Henrik Ibsen – Casa di bambola
A partire dal capolavoro di Ibsen, “Casa di bambola”, la scrittrice Antonella Nocera dialoga con due studentesse liceali sul ruolo della donna nella società borghese.
A partire dal capolavoro di Ibsen, “Casa di bambola”, la scrittrice Antonella Nocera dialoga con due studentesse liceali sul ruolo della donna nella società borghese.
Incontro dedicato a “Lo straniero” di Albert Camus, con i commenti di Francesca Pesce (Liceo Benedetto da Norcia – Roma), Valentina Paloni (Liceo Benedetto da Norcia – Roma) e Luca Millozzi (Liceo Spallanzani – Tivoli). Interverrà Antonina Nocera, saggista e critica letteraria (di recente ha pubblicato “Metafisica del sottosuolo”, 2020).
di Anna – Studentessa liceale
9/03/2020, data fondamentale da ricordare poiché l’istituzione scolastica italiana si è fermata a causa dell’emergenza sanitaria più problematica del ventunesimo secolo.
Siamo stati tutti catapultati in una situazione di indubbio disagio, in cui nessuno sapeva come comportarsi e come sfruttare al meglio i molteplici (forse troppi) strumenti telematici che ci erano prospettati. Timore e totale disorientamento segnavano intere giornate passate in isolamento. Noi studenti abbiamo unito le forze e attinto alle nostre risorse per continuare il percorso scolastico al quale abbiamo, pur sempre, diritto, rivoluzionando il concetto classico di “scuola”, mettendo in discussione tutti i valori precedentemente acquisiti.
La domanda che sto per porvi richiede, per la risposta, un profondo esame di coscienza, la più sincera presa d’atto degli effetti delle decisioni prese: vi siete mai soffermati ad analizzare lo stress emotivo, e altrettanto psicologico, a cui siamo stati sottoposti?
La didattica a distanza ci ha segnato particolarmente, ma la peggiore esperienza è stata, ed è tutt’ora, la mancanza di comprensione da parte di persone che consideravamo quasi alla stregua di “modelli di vita”.
Sin da bambina, ero incuriosita da tutto ciò che mi circondava, dalle matite colorate che mia mamma riponeva nel mio zaino ogni mattina, alle singole storie che la mia insegnate era solita raccontare. La scuola è sempre stato un luogo in cui, ai miei occhi, era assente l’ignoranza (il male peggiore che possa esistere, a parer mio) e, soprattutto, la paura di essere incompresi.
15/09/2020, il Governo italiano afferma di aver lavorato incessantemente durante il periodo estivo ed è pronto a riaprire le scuole della penisola. Risultato? Tempo due mesi e sono stati costretti a richiudere; siamo punto e a capo. Sorpresi? Neanche noi.
Eravamo convinti di saper lavorare con questa dannata DAD, eppure riscontriamo gli stessi, identici problemi iniziali: scarsa connessione, problemi tecnici di ogni tipo, diminuzione della concentrazione e della voglia di continuare con questa, permettetemi di dirlo, inutile modalità. Ripeto, siete sorpresi?
Abbiamo difficoltà a farvi capire che ci sentiamo lasciati quasi allo sbando, quei “modelli di vita” di cui parlavo hanno ormai come unico obiettivo quello di farci ingurgitare più nozioni possibili, per poi farcele recitare a loro piacimento.
Eravamo coscienti di entrare in una scuola dove non c’è posto per la pigrizia e la non curanza per gli studi, certo, ma se avessimo saputo che il livello di comprensione umana sarebbe stato praticamente nullo, illustri professori, avremmo riconsiderato le nostre scelte. Non fraintendeteci, siamo fieri del percorso che abbiamo intrapreso ed essendo giunti quasi al termine di questa esperienza, non vogliamo lasciare questo ambiente così come lo abbiamo trovato. Proprio per questo vi chiediamo, ora, in questo momento così delicato, di seguirci nell’essere il cambiamento in cui tutti noi, ancora, crediamo.
La scuola non può essere un luogo in cui ansie e paure regnano sovrane, ma un posto in cui la curiosità non trova confini e l’educazione e il rispetto per il prossimo devono essere all’ordine del giorno.
Cercate di comprendere le nostre necessità, senza annientare le nostre capacità personali, e vi assicuro che non ci sarà spazio per future incomprensioni, poiché, con la giusta benevolenza, non avranno modo né luogo di esistere.
di Ettore Rocchi e Sara Peluso
La pandemia ha alimentato in questo periodo una latente ideologia antiscientifica che da anni serpeggiava nel nostro paese. Non c’è da stupirsi. Da decenni, ormai, i governi tagliano su istruzione, università e ricerca. L’italiano medio si affida a blog a dir poco imbarazzanti per farsi un’idea. L’ultimo dei cialtroni ha la stessa visibilità sui social di un premio Nobel. Anzi, ne ha molta di più perché, rispetto a un premio Nobel, ha molto più tempo da perdere. L’analfabetismo funzionale ha raggiunto livelli da primato europeo. L’analfabetismo scientifico è diffuso come mai, probabilmente, prima d’ora e come in nessun’altra nazione del mondo occidentale. Ci mancava solo la pandemia per dare il colpo di grazia all’immagine che la scienza ha prodotto nei quattro secoli dalla rivoluzione scientifica.
