Giudicare in tempo di crisi

di Alessio Lo Giudice

 

Nel profluvio di riflessioni sorte a commento degli effetti della pandemia da Covid-19, il richiamo al concetto e allo stato di crisi è uno dei più diffusi. È un richiamo da prendere sul serio se si vuole approntare una cornice concettuale di fondo in grado di inquadrare correttamente il rapporto tra le nostre azioni e il contesto generale scaturito dalla pandemia.

Il concetto di crisi è, come è noto, espressione di una categoria fondamentale della cultura occidentale, e ciò è sicuramente testimoniato dalla sua rilevanza semantica nella lingua greca. Derivando da krino, e quindi da separare, decidere, valutare, krisis evoca l’idea stessa della decisione ultima e definitiva. Una decisione, in particolare, che ha per oggetto alternative irriducibili come quelle che conducono a scegliere, ad esempio, tra la vita e la morte. E, non a caso, nell’ambito della scuola di Ippocrate la parola krisis designa il momento critico di una malattia. La fase in cui al medico tocca, appunto, prevedere quale sarà l’esito della lotta tra la vita e la morte. Nell’apparato teorico aristotelico la krisis indica, d’altra parte, tanto la posizione e la conservazione del diritto quanto la decisione fondata su un misurato giudizio politico. Ed è proprio il rapporto tra krisis e judicium a fare da sfondo ermeneutico alla filosofia dell’azione che ruota intorno al concetto di crisi sin dal mondo antico. Sia krisis sia judicium rinviano, infatti, ad una costellazione di significati giuridici che, con la cornice teologica del Nuovo Testamento, conducono al giudizio per antonomasia: il giudizio di Dio. 

Di conseguenza, come sostiene Reinhart Koselleck (Il vocabolario della modernità, 2006), nelle matrici del pensiero occidentale il concetto di crisi comprendeva «tutte le situazioni decisionali della vita interna ed esterna, della singola persona e della sua comunità. Si trattava sempre di alternative definitive, sulle quali doveva essere presa una decisione adeguata, ma la cui realizzazione alternativa era anche insita nella cosa stessa di cui si trattava». È, dunque, l’urgenza dei fatti a porre l’alternativa, a illudere spesso l’uomo circa la possibilità di decidere adeguatamente su una realtà rappresentata in termini alternativi, secondo una logica addirittura binaria, anche quando, a ben vedere, la situazione rispetto alla quale occorre decidere è irriducibile ad alternative chiare e distinte. È il tempo che preme a identificarsi con la crisi. Perché è proprio quando il tempo a disposizione sta per esaurirsi che ci troviamo in crisi in quanto forzati a giudicare e decidere. Lo stato di crisi è, quindi, uno stato in cui occorre giudicare in condizioni di incertezza perché non vi è tempo per acquisire ulteriori informazioni, per valutare tutti gli aspetti della vicenda.

Naturalmente, nella modernità la crisi si trasforma sempre più in un concetto di filosofia della storia, esprimendo il punto di vista di chi presume di poter interpretare il corso della storia a partire dal contesto in cui egli si trova, e assumendo quindi il proprio tempo, necessariamente, come crisi. Ma, a prescindere dai modelli semantici generali riferibili al concetto di crisi, resta insuperata, dal punto di vista dell’esperienza esistenziale, l’idea greca di crisi come condizione nella quale il giudizio non è rinviabile, la situazione in cui si è obbligati a decidere. Non si può non essere, dunque, d’accordo ancora con Koselleck quando sostiene che «La crisi nel significato greco di necessità di decidere e di agire sotto l’incalzare dell’urgenza rimane un concetto irrinunciabile anche nelle complesse condizioni della società moderna».

