vulnerabili perché nel dire “ti amo” io dico ciò che non sono ancora e ciò che ancora mi manca per diventarlo: io cerco di dare ai miei partner proprio quello che non ho. Nel percepire i miei limiti, l’amore diventa una finzione in cui cerco di impressionare la persona da cui voglio imparare impersonando qualcuno che non sono. Per questo, credo, è molto tipico dei testi delle canzoni e delle poesie attribuire una certa qualità salvifica all’amore. Nel cercare di soddisfare le aspettative che penso che i miei partner abbiano su di me, mi salveranno. Diventerò una persona migliore. L’amore è mosso da questo forte desiderio per il miglioramento, per la trasformazione, per il raggiungimento di quel senso di salubrità che spesso sembra sfuggirci. Nell’amore, io regalo ciò che non possiedo perché mi illudo che nel fare ciò alla fine io possa superare i miei limiti e diventare completo. È qui che risiede la grande contraddizione dell’amore:

  1. Nel tentativo di diventarlo ci frantumiamo in tanti pezzi (tanti quante sono le persone per cui proviamo dei sentimenti)
  2. Nel cercare di avvicinarci ai nostri cari non cogliamo la loro vera natura

Quando amare significa perdere la persona che amiamo

Nella finzione dell’amore, infatti, spesso ignoriamo noi stessi e la responsabilità che abbiamo per il nostro stesso benessere, e chiudiamo un occhio sulla vera natura del nostro/i nostro/i partner e sui loro reali bisogni. Semmai, ci allontaniamo di più da noi stessi e dai nostri partner. In una complessa dinamica di sacrificio, ci allontaniamo dai nostri veri desideri per compiacere i nostri partner, i quali infine diventano il segno delle nostre proiezioni. Per questo motivo, continua così la celebre frase di Lacan: “amare è dare qualcosa che non si ha a chi non lo vuole”. Nel mio lavoro di consulente filosofico sento spesso che i clienti si sentono rifiutati dai loro partner. Quello che mi colpisce è che spesso non si rendono conto che sono loro che stanno rifiutando i loro partner. Quando mi trovo davanti a questi casi e percepisco il loro livello di frustrazione crescere rapidamente, chiedo loro: “Potete, per favore, dirmi chi è il vostro partner? Puoi, per favore, descrivermi che tipo di essere umano è il tuo partner nel mondo?” Spesso coloro che soffrono di più sono anche i più a corto di una risposta: non possono vedere i loro partner perché sono troppo dediti nel dare loro qualcosa che non hanno mai chiesto, ovvero una versione convincente di se stessi che li farebbe sentire meno incompleti e vulnerabili.

In questa contraddizione, l’amore diventa una gabbia in cui i partner si sentono invisibili l’uno all’altro e incapaci di essere se stessi. A questo punto non può aver luogo alcun apprezzamento reciproco genuino. In questa gabbia di dolore, come direbbe il platonico Socrate, il prigioniero è «il principale complice della sua schiavitù». Questa è la gabbia della nostra psiche. In ogni sua parte, ci scontriamo con la vergogna dei nostri stessi limiti e bisogni. Qui incontriamo il tipo di amore paradossale che ho riassunto sopra nella frase: “La amo, ma non sono innamorato di lei”.

Come possiamo rompere la gabbia dell’invisibilità?

Come lasciare questa gabbia? Invece di rigirarti nella stessa gabbia e sentirti incapace di essere te stesso e di connetterti veramente con i tuoi cari, il passo successivo sarebbe capire quale parte incompiuta di te sta parlando e cosa sta cercando. Dal momento che io stesso sono quello con cui trascorrerò la maggior parte della mia vita, vale la pena iniziare a creare un legame compassionevole con me stesso e assumermi la responsabilità dello spazio che posso creare dentro di me per il mio miglioramento. Io chiamo questo primissimo legame philia, una parola greca che indica un legame compassionevole primordiale e intimo instaurato, in primo luogo, con noi stessi. Quella è la porta per accedere alla realtà e dissipare i fumi di quelle proiezioni così intricate.

La frustrazione in amore è insopportabile perché ci parla dei nostri limiti. Qualunque cosa ci irriti nei nostri partner, non dice nulla riguardo loro ma parla piuttosto di noi stessi. Per tornare ai miei clienti, quando le domande che pongo fanno suonare la campana dei loro limiti, allora la domanda essenziale diventa: perché ho deciso di sposarla? Perché non sono capace di amare questa persona o, ancora di più, me stesso? Alcuni traguardi importanti in una relazione – avere figli, costruire una casa insieme, condividere il tempo insieme – potrebbero trasformarsi in un inferno in terra se non abbiamo trovato un modo per far fronte al nostro senso di limite e di vulnerabilità e al fascio di proiezioni che ne scaturisce. Anche espressioni apparentemente innocue come “amo quel gelato” possono diventare una fonte infinita di miseria se usiamo quel gelato come un modo per riempire il vuoto in noi.

L’amore, quello sano, parte da una connessione intima che possiamo stabilire con la nostra realtà e, attraverso di essa, con la realtà delle persone che amiamo.

Sesso – uno scherzo della natura

di Susi Ferrarello

(California State University – East Bay)

traduzione di Miriam Borgia

tratto dal blog psychologytogay.com

 

“Sesso” – una parola che si trova ovunque e può indicare qualunque cosa.

Pochi giorni fa mi trovavo un bar e ho sentito un ragazzo dire al suo amico “Hmmm…il tuo caffè è proprio sexy”.

Un caffé, sul serio?

Da italiana, rimango sempre colpita dall’uso esteso di questo termine. Ricordo ancora la sensazione di panico che ho provato quando un mio collega l’ha utilizzata durante un mio intervento ad una conferenza: descriveva il mio articolo come “sexy”. Cosa? Ho pensato, arrossendo e sorridendo nervosamente.

Ora lo capisco. Questa parola è oggi sinonimo di tutto ciò che è piccante, intrigante, vitale, dinamico.

 

L’etimologia

Ma se ripercorriamo le sue origini, questa parola così “sexy” è nata in un polveroso ufficio burocratico. “Sex”, dal latino sexus, deriva dal verbo secare, cioè “dividere o tagliare”, ed è correlato a “sezione”, ovvero a ciò che è diviso. Il latino utilizzava questa parola per indicare la qualità dell’essere maschio o femmina per suddividere la popolazione e censirla.

