La libertà, la morte, lo Stato. Filosofie e ideologie della questione pandemica
di Emiliano Alessandroni
1. Libertà 2. Società 3. La meditatio mortis
4. Cospirazionismo e complottismo 5. Il quadro internazionale
1. Libertà
Pochi esempi sembrano così eloquenti, per quanto concerne le influenze esercitate dall’ideologia sulla semantica, di ciò che nella storia del linguaggio è accaduto alla parola “libertà”, oggi al centro di un acceso dibattito filosofico e politico sul valore delle misure anti-pandemiche. Questa parola è stata infatti evocata, nel corso della storia, all’interno delle circostanze più svariate e di rivendicazioni fra loro persino contrapposte. “Libertà!” gridavano, ad esempio, gli schiavi neri in rivolta a Santo Domingo e negli Stati Uniti del Sud. Ma “libertà!” gridavano anche i proprietari di schiavi che negli Usa agognavano la secessione dal Nord per continuare a perpetrare la schiavitù su base razziale e chiedevano che lo Stato, il governo centrale, non si intromettesse nei propri affari commerciali.
Nell’ambito della modernità occidentale, in particolar modo, vediamo spesso incontrarsi e non molto meno spesso scontrarsi, almeno tre idee generali di libertà.
1. Una prima idea collega tre orientamenti di pensiero differenti: tradizione anarchica, liberale e socialdarwinista. La parola “libertà” assume, all’interno di essi, configurazioni fra loro eterogenee, riconducibili tuttavia a una sorgente comune: la sorgente dell’arbitrio, della spontaneità, del laissez faire, dell’assenza di vincoli, del fare ciò che si vuole. Come acerrimi nemici di questa libertà vengono allora percepiti lo Stato in quanto tale, la norma, le regolamentazioni politiche nazionali; tutti bersagli polemici, non a caso, di autori fra loro pur così distanti come Michael Bakunin, Friedrich von Hayek ed Herbert Spencer. La regolamentazione della vita pubblica da parte dell’apparato giuridico costituisce di per sé un attacco alla libertà, una distorsione dell’ordine naturale e spontaneo delle cose. Ma questa celebrazione del naturale e dello spontaneo, all’interno di un mondo in cui i rapporti di forza sul piano ideologico, politico ed economico risultano squilibrati, non può che tramutarsi in una legittimazione del privilegio e dell’oppressione. Tale visione della libertà, d’altro canto, risulta meramente formalistica: a essa sembra non competere alcun contenuto specifico o il contenuto specifico che di volta in volta questa presunta forma vuota assume viene presentato come irrilevante. Così alla “libertà” può essere associato ogni contenuto di volontà: chi vuole il Green Pass, chi non lo vuole, chi vuole curare i malati negli ospedali con i riti magici, chi vuole che non lo faccia, chi vuole uccidere i cinesi, chi vuole sparare ai gommoni, libertà potrebbe essere a questo punto tutto…e quindi nulla. Nulla, soprattutto, in grado di trasformare e riequilibrare in senso più inclusivo e universalistico i rapporti sociali vigenti.
Come che sia, aggrappati a questa visione formalistica della libertà, la tradizione anarchica, quella liberale e quella socialdarwinista, talvolta in maniera ibrida, rivivono in Italia nelle rivendicazioni di Giorgio Agamben, dei Wu Ming, di Diego Fusaro, di Massimo Cacciari, di Carlo Lottieri, di Nicola Porro, di Vittorio Sgarbi, di Giuseppe Cruciani, di Matteo Salvini, di Giorgia Meloni, di Roberto Fiore, dei manifestanti di Trieste, di Enrico Montesano e di molti altri; tutti, sia pur nella loro diversità, impegnati a denunciare nell’introduzione del Green Pass una deriva autoritaria del paese e un feroce attacco alla libertà.