Ebbene, l’odierno e diffuso utilizzo del termine crisi nelle letture della (e sulla) pandemia acquista un significato preciso nella misura in cui lo associamo proprio all’esperienza del giudizio. Nella misura, cioè, in cui interpretiamo la nostra condizione come quella di un sistema sociale che, a più livelli, si è trovato, e si trova, sistematicamente di fronte alla necessità di giudicare e decidere con il tempo che stringe. È questa la situazione che hanno dovuto gestire i medici dei reparti di rianimazione quando, a corto di posti disponibili in terapia intensiva e a fronte di una serie di motivate richieste di ricovero, sono stati chiamati a giudicare chi meritava, più degli altri, di essere curato. Ma è analoga, al netto di tutte le differenze specifiche, la situazione che il decisore politico ha dovuto affrontare di fronte al dilagare dell’epidemia, prima di procedere alla chiusura delle attività sociali e produttive. Oggi, lo stesso decisore politico si trova ancora a decidere, con urgenza, tra alternative che comunque si escludono, quando è chiamato a procedere alla riapertura delle attività a fronte dei risultati del contenimento del contagio. Per non parlare, poi, di tutte le ulteriori scelte quotidiane che molti hanno dovuto compiere in tale contesto, posti di fronte ad alternative quali quelle tra affetto e salute, o tra lavoro e salute. In altre parole, l’espressione “giudicare in tempo di crisi” indica l’esperienza diffusa che, meglio di altre, consente di dare un nome e un significato al tempo che stiamo vivendo, a causa della pandemia. 

Ma, nel tentativo di attribuire un significato più preciso al nome che abbiamo dato alla nostra esperienza, occorre chiedersi se l’incertezza del giudizio, l’ampio margine di errore, il salto nel buio che un giudizio in tali condizioni sembra comportare siano caratteristiche soltanto della nostra condizione critica o se, invece, siano i tratti di ciò che la pratica del giudizio implica in sé. Se, come io penso, è ragionevole rispondere a tale interrogativo optando per la seconda alternativa, saremmo di fronte a ciò che spesso accade nelle situazioni limite. In tali situazioni, come è indubbiamente quella che stiamo vivendo, si rileva in maniera nitida, come le stelle in una notte tersa, la natura essenziale delle nostre esperienze. Si rivela, in questo caso particolare, la natura del giudizio quale facoltà drammatica che necessariamente ci appartiene. Ciò che la crisi pone in risalto, del resto, è l’urgenza del giudizio in assenza di criteri generali certi, indiscutibili e stabili, nonostante l’esistenza di linee guida, principi deontologici, pareri scientifici e tecnici. Questa è la situazione dei medici di fronte al dilemma etico, alla scelta tragica da compiere nel triage. Bisogna seguire a tutti i costi il principio della parità di trattamento? Occorre seguire il criterio della maggiore probabilità di successo clinico, con l’annessa valutazione sul discutibile parametro dell’aspettativa di vita? O invece basterebbe attenersi al criterio cronologico: chi prima arriva viene curato fino ad esaurimento posti? Ma è giudizio in assenza di una regola generale indiscutibile anche quello che il decisore politico deve esprimere di fronte alla necessità di aprire o chiudere lo spazio sociale ed economico-produttivo. Lo è perché si tratta di bilanciare, in concreto, principi e interessi costituzionalmente protetti che, nel loro insieme, esprimono la trama complessa di una società. Mettere in discussione uno qualsiasi di questi principi, dalle libertà alla salute, dall’uguaglianza all’iniziativa economica, comporta comunque una ferita nel tessuto sociale con tempi di recupero assolutamente non prevedibili.

In una situazione apparentemente ordinaria, il giudizio non è strutturalmente diverso da quello che sperimentiamo in tempi di crisi. La crisi è lo specchio in cui si riflette senza ombre e senza opacità il significato più intimo e complesso della nostra esperienza ordinaria del giudizio. Cartesio nelle Meditazioni Metafisiche (1641) sosteneva che l’errore di giudizio dipende «dal solo fatto che, dato che la volontà è più ampia dell’intelletto, io non la trattengo nei medesimi limiti di questo, bensì la estendo anche a quel che non intendo; e, poiché rispetto a ciò essa è indifferente, facilmente deflette dal vero e dal buono, ed è così che mi inganno o pecco». L’errore dipende dalla sproporzione che esiste tra l’ampiezza degli oggetti dell’intelletto e quelli della volontà. L’intelletto ha dei limiti: posso conoscere qualcosa, non posso conoscere tutto. La volontà è tendenzialmente illimitata, invece, nella scelta dell’oggetto del suo volere. Da questo scarto nasce l’errore. Precisamente quando la volontà si posa su ciò che non intendo e, si badi bene, non soltanto su ciò che non conosco assolutamente ma anche su ciò che non conosco sufficientemente. Si tratta di un errore eliminabile? In altre parole, è possibile giungere a un grado di conoscenza quantitativamente e qualitativamente certa e definitiva in modo da determinare con altrettanta certezza e definitività il mio giudizio e la mia volontà? A ben vedere, Cartesio coglie il problema ontologico del giudizio in quanto presa di posizione sul particolare. Infatti, tra intelletto e volontà c’è comunque uno scarto che, a volte, assume la forma di un abisso. L’abisso del giudizio. È questo il senso filosofico della questione del giudizio. Ma, se così stanno le cose, bisognerebbe, di conseguenza, rinunciare al giudizio? Quanto meno nei casi difficili? Di fronte alle scelte tragiche? O, al contrario, occorrerebbe assumere la consapevolezza dello scarto e dell’abisso che è in gioco nel giudizio per affrontarlo come problema esistenziale?