E veniamo al punto dell’immagine che la scienza ha dato di sé in questo frangente. Iniziamo col dire che la scienza ha un metodo e dei tempi che non sono adatti alle emergenze. E quindi per questo è fallimentare? No. È pur sempre il metodo migliore che abbiamo per conoscere. Semplicemente, ha modi e tempi incompatibili con delle risposte immediate. Un modello scientifico nasce da osservazioni che richiedono tempo, deve essere costruito con un lavoro paziente, e soprattutto deve essere validato: tutto ciò costa denaro, risorse umane e soprattutto tempo. E quando anche sia validato, questo sarà in grado di fare predizioni solo finché la situazione rimarrà costante, stabile (ci riferiamo soprattutto ai famigerati modelli matematici). Al cambiare delle condizioni, cambieranno modelli e previsioni. Dunque, è lecito che il non addetto ai lavori si chieda: “a cosa serve un modello che descriva l’andamento dell’epidemia?”.
Su questo bisogna essere molto chiari. Un modello epidemico serve a due cose. La prima è che ci aiuta a capire la dinamica epidemica. E quindi la modalità di trasmissione del virus. Se si costruisce un modello che risponde bene alle osservazioni sul campo, allora questo significa che gli assunti biologici che sono stati postulati come base teorica del modello sono veri (o, più propriamente, compatibili coi fatti osservati). Conosceremo meglio, quindi, le modalità dell’infezione. Poi, un modello serve a fare previsioni. Ma le previsioni saranno valide esclusivamente se la situazione – e di conseguenza i parametri del modello – rimarranno inalterati. Quei parametri che dipendono esclusivamente dalle caratteristiche biologiche del virus certamente lo rimarranno, a meno di mutazioni virali, appunto. Ma i parametri di infettività, ciò che viene definito come la forza del contagio, dipenderanno – oltre che dalle caratteristiche intrinseche al virus – fondamentalmente dalle politiche di contenimento. Insomma, nessun modello che sia valido durante un lockdown potrà essere valido anche in fase di riapertura. Purtroppo, come si diceva, la scienza ha dei tempi lunghi.
E ha dei tempi ancora più lunghi per lo sviluppo di terapie e di vaccini, che sono approvati dalle autorità competenti solo dopo un’attenta valutazione della sicurezza e dell’efficacia. Quindi, rinunciamo alla scienza? Volentieri, se ci fosse un’alternativa più efficace. Però chiediamo che l’efficacia di un metodo alternativo non sia stabilita su base dogmatica, ma suffragata dall’impietoso vaglio dei fatti. Se dovessimo scommettere, noi siamo convinti che tale alternativa non esista, semplicemente. E certo non si trova in alghe magiche, lieviti, e in tante altre intuizioni mediate dai social, le più sgangherate e prive di fondamento.
Parafrasando Churchill e la sua celebre affermazione sulla democrazia, potremmo dire che la scienza è la peggior forma di conoscenza, eccetto per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora. È un metodo che richiede pazienza, che richiede verifiche, osservazioni che confermano le ipotesi, correzioni di queste ipotesi sulla base delle osservazioni. E tutto questo può apparire incompatibile con un’emergenza. Ma se oggi, a distanza di pochi mesi, siamo in grado di proporre dei protocolli terapeutici, per quanto non completamente risolutivi, lo dobbiamo al metodo scientifico. E se, tra qualche tempo, avremo una terapia specifica ancora più efficace e, auspicabilmente, un vaccino, lo dovremo alla scienza. Allo stesso modo in cui oggi abbiamo terapie che hanno sostanzialmente azzerato la spaventosa letalità da HIV degli anni ‘80. Se ne ricordi, chi oggi biasima la scienza.
Discorso differente meritano gli scienziati. Inutile dire che c’è stata una miserevole corsa alle apparizioni televisive e alle concioni, spesso propinate con un tono profetico che poco si addice alla scienza. Dovrebbe essere chiaro a tutti che in questi casi non parla la scienza, parlano uomini. La scienza si fa nei laboratori e si legge sulle riviste scientifiche. Scomodo? Magari sì, per un giornalista medio. Poco spettacolare? Certamente sì, per un tycoon televisivo. Ma così è, che ci piaccia o no. E persino le riviste scientifiche, lo abbiamo visto, sotto pressione possono commettere degli errori. Anche in questo caso, la fretta non è una buona consigliera.
Ma biasimare la scienza per il comportamento a volte sconsiderato di qualche scienziato, non è una mossa saggia. La scienza si basa sui fatti e, come diceva Demmings, “senza dati sei soltanto un’altra persona con un’opinione”.
La scienza, in questa circostanza, l’hanno fatta anche i medici in prima linea, quei medici che sono stati abbandonati dalle istituzioni e che hanno dovuto barcamenarsi tra le informazioni spesso veicolate da un passaparola personale e sorretti da un’etica della responsabilità, senza alcun coordinamento ministeriale (che, lo ricordiamo, a tutt’oggi non ha emanato protocolli sanitari e terapeutici). Quegli stessi medici che, eroi fino a qualche settimana fa, oggi subiscono denunce come se il virus l’avessero inventato loro.
Insomma, per sintetizzare, i media e l’opinione pubblica hanno chiesto alla scienza ciò che la scienza non poteva dare. O, perlomeno, ciò che non poteva dare in tempi così rapidi.
