Il colonialismo è stato vantaggioso?
La storia dell’Occidente è, in fondo, la storia del colonialismo: senza la conquista dell’America le potenze europee non sarebbero mai diventate tali, cioè potenze. Ricordiamo che nel 1492, quando Colombo arriva in America, i turchi si apprestavano ad assediare Vienna, quasi il centro geografico dell’Europa. È vero che gli spagnoli scacciavano, proprio in quell’anno, gli arabi dalla penisola iberica, ma la minaccia araba di un ritorno era all’ordine del giorno. Insomma l’Europa era accerchiata e una gran parte della popolazione europea viveva quotidianamente il problema della fame. La conquista dell’America portò in Europa un enorme quantità di metalli preziosi, di cibo, di materie prime che innescarono il processo di produzione capitalistico, in modo tale che l’Europa ruppe l’accerchiamento e si trasformò nel Centro del mondo, facendo del resto del pianeta la sua Periferia coloniale.
La lettura dell’interessante libro di Pier Luigi D’Eredità (Lo sviluppo economico autodistruttivo. 1873-1914, Milano-Udine, Mimesis, 2018) spinge a porsi la questione se il colonialismo ha davvero rappresentato un vantaggio per l’Europa. D’Eredità non riproduce l’ormai stantio cliché storiografico eurocentrico, per cui l’Europa ha tratto enormi vantaggi dallo sfruttamento delle colonie extra-europee. D’Eredità ha una profonda e sicura conoscenza della storia economica, già espressa nel suo precedente, voluminoso, libro sulla storia economica del Medioevo (Storia dello sviluppo economico medievale, Mimesis 2014), ma è anche dotato di una notevole conoscenza filosofica e forse per questo rovescia i canoni della storiografia accademica e si chiede: come sarebbe stata la storia d’Europa senza le colonie? Naturalmente nell’immediato della conquista dell’America, i vantaggi ci furono e furono notevoli. L’Europa, soprattutto quella settentrionale, soffriva la fame, come la soffre oggi l’Africa, e patate, mais, pomodoro risolsero questo secolare problema, come sappiamo anche dalle nostre diete. Poi l’arrivo dei metalli preziosi diede inizio al processo di accumulazione originaria del capitale, che si rafforzò ulteriormente con l’introduzione del gold standard da parte di Isaac Newton in Inghilterra, cioè la nominale parità tra denaro circolante in banconote e oro conservato nei depositi della Banca d’Inghilterra. Ovviamente pochi si presentavano agli sportelli della Banca d’Inghilterra a chiedere che le loro banconote fossero cambiate in oro e così Newton, che era il governatore della Banca d’Inghilterra, poté fare stampare più denaro di quanto oro fosse conservato e in pratica aumentò la ricchezza dell’Inghilterra, ricchezza che in parte era rappresentata da semplice carta. Ma chi avrebbe messo in discussione la ricchezza e la potenza inglesi? Al culmine della sua espansione coloniale, l’Inghilterra controllava direttamente un quarto della superficie della Terra e un quinto della popolazione mondiale.
Ma nel corso del tempo, soprattutto nel periodo del suo massimo splendore, avere tutta questa potenza coloniale, ha aiutato lo sviluppo economico e sociale inglese? D’Eredità avanza dubbi, ma sulla base non solo di ipotesi, ma di fatti concreti: «L’eccessiva insistenza dell’industria britannica nel mantenimento di linee di produzioni tipiche della prima rivoluzione industriale, il cosiddetto overcommitment, avrebbe avuto un ruolo centrale in quello che sarebbe stato, appunto, chiamato il “Climaterio britannico”. Si trattava di un’opzione comoda, incoraggiata dalla buona possibilità di assorbimento della produzione industriale da parte delle realtà territoriali coloniali. A causa di quell’approccio, il legame sia con le colonie sia con i dominions (…) avrebbe fatto sì che non solo si destinassero all’esterno capitali da potere/dovere utilizzare piuttosto per il rinnovamento tecnologico interno, ma che si producesse un fenomeno d’immobilità produttiva dovuto allo sbocco della produzione metropolitana verso mercati poco esigenti e per ciò stesso inadatti a imporre un costante miglioramento qualitativo» (p. 143). Il confronto con il contemporaneo sviluppo industriale tedesco fa emergere con chiarezza che l’Inghilterra non sviluppò quanto poteva e doveva fare in prospettiva futura.