2. Una visione non meno formalistica di quella appena osservata affligge tuttavia, a ben vedere, anche quel concetto di libertà che incontriamo nella tradizione contrattualistica (in Rousseau ad esempio) e che per certi versi ha finito poi per penetrare all’interno della concezione liberaldemocratica (grazie soprattutto alle spinte di un movimento operaio e socialista che ha premuto per cancellare dal suffragio e dai diritti politici quelle clausole di esclusione e quelle restrizioni censitarie che il protoliberalismo non soltanto difendeva ma apertamente teorizzava): “la libertà di ognuno”, è diventato ormai slogan comune, “finisce dove comincia quella degli altri”.
Si tratta ancora una volta, dicevamo, di una concezione che riduce la libertà a una vuota forma: a essa sembra non competere infatti nessun contenuto specifico, nessuna volontà razionale, ma soltanto la volontà del singolo nel suo arbitrio particolare. Il carattere contraddittorio di questa concezione emerge dal fatto che ognuno, ogni singolarità, reclama per sé stessa una libertà che spesso si rivela inconciliabile con quella altrui. Non è un caso che a questo principio (“la tua libertà finisce dove comincia la mia”) si sono richiamati sia coloro che legittimavano le misure anti-pandemiche, sia coloro che le respingevano. Ognuno dei due fronti chiedeva all’altro di rinunciare alla sua rivendicazione affinché la propria libertà e il proprio diritto venissero rispettati e garantiti. Questo concetto di libertà, però, non ci permette di capire da quale parte stesse la ragione.
3. A fare luce sul problema e a sciogliere l’impasse, può intervenire allora la tradizione hegelomarxista, per la quale la libertà non è né l’arbitrio (ovvero il “fare ciò che si vuole”) né la mediazione degli arbitri (ossia la mediazione dei diversi “fare ciò che si vuole”). Per essa la libertà è un contenuto che si intona con la razionalità del mondo e l’interesse universale. Libero può definirsi allora quell’individuo che viene posto nelle condizioni di desiderare per sé ciò il cui conseguimento costituisce al tempo stesso un’acquisizione universale. E non è tutto: non è infatti sufficiente la convergenza fra il desiderio particolare e l’interesse universale, è necessario che tale convergenza si riempia di coscienza, di sapere, che i singoli uomini diventino cioè consci della coincidenza di contenuto fra il loro desiderio soggettivo e il bene del genere umano.
Nella filosofia del diritto Hegel conferisce ampia legittimazione al “diritto di proprietà”. Tuttavia, nella situazione in cui un povero sul punto di morire di fame commette un furto (e dunque una violazione del diritto di proprietà) al fine di garantirsi la sopravvivenza, sopraggiunge in quel caso il Notrecht, il “diritto del bisogno estremo”.
Accade allora che il “diritto di proprietà” entra in conflitto con il “diritto del bisogno estremo”, e di fronte a questa collisione il primo dei due finisce, secondo il filosofo tedesco, in secondo piano.
Perché? – potremmo domandarci. Perché, ad esempio, Hegel non afferma il contrario, come fanno i classici del pensiero liberale, e cioè non sostiene che il cosiddetto “diritto del bisogno estremo” resta in ogni caso subordinato al “diritto di proprietà”?
La spiegazione è ben presto data. Perché la violazione del “diritto di proprietà” costituisce sì una violazione della persona (del proprietario in questo caso), ma una violazione parziale, limitata cioè a quella data cosa (o sfera) di cui il proprietario viene privato. Di contro, la violazione del “diritto del bisogno estremo”, diventa invece una violazione della persona ben maggiore della violazione del “diritto di proprietà”; diventa infatti una violazione totale. E se per Hegel la schiavitù è espressione di un “delitto assoluto”, per ciò che implica un potere assoluto di vita o di morte da parte del proprietario di schiavi nei confronti del proprio schiavo, allora il “diritto alla vita” costituisce un “diritto assoluto” che va anteposto a ogni altro diritto. Tutto fuorché suscettibile di avvicinarsi a uno Stato etico risulta allora quello Stato, secondo il filosofo tedesco, che relega in secondo piano la difesa della libertà di esistenza e il diritto alla vita.