Tuttavia, l’uso contemporaneo di questa parola è piuttosto recente. D. H. Lawrence, nel 1929, fu il primo ad averla utilizzata in tal senso.

1000 modi per dire “ti voglio!”

Quindi, quali sono le parole che i Greci e i Romani utilizzavano per riferirsi all’amore sessuale?

Di certo, i Greci, più che i Romani, non erano a corto di parole quando si trattava di dire “ti amo” o, in questo caso, “ti desidero.”

Il verbo agape indicava un amore spirituale e incondizionato; stergoto indicava l’affetto; phileo, invece, un tipo di amore mentale relativo piuttosto all’amicizia; erao, infine, per l’amore intimo – quel tipo di amore accompagnato dal desiderio passionale.

È così affascinante! Nel mondo greco Eros indica la natura, è quel potere naturale che si impone sull’esistenza umana e ci richiama verso ciò di cui il nostro corpo necessita per stare in armonia con la natura, o meglio per essere un tutt’uno con la Natura.

Un esempio calzante: il satiro

Il satiro, metà umano e metà animale – stando alle descrizioni di Aristofane – era dotato di un’energia sessuale illimitata che cercava di soddisfare in qualunque modo e con “partners”, per così dire, animati e inanimati. Se ti capita di aggirarti in un museo sbadigliando e provato dal dolore alla schiena, osserva meglio i dipinti: sono come una doccia fredda.

Quei vasi erano le riviste per adulti dell’antichità. Piacevano così tanto ai Greci che su uno di questi vasi, custodito a Palermo (V, 651), si può notare un gruppo di satiri che si accoppiano con anfore e persino i vasi stessi. Il filologo Lissarague spiega questa scelta piuttosto discutibile sostenendo che l’anfora del vino era l’accessorio necessario del kōmos (un rituale per bevuta) e del simposio. Vino e sesso sono ciò che rende felice un satiro! Così il famoso detto “Afrodite kai Dionysos met’allelon eisi”, “Afrodite e Dioniso sono insieme”.

Certo, i satiri amavano anche le donne; quest’ultime, però, non ricambiavano affatto (il che spiega le anfore.) Come scriveva MacNally, il rapporto tra satiri e menadi (le seguaci di Dioniso, che erano, per definizione, un po’ eccentriche) iniziò amichevolmente tra il 550 e il 500 a.C., e poi, come molti rapporti amichevoli, “mutò” tra il 500 e il 470, diventando palesemente ostile dopo il 470. Le menadi, secondo Plutarco (Virtuous Women 12.249 sgg.), erano inviolabili – soprattutto, immagino, se si trattava di un branco di mezze capre che si avvicinavano a loro.

Ebbene, nonostante ciò, i satiri non si scoraggiavano: amavano anche gli uomini, naturalmente, e in questo caso avevano più successo. A differenza del resto della società greca, la differenza di età non li preoccupava affatto. Non importava se il ragazzo, l’amato, era più giovane (in effetti, di regola, lo preferivano così). C’è una tazza a Berlino (1964.4) – un’altra “rivista per adulti” – che mostra un gruppo di cinque satiri in piena frenesia erotica.

A loro difesa, i satiri non erano soli in questo desiderio travolgente. C’erano esseri umani che ne condividevano quella fame, e i più noti erano filosofi e poeti: entrambi disprezzavano Eros ma al contempo lo trovavano irresistibile. Nel suo Saggio erotico Pausania chiamava questa raffinata classe di gentiluomini “mostri di appetito”.

Socrate e il sesso

In particolare, la cricca di Socrate e dei suoi seguaci ha avuto molto da dire sull’argomento. Senofonte, il secondo più famoso discepolo di Socrate, racconta una conversazione che il filosofo ebbe con lui su un ragazzo particolarmente sexy. Socrate era irritato con lui perché stava usando la sua bellezza per sfruttare le persone, e per di più il giovane Critobolo, il suo discepolo preferito. Il ragazzo gli aveva infatti rubato un bacio e Socrate ne rimase così “filosoficamente” arrabbiato che lo invitò calorosamente a lasciare la città per un anno. Il suo bacio, borbottò Socrate, era velenoso come il morso di un ragno e ordinò a Senofonte di evitarlo ad ogni costo.

Socrate, d’accordo con Platone e Aristotele, considerava il piacere erotico divertente e necessario, ma occorreva maneggiarlo con cura. Il sesso puro è per le bestie, o per le mezze-bestie – i satiri –. I satiri sono stati inventati proprio per mostrare alla gente quanto fosse strambo un uomo completamente convertito alla natura. La passione bestiale – come scrisse Aristotele, il pensatore super equilibrato che si innamorò perdutamente del virile re Alessandro Magno (Plutarco, Le vite parallele) – è “serva e brutale”.

Il sesso, qualcosa di insidioso

Saffo – poetessa meravigliosa – definiva l’eros una “cosa insidiosa”. Conosceva benissimo l’amore erotico. In Afrodite immortale dalla mente scintillante scriveva:

“Se corre ora, seguirà più tardi, / Se rifiuta i regali, li darà. / Se non ama ora, lo farà presto Amore contro la sua volontà. ”

“Amore contro la sua volontà”. Mi sembra chiaro: ami qualcuno? Aspetta. Nessuno può resistere alla passione di essere amato. L’amore è più forte di qualsiasi cosa. Alcuni secoli dopo in Inferno, V, 103, Dante scriverà “Amor ch’ha nullo amato, amar perdona” aggiungendo, tre righe dopo, “Amor condusse noi ad una morte certa” (v. 106). “L’amore è natura e la natura è morte. Questa è l’equazione. Non puoi resistere alla tua natura, ma in qualche modo devi trovare un modo per farlo.”

La metafora dei due cavalli contenuta nel Fedro di Platone è una sorta di manuale d’istruzione per riuscire in questo tentativo. Per Platone, la nostra vita è sempre guidata da due cavalli, il bianco e nero, corrispondenti alla nostra passione e la nostra ragione. Non possiamo guidare solo uno dei due cavalli, o la nostra traiettoria sarebbe zoppicante. Il nostro compito è trovare il giusto equilibrio, o come diceva Aristotele, “il giusto mezzo”.

“Il desiderio raddoppiato è amore; l’amore raddoppiato è follia”

Come disse Prodico (un sofista del V secolo): “Il desiderio raddoppiato è amore; l’amore raddoppiato è follia”.