Avremmo chiesto a Michelangelo di dipingere la Cappella Sistina in due giorni? Lo avremmo potuto chiedere a un imbianchino, magari, ma non a un artista. Allo stesso modo, non si poteva chiedere alla scienza di risolvere il problema Covid-19 in tempo reale. Per questo, ci si sarebbe dovuti rivolgere alla magia. Peccato che non esista.
di Beatrice Monti
Il titolo dell’opera è indizio della “posa di scrittura” che caratterizza il fare poesia di Magrelli: Ora serrata retinae, ossia margine frastagliato della retina, superficie e limite dell’occhio; dove la poesia ha come suo luogo di appartenenza questo stesso margine, l’occhio nel punto in cui esso è apertura e insieme limite estremo di visione. È occhio che indaga il suo stesso guardare, in un incessante esercizio di torsione al fine di potersi ripiegare su stesso e farsi oggetto del suo vedere. “Senza accorgermene ho compiuto/il giro di me stesso”. Ma occhio che permane irrimediabilmente il proprio punto cieco e così insegue oggetti dove specchiarsi, cose a partire dalle quali possa far esperienza della propria potenza prensile. Poesia liminare che per sua natura si colloca sul divenire ombra della luce: interrogazione costante sul sé che interroga, indagine sull’io e sul suo corpo, corpo che tenta di toccarsi nel suo toccare il mondo. Ma, “in quanto vede o tocca il mondo, il mio corpo non può quindi essere visto né toccato. Esso non è mai un oggetto, non è mai un completamente istituito, proprio perché è ciò grazie a cui vi sono degli oggetti. Non è né tangibile né visibile nella misura in cui è corpo che vede e che tocca. Non è semplicemente sempre là. Se è permanente, lo è di una permanenza assoluta che serva da sfondo alla permanenza relativa degli oggetti suscettibili di eclissi”. (Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione). E da qui deriva l’impossibilità di una visione nitida, la difficoltà della messa a fuoco:
“Io sono ciò che manca
dal mondo in cui vivo,
colui che tra tutti
non incontrerò mai.
Ruotando su me stesso ora coincido
con ciò che mi è sottratto.
Io sono la mia eclissi
la contumacia e la malinconia
l’oggetto geometrico
di cui per sempre dovrò fare a meno.”
Il problema dell’evento del mondo, del suo avvento, è quindi profonda occasione per analizzare i meccanismi del sé, dell’abitare umano. Non è casuale, infatti, che una poesia dell’opera sia dedicata al filosofo dell’empirismo inglese George Berkeley, per il quale l’essere è essere percepito, secondo la famosa definizione “esse est percipi”. Le cose sono idee ossia fenomeni presenti allo spirito, gli oggetti sensibili vengono a coincidere con gli oggetti della percezione. Il problema del mondo diviene problema innanzitutto del corpo proprio come punto di snodo tra l’io, inteso come autocoscienza, e il reale fenomenico. “Dietro di me ci sono io, bifronte,/ curvo sullo specchio del pensiero.”. La questione dell’esperienza si esprime, in Magrelli, nel tema costante del passaggio, sempre indagato e mai portato a definitiva spiegazione, dell’oggetto fenomenico dagli occhi al cervello. Il corpo si costituisce qui come condizione di possibilità, ma insieme impossibilità, di una visione lucida, controllata, puramente razionale, dell’oggetto. Corpo come intermediario necessario e insieme momento di dispersione del sé e del mondo:
“Qui si smarrisce la vista
e nel suo andare alla mente
si corrompe e tramonta.
Come se traversando
pagasse ad ogni passo
il pedaggio del corpo.”
Il tema della difficoltà della messa a fuoco, di una visione nitida, ossia di una conoscenza cartesianamente intesa come idea chiara e distinta, secondo il tradizionale paradigma della visione, si scontra con la resistenza di un corpo proprio ma insieme estraneo. Riprendendo le riflessioni del filosofo francese Merleau-Ponty, ogni nostro agire nella realtà esterna, ossia il nostro essere-nel-mondo, implica un apriori corporeo. Un “corpo abituale”, ossia un corpo che reca traccia delle nostre esperienze passate e del cammino evolutivo della nostra specie; corpo che definisce l’ampiezza della nostra vita, e della nostra vista, l’apertura di ogni possibile orizzonte di senso. Ma questo stesso corpo ci è sconosciuto nei suoi più intimi meccanismi e ignota a ogni scienza è la connessione tra i fenomeni chimico-biologici delle cellule e i pensieri, le idee della coscienza. Questo filtro, membrana, misterioso e pure onnipresente è ciò che impedisce una chiara messa a fuoco del mondo, e in modo più radicale del sé che su questo mondo si interroga. Sempre riprendendo Merlau-Ponty: “l’ambiguità dell’essere al mondo si manifesta con quella del corpo, e quest’ultima si comprende mediante quella del tempo” (Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione). Ambiguità del corpo che si dà innanzitutto secondo la duplicità, espressa da Husserl, di Körper e Leib, corpo biologico, oggetto delle scienze, e corpo vissuto, irriducibile ad ogni paradigma scientifico. Per l’io lirico, che nel ripiegarsi su di sé ha fatto esperienza di questa ambiguità costitutiva, l’unica certezza rimasta non è che la “prodigiosa difficoltà della visione”: il soggetto è consegnato a una carne che in qualche modo lo precede, carne che determina però il luogo e la modalità della sua visione. Rivolgersi alla carne che siamo, ossia indagare questa soglia costitutiva, non può che significare il farsi carico di una visione difficile, liminare appunto.