Rimane a questo punto aperto il quesito su chi, nel corso della presente pandemia, una tale libertà di esistenza e un tale diritto alla vita li abbia maggiormente difesi, su chi vale a dire si sia impegnato a garantire la libertà più universale, tenendo in debito conto proprio quel monito di Hegel secondo cui, «quando si parla di libertà, bisogna fare sempre attenzione che [in luogo di interessi universali] non siano in realtà interessi privati quelli di cui si sta parlando» [ref] Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, trad. it., Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di Giovanni Bonacina e Livio Sichirollo, Laterza, Bari 2003, p. 350.[/ref].
2. Società
Abbiamo posto libertà e diritto al centro di queste considerazioni, ma affinché questi due valori universali e inestricabili siano garantiti, è necessario che sia garantita anche l’esistenza della società. Nello stato di natura, infatti, non esiste il diritto: a regolare i conflitti che sorgono fra gli esseri viventi è essenzialmente la forza. Ma l’uomo costituisce un essere vivente che, oltre alla natura biologica, vanta anche una “seconda natura”, a cui spetta il compito di distinguerlo da tutti gli altri esseri viventi. Sicché la più intima specificità dell’uomo è la specificità sociale: la società è ciò che rende ogni essere umano essenzialmente ciò che è, l’anima che lascia impresso il proprio sigillo nei contenuti di tutta la sua vita. Qualunque essere umano che voglia rivendicare un diritto o una libertà è dunque costretto intimamente a riconoscere il valore della società (che è altra cosa dal conferire legittimazione a qualunque società specifica). E che cos’è la società se non una regolamentazione, attraverso un complesso di norme, della vita collettiva?
Ma un complesso di norme, va tenuto conto, limita e indirizza le volontà, traccia i confini e imprime direzione alla galassia dei differenti “far ciò che si vuole”. È soltanto attraverso questa gamma di limitazioni e stimoli normativi che la libertà e il diritto possono trovare realizzazione. Infatti, non potrebbero esistere diritti se non esistessero anche doveri e divieti. Naturalmente, ammettere l’imprescindibilità di doveri e di divieti per l’esistenza di diritti, non significa legittimare ogni dovere e ogni divieto specifici, così come, d’altro canto, ammettere l’imprescindibilità dei diritti non equivale a legittimare ogni diritto determinato (il diritto di proprietà sull’essere umano, ad esempio, il diritto di proprietà sullo schiavo, è stato per fortuna, a suon di lotte e rivolte servili, giuridicamente e culturalmente delegittimato). Resta tuttavia che l’esistenza di doveri e di divieti costituisce la condizione necessaria per l’esistenza stessa dei diritti. Quando vengono rifiutate le vaccinazioni, allora, declamando l’inaccettabilità del fatto che lo Stato imponga un obbligo all’individuo, quando viene rifiutato il Pass vaccinale o di buona salute per accedere agli edifici a uso pubblico con l’argomentazione che l’imposizione di divieti da parte dello Stato costituisce una lesione della libertà individuale, si stanno inconsapevolmente delegittimando i requisiti minimi, le condizioni fondamentali nelle quali soltanto l’individuo può disporre di diritti e beneficiare della libertà.
Lo stesso dicasi per il concetto di “biopolitica”: lungi dal costituire il luogo della manipolazione, della sottrazione dei corpi dal terreno della libera propensione naturale, essa costituisce piuttosto l’essenza di quella “seconda natura” (di cui in modo diverso hanno parlato sia Hegel che Leopardi) senza la quale l’uomo non sarebbe uomo. Certo, come nei casi appena osservati, la legittimazione della biopolitica non implica la legittimazione di tutte le sue varianti: è giusto e sacrosanto denunciare e combattere quelle biopolitiche che ostacolano i processi di emancipazione sociale e soffocano le spinte propulsive verso l’acquisizione di diritti. Ma è altresì fondamentale non perdere di vista la dialettica che si sviluppa fra le diverse tipologie di biopolitica, i conflitti che si determinano fra una biopolitica emancipatrice e una biopolitica de-emancipatrice, fra biopolitiche progressive e biopolitiche regressive, non perdere di vista il fatto che la biopolitica in quanto tale resta in ogni caso il terreno su cui soltanto la libertà può darsi, il terreno che esprime la più specifica essenza umana, la conseguenza inevitabile dell’essere essenzialmente l’uomo, come evidenziava Aristotele, uno zoon politikon.