L’amore tra animali era ancora considerato “cool”, e l’amore per i vasi era ancora accettabile, ma quando si tratta di donne, attenzione!  Folle, distruttivo, pericoloso. “Il disastro memorabile”, scriveva Esiodo.

Sai qual è stata la punizione degli déi per gli uomini dopo che Prometeo ha dato loro il dono del fuoco, rubato agli immortali? La creazione della donna e dei suoi desideri! Sto ancora ridendo. Penso che questo possa darci un’idea di quanto i Greci fossero terrorizzati dalle donne!

Secondo Esiodo, dopo che Prometeo rubò il fuoco agli déi, Zeus diede inizio alla sua terribile vendetta: la creazione della donna a “somiglianza di una fanciulla timida”. Altri tre déi presero parte al complotto: Atena le insegnò l’arte domestica del ricamo e della tessitura (che noia); Afrodite le diede la persuasione e il potere di suscitare “desiderio crudele e cure divoratrici” (ora inizia a diventare interessante!); alla fine, Hermes, il dio del furto e dell’inganno, le ha dato una “mente da puttana e un carattere ingannevole… bugie e parole astute”.

L’incubo era confezionato. Questa bella creatura spaventosa, questa “trappola pura”, Pandora, fu pensata come l’antenata della “razza delle donne”, la “piaga degli uomini che mangiano il pane” (Esiodo, op. 105-120). Pandora, il prototipo delle donne, è la Natura pura, indomabile e attraente. Esiodo scrive che la sua bellezza sessuale (che ricorda il paradiso perduto) ritorna ogni primavera e che le sue passioni (distruttive come le forze inumane della natura) richiedono la “tecnologia” (sì, questa è la parola che usa!) del matrimonio per controllarla.

Insieme a Pandora c’era Helene, simbolo dell’essenziale ambiguità della donna e della bellezza sessuale divinamente incarnata nella sua protettrice Afrodite, e altrettanto distruttiva quanto la sua. Byron la chiama “l’Eva greca”, la causa della “caduta” della Grecia maschile. Homer la definisce per ben due volte “faccia da stronza”, aggiungendo anche l’onorevole aggettivo di “complotto malvagio”. Come mai? Il suo appetito sessuale non poteva essere facilmente soddisfatto e controllato dagli uomini. A volte succede…

La sua sorellastra, Klytaimestra, era un altro personaggio interessante. Incarnava – come scrive Eschilo (Oresteia) – “l’incessante scempio della passione femminile scatenata che attacca dall’interno degli ordini della famiglia e dello stato”. Era “il leone allevato come un animale domestico in casa… amante dei bambini e gioia per i vecchi”, quando era ancora giovane, ma poi contaminava la casa con il sangue, un “sacerdote della distruzione”, non appena la sua natura selvaggia affiorava.

Ti risparmierò il numero di volte che Homer la chiama “faccia da puttana”. Questa donna, guidata dalla forza più potente della femmina, un’energia sessuale amplificata da un senso di ingiustizia e disonore, ha ucciso la sua rivale Cassandra e il suo sposo Agamenone con un “cuore umano”, scrive Eschilo. Ed è persino più terribile di altre donne perché è una donna-maschio, la combinazione della “mente guidata dalla volontà dell’uomo” e della “passione sessuale della donna” che colludono per portare distruzione e morte.

Forse “la tecnologia del matrimonio” non ha funzionato così bene nel suo caso.

Tuttavia, l’elenco degli esempi spietati del potere erotico femminile è lungo. Mi fermo qui per scoraggiare ulteriori sentimenti misogini.

La parola “sesso” ha percorso una lunga strada, dall’ufficio polveroso dei burocrati assonnati fino al sangue che scorre nelle nostre vene umane.

Un anno di DAD

di Valeria Budassi, studentessa presso il Liceo Scientifico “Nomentano” di Roma

 

Nel mese di Marzo del 2020 è stato bloccato tutto a causa di un virus da molti sottovalutato, ma che ha ingenerato una pandemia ancora oggi in corso. Nessuno sapeva come affrontare la situazione, che ogni giorno si aggravava. Cosa fare? Si decise di chiudere tutto, provocando grande confusione nella vita di ognuno. Intanto la scuola che ha fatto? Questa è riuscita ad andare avanti usando la famosa DaD, la didattica a distanza, di cui tutti parlano ma che in pochi conoscono. Essa consiste nel trasferire le attività scolastiche dalla presenza al remoto, proponendo lezioni in videochiamata, compiti e test da fare su piattaforme online, ecc.

Certo, si è andati avanti, ma la mancanza di ogni contatto fisico, la diffidenza dei professori, il sentirsi all’improvviso sommersi di responsabilità non hanno fatto altro che acuire il vuoto e il senso di solitudine che la nostra generazione già sentiva pressante. Josè Saramago scrisse “la solitudine non è vivere da soli, la solitudine è non essere capaci a fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi”. Possiamo sentirci soli in mezzo a una folla di gente, accanto ad un amico e questo sentimento scaturisce dal non riuscire a sentirsi utile. Del resto un ragazzo come può sentirsi utile se è chiuso all’interno di uno schermo?

La DaD continua ad essere considerata un’arma ottima, la soluzione ad ogni problema didattico, peccato che chi l’ha vissuta affermi tutto il contrario.

Senza dubbio, la Dad è uno strumento adatto per far fronte a situazioni d’emergenza, ma solo se non durano a lungo perché nasconde molti pericoli. Innanzitutto, viene a mancare il rapporto fra studenti della stessa classe, è spaventoso pensare che alunni della prima media o del biennio al liceo non si siano mai visti di persona. Scegliere il proprio compagno di banco, scambiarsi le merende, parlare dei propri problemi e consolarsi a vicenda in caso in compiti in classe o interrogazioni, sono elementi sconosciuti a molti ragazzi e la loro mancanza ha ingenerato sofferenza in chi era abituato a vivere questi atti come propria quotidianità.  Inoltre manca il rapporto studente-professore. I docenti non si possono fidare di alcun alunno per via degli escamotages che offre il web. Anche in presenza, gli studenti sono soliti aiutarsi a vicenda durante i test, scambiandosi magari dei bigliettini contenenti dei suggerimenti, ma in questo caso chi suggerisce è internet, una fonte inesauribile e facilmente accessibile di sapere. Oltretutto, inquadrando solo alcune parti della propria stanza gli studenti riescono facilmente a consultare i propri libri di testo. Infatti si è diffusa presto l’usanza di far bendare i ragazzi durante un’interrogazione, per essere sicuri che non stessero leggendo, ma senza rendersi conto della violenza commessa.