In Magrelli, la necessità di riflessione, fa sì che il soggetto divenga esso stesso oggetto per poter essere analizzabile, sottoponibile allo sguardo indagatore della ragione. Posto a distanza viene oggettivato e analizzato, colto nelle componenti biologiche, nel suo Körper. Ma proprio attraverso questa esperienza conoscitiva si apre la frattura esistenziale tra il piano di un’esperienza vissuta in prima persona, il piano del Leib e della vita di coscienza dell’io lirico che dice io, e il piano di un corpo fratto, ridotto in parti, in elementi minerali.
“Io abito il mio cervello
come un tranquillo possidente le sue terre.
Per tutto il giorno il mio lavoro
è nel farle fruttare,
il mio frutto nel farle lavorare.
E prima di dormire
mi affaccio a guardarle
con il pudore dell’uomo
per la sua immagine.
Il mio cervello abita in me
come un tranquillo possidente le sue terre.”
L’io è abitato nel suo più profondo dall’Impersonale, da una molteplicità estranea: un corpo biologico, insieme di cellule che interagiscono secondo processi fisico-chimici. In questi versi è esplicito il tema della percezione di sé nella propria unità-molteplicità, o meglio ancora, la percezione della propria alienazione in un corpo biologico-minerale: l’io lirico è un io che si dichiara esistente in una condizione di “cattività”, uno spirito che dimora nella muta e inerme carne. L’abitare dell’io nel suo cervello è un abitare tranquillo, di pacata e normale convivenza. Ma l’aggettivo “tranquillo” si scontra con il “pudore” dei versi successivi: l’io guarda con pudore la sua immagine, la sua carne, sente vergogna e disagio. Dove il pudore è indice di un sentimento di estraneità, del non riconoscerci in quel corpo che l’io sa essere il suo: la presenza del corpo è una presenza inquietante, è l’Altro che dimora nel sé. “Questo cuore stesso, che pure è il mio, resterà sempre per me indefinibile. L’abisso che c’è fra la certezza che io ho della mia esistenza e il contenuto che tento di dare a questa sicurezza, non sarà mai colmato. Sarò sempre estraneo a me stesso” (Albert Camus, Il mito di Sisifo, p. 21). Quest’abisso, l’esperienza dell’Altro che è in noi, è definito dal filosofo francese Albert Camus, l’assurdo: assurdo è il rapporto tra l’uomo e il mondo, o meglio tra l’irrazionalità del mondo, e così anche del corpo proprio, e il desiderio di chiarezza dell’uomo. Contro questa condizione di assurdità nulla possono le scienze naturali: “tutta la scienza di questa terra non potrà darmi nulla che possa rendermi certo che tale mondo mi appartiene” (Ivi, p. 22). Il senso di questa scissione sembra dimorare altrove e l’abisso che qui si spalanca non sembra poter essere cancellato: il corpo nella sua presenza non fa che manifestare la sua alterità mineraria.
“Il corpo è chiuso come una muraglia,
è come un pozzo immerso nella carne
che non giunge ad avere
impressione di sé.
E le sue membra stanno
mute e cieco e fermo
nella gamba riposa il ginocchio.
Ma nella testa s’apre
l’alba del mondo:
l’osso si allarga, accoglie
dentro di sé lo sguardo.
Dolcemente si compie
il paziente travaso del vedere,
acquedotto di chiarore, strada
che porta l’essere a se stesso.
E nella radura della fronte
il portale del ciglio ha la sua luce.”
In Magrelli il corpo è muraglia, osso, cavità, “pietra levigata”, “terreno calpestato”, pozzo, muro, “campo desolato”, “pianta della terra”, miniera, “fruttificare di sassi”, “muta malinconia biologica”: descritto con termini propri dell’ambito geologico; è luogo ma luogo arido e deserto, inumano. A questo corpo-pietra continuamente si rivolge l’io poetico, in un dialogo precluso in partenza: è l’uomo che parla con il sasso. Il corpo permane inerme e muto difronte alle richieste di comprensione dell’io. La poesia è dunque il luogo preposto all’analisi di questo dialogo impossibile, al rapporto ambiguo tra l’io e la sua carne, tra l’io e il suo mondo. L’assurdo esistenzialista di cui il soggetto fa esperienza è trattato qui con distanza, nell’idea che solo attraverso questo posizionarsi al di fuori della propria vicenda esistenziale sia possibile una comprensione della propria condizione umana. Il dire è quindi pacato, freddo, analitico. Un dire che insegue l’ideale di trasparenza espressiva secondo una scrittura sillogistica e paratattica. Non vi è la ricerca di nessuna oscurità formale, nessuna sperimentazione avanguardistica: la poesia è luogo di analisi, metodo di conoscenza, espressione, e quindi attuazione, di un movimento di pensiero, di un ragionamento.
“Scrivere in genere è nascondere,
sottrarre alla realtà qualcosa
di cui sentirà la mancanza.
Questa maieutica del segno
indicando le cose con il loro dolore
insegna a riconoscerle.”