Un punto va dunque tenuto fermo: non sono mai esistiti, né mai esisteranno, libertà e diritti senza biopolitica. Nel Quaderno 22, Antonio Gramsci ci ha lasciato riflessioni importanti sul potenziale di libertà (e con ciò si intende qui anche libertà del corpo), contenuto nella biopolitica. E benché non abbia utilizzato esplicitamente questo termine ha indubbiamente alluso al fatto che tutta la liberazione del corpo conseguita dall’essere umano nel corso della sua storia, la liberazione di una molteplicità di movimenti muscolari dalla gabbia naturale nella quale erano inizialmente ingessati, è stata un processo educativo ed è stata essenzialmente una questione di biopolitica.
Del tutto privi di senso storico si dimostrano invece gli accostamenti fra il Pass vaccinale o di buona salute e le misure di despecificazione naturalistica o etnico/razziale in vigore nella Germania nazista. Accostamenti che hanno giustamente suscitato l’indignazione della senatrice Liliana Segre, che, internata da bambina nel campo di concentramento di Malchow, poi fortunatamente liberato dall’Armata Rossa, ha vissuto in prima persona tutto l’orrore delle leggi razziali.
D’altro canto, se proprio un accostamento con la Germania nazista e la despecificazione naturalistica vogliamo tracciarlo, questo più che riguardare l’obbligo vaccinale o il Green Pass in sé, chiama piuttosto in causa proprio il rifiuto delle misure antipandemiche. Quando si partisse almeno, come nella maggior parte dei casi, dal presupposto che il virus sia reale, come sono stati reali i morti[ref] Certo, alcuni sostengono che il numero di morti sia stato gonfiato e che siano stati rubricati come “morte per Covid-19” dei decessi avvenuti in realtà per altre cause. Costoro tuttavia dimenticano sempre di tenere conto delle “morti indirette per Covid-19”, che non vengono registrate come “morti per Covid-19”: durante il picco di contagi infatti, gli ospedali erano costipati di malati e le terapie intensive così piene da scoppiare. Quella situazione ha impedito le cure ospedaliere a molte altre persone che soffrivano di altri disturbi e che sono decedute per impossibilità di ottenere le cure adeguate. La causa indiretta del loro decesso è stata il Covid-19, eppure non essendo stata questa la causa diretta, non sono state registrate come “morti da Covid-19”. [/ref], e non una semplice montatura massmediatica di dimensioni planetarie, quando si ammettesse in qualche modo la letalità del Covid-19, quale significato potrà assumere il rifiuto delle misure di contenimento se non una sorta di una più o meno conscia adesione alle concezioni socialdarwiniste ed eugenetiche? È questo invito al “convivere con la morte”, a non avere paura della morte, ad accettare la selezione naturale del più adatto, a considerare come pacifico e ineluttabile l’eliminazione delle figure umane geneticamente più fragili, che mostra oggi punti di contatto con quel terreno discorsivo da cui l’ideologia nazista ha potuto spiccare il salto.