Chi studia lo fa per avere un buon voto, chi copia lo fa per lo stesso motivo e a volte ai professori nemmeno interessa accertarsi che gli argomenti siano stati appresi, ma non perché siano cattivi insegnanti, anzi spesso succede ai migliori. Perché capita anche ai più bravi? Le risposte sono varie, ma la realtà è una: da uomini siamo passati ad essere macchine. Infatti è stato preteso dai professori di continuare a insegnare usando la Dad, senza considerare che avrebbero dovuto imparare in pochissimo tempo ad usare perfettamente programmi fino ad allora sconosciuti. Inoltre, hanno dovuto garantire una buona conoscenza degli argomenti trattati, ma allo stesso tempo tenere conto della situazione difficile vissuta dai ragazzi. Molti docenti hanno deciso di creare gruppi whatsapp con le proprie classi, altri addirittura hanno scelto di tenere il telefono acceso fino a tarda notte per essere fonte di supporto per i propri studenti. Altri invece sono crollati per il troppo peso che gravava su di loro, qualcuno non si collegava mai, qualcun altro se lo faceva si preoccupava solo delle videocamere accese, senza fare lezione ma continuando ad assegnare compiti in classe. Naturalmente, le lezioni in videochiamata non possono essere paragonate a quelle in presenza. In classe si costruiscono rapporti d’amicizia duraturi, si impara a rapportarsi con persone diverse continuamente e si viene a contatto con molteplici punti di vista su una stessa idea. Inoltre, nei migliori dei casi, si impara il valore della cultura. Philippe Daverio diceva “sono ancora convinto che la cultura salverà il mondo”.  Egli ne era convinto perché la cultura è l’unica vera garante di libertà. Ma la trasmissione della cultura non è permessa dalla DaD. La comprensione degli argomenti trattati non è mai totale, anche solo per i problemi tecnici, quali l’assenza di internet oppure microfoni o videocamere che non funzionano. Inoltre la situazione si complica trattando le materie scientifiche che necessitano un’attenzione costante da parte dello studente e pazienza e passione da parte dell’insegnate. Come si può rimanere concentrati anche solo un’ora davanti ad uno schermo in cui sono disegnate delle linee? Semplicemente non si può, anche perché i professori sono costretti a usare delle lavagnette digitali su cui è difficile scrivere.

Insomma la didattica a distanza è stata un modo per garantire lo svolgimento delle attività scolastiche durante la pandemia, ma è bene riflettere prima di considerarla come un altro modo di fare scuola. Essa può essere solamente uno strumento da usare in situazioni d’emergenza, ma non potrà mai sostituire la scuola, che è solo una, ossia quella in presenza.

Garantire l’accesso allo studio per tutti, non un reddito “scientifico”

*Perché non convince l’idea di Matteo Cerri e Valter Tucci di un reddito per i 18enni che si iscrivono a corsi di laurea scientifici.

Qualche giorno fa, il ministro dell’istruzione inglese del governo Johnson, Gavin Williamson, ha parlato di alcuni corsi di laurea che sarebbero “dead end”, delle strade senza uscita, perché lascerebbero gli studenti con un pugno di mosche in mano. Anzi no: con “nothing but debt”, con un mucchio di debiti da saldare. L’accusa non è stata circostanziata, ma è probabile che egli si riferisse agli “arts subjects”, visto che il suo ministero aveva, una settimana prima della dichiarazione, tagliato i fondi per essi del 50%. All’altro capo del Commonwealth, il governo australiano ha deciso, sul finire dell’anno scorso, di aumentare fino al 113% le tasse universitarie per i futuri studenti di diritto e humanities, con lo scopo di foraggiare le iscrizioni ai corsi di laurea nelle discipline Stem (Scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), per esercitare le quali il paese sarebbe bisognoso di importare manodopera, invece di generarla per conto proprio. Tanto è bastato per far aumentare la temperatura corporea dei cultori degli studia humanitatis, non solo nei paesi del vecchio Impero coloniale, ma anche nella provincia accademica europea, ormai assillata dal pensiero di non essere alla loro altezza, nonostante Dante, Proust e la grandiosa scienza naturale tedesca dell’800.

Quasi negli stessi giorni, il segretario del Pd, Enrico Letta, rilasciava una intervista al settimanale 7 del “Corriere della sera”, nella quale confermava la sua attenzione per i “giovani”, sostanziandola con la proposta di una dote per i diciottenni, capace di dar loro sollievo, nei diversi ambiti dell’esistenza, familiare, lavorativa, accademica. I più hanno discusso del modo attraverso cui Letta intenderebbe finanziarla, e cioè attraverso una imposta di successione sulle grandi fortune, dal milione di euro in su. Per gli egualitari si tratterebbe di un sacrificio che ormai i ricchi, diseguaglianze economiche crescendo, devono mettersi in testa di sopportare; per i disegualitari di una inaccettabile e per di più inefficace interferenza nel sacro recinto della proprietà privata.

Quel che forse è sfuggito è il senso politico della proposta: con essa, e con il proclamato impegno per l’estensione di alcuni diritti civili (il ddl ZAN) e politici (il voto ai sedicenni), si reitera l’obiettivo di arrivare alla maggioranza dei suffragi attraverso una strategia liberal, vale a dire la coalizione fra le minoranze (i giovani, la variegata galassia LGBTQ+ etc.), piuttosto che attraverso la via più diretta, vale a dire la ricerca della corrispondenza fra maggioranza politica e maggioranza economica e sociale, che imporrebbe innanzitutto e per lo più una redistribuzione a favore dei lavoratori. Le varie componenti “sinistre” del Pd hanno dimenticato di registrarlo, forse perché, persi nei fumi della sintesi fra socialismo e cristianesimo, non conoscono più l’abc non del comunismo, ma della socialdemocrazia.