La Germania, non avendo colonie di grandi dimensioni come l’India, dovette concentrare il suo sviluppo sulla buona qualità dei suoi prodotti per conquistare mercati, mentre l’Inghilterra si accontentava di vendere all’incipiente borghesia indiana, che numericamente era pari alla propria. Questa ristrettezza di mezzi si riscontra nel fatto che l’Inghilterra non ha avuto la tendenza ad esportare una propria civilizzazione, anzi ha preso molto dalle proprie colonie. Questo al contrario dell’espansionismo imperiale statunitense, che impone massicciamente moda, cucina, musica, cinema, insieme alle proprie merci. L’Inghilterra tutt’al più si è rivolta alle classi dirigenti locali, non alle masse dei popoli colonizzati, come modello di civilizzazione. La Germania ha provato a sviluppare un proprio modello di civilizzazione, ma sul piano culturale, con la sua musica e la sua filosofia, e la sua corsa al colonialismo fu solo una conseguenza di tendenze nazionalistiche (cfr. p. 85), quindi non economiche, che finirono per rovinare il proprio progetto di sviluppo economico e sociale.
Senza dubbio, l’Inghilterra riuscì prima a resistere e poi a sconfiggere il tentativo imperialistico della Germania, perché «sfruttò a pieno tutto il rapporto con le Amministrazioni dei territori che formavano i dominions britannici che erano obbligate –…– a comprare merci dalla madre patria Gran Bretagna. In secondo luogo vanno messi nel conto gli accordi commerciali con i governi dell’America latina, che in taluni casi garantivano quasi il monopolio di importantissime materie prime e prodotti agricoli» (p. 151). Però, a differenza della Germania, non ebbe interesse a sviluppare la qualità dei prodotti della propria industria nella stessa misura in cui la sviluppò la Germania e non intensificò la ricerca scientifica nella stessa misura in cui la sviluppò la Germania. L’Inghilterra sviluppò piuttosto il proprio capitalismo finanziario e non ebbe in ciò, praticamente, nessun ostacolo e nessun concorrente. Il capitalismo finanziario, come insegna Marx, è la forma più sviluppata di sfruttamento capitalistico, ma il capitalismo finanziario non è progressivo. A distanza di un secolo, si può azzardare a dire che lo sviluppo economico, sociale e culturale dell’Inghilterra fu contenuto dal proprio colonialismo.
Paradossalmente lo stesso si può dire per la Germania, seppure non ebbe un colonialismo sviluppato quanto quello inglese, ma fu proprio questo senso di inferiorità che spinse la Germania a seguire il modello di sviluppo inglese e che la portò alla completa rovina con la sconfitta disastrosa in due guerre mondiali. Ma la Germania era costretta ad avere una forma di capitalismo progressiva, solo che il suo progresso fu sacrificato pur di avere colonie. In fondo la Germania distrusse il suo sviluppo economico per ragioni non economiche, piuttosto per ragioni politiche. Solo adesso che ha messo da parte ogni velleità di potenza politica, la Germania sta godendo di un benessere economico notevole e invidiabile a dimostrazione che è il pacifismo la forma più concreta di sviluppo economico, sociale e culturale.
Se guardiamo alla nostra prospettiva nazionale, possiamo notare che il modello di unificazione nazionale fu di carattere coloniale. Il Regno di Sardegna si estese annettendo alla pari regioni sviluppate come la Lombardia, il Nord-est e l’Emilia e la Toscana, ma l’unificazione del resto d’Italia centro-meridionale avvenne quasi in forma coloniale. Finito il processo di unificazione nazionale si pretesero colonie. Non avendo la forza di strappare colonie alle grandi potenze, come pretese di fare la Germania, l’Italia si accontentò di territori senza alcun valore economico, come Eritrea e Somalia e poi Libia ed Etiopia. La Libia sarebbe stata una colonia vantaggiosa, ma l’Italia debolissima nel suo sviluppo scientifico e industriale era incapace di approfittare della conquista. Solo dopo che le compagnie petrolifere inglesi si spostarono in Libia fu possibile estrarre petrolio, grazie alla più avanzata tecnologia estrattiva inglese. Quanto D’Eredità dedica all’analisi del capitalismo inglese può valere a maggior ragione per il capitalismo italiano: «La politica industriale britannica aveva preferito la possibilità di assorbimento dei propri prodotti da parte dei mercati coloniali voluti e quasi programmati da Londra per consumare merci britanniche. Secondo questa prospettiva, quindi, nel lungo periodo il mantenimento e l’esistenza stessa di un impero coloniale avrebbe non più invogliato ma costretto il sistema economico britannico a destinare verso le colonie quei capitali da potere essere, invece, utilizzati in importanti processi di rinnovamento tecnologico interno e in infrastrutture ad alta capacità di efficienza industriale» (p. 83). L’Italia aveva pochi capitali e pochi ne investì nelle colonie, ma questi scarsi capitali erano sottratti alle regioni del centro-sud italiane che più avrebbero necessitato di capitali per equilibrare lo sviluppo economico del paese. Lo stentato sviluppo delle regioni centro-meridionali fu offerto dall’emigrazione e dalla massa di capitali che gli emigrati rimandavano in Italia per mantenere le famiglie rimastevi, oppure si trattava di piccole risparmi, accumulati nei paesi di immigrazione da coloro che ritornavano al paese d’origine. In pratica una buona parte dello sviluppo economico e sociale dell’Italia è passato direttamente dal “lavoro vivo” degli emigrati italiani e, anche nel caso dell’Italia, seppure piccolo il colonialismo fu un danno più che un vantaggio.