3. La meditatio mortis
La diffusione della pandemia e le sue tragiche conseguenze hanno anche alimentato una riflessione sul tema della paura e della morte: «La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa»[ref]G. Agamben, Chiarimenti, Quodlibet 17-03-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-chiarimenti.[/ref] , aveva scritto Giorgio Agamben, tanto che «sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia»[ref]G. Agamben, Riflessioni sulla peste, Quodlibet 27-03-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-riflessioni-sulla-peste. [/ref]. E su “La Verità”, già Marcello Veneziani: «Il potere regge sulla paura, lo diceva Hobbes e in modi diversi Machiavelli. E lo dicevano gli antichi prima di loro. E la paura è sempre, alla fine, paura di morire»[ref]M. Veneziani, Il pericolo di una dittatura sanitaria, La Verità, 15/03/ 2020.[/ref]. Ecco allora che una società che adotta le misure antipandemiche, come lockdown e coprifuoco, si rivela «una società vigliacca che ha paura anche della propria ombra e rinuncia a vivere pur di salvare la vita», una società suscettibile di distruggere le nostre civiltà millenarie, quelle nostre «civiltà tradizionali» che tendenzialmente non rifuggono, ma «addomesticano il dolore, la morte, la vecchiaia, la solitudine» rendendole «familiari» e inserendole «in un ordine naturale e soprannaturale del mondo, in un rito e in una visione religiosa». La nostra società al contrario, che va sempre più “cinesizzandosi” e “comunistizzandosi”, disgraziatamente «allevia, rinvia, nasconde ed espelle il dolore, la morte, la vecchiaia e la solitudine, grazie alla tecnologia, alla medicina, al benessere, alle distrazioni»[ref]M. Veneziani, Fuga in massa dal dolore, Panorama n.9, 2021.[/ref].
Dietro le spalle di Veneziani agisce evidentemente il pensiero di un filosofo a lui molto caro: in una conferenza tenuta nel 1914 sul tema “La filosofia della guerra”, Giovanni Gentile, di lì a poco ministro dell’istruzione del prossimo governo fascista, celebra il primo conflitto mondiale come un’imperdibile occasione per l’anima umana di purificarsi attraverso il dolore.
Ma la sua posizione non è isolata: è in questo contesto che il tema della meditatio mortis conosce la sua massima espansione. In una lettera alla madre, Max Weber esprime il proprio rammarico per non potere vivere personalmente l’esperienza del fronte: «essere all’altezza dell’orrore della guerra…questo è autentico esser uomini», affermava. La moglie Marianne decanta a sua volta «i tratti dei soldati in congedo…vigilanza interiore, severa responsabilità e le esperienze vissute nella vicinanza alla morte»[ref]Cfr. Losurdo, p. 11.[/ref] . E secondo Husserl, nel 1917, ancora in pieno conflitto bellico, «la situazione critica e la morte sono oggi gli educatori…La morte si è di nuovo conquistato il suo sacro diritto originario». D’altro canto, nel 1915, Sigmund Freud si esprimeva in questi termini:
La vita si impoverisce, perde d’interesse se non è lecito rischiare quella che, nel suo gioco, è la massima posta, e cioè la vita stessa…La tendenza a escludere la morte dal libro maestro della vita ci ha così imposto molte altre rinunce ed esclusioni. Pure il motto anseatico diceva: Navigare necesse, vivere non necesse. Navigare è necessario, vivere non è indispensabile!
È la guerra per Freud che ha ridestato la vita dal suo pavido sonnambulismo: «la guerra doveva spazzar via questo modo convenzionale di considerare la morte…E la vita è nuovamente divenuta interessante, e ha ritrovato tutto il suo contenuto»[ref] Ivi, p. 13.[/ref]. Analoga anche la posizione di Wittgenstein che, arruolatosi volontario al fronte, parla della vicinanza alla morte come ciò che potrà infondergli la luce della vita. Spesso nel celebrare la guerra, l’esperienza della morte e il coraggio di fronte ad essa come nutrimenti fondamentali dello spirito, i filosofi tedeschi indicavano negli Stati Uniti, nella Francia e nell’Inghilterra (ovvero nei paesi in conflitto con la Germania), i luoghi infernali in cui avevano trionfato il gretto materialismo, il naturalismo, l’attaccamento alla nuda vita, di contro ovviamente alla propria nazione che, impavida di fronte alla morte, consacrava il valore dell’anima e della spiritualità. Si tratta chiaramente di un’interpretazione ideologica del conflitto mondiale. Ma un’interpretazione che aveva finito con l’attecchire anche presso i propri nemici. Una medesima lettura manichea la ritroviamo infatti, ad esempio, anche nelle parole dell’allora Primo Ministro francese Clemenceau. Diametralmente opposto risulta tuttavia il giudizio, che deride il culto della morte ravvisato presso i tedeschi:
È proprio degli uomini amare la vita. I tedeschi non hanno questo impulso…Al contrario, sono colmi di una morbosa e satanica nostalgia per la morte. Come amano la morte, questi uomini! Frementi come in stato d’ebrezza e con un sorriso estatico, guardano ad essa come a una sorta di divinità…Anche la guerra è per loro un patto con la morte.