Matteo Cerri e Valter Tucci fanno invece una sintesi diversa: quella fra la politica del governo Johnson in Gran Bretagna e la linea del segretario del Pd. Onde è approvata l’idea di imporre un sacrificio economico ai ricchi, ma solo allo scopo di finanziare un “reddito scientifico”, vale a dire “un reddito a quei 18enni che si iscrivono a corsi di laurea scientifici e che proseguano il percorso di studio con profitto”. Stupisce intanto che gli interventi economici a favore degli studenti, classicamente denominati “borse di studio”, vengano ribattezzati “reddito scientifico”. Ve ne sarebbe una ragione: la borsa di studio “è un sostegno allo studio, mentre lo stipendio ripaga lo studente meritevole del lavoro svolto”. Lavoro? Non si vuole scomodare qui Aristotele o Hegel, ma il lavoro è tale da produrre un oggetto, materiale o spirituale, separato o separabile dalla propria persona. Lo studio provvede invece a formare capacità, attitudini, disposizioni, inseparabili dalla propria persona [[1]]. L’economia di tipo moderno, il capitalismo, ne ha costitutivo bisogno, perché nel suo contesto non ci si limita ad acquistare valori d’uso già fatti e formati, potendoli al più solo assemblare; se fosse stato così, non avremmo assistito, negli ultimi tre secoli, a quel gigantesco aumento della produttività del lavoro che ha sconvolto le vecchie “economie di sussistenza”. Se, infatti, la riproduzione delle capacità fosse rimasta nelle mani della famiglia e delle comunità politiche o religiose, come era nei secoli precedenti, esse non sarebbero potute mutare in corrispondenza dell’applicazione della scienza e della tecnica alla sfera della produzione. L’istituzione moderna di un apparato scolastico funzionalmente differenziato è legata, insomma, alla formazione di una “persona”, libera ed eguale, la quale si affaccia sul “mercato del lavoro” potendo offrire generali capacità e non abitudini produttive trasmesse dalle generazioni passate.

Più in breve: Cerri e Tucci non colgono la differenza fra i requisiti funzionali del capitalismo e quelli dei sistemi economici e sociali che lo hanno preceduto. Per questo, ritengono che l’intento del “reddito scientifico” non sia nuovo e permetta di ricalcare “la modalità di vita dei giovani durante il medioevo. In quegli anni infatti era usanza che già a 10 anni si uscisse di casa per «andare a servizio» presso un’altra famiglia. Qui si attendeva alla vita domestica in cambio di vitto, alloggio ed un piccolo salario. Dopo alcuni anni, il giovane avrebbe cercato una bottega dove fare l’apprendista, ricevendo un piccolo stipendio in cambio della formazione. Poi, una volta ‘uomo’, forte di un piccolo capitale accumulato negli anni, e sufficiente per aprire una propria bottega e formare una famiglia, il giovane sarebbe stato pronto per la vita adulta ma anche per contribuire egli stesso alla società. Ed il ciclo della vita e della società sarebbe così ripartito”. Che fosse un ciclo che non prevedesse la libertà del lavoratore, congiunta alla formazione di un vasto patrimonio di conoscenza tecniche e scientifiche in perpetua trasformazione, e cioè che si trattasse di una società servile afflitta dalla stagnazione economica e culturale sembra non impensierire Cerri e Tucci, pur essendo scienziati impegnati nel costante rinnovamento delle applicazioni della scienza e della tecnica alla produzione.

L’indebita confusione fra la figura dello studente e quella del lavoratore, sottesa alla categoria di “reddito scientifico”, potrebbe apparire come un fatto nominalistico. Ma ha un sicuro scopo politico: promuovere la graduazione fra i corsi di laurea a seconda della percezione che essi siano più o meno “lavoro”. Il cuore della proposta di Cerri e Tucci sta, infatti, nello spostamento di un ampio contingente di risorse destinate alla formazione universitaria qua talis verso gli iscritti ai corsi di laurea “scientifici”. Ma in un paese come l’Italia, dove la quantità, oltre che la corposità, delle borse di studio è ancora fortemente insufficiente – lo rivela la figura, non ancora scomparsa al Sud, degli idonei alle borse di studio non beneficiari – e la residenzialità studentesca ancora scandalosamente ridotta (e oggi peraltro preda di operazioni immobiliari dal dubbio carattere), proporre un tale smistamento delle risorse significherebbe semplicemente proibire alla totalità degli studenti di scegliere come e in quale disciplina proseguire la propria formazione.

Se le condizioni di base per garantire tali scelte fossero assicurate, si potrebbe contemplare un’ulteriore incentivazione per quei corsi di laurea, oggi particolarmente importanti per lo sviluppo delle forze produttive, la cui attrattività risulta ancora troppo bassa. In assenza di tali condizioni, ogni altro intervento creerebbe un privilegio, alimentato da un’ingenua, e anche un po’ rozza, forma di autoritarismo culturale. Il modello di università democratica, e cioè sia di massa sia di qualità, che è disegnato dall’art. 34 della nostra Costituzione (“La scuola è aperta a tutti… I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”), ne uscirebbe distrutto.

 

*Articolo riprodotto con la gentile concessione di MicroMega. Originale al link: https://www.micromega.net/reddito-scientifico-perche-no/amp/

 

NOTA

[1] L’apprendimento rende infatti provvisori e revocabili tutti i “prodotti” del lavoro mentale e manuale, che così non acquistano mai una reale separatezza (per cui gli studenti giocano, fanno esercizi, fanno prove in laboratorio etc.). All’università, il glorioso istituto italiano della “tesi di laurea” è considerabile come il primo vero oggetto prodotto dal lavoro spirituale degli studenti, ideale transizione al mondo extra-accademico.

La scuola ci salverà

di Ivana Zuccarello

“La scuola ci salverà” è un libro che si fa carico di una promessa: rischiarare un orizzonte fosco sulle sorti della scuola italiana nel futuro. Eppure, in questo suo ultimo lavoro, Dacia Maraini semplicemente racconta il presente, lo stato dell’arte delle scuole nelle quali è entrata da scrittrice, da studentessa, da cittadina e forse anche da madre mancata.

Il suo è un reportage giornalistico ma anche una rubrica del cuore in cui memoria, storie, testimonianze, denunce e speranze s’incrociano, per portare alla luce l’unica questione dirimente, quella che trasforma l’asserzione ottimista dell’autrice nel dubbio sottinteso di chi legge: “Ma la scuola si salverà?”

Sono in tanti oggi a chiederselo, soprattutto fra gli insegnanti che, come scrive l’autrice, sostengono la scuola spesso da soli e interamente sulle loro spalle come vecchi, ma indefessi, Sisifo. Colpisce la dimensione etica, e quindi, politica della questione affrontata con i toni tenui di chi osserva dall’alto ma ascolta dal basso; pertanto, il linguaggio è semplice e, mi piace pensare, volutamente democratico poiché quando si parla di scuola non si può che essere inclusivi.