Un’altra nazione scelse una forma di sviluppo non coloniale nella prima parte della sua storia, cioè gli Stati Uniti. Dalla sua nascita, almeno per un secolo, gli Stati Uniti si concentrarono nello sfruttamento dell’enorme territorio che stava alle spalle delle originarie tredici colonie. Questo sfruttamento fu violento e selvaggio né più, né meno, di quello spagnolo e portoghese in America latina, ma a differenza di quello costruì un’economia potente. Grazie al controllo economico dell’America latina, gli Stati Uniti costituitisi come prima potenza economica e militare del Pianeta, sono divenuti una potenza neo-coloniale, cioè hanno sviluppato una forma nuova di colonialismo, non più diretto, ma economico, asservendo in forma ancora più complicata le nazioni del Terzo Mondo di quanto abbiano fatto gli inglesi, a loro volta. Gli Stati Uniti hanno imposto una forma di civilizzazione sia come strumento di controllo, sia come merce da vendere alle nazioni del Terzo Mondo, che, infatti, bussano alle porte del “gigante del Nord”. Sono in stragrande maggioranza ladinos coloro che vogliono entrare negli Stati Uniti, ma lo farebbero comprensibilmente anche africani o asiatici, proprio in forza del modello civilizzatore imposto nelle loro madrepatrie.
I paesi della Periferia confondono questo modello civilizzatore statunitense con il modello assoluto di civiltà, così come sono stati abituati dal vecchio colonialismo. In realtà le madrepatrie coloniali europee oggi non vogliono aprire le loro frontiere ad accogliere i discendenti di coloro che furono abituati a pensare che l’Europa era il Centro della civiltà umana. L’Europa non è in grado di accogliere nessuno, proprio perché sta vivendo le conseguenze storiche di quel modello di sviluppo coloniale che adottò circa un secolo e mezzo fa. Forse se i capitali investiti nelle colonie, fossero stati investiti nel continente, la storia d’Europa oggi potrebbe essere diversa. Allora poté distribuire ricchezza tra i suoi cittadini, grazie al controllo delle colonie (Francia e Inghilterra) o alla forza della propria economia in sviluppo progressivo (Germania, Paesi Bassi, Scandinavia). Oggi quella spinta si è esaurita ed è impossibile mantenere una popolazione così numerosa, più di 500 milioni di esseri umani con un altissimo livello di vita. La crisi scatenata dalla pandemia del Covid-19 sta manifestando chiaramente queste contraddizioni e anzi le sta acuendo.
In conclusione, posso affermare che il capitalismo è un sistema di produzione della ricchezza che ha un procedere dialettico, nel senso che si afferma tramite forme che poi si rovesciano nel loro contrario: il colonialismo, violentissimo nell’inizio della sua realizzazione storica, è diventato, nel corso del tempo, più un ostacolo che uno stimolo alla crescita economica, sociale e civile delle nazioni che lo hanno adottato. Le ragioni per cui il colonialismo è stato, nell’ultimo secolo della sua esistenza, una forma di presunto sviluppo del capitalismo, erano, in realtà, non economiche; così le nazioni colonialistiche sono sopravvissute alle proprie contraddizioni, fin quando le ragioni economiche sono prevalse su quelle politiche e nazionalistiche e quella forma di capitalismo coloniale è stata abbandonata a favore di un neo-colonialismo che ha una fondamentale ragione economica.
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