Poesia come “maieutica del segno”: scrivere è strappare le cose dal reale, trasporle su una pagina e così concretizzarne il senso nel tentativo di ricomporre la scissione tra ideale e reale, tra cosa e idea. “La scrittura è una morte serena:/ il mondo diventato luminoso”. Comporre è prelevare la cosa dal divenire immemore del reale per consegnarla a un’esistenza stabile, eterna: all’esistenza dell’idea divenuta segno, parola, traccia scritta. Dove l’istanza gnoseologica è innanzitutto rivolta verso l’io lirico di modo che la poesia diventi una pratica di cura. Pratica da compiersi preferibilmente nel letto, prima di dormire: un recar traccia del sé che si è ora, che si è in questo giorno, e che l’indomani non si sarà più, un dare a questo “confuso accavallarsi del pensiero” una materia stabile, una carne. “Disegno queste parole/preparando la mia resurrezione”. La mano che annota la “secrezione/ spontanea e vegetale dell’idea” sul taccuino giallo è “gesto/che assolvendo il giorno lo dissolve”:
“Questa carta è per me prima del sonno
l’incarnazione del corpo
nel velo del pane.
Comunione e consunzione
dell’ultima parola.
Come se ogni sera
lasciassi sopra il letto
una lapide quotidiana,
l’emblema per conoscere chi dorme”
La pagina è luogo in cui accade il rendersi corpo del senso: l’idea trasmigra, e così si presentifica al soggetto stesso, nel segno scritto. L’idea si fa esistenza materiale, permanente, essa stessa mineraria per la qualità della sua composizione, ma differente dalla mineraria impassibilità del corpo: la pagina scritta non è mai muta. In Magrelli, poesia è dunque “segreta epopea della soglia”: poesia di confine tra il corporeo-minerale e il senso-idea, tra una dimensione di materialità muta e una dimensione di trascendenza spirituale, di autocoscienza. Scrivere è il duplice movimento di trasformazione del corpo in segno-idea e del segno-idea in corpo permanente: “diventare così da carne a segno/da strumento a ossatura esile del pensiero.” È pratica di liberazione dall’alienazione della carne, costruzione di un orizzonte di senso possibile, è “dolce eclissi della materia”. È innanzitutto una postura etica. Dove, la questione è quella del vivere bene e in ultima istanza di prepararsi alla morte o quanto meno di accettarla come condizione più propria dell’umano: “c’è chi tramonta solo col suo corpo:/ allora più doloroso ne è il distacco”.
Progetto PCTO a cura di Kappabit s.r.l. e Filosofia in movimento
Il progetto s’inserisce nell’ambito della rassegna Pubblicittà: percorsi sinestetici tra parola e immagine, promosso da Kappabit in partnership con FiM. Tema centrale dell’iniziativa è, come si può facilmente evincere dal titolo, il rapporto tra parola e immagine, indagato a partire dall’esperienza della Neoavanguardia italiana, nella fattispecie della Poesia Visiva. L’argomento viene approcciato da diversi punti di vista, coinvolgendo i più vari ambiti di ricerca (filosofia, arti visive, sociologia e teatro) in un fitto calendario di eventi costellato da incontri, workshop, azioni artistiche ed eventi sul territorio.
In questo contesto, il progetto PCTO che qui s’illustra mira a coinvolgere gli studenti all’interno di percorsi di apprendimento e sviluppo dello spirito critico attraverso un programma di attività costituito da lezioni e workshop, tutti incentrati sull’esperienza della Poesia Visiva.
La Poesia Visiva è, più che una tendenza artistica, una variegata esperienza di contaminazione fra linguaggi: la simultanea presenza di scrittura e di immagini su una superficie. Interagendo, la parola si fa segno visivo e l’immagine assume una dimensione mentale. Infatti, proprio negli anni Sessanta, in cui domina l’arte concettuale, questa ricerca prende corpo in molti gruppi e in parti diverse del mondo (oltre che in Europa, in Brasile Argentina e Giappone). Il più numeroso e vivace è stato quello italiano, con base Firenze dal 1963. Maggiori esponenti Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini, Ugo Carrega, Emilio Isgrò, Luciano Ori, Luca Maria Patella, Nanni Balestrini, Sarenco. I precedenti storici sono in avventure sperimentali delle avanguardie del primo Novecento: Apollinaire con i Calligrammes, futuristi come Marinetti e Cangiullo con le Tavole Parolibere. Ma inserzioni di scrittura sono frequenti già nei quadri cubisti e futuristi. Il principio ispiratore è quello di attivare gli scambi tra i cinque sensi (sinestesia): infatti al movimento partecipano autori che realizzano installazioni sonore, spartiti musicali[1].
Il valore aggiunto del progetto è rappresentato dal coinvolgimento attivo nell’ambito delle attività PCTO di colui che unanimemente è considerato il padre della Poesia Visiva: Lamberto Pignotti[2].
Gli alunni coinvolti nel progetto avranno, infatti, l’opportunità d’interagire direttamente con il Maestro Pignotti, il quale, oltre a determinare l’indirizzo delle attività da svolgere, ne coordinerà in prima persona lo svolgimento.
Tale opportunità è resa possibile dallo stabile rapporto di collaborazione instauratosi tra Pignotti e la Kappabit, che, oltre a rappresentare il fondamento sul quale la stessa rassegna Pubblicittà: percorsi sinestetici tra parola e immagine è basata, nell’anno in corso ha dato vita anche a una mostra personale dell’artista ospitata dalla Galleria CONTACT artecontemporanea[3] e alla pubblicazione per le Edizioni Kappabit dei volumi Lamberto Pignotti. Controverso – Arte per fraintenditori, a cura di
Gaia Bobò (ISBN 9788894361827) e LESSICO RESISTENTE – La Poesia visiva e la critica alla società dell’immagine, In un dialogo con Lamberto Pignotti, di Antonio Cecere (ISBN 9788894361872).
