“CHI DORME NON PIGLIA PESCI”

Il rapporto CENSIS, che i media hanno diffuso, rende noti alcuni dati tristemente significativi sullo stato dell’“ambiente umano” italiano. Sì, “ambiente umano” e non “società”, perché l’interrogativo che emerge come conclusione dell’analisi Censis è: esiste ancora un tessuto umano definibile “società italiana”? Qualche considerazione.

In quel rapporto hanno avuto un notevole richiamo l’aggettivo “sonnambuli” e la caratterizzazione “incapacità di reazione”.

Poiché un rapporto testimonia ciò che è già in atto, la prima questione è chiedersi: come “siamo fatti” oggi? In altre parole, poiché i comportamenti umani sono il prodotto delle abitudini mentali, cioè del “funzionamento della testa” delle persone in genere, il punto è come sta “funzionando la testa” degli italiani e, in particolare, di quelle generazioni anagrafiche che oggi costituiscono l’immagine statisticamente esplicativa. Quando ho usato l’espressione “funzionamento della testa” ho detto con linguaggio popolare qualcosa di scientificamente molto serio, cui prestare attenzione. Negli anni ’70 comparve un libro, curato da due filosofi e comportamentisti statunitensi, Dennett e Hofstadter, che indicava nel titolo –L’Io della mente- la tesi fondamentale, racchiusa nella domanda secca se l’uomo “ha un cervello” o “è un cervello”. La risposta è la seconda: l’uomo è un cervello. 40 anni dopo, nel 2014, un neuroscienziato illustre, Lamberto Maffei, in un testo dal titolo accattivante, L’elogio della lentezza, spiegava come le aree cerebrali presiedano a tutte le funzioni del nostro essere umani. In particolare, per ciò che qui interessa, alcune presiedono alla funzione del riflettere e del pensare, cui si associa l’espressione linguistica, e altre a quelle dell’impatto sensoriale e della reazione emotivo-pulsionale. Tali funzioni vengono stimolate dall’incontro dell’uomo con il mondo esterno, che può “allenarle” in modo differente. Maffei sottolinea come il tipo di interazione mediatica oggi divenuta abituale, fondata sull’impatto sensoriale, ha dis-allenato le aree cerebrali della “stringa” riflessione-pensiero-linguaggio per rendere particolarmente brillante quella della reattività. Non è certamente un mistero per nessuno che ormai il primato incontrastato è appannaggio dello strumento mediatico in modalità reattiva, la quale è vincente, in qualsiasi settore nel quale l’obiettivo è la visibilità, il “successo” comunque.

La spiegazione di Maffei mette in luce un altro aspetto che si accompagna al primato incontrastato della reattività: la sostituzione del “tempo”, del quale ha bisogno la riflessione, e quindi il pensiero, con l’“a-temporalità” dell’immediatezza, che caratterizza la pura reazione. L’immediatezza dell’impatto prende il posto della capacità riflessiva della mente, costituita dalla stringa temporale passato-presente-futuro. Insomma, dal “pensiero” al “post-pensiero”.

Credo che vi siano qui alcuni elementi, idonei a fornire una spiegazione a due rilievi del Censis: uno stato di paura diffuso e capillare e una sorta di “sonnambulismo”, che interpreto come una specie di sonno della ragione. A questi due dati si aggiunge l’attenzione esclusiva per i diritti individuali, la quale sostituisce anche l’aspirazione primaria al lavoro. Può dirsi, allora, che l’origine è l’allenamento della “testa” a funzionare in modalità supinamente “reattiva” e immediata verso una rappresentazione costantemente “emergenziale” della realtà. Tale abitudine mentale ha dis-allenato la capacità riflessiva, necessaria per vivere consapevolmente l’attualità della nostra condizione esistenziale, drammaticamente segnata dalla difficoltà della situazione geopolitica e dalla frenetica innovazione tecnologico-finanziaria, che si è affermata e va svolgendosi. Insieme, lo stato di costante e mediatica emergenzialità ha fatto venir meno, per un verso, il senso della storia, disabituando a comprendere questo tempo, con le sue specificità, come una delle tante fasi della secolare vicenda umana, e, per un altro, ha fatto spegnere la vocazione al pro-getto, cioè al tempo futuro. Niente passato, niente futuro; non resta che vivere giorno per giorno.

Se la mente ragionasse, vedrebbe due grandi questioni del nostro tempo. La prima: l’affermarsi e rafforzarsi dagli ’90 in poi, e soprattutto nel nostro secolo, del capitalismo in chiave finanziaria, insieme al realizzarsi delle tecnologie digitali nei loro diversi aspetti, fino alla AI di oggi. Due fenomeni che hanno determinato la primazia di potentati tecnologico-finanziari. In termini più asciutti: si è affermato il primato e la potenza della pura moneta, subordinando la “politica economica” degli Stati alle agenzie di rating. Significativo è il titolo, con sottotitolo, di un recente libro (Laterza) di Mariana Mazzucato e Rosie Collington, che recita: Il grande imbroglio. Come le società di consulenza indeboliscono le imprese, infantilizzano i governi e distorcono l’economia.

Secondo. La potenza tecnologico-finanziaria richiede un modello di governo “effettivo” di tipo tecnocratico (quella “democratica” è una narrazione popolare) e meta-statuale. Un tale modello è controinteressato al formarsi di un “vero pensiero”, capace di mettere in forma un autentico modello identitario di società. La sua effettività, infatti, coincide con lo stabilizzarsi di un ambiente umano collettivamente obbediente, ma emotivamente disarticolato, perché orientato dalle paure emergenziali e distratto dall’inseguimento di istanze puramente individualistiche. Una osservazione particolare a proposito della scarsa attrazione per il lavoro: se un manager, il cui successo in termini finanziari comporta anche, spesso, eufemisticamente, “ristrutturazioni aziendali”, riceve per la sua attività, ormai divenuta algoritmicamente asettica, un emolumento abissalmente superiore allo stipendio del lavoratore superstite in fabbrica, ne segue che il lavorare, nel senso antico del termine, perde di valore esistenziale. Ciò che conta è la moneta necessaria per sbarcare il lunario e senza rinunciare alla distrazione del quotidiano, che viene prima. Questa impostazione è comune a quelle generazioni anagrafiche formatesi sotto l’egida di Internet, il quale contiene la soluzione di ogni problema prima ancora che si ponga: niente problemi insolubili e, quindi, niente curiosità, niente ricerca. niente immaginazione. Per questo il sonno è stabile; ma i “sogni…”? Ovviamente un tale quadro assume connotati diversi a seconda dei luoghi umani e professionali e dei contesti operativi. Vi è, tuttavia, un tratto che paradossalmente accomuna questo mondo attuale ed è ciò che il Censis sottolinea; una sorta di solipsismo individualistico, “sonnacchioso”, caratterizzato da una incapacità comune: quella di mettere in forma un tessuto relazionale e sociale dotato di una identità riconoscibile: visione del domani e capacità di costruzione.

                                                                                                                      Bruno Montanari

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