Tre parole più di altre affiorano dagli articoli editi e inediti raccolti negli anni dalla Maraini sulle pagine del Corriere della Sera e qui pubblicati: Futuro, Etica, Affetto e, purtroppo, di esse non si trova traccia né nei Piani dell’offerta formativa degli Istituti, né nelle riforme scolastiche degli ultimi decenni.

Ad oggi, inoltre, non solo “nessuno ha mai composto una mappa dell’eccellenza scolastica, fuori dai giudizi stereotipati” ma si rischia anche che la ridondante richiesta di meritocrazia che proviene dalla società prima e dagli studenti, poi, rimanga inevasa.

L’idea della Maraini, quindi, è che la scuola come istituzione sia effettivamente ridotta in pezzi, ma che in essa resista una rete di insegnanti-servitori preparati e appassionati che, come il leggendario Colapesce, restano sommersi e in apnea a reggere il peso di fondamenta cedevoli.

Questi insegnanti poco pagati, ma soprattutto socialmente poco stimati, allora, vogliamo ringraziarli? Vogliamo formarli adeguatamente? Vogliamo pagarli meglio?

E, infine, vogliamo valutarli? Sì, perché “da un buon insegnante possono nascere decine di ragazzi ben preparati ad affrontare il futuro”, mentre un cattivo insegnante può rovinare per sempre la mente e la sensibilità culturale di generazioni di giovani.

Qui, però, siamo ben lontani dalla retorica (un po’ francese) dell’insegnante eroe e perno della società civile: emerge dalle righe dedicate dall’autrice alla sua infanzia scolastica un teatro di maschere-docenti, anche mediocri, talvolta anonimi, ma descritti con la clemenza di chi sapeva guardare altrove anche senza e nonostante la scuola.

Lo sguardo degli studenti resta, infatti, lo specchio più autentico, l’unico che occorrerebbe tenere sempre davanti; e allora ai giovani la Maraini dedica parole di un amore che è agàpe e che ci ricorda la scuola di Barbiana, soprattutto nella misura in cui dà testimonianza di alcune realtà scolastiche, a volte piccole e spesso periferiche, tutte caratterizzate dalla costruzione di un riconosciuto legame umano tra insegnanti e alunni.

Si può essere certamente tentati di accusare l’autrice di “indulgente ottimismo”, come lei stessa denuncia, perché la scuola che racconta sembra essere la panacea di tutti i mali (dal bullismo al femminicidio). Ma come si può negare che nella sostanza stessa dell’educazione stia il seme che generi una società sana? Lo sostenevano Platone e molti altri e, tuttavia, qui la questione è diversa, si tratta dell’implicita richiesta di regole, e quindi di politiche, che rimettano in sesto il sistema scolastico aldilà di ogni palingenesi pedagogica, la cui necessità è altra faccenda.

Chiudono il libro tre racconti straordinari: L’esame; Berah di Kibawa; Il bambino vestito di scuro.

Il filo rosso che li unisce è sempre la scuola, che entra a gamba tesa nel tempo dell’esistenza. Talvolta come pesante verdetto di fallimento mentre la vita ci forma altrove (L’Esame); a Kibawa, invece, dove la scuola non c’è, diventa necessaria, e il desiderio di istruzione si fa motore di un viaggio che salva la vita. Infine, venuto fuori da uno spazio-tempo che solo i libri di filosofia hanno il privilegio di rivelare Il bambino vestito di scuro, il più misterioso dei personaggi di questi racconti, sembra suggerirci che altrettanto misteriosa è la ragione che ci lega così profondamente alla scuola.

Che sia forse davvero (dal greco scholé) il tempo in cui per la prima volta siamo stati liberi?

Lev Tolstoj – La morte di Ivan Il’ic

I ragazzi del Liceo Benedetto da Norcia di Roma vi danno appuntamento all’incontro della rubrica #Alcibiade dedicato a “La morte di Ivan Il’ič” di Lev Tolstoj. Dialogherà con loro Davide Fischanger, curatore di progetti di lettura in scuole e biblioteche.

La morte Ivàn Il’íč di Lev Tolstòj. Appunti di lettura

1
Nel primo capitolo de La morte Ivàn Il’íč di Tolstòj, nel primo dei movimenti (in senso musicale) che compongono questo sottile e misterioso racconto, non sono presenti, a rigore, né la morte né Ivàn Il’íč. La morte del protagonista è già avvenuta e, di questi, è solamente esposta – solenne, pacificata – la salma. La morte, al più, in questa sezione del racconto, è una notizia, giunta attraverso il giornale ai colleghi dello scomparso. In quanto notizia, essa genera delle reazioni individuali che si conformano alla manifestazione mondana del lutto, alle regole da mantenere in questi casi: neppure i segreti pensieri di avanzamento di carriera, che i colleghi si aspettano dalla fine di Ivàn Il’íč, si sottraggono a questa legge di conformità, a questa prevedibile ritualità.
La morte è anche un apparato, un allestimento, una recita: prevede un sistema di frasi di circostanza, una chiave di lettura del senso implicito di alcune espressioni, tanto di quelle di pena quanto di quelle di conforto, uno scambio di gesti che corrisponde ai codici di comportamento concordati e a tal punto introiettati da apparire perfettamente naturali. L’evento della morte di qualcuno, di ciascuno, è il motore di una meccanica commedia funebre a parti fisse: i colleghi, la vedova, i familiari, la servitù; il posto libero, la pensione, il cordoglio, i costi delle esequie.
La morte è anche un odore, il più terribile, il più indecoroso, ma da cui ci si allontana con rapidità, una volta espletati i riti previsti. Questo racconto è anche un balletto di personaggi che si allontanano.
Si intuisce che la morte è un grande Altrove, eppure il brulicante tumulto dei sopravvissuti, degli eredi come dei conoscenti, è dominato da un piccolo altrove, dal desiderio di non esser lì: ma si intuisce che anche questo piccolo altrove (il gioco delle carte, il teatro, l’ufficio) sia un espediente provvisorio. Non si sa bene, a pensarci, dove vorremmo stare, dal momento che, prima o poi, ogni luogo viene a noia, ogni interlocutore è di peso, ogni distrazione è sopraffatta dallo scorrere del tempo.
Ma il motivo segreto di questo primo movimento non sembra essere, o almeno non sembra soltanto, quello di una satira di costume. Si avverte un’altra necessità strutturalmente connessa alle ragioni di efficacia e persuasività del testo. Questa necessità è la distanza: il procedere da un punto lontano, quando tutto è già compiuto e irreversibile. Il procedere su una materia già fredda, inerte, come il cadavere di Ivàn Il’íč. Un cadavere non parla, un cadavere non fa smorfie. “Dall’alba della sua giovinezza l’uomo sprofonda nelle parole e nelle smorfie” scriverà Witold Gombrowicz, cinquant’anni dopo, in Ferdydurke. La prima parte del racconto tolstojano inaugura una fenomenologia (o una semiologia) delle smorfie, delle parole e dei loro sottintesi; un lavoro di primi piani (volti, schiene, mani), di inquadrature ravvicinate, allo stesso tempo proiettato davanti agli occhi del lettore come se provenisse da una remota sorgente di luce livida. È necessario che sia così, perché da questo momento in poi il piano dell’azione e dello sguardo non può che scendere, non può che calarsi nel racconto di una vicenda e accompagnarsi all’umano che di questa vicenda è emblema.