Il fulcro delle attività previste dal progetto PCTO è costituito dall’analisi del rapporto tra parola e immagine quale passaggio critico dello sviluppo culturale della nostra società. Oggi la conoscenza è fortemente condizionata dalle nuove tecnologie e il Gruppo 70, fondato da Lamberto Pignotti, attraverso la Poesia Visiva, aveva compreso, molto prima di Guy Debord, la natura della società dello spettacolo. Pignotti ha scritto, prima di Edgar Morin, un’analisi circa l’influenza che il linguaggio pubblicitario ha avuto sullo sviluppo del linguaggio politico nel corso del Novecento. Per queste ragioni, Pignotti è senza alcun dubbio l’intellettuale più autorevole con il quale si possa intraprendere un percorso come quello definito da questo progetto.
Oltre a Lamberto Pignotti, saranno coinvolti nelle attività anche Marco Contini[4] e Gaia Bobò[5].
Il progetto si articola in tre momenti che prevedono diverse modalità di partecipazione per gli studenti:
[1] Fonte: https://www.collezionedatiffany.com/glossary/poesia-visiva/
[2] Lamberto Pignotti nasce nel 1926 a Firenze. Qui si laurea e risiede fino al 1968, anno in cui si trasferisce a Roma. Nei primi anni Sessanta concepisce e teorizza le prime forme di “poesia tecnologica” e “poesia visiva”, di cui cura nel 1965 la prima antologia. Nel 1963 dà vita, con altri artisti e critici, al “Gruppo 70” e partecipa pochi mesi dopo alla formazione del “Gruppo 63”. Dal 1971 al 1996 ha portato avanti, prima come professore alla Facoltà di Architettura di Firenze e poi al DAMS della Facoltà di Lettere di Bologna, dei corsi sugli svariati rapporti fra avanguardie, mass-media e new-media. Tra le più recenti mostre personali si ricordano: La poesia ve lo dice prima, la poesia ve lo dice meglio, Opere dal 1945 al 2010, Fondazione Berardelli, Brescia, 2010; Poesia visiva tra figura e scrittura, CSAC, Università di Parma, 2012; Cinquant’anni di inquietudine. La poesia visiva di Lamberto Pignotti, Galleria Clivio, Milano, 2016; Verso libero e indipendente, Centre Pompidou, Parigi 2018. Vive e lavora a Roma.
[3] http://kappab.it/?qr=217Z
[4] Esperto di tecnologia dell’informazione e della comunicazione, specializzato in editoria elettronica multimediale, con oltre vent’anni di esperienza sul campo. Fondatore, CEO e responsabile delle attività editoriali della Kappabit, nonché direttore della Galleria CONTACT artecontemporanea.
[5] Curatrice indipendente laureata in Comunicazione e Valorizzazione del Patrimonio Artistico Contemporaneo presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Recentemente ha curato l’esposizione “Controverso. Arte per Fraintenditori” di Lamberto Pignotti presso la Galleria CONTACT artecontemporanea nonché il catalogo dell’omonima mostra (Edizioni
Kappabit, 2019). Come autrice pubblica regolarmente per Exibart; ha inoltre scritto per le riviste di settore Inside Art e Rivista Segno. Per Filosofia in Movimento è curatrice della pagina “Lamberto Pignotti, Arte per Fraintenditori” (http://filosofiainmovimento.it/arte/arte-per-fraintenditori/).
Filosofia in movimento, insieme a Edizioni Kappabit, è lieta di presentare a tutti i docenti e gli studenti delle scuole superiori italiane il progetto “Cittadinanza e Costituzione”, che prevede ore di studio sull’omonimo manuale – a cura di Antonio Coratti e realizzato dal gruppo di ricerca interuniversitario di Fim -, ore di incontri e conferenze con i nostri autori e ore di lavoro nella produzione di contenuti video.
Progetto PCTO Cittadinanza e Costituzione
a cura della KAPPABIT S.r.l.
in
collaborazione con Filosofia in movimento
Soggetto proponente:
KAPPABIT S.R.L.
Fondata
nel 2010 per offrire consulenza strategica e percorsi dinamici innovativi ad
aziende e istituzioni pubbliche e private, la Kappabit S.r.l. (www.kappabit.com) si propone come
interlocutore unico nell’offerta di servizi, assistenza e progettazione nei
seguenti settori:
Dal 2014 opera come Casa editrice, attraverso le Edizioni Kappabit (www.edizionikappabit.com), realizzando numerose pubblicazioni – principalmente nell’ambito dell’arte contemporanea, della Media Art, dell’intermedialità, della Realtà Virtuale, del cinema, della musica, della didattica e della saggistica in genere – e dotandole di particolari dispositivi atti a implementare un’esperienza di lettura “aumentata”, grazie all’interazione combinata e integrata di contenuti multimediali, audiovisivi e musicali.
In collaborazione con:
FILOSOFIA
IN MOVIMENTO
Filosofia in movimento (www.filosofiainmovimento.it) è un gruppo di ricerca, attivo da più di cinque anni, che si occupa di
promuovere, sviluppare e diffondere la cultura filosofica nella società civile,
con particolare attenzione alla formazione dei giovani. Tre anni fa
l’associazione ha dato impulso al progetto Esercitare il pensiero, con
l’obiettivo di entrare nei licei e coinvolgere gli studenti nei discorsi
filosofici, interloquendo con università italiane ed estere, riviste culturali,
istituti e fondazioni private.
