Il virus, il tempo e la scienza
di Ettore Rocchi e Sara Peluso
La pandemia ha alimentato in questo periodo una latente ideologia antiscientifica che da anni serpeggiava nel nostro paese. Non c’è da stupirsi. Da decenni, ormai, i governi tagliano su istruzione, università e ricerca. L’italiano medio si affida a blog a dir poco imbarazzanti per farsi un’idea. L’ultimo dei cialtroni ha la stessa visibilità sui social di un premio Nobel. Anzi, ne ha molta di più perché, rispetto a un premio Nobel, ha molto più tempo da perdere. L’analfabetismo funzionale ha raggiunto livelli da primato europeo. L’analfabetismo scientifico è diffuso come mai, probabilmente, prima d’ora e come in nessun’altra nazione del mondo occidentale. Ci mancava solo la pandemia per dare il colpo di grazia all’immagine che la scienza ha prodotto nei quattro secoli dalla rivoluzione scientifica.
E veniamo al punto dell’immagine che la scienza ha dato di sé in questo frangente. Iniziamo col dire che la scienza ha un metodo e dei tempi che non sono adatti alle emergenze. E quindi per questo è fallimentare? No. È pur sempre il metodo migliore che abbiamo per conoscere. Semplicemente, ha modi e tempi incompatibili con delle risposte immediate. Un modello scientifico nasce da osservazioni che richiedono tempo, deve essere costruito con un lavoro paziente, e soprattutto deve essere validato: tutto ciò costa denaro, risorse umane e soprattutto tempo. E quando anche sia validato, questo sarà in grado di fare predizioni solo finché la situazione rimarrà costante, stabile (ci riferiamo soprattutto ai famigerati modelli matematici). Al cambiare delle condizioni, cambieranno modelli e previsioni. Dunque, è lecito che il non addetto ai lavori si chieda: “a cosa serve un modello che descriva l’andamento dell’epidemia?”.
Su questo bisogna essere molto chiari. Un modello epidemico serve a due cose. La prima è che ci aiuta a capire la dinamica epidemica. E quindi la modalità di trasmissione del virus. Se si costruisce un modello che risponde bene alle osservazioni sul campo, allora questo significa che gli assunti biologici che sono stati postulati come base teorica del modello sono veri (o, più propriamente, compatibili coi fatti osservati). Conosceremo meglio, quindi, le modalità dell’infezione. Poi, un modello serve a fare previsioni. Ma le previsioni saranno valide esclusivamente se la situazione – e di conseguenza i parametri del modello – rimarranno inalterati. Quei parametri che dipendono esclusivamente dalle caratteristiche biologiche del virus certamente lo rimarranno, a meno di mutazioni virali, appunto. Ma i parametri di infettività, ciò che viene definito come la forza del contagio, dipenderanno – oltre che dalle caratteristiche intrinseche al virus – fondamentalmente dalle politiche di contenimento. Insomma, nessun modello che sia valido durante un lockdown potrà essere valido anche in fase di riapertura. Purtroppo, come si diceva, la scienza ha dei tempi lunghi.
E ha dei tempi ancora più lunghi per lo sviluppo di terapie e di vaccini, che sono approvati dalle autorità competenti solo dopo un’attenta valutazione della sicurezza e dell’efficacia. Quindi, rinunciamo alla scienza? Volentieri, se ci fosse un’alternativa più efficace. Però chiediamo che l’efficacia di un metodo alternativo non sia stabilita su base dogmatica, ma suffragata dall’impietoso vaglio dei fatti. Se dovessimo scommettere, noi siamo convinti che tale alternativa non esista, semplicemente. E certo non si trova in alghe magiche, lieviti, e in tante altre intuizioni mediate dai social, le più sgangherate e prive di fondamento.
Parafrasando Churchill e la sua celebre affermazione sulla democrazia, potremmo dire che la scienza è la peggior forma di conoscenza, eccetto per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora. È un metodo che richiede pazienza, che richiede verifiche, osservazioni che confermano le ipotesi, correzioni di queste ipotesi sulla base delle osservazioni. E tutto questo può apparire incompatibile con un’emergenza. Ma se oggi, a distanza di pochi mesi, siamo in grado di proporre dei protocolli terapeutici, per quanto non completamente risolutivi, lo dobbiamo al metodo scientifico. E se, tra qualche tempo, avremo una terapia specifica ancora più efficace e, auspicabilmente, un vaccino, lo dovremo alla scienza. Allo stesso modo in cui oggi abbiamo terapie che hanno sostanzialmente azzerato la spaventosa letalità da HIV degli anni ‘80. Se ne ricordi, chi oggi biasima la scienza.
Discorso differente meritano gli scienziati. Inutile dire che c’è stata una miserevole corsa alle apparizioni televisive e alle concioni, spesso propinate con un tono profetico che poco si addice alla scienza. Dovrebbe essere chiaro a tutti che in questi casi non parla la scienza, parlano uomini. La scienza si fa nei laboratori e si legge sulle riviste scientifiche. Scomodo? Magari sì, per un giornalista medio. Poco spettacolare? Certamente sì, per un tycoon televisivo. Ma così è, che ci piaccia o no. E persino le riviste scientifiche, lo abbiamo visto, sotto pressione possono commettere degli errori. Anche in questo caso, la fretta non è una buona consigliera.
Ma biasimare la scienza per il comportamento a volte sconsiderato di qualche scienziato, non è una mossa saggia. La scienza si basa sui fatti e, come diceva Demmings, “senza dati sei soltanto un’altra persona con un’opinione”.
La scienza, in questa circostanza, l’hanno fatta anche i medici in prima linea, quei medici che sono stati abbandonati dalle istituzioni e che hanno dovuto barcamenarsi tra le informazioni spesso veicolate da un passaparola personale e sorretti da un’etica della responsabilità, senza alcun coordinamento ministeriale (che, lo ricordiamo, a tutt’oggi non ha emanato protocolli sanitari e terapeutici). Quegli stessi medici che, eroi fino a qualche settimana fa, oggi subiscono denunce come se il virus l’avessero inventato loro.
Insomma, per sintetizzare, i media e l’opinione pubblica hanno chiesto alla scienza ciò che la scienza non poteva dare. O, perlomeno, ciò che non poteva dare in tempi così rapidi.
Avremmo chiesto a Michelangelo di dipingere la Cappella Sistina in due giorni? Lo avremmo potuto chiedere a un imbianchino, magari, ma non a un artista. Allo stesso modo, non si poteva chiedere alla scienza di risolvere il problema Covid-19 in tempo reale. Per questo, ci si sarebbe dovuti rivolgere alla magia. Peccato che non esista.
Articolo straordinario pe profondità e lucidità. Grazie agli autori. Da divulgare!