Questa seconda strada è quella battuta, a mio parere, da Kant nella Critica del Giudizio (1790). Una strada impegnativa ma che, allo stesso tempo, non si può non percorrere. Occupandosi del giudizio di gusto, Kant svela il carattere eminentemente politico del giudizio quale facoltà umana. E cioè il carattere pubblico e intersoggettivo del giudizio che si condensa nelle massime tratte dal sensus communis: 1) pensare da sé; 2) pensare mettendosi al posto degli altri; 3) pensare in modo da essere sempre d’accordo con se stesso. Se la prima implica un pensiero libero da pregiudizi (massima dell’Intelletto), e la terza il modo di pensare conseguente (massima della Ragione), la seconda è quella che per Kant corrisponde precisamente alla massima del Giudizio. Pensare mettendosi al posto degli altri non ha, però, nulla a che vedere con la capacità di usare correttamente la facoltà della conoscenza. Si tratta, invece, di un modo di pensare. In particolare, di un modo di pensare largo che si manifesta quando il singolo è in grado di elevarsi, come Kant afferma, «al disopra delle condizioni soggettive particolari del giudizio, tra le quali tanti altri sono come impigliati, e rifletta sul proprio giudizio da un punto di vista universale (che può determinare soltanto mettendosi dal punto di vista degli altri)».

Queste massime sono dettate dall’esperienza del giudizio riflettente, cioè del giudizio privo di fondamento. Privo di una regola generale sotto la quale sussumere il fatto che siamo chiamati a giudicare (come precisa Kant nella Critica del Giudizio, «se è dato invece soltanto il particolare, e il Giudizio deve trovare l’universale, esso è semplicemente riflettente»). Ebbene, la condizione descritta dal giudizio riflettente è, in realtà, la condizione prevalente del giudizio esistenziale che raramente, nell’esperienza quotidiana, può essere espresso sulla base di una regola generale fissa e indiscutibile. La gran parte dei nostri giudizi ha luogo, infatti, in assenza di una tale regola ed è, invece, dettata dalla pressione dei fatti, dalla necessità di decidere. Nella crisi questa natura del giudizio è perfettamente visibile, non può essere nascosta. Nei momenti tragici, quando il contesto in cui si vive non offre orientamenti precisi, in situazioni che sono dunque eccezionali, che sono di limite, la natura del giudizio emerge. In assenza di norme e criteri generali, giudicare significa chiaramente pensare se stessi nei panni degli altri. Significa posizionarsi, con la propria identità e attraverso l’immaginazione, nelle situazioni altrui, per poi poter agire. Nelle situazioni limite il giudizio appare limpidamente come espressione della capacità di pensare liberamente. Come unico modo per dare significato al mondo che viviamo e per agire come soggetti liberi. Il giudizio riflette dunque la responsabilità di chi giudica, pronto a rispondere della propria valutazione. Per queste ragioni, rifiutarsi di giudicare vuol dire essere irresponsabili. Vuol dire essere apolitici. E questo vale ancor di più se chi è chiamato a giudicare ha responsabilità generali di carattere politico, sociale, professionale.

Naturalmente, a monte del giudizio si situa il pensiero. Certamente, la facoltà di giudicare non è la stessa facoltà del pensiero. Il pensiero si rappresenta ciò che è assente, il giudizio è tale se ha per oggetto ciò che è particolare e presente. Ma è la correlazione tra pensiero e giudizio che è evidente. Una correlazione di cui dovremmo tenere conto, a tutti i livelli, sicuramente nel tempo ordinario e, a maggior ragione, nel tempo di crisi. Perché, come sostiene Hannah Arendt (Pensieri e riflessioni morali, 1971): «Il manifestarsi del vento del pensiero non consiste nella conoscenza; ma si esprime nella capacità di distinguere il bene dal male, il bello dal brutto. E ciò, nei rari momenti in cui si arriva a un punto di crisi, può realmente evitare catastrofi, almeno per me stesso». 

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