2
Quello che si diceva del giovane Ivàn: la phénix de la famille.
La medaglia appesa alla catenella che decora il suo nuovo abito da funzionario: Respice finem, recita il motto inciso sopra.
Essere portatori di equivoci (e ironici) segni di appartenenza. Alla morte.

3
La vita di Ivàn Il’íč, ci viene detto, era stata delle più semplici e delle più orribili. È uno di quei procedimenti tolstojani che ci sembra a prima vista del tutto evidente, ma conserva (ed è bene che sia così) un fondo di ambiguità. Cosa vi è di veramente orribile in una vita comune? Da dove nasce e in quale punto di un’esistenza normale, come quella del quieto giudice istruttore, può dirsi che questo orrore germini e si manifesti? Un velo di calcolata incertezza è sospeso tanto per chi legga questo racconto per la prima volta quanto per chi lo abbia assimilato in più occasioni e ne abbia introiettato le valenze filosofiche e morali. Si intuisce che la cifra di questo orrore stia proprio nella normalità (e quindi nella sua esemplarità da Everyman in veste borghese) di Ivàn Il’íč, ovvero nel sistema fittizio di convenzioni su cui questa normalità poggia, ma non possiamo essere sicuri che l’orrore non si riferisca anche alla sua malattia, alle forme della sua sofferenza e alla sua conseguente iscrizione alla categoria dei reietti, se non alla definitiva disperazione e all’abisso spirituale in cui il protagonista precipita fino a pochi secondi dal suo estremo respiro. E se orribile fosse la condizione umana tout-court, determinata sempre e soltanto da scelte irrevocabili, da strade non prese, da occasioni perdute?

4
Il colpo subìto al fianco, perno narrativo che sconvolge la vita del protagonista e fa ruotare l’intera vicenda, raggiunge Ivàn Il’íč al culmine della sua carriera, di una carriera tutto sommato modesta che dà accesso a un tranquillo benessere e a un sistema di utili relazioni sociali. È probabile che l’ultimo (e insperato) avanzamento di carriera sia, più o meno, il traguardo professionale più alto a cui il protagonista possa aspirare. Anche la cura di Ivàn Il’íč nell’arredare personalmente l’ ambìto appartamento pietroburghese rivela che, per costui, questa non possa che essere la dimora definitiva. Ecco perché la sua angoscia è tanto più elementare e orribile. Se il protagonista avesse consapevolezza di poter aspirare a più alti successi, a una maggiore gloria, la sua disperazione sarebbe da attribuire al pensiero di quanto gli resti da fare: verrebbe proiettata così su uno sfondo quasi eroico. Ma il pensiero di Ivàn Il’íč è tutto rivolto a una posizione conseguita e, mano a mano che il decorso della sua malattia procede, i sentimenti del protagonista si orientano più al passato che al futuro. Al futuro è demandata la speranza di una guarigione. Possiamo chiamarla speranza ma anche superstizione: in entrambi i casi, si tratta di sentimenti ancorati alla duplice e ossessiva decifrazione degli arcani medici e dei segnali del corpo.

5
Di cosa muore infine Ivàn Il’íč? Neppure di questo abbiamo particolare certezza. Egli urta con violenza contro un mobile. Dai giorni successivi, che coincidono con l’arrivo e l’insediamento del resto della famiglia nella nuova abitazione, cominciano a manifestarsi i segni del malessere. Un colpo violento, uno stato morboso e i molteplici consulti dei dottori. Le contraddizioni dei responsi, i silenzi. Le analisi. Forse il rene mobile, forse l’intestino cieco. L’attenersi disincantato alle prescrizioni e all’ottimismo incontrovertibile della scienza medica.
Non è possibile sapere di cosa muoia. Non dobbiamo saperlo. Se lo sapessimo con certezza, saremmo portati a pensare che a noi non può accadere. Che potremmo morire in molti modi ma non di quella malattia. Attiveremmo dei meccanismi di difesa, ci sentiremmo affidati al mondo dei sani, confortati dal fatto di esserlo o di essere un po’ meno malati del protagonista. L’incertezza delle diagnosi è un espediente narrativo, certo un po’ crudele. È quell’opacità che frustra nel lettore il desiderio di trasparenza: quella trasparenza (è la malattia della letteratura contemporanea) che trasforma i lettori in moralizzatori con l’istinto dei voyeurs.

6
Si legge e si accredita un po’ ovunque che Gerasim, il servo che tiene sollevate le gambe di Ivàn Il’íč, per offrirgli un notturno sollievo, sia l’unico personaggio positivo del racconto. Di Gerasim sappiamo che è un servo contadino trasferito in città, è giovane, è sano, è ben pasciuto. Appare di sfuggita nel primo capitolo, si intrattiene con Ivàn Il’íč nelle fasi in cui la malattia isola costui dal contesto familiare e sociale, gli offre la propria opera con pazienza e gaia generosità. Non appare né è nominato nell’ultimo capitolo. Non sappiamo nulla della sua vita e della sua famiglia, non sappiamo come morirà, se anche lui in mezzo a brucianti sofferenze fisiche e morali o se accompagnato dalla stessa mitezza manifestata nei confronti del suo padrone. È un personaggio letterario, del resto. Vive per il tempo esatto in cui rimane in scena. Ci piace perché è giovane, perché è del popolo. Tolstoj arriva sull’orlo preciso di una descrizione di Gerasim venata di populismo (nell’accezione storica del termine), ma per fortuna se ne trattiene. L’idealizzazione appartiene più allo sguardo del lettore che dell’autore.