Tra la Kappabit e Filosofia in movimento (FiM) esiste un rapporto di partenariato, sancito da un protocollo d’intesa ratificato sin dall’avvio dell’attività dell’Associazione e operativo ormai da anni in vari ambiti di attività.
Contenuti e obiettivi generali del progetto PCTO
Al fine di sensibilizzare gli studenti al valore dei principi fondamentali della Costituzione italiana, Kappabit ha recentemente pubblicato il volume “Cittadinanza e Costituzione. Ripensare la comunità” (ISBN 9788894361834). Il libro, a cura di Antonio Coratti e con contributi di autorevoli filosofi e giuristi, si presenta come un manuale multimediale che ai contenuti testuali affianca video di approfondimento e si divide in due parti: la prima illustra la storia del concetto di cittadino dall’antica Roma all’Unione Europea, la seconda raccoglie i commenti di Gianfranco Macrì ai primi dodici articoli della Costituzione.
Il progetto mira a sollecitare lo spirito critico degli studenti, in particolare attraverso l’elaborazione di percorsi e la realizzazione di lavori che evidenzino il legame tra l’evoluzione storica del concetto di cittadinanza e il l’attualità che la definizione di tale concetto trova nella nostra Carta costituzionale.
Quadro normativo
A partire dalla Legge del 30 ottobre 2008, n. 169, il Miur ha disposto percorsi di «sperimentazione nazionale» e «attività di formazione e sensibilizzazione del personale» finalizzati a sviluppare e a rafforzare i processi educativi nel campo delle competenze di «cittadinanza attiva». Come specificato anche dalla Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea del 18 dicembre del 2006, le «competenze civiche» – che rientrano a pieno titolo nelle «competenze chiave per l’apprendimento permanente» – si fondano «sulla conoscenza dei concetti di democrazia, giustizia, uguaglianza, cittadinanza e diritti civili» e sono finalizzate a valorizzare i principi di responsabilità, legalità, partecipazione e solidarietà.
Fasi del progetto
Il progetto si articola in tre momenti fondamentali che prevedono l’attivazione di differenti modalità di partecipazione e d’interazione per studenti e docenti:
di Francesco Sirleto
“La scuola è aperta a tutti” (art. 34 della Costituzione italiana).
“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (Art. 3 della Costituzione italiana).
“ … Altri hanno in odio l’eguaglianza. Un preside a Firenze ha detto a una signora: “Non si preoccupi, lo mandi da me. La mia è la scuola meno unificata d’Italia”. Giocare il popolo sovrano è facile. Basta raccogliere in una sezione i ragazzi “per bene”. Non importa conoscerli personalmente. Si guarda pagella, età, luogo di residenza (campagna, città), luogo d’origine (nord, sud), professione del padre, raccomandazioni. Così vivranno nelle stessa scuola due, tre, quattro medie diverse. La A è la “Media Vecchia”. Quella che fila bene. I professori più stimati se la leticano. Un certo tipo di genitori si dà da fare per metterci il bambino. La B è già un po’ meno e così via. Tutta gente onorata. Il preside e i professori non fanno per sé, fanno per la Cultura. Neanche quei genitori fanno per sé. Fanno per l’Avvenire del bambino. Farsi strada a gomitate non sta bene, ma se si fa per lui, diventa un dovere sano” (da Lettera ad una professoressa, di don Lorenzo Milani e i ragazzi di Barbiana, 1967).
In Italia, Paese nel quale tutti sono in disaccordo su tutto e nel quale si discute e si litiga continuamente (fino ad arrivare agli insulti più tremendi), vi è almeno una cosa che suscita, improvvisamente e come per magia, un consenso universale: l’annuale classifica “delle scuole migliori d’Italia” di EDUSCOPIO (indagine promossa, finanziata e supportata, anche con grande battage pubblicitario, dalla benemerita Fondazione Agnelli, si sa un’autentica indiscussa autorità – non si capisce tuttavia per quali meriti speciali – nel campo della promozione dell’istruzione e della cultura). Di fronte all’annuale classifica pubblicata da Eduscopio tutte le diatribe, tutte le polemiche, tutte le interminabili querelles che caratterizzano il dibattito pubblico in Italia, cessano, immediatamente, come “per incantamento”. Non ci sono più Destra e Sinistra, Conservatori e Progressisti, Liberisti e Statalisti, juventini e interisti, romanisti e laziali, al cospetto del Verbo emanato da Eduscopio. Siamo tutti egualmente consenzienti, tutti egualmente sulla stessa barca, tutti lestissimi a sottoscrivere, senza il benché minimo dubbio, il valore indiscusso e incontrovertibilmente scientifico dei risultati dell’indagine Eduscopio. Anche la stampa, sia quella tradizionale (cartacea o televisiva), sia quella più innovativa (quella che ritrovi sul web), quella stampa che si divide su tutto, quella stampa prontissima a mettere cartesianamente in dubbio l’universo mondo, di fronte a questo nuovo Evangelo, si genuflette senza alcuna eccezione e senza che sulle sue ormai pallide guance appaia il benché minimo rossore.
