Gentrificazione, resilienza e implementazione. Dell’uso pessimo e nuovo delle parole antiche
Domenico Bilotti
Il problema era noto già a Cicerone e a Quintiliano: in meno di due secoli di storia romana, allievo e maestro si misurano col decadimento politico-amministrativo che si associa a scadimento delle istituzioni culturali e valoriali di un popolo. I due retori certo usano un espediente vittimistico: la loro opera appartiene a due dei secoli più interessanti e densi della romanità antica; il potere politico dell’Urbe è in fase ancora espansiva e le tante crisi zonali appaiono conferma della caduta dei secoli successivi soltanto in ottica retrospettiva, nello sguardo dei “posteri”.
Notano, però, una cosa vera: la perdita di senso del linguaggio è il primo segno della sconfitta politica. Un ordinamento delle relazioni umane privo di qualità ragionativa e di sforzo di approfondimento scava scientificamente, quanto inconsapevolmente, la sua fossa. Fa prevalere la semplificazione brutale sulla sintesi razionale, il chiacchiericcio vago sulla dissertazione serrata, la forza nuda e cruda sull’argomentazione tecnico-giuridica. Presta il fianco alla stessa demagogia che nutre la crisi, come un serpente che mangiandosi la coda, anziché chiudersi in se stesso, seguita a ingrassare.
Gli anni che stiamo vivendo hanno questo segno impresso addosso, perché s’è ormai assottigliato, nella “cosa pubblica”, il confine tra il tribuno che deve in primo luogo arringare gli animi e lo specialista che deve, invece, creare il contesto applicativo della pratica di governo. Non c’è più distinzione, insomma, tra la politica degli umori e i progetti della classe dirigente: gli uni e gli altri si confondono, perché né gli uni né gli altri hanno una misura autonoma, solida, durevole.
Il quadro si conferma col pessimo uso di parole che il politico di nuovo conio tratta come eruditi neologismi, dimostrando già solo in questo di non conoscerne il significato. In modo meramente esemplificativo, ci concentreremo su tre termini invalsi nella loro storpiatura corrente: “gentrificazione”, “resilienza”, “implementazione”.
Sempre più spesso, “gentrificazione” è usata come sinonimo di grande opera urbana. In realtà, “gentrificazione” significa, a essere grossolani, ristrutturazione di un quartiere che produce una progressiva sostituzione dei suoi abitanti, elevando la classe socioeconomica dei nuovi residenti. Vera “gentrificazione”, in Italia, se n’è in anni recenti vista poca, anche perché le opere urbane si sono intrecciate al processo di attrazione della classe media di concetto in quella bassa del precariato cognitivo: la maggior parte degli Italiani si è impoverita, non arricchita. La gentrificazione, fenomeno per più versi di gestione censitaria delle politiche urbane, ha bisogno di movimentazione sociale continua; la stagnazione difficilmente la attua, al contrario: al più, la iperlocalizza (come intuivano, da prospettive diverse, Dufrenne e Derrida). La parte nuova di Harlem ha conosciuto un processo di gentrificazione; utilizzare lo stesso termine per descrivere la stazione di Roma Termini, al momento, non funziona.
Per “resilienza”, parola suggestiva e suggestivamente diffusasi nei blog, nei gruppi Facebook e in chat di varia natura, si intende sempre più spesso uno stile, un’attitudine. Come se si trattasse di una sorta di Swinging London, una sorta di “fuck your coolness”, per usare le belle parole di George Diez in “Beatles contro Rolling Stones”. Questa idea di “resilienza” forse va bene per usarla su Instagram; in realtà il termine ha un altro significato. La resilienza è la capacità di un materiale di subire un urto senza rompersi. La psicologia neofunzionalista di questi anni, plasmata su modelli egocentrici, ha una declinazione chiaramente individualistica: “resilienza” è la capacità dell’homo faber 2.0 di modellare il futuro rielaborando le difficoltà. È l’uomo che non ha bisogno di posto fisso, ma che negozia costantemente la sua precarietà con vittorioso sorriso. Eppure, “resilienza” avrebbe un significato politico di grande pregio, tutto fuorché così mascherato e arrendevole: implicherebbe affrontare le difficoltà come occasioni dialettiche di contropotere, non come forme di accettazione del potere. Si sa, a tanto non si arriva mai.
“Implementazione” è invece utilizzato così spesso come sinonimo di “moltiplicazione” che presto o tardi anche i dizionari lo certificheranno come uso primario e, forse, esclusivo. L’implementazione, però, è l’attuazione, una particolare forma di attuazione: l’attuazione esponenziale, per dirla col filosofo del linguaggio John Searle. Senonché attuazione performativa, come significato di un termine, è davvero dir troppo, perciò tanto vale tagliar corto e fare che “implementazione” e “moltiplicazione” siano la stessa cosa.
Il bello di questi “neo-usi” è che sono inconsciamente propugnati da un utilizzo costante, praticato da nuovi mandarini prestati alla politica, che usano ancora il capitale sociale della cultura e dell’istituzione, come spiegava Bourdieu, per governare sugli altri. Impoverire il linguaggio e il ragionamento dei sottoposti è uno strumento di conservazione violenta del potere: rende impossibile il ribaltamento.