7
Philippe Ariès, in Storia della morte in Occidente, cita il racconto di Tolstòj come documento di storia della mentalità, come attestazione di un passaggio decisivo nella percezione di malattia e morte nella società occidentale moderna. A proposito della condizione del malato, illumina: “A poco a poco egli [Ivàn Il’íč] viene spogliato della sua responsabilità, della sua capacità a riflettere, a osservare, a decidere, è condannato alla puerilità.”

8
Capire il mistero de La morte di Ivàn Il’íč. Avvertire come ogni singola frase del racconto, ogni snodo, ogni dialogo, ogni personaggio compongano un emblema complessivo della condizione umana, ma senza intenzioni edificanti. Avere anzi l’impressione che, a coglierne tutte le implicazioni (ma dopo quante letture?), la coscienza di un lettore autentico non possa non comprendere qualcosa di necessario e terribile e trarne le inevitabili conseguenze. Ma comprendere cosa? Probabilmente che la morte eccede ogni elaborazione concettuale e ogni espressione linguistica. Probabilmente che anche un racconto perfetto, come quello che abbiamo sotto gli occhi, può arrivare sino a una soglia, farsi massa critica della soglia stessa ma non può riuscire a superarla. Ivàn Il’íč è vivo, fino al punto conclusivo del racconto. Poi comincia l’oltre della pagina bianca. Può la letteratura, può l’arte sottrarsi ai suoi stessi principi costitutivi? Per natura la rappresentazione non può accedere all’Irrappresentabile: deve accontentarsi di emblemi, metafore, finzioni. È come se il racconto avesse due lati, uno aperto verso la vita (e il morire che le è connesso) e uno verso la morte. Il primo brulica di parole, speranze, intenzioni, dolore, inconcludenza, successi, rimpianti. Il secondo è privo di immagini, di parole, di pensieri, eppure la sua semplice evocazione basta a mettere in scacco le pretese di autenticità del primo. Eppure, direbbe Vladimir Jankélévitch, “è la morte a dar senso alla vita, proprio sottraendole tale senso. Essa è il non-senso che dà un senso negando questo senso”.

9
Le prugne francesi, “crude e grinzose” dell’infanzia di Ivàn Il’íč. Verrebbe da associare quel ricordo al professor Isak Borg, al posto delle fragole e all’ultima sequenza dell’omonimo film di Ingmar Bergman. L’infanzia come radice di tutte le possibilità. E aggiungo: non di ciò che è dolce ma di ciò che è acerbo sono fatte le promesse dell’infanzia. La fresca asprezza di un frutto come nucleo originario di tutte le promesse destinate a fallire.

10
I quattro movimenti musicali di questo racconto. L’esordio con la notizia della morte e le esequie. Il riepilogo della tranquilla e convenzionale vita del nostro eroe. L’insorgere dei sintomi della malattia e la progressiva consapevolezza della fondamentale finzione dell’esistenza. E infine: i tre giorni (con evidente corrispondenza cristologica) dell’agonia.
Il suono di questa agonia è un ululato ininterrotto. Questo suono sgretola le strutture del linguaggio e dei suoi significati, è il correlativo fisico (ma di segno opposto) della voce interiore che ha interrogato Ivàn Il’íč nelle ultime settimane della sua malattia, smontandone convinzioni e illusioni. Dentro all’urlo dell’uomo parole e intenzioni si deformano (“Voleva ancora dire «perdonami» [in russo: prostì], ma disse «lascia andare» [in russo: propustì]”), subiscono una torsione dentro la quale non è escluso che sia nascosta la vera natura del linguaggio. Questo urlo è quanto di più lucido e vitale e sconveniente il malato possa compiere. È sconveniente perché non lascia in pace gli altri abitanti della casa, ne turba il decoro; è necessario perché guida il morente a una nuova e decisiva consapevolezza. Doppio è il viatico a questa consapevolezza: prima, la visione del figlio, disperato e inerme di fronte al dolore del padre, di quel figlio così simile a lui da adolescente. E poi, quell’ È finita, pronunciato da qualcuno sopra di lui, che dà luogo all’ultimo malinteso: quell’ È finita la morte, la morte non esiste, che Ivàn Il’íč pronuncia dentro di sé. Malinteso benefico, ma pur sempre malinteso, a conferma dell’inadeguatezza di quel linguaggio che è pure l’unico modo che l’individuo ha per testimoniare la sua presenza e la sua giustificazione al mondo.

11
Si possono portare alcune visioni verso estreme conseguenze. “È come una vita tra le quinte” scrive Franz Kafka in un frammento. E poi evoca la possibilità di un’evasione, attraverso fondali e attrezzi di scena, fino al vicolo adiacente al teatro “stretto, umido, buio”: il Vicolo del Teatro, appunto. Esso è reale e ha “tutte le profondità del vero”. Eppure, si può notare, esso è talmente vicino al Teatro da portarne ancora il nome. E chi ci può assicurare, aggiungo, che dal teatro non si sia evasi verso una finzione ancora più reale? O che dal vicolo non si possa evadere verso un’altra realtà ancora più profonda e da questa verso un’altra ancora?

12
Vi dovrebbe essere un quinto movimento, da qualche parte, oltre il punto finale del racconto. Ma già l’espressione “da qualche parte” risulta incongrua rispetto alla morte intesa come alterità assoluta e irrappresentabile. Bisognerebbe immaginarlo come il silenzio, mai udito da alcuno, che sovrasta una terra di nessuno dopo la furia del combattimento. Ma anche questa è solo una metafora.

Testo di riferimento utilizzato: Lev Tolstòj, La morte Ivàn Il’íč e altri racconti, a cura di Igor Sibaldi, Mondadori, Milano, 1999.
Altri autori citati
Witold Gombrowicz, Ferdydurke, a cura di F. M. Cataluccio, trad. I. Salvatori e M. Mari, Il Saggiatore, Milano 2020
Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, trad. Simona Vigezzi, Rizzoli, Milano 1978
Vladimir Jankélévitch, Pensare la morte?, a cura di Enrica Lisciani-Petrini, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995
Franz Kafka, Frammenti e scritti vari, trad. Italo A. Chiusano e Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1989