Come, infatti, non dare ragione e non consentire alle sapienti parole che accompagnano, a mo’ di illustrazione, le tabelle e i numeri nei quali si dipanano e si sviluppano gli esisti della insostituibile ricerca sul campo realizzata annualmente da Eduscopio? “Eduscopio è utile – così troviamo scritto in questa preziosa relazione – perché consente allo studente (allo studente? Quale studente? Quello impegnato nell’ultimo anno della media inferiore?) di comparare le scuole dell’indirizzo di studio che interessa nell’area dove risiede (ad esempio, aggiungiamo noi, nell’area tra Tor Bella Monaca e Tor Sapienza, oppure nell’area tra Borgata Ottavia e Primavalle), sulla base di come queste preparano per l’università o per il mondo del lavoro dopo il diploma. Ha successo perché le informazioni che contiene sono frutto di analisi accurate a partire da grandi banche dati (certo, di fronte a “banche dati”, come puoi nutrire il benché minimo dubbio o perplessità?), perciò oggettive e affidabili (anche l’oste, quando parla del proprio vino, lo definisce oggettivo e affidabile). Inoltre, è di facile consultazione e aiuta chi non si accontenta del “passa parola” e, in modo particolare, quelle famiglie che non possono contare su reti sociali e culturali forti”. Quindi, deducendo da queste ultime parole, dobbiamo presumere che l’indagine EDUSCOPIO si rivolge principalmente a quelle famiglie socialmente e culturalmente svantaggiate? Le famiglie residenti nelle periferie delle grandi città? Questa, a mio avviso, è la rivelazione più impressionante del nuovo Evangelo.
Deve essermi sfuggito, evidentemente, un fenomeno noto soltanto agli organizzatori di Eduscopio, quel fenomeno che, da quando la Fondazione Agnelli ha cominciato a pubblicare i risultati dell’indagine “sulle migliori scuole d’Italia” ha visto migliaia e migliaia di genitori dei quartieri periferici delle grandi città (genitori che, ovviamente, “non possono contare su reti sociali e culturali forti”) fare la fila, nei mesi invernali, davanti alle segreterie di scuole famose del centro (es.: Tasso, Visconti, Virgilio, Righi, ecc.), per iscrivervi i loro pargoli tredicenni, ansiosi, questi ultimi, di frequentare per cinque anni una scuola che assicuri loro un vero, autentico, successo, tanto negli studi universitari quanto nel mondo del lavoro (se, putacaso, non avessero voglia di proseguire gli studi dopo l’agognato diploma di maturità).
Gli organizzatori di Eduscopio ci garantiscono inoltre che “Le analisi e i confronti di Eduscopio si riferiscono a due compiti educativi fondamentali: 1) la capacità dei licei e istituti tecnici di preparare e orientare gli studenti a un successivo passaggio agli studi universitari; 2) la capacità di istituti tecnici e istituti professionali di preparare l’ingresso nel mondo del lavoro per quanti, dopo il diploma, non intendono andare all’università e vogliono subito trovare un impiego”. A questo proposito devo confessare una mia grave carenza: ignoravo, infatti, che i suddetti compiti rientrassero tra i compiti educativi fondamentali. Ero infatti convinto che tali compiti rientrassero nel novero delle conoscenze e, in generale, del complessivo bagaglio culturale che la scuola è chiamata a fornire ai suoi giovani utenti. Al contrario, ero convinto che i compiti educativi fondamentali consistessero nella formazione dello studente alla cittadinanza attiva, nella trasmissione e nell’acquisizione di quei valori che sono alla base della convivenza civile e che sono inscritti, a lettere di fuoco, nei principi fondamentali della Costituzione: libertà, democrazia, solidarietà, apertura alle diversità e alla molteplicità delle culture, spirito critico e orientamento alla ricerca, e così via. Evidentemente mi sbagliavo, oppure sono portatore (ormai insano) di una visione del mondo e di una cultura retrò, stantia insomma. Una persona che ancora crede che una buona scuola si vede dalla capacità che essa dimostra di aiutare i propri alunni (soprattutto quelli più svantaggiati e che presentano una molteplicità di problemi) ad affrontare e, possibilmente, a rimuovere tutti quegli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza di tutti i cittadini. Ero, e rimango, convinto altresì che la scuola, essendo aperta a tutti, debba necessariamente essere la scuola dell’inclusione, misurandosi quotidianamente con i problemi, con le difficoltà, con gli svantaggi (psicologici, sociali, a volte fisici) che moltissimi alunni, soprattutto coloro che non possono contare su “reti sociali e culturali forti”, si portano dietro anche all’interno delle mura scolastiche. C’è però un’altra possibilità: che a sbagliarsi siano tanto gli organizzatori di EDUSCOPIO (portatori di una visione aziendalistica, liberistica, competitiva, per la quale ciò che conta non è il riferimento ai valori costituzionali, quanto piuttosto le leggi ferree del Mercato, leggi indiscutibili perché naturali) quanto coloro che prendono per oro colato gli esiti delle indagini EDUSCOPIO, senza preoccuparsi delle premesse – niente affatto scientifiche, ma molto ideologiche (nel senso negativo del termine, vale a dire “falsa coscienza”) – sulle quali vengono realizzate simili operazioni.
La società interconnessa è una società ipercomplessa, in cui il trattamento e l’elaborazione delle informazioni e della conoscenza sono divenute le risorse principali. Alla crescita esponenziale delle opportunità di connessione e di trasmissione delle informazioni (che costituiscono fattori fondamentali di sviluppo economico e sociale) non corrisponde tuttavia un analogo aumento delle opportunità di comunicazione, da noi intesa come processo sociale di condivisione della conoscenza che implica pariteticità e reciprocità (inclusione).