Anche se, dobbiamo precisare, un filosofo come Wittgenstein rivedrà le proprie posizioni e, prima ancora della fine del conflitto, si renderà conto che la guerra, anziché un momento di maturazione spirituale attraverso la meditatio mortis, costituisce a ben vedere «la completa vittoria del materialismo e il tramonto di ogni sensibilità per il bene e il male», i temi del dolore, della vita biologico/materiale, della morte, della sicurezza, della paura ecc., costituiscono i pilastri centrali, i fulcri semantici, della Kriegsideologie[ref] Su tutto il dibattito relativo alla meditatio mortis, cfr. D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’ideologia della guerra, Bollati Boringhieri, 2001, pp. 3-23.[/ref].
Essi troveranno un riscontro anche in pensatori come Ernst Jünger e Karl Jaspers. Quest’ultimo in particolar modo, affermando che il rischio della vita e la vicinanza alla morte sono preferibili all’asservimento, celebrava il duello (pratica al tempo ancora vigente), come strumento di regolamentazione dei conti fra gli individui e come momento in cui l’uomo, mettendosi in gioco, poteva acquisire la piena autocoscienza. Ancora nel 1932 scriveva: «La vita autentica è diretta alla morte, la vita più povera è diretta all’angoscia di fronte alla morte»[ref]Cfr. Ivi, p. 27.[/ref]. È nel solco di queste argomentazioni che compongono la variegata costellazione della Kriegsideologie, che Heidegger matura le sue convinzioni sull’angoscia, la paura e l’Essere-per-la-morte, fondamento ontologico quest’ultimo dell’Esistenza autentica. Non è un caso che egli indica proprio nella prima guerra mondiale, l’evento che ha messo in discussione l’Esistenza inautentica, la vita banausica e borghese del “Si” impersonale, dell’uomo massificato e privo del coraggio necessario per attraversare l’angoscia di fronte alla morte, dell’uomo filisteo e mediocre che vuole evadere dalla zona pericolosa dell’esistenza. E questi temi ritornano in Heidegger, con una serie infinita di connessioni, nel corso della seconda guerra mondiale. Ed è proprio ad Heidegger che Agamben si richiama esplicitamente nel condannare la paura come un costrutto sociale, come il tratto distintivo di quella vita inautentica che contraddistingue la modernità:
La paura è la dimensione in cui cade l’umanità quando si trova consegnata, come avviene nella modernità, a una cosalità senza scampo. L’essere spaventoso, la «cosa» che nei film del terrore assale e minaccia gli uomini, non è in questo senso che una incarnazione di questa inaggirabile cosalità.
Di qui anche la sensazione di impotenza che definisce la paura. Chi prova paura cerca di proteggersi in ogni modo e con ogni possibile accorgimento dalla cosa che lo minaccia – ad esempio indossando una mascherina o chiudendosi in casa –, ma questo non lo rassicura in alcun modo, anzi rende ancora più evidente e costante la sua impotenza a far fronte alla «cosa». Si può definire, in questo senso, la paura come l’inverso della volontà di potenza: il carattere essenziale della paura è una volontà di impotenza, il voler-essere-impotente di fronte alla cosa che fa paura[ref]G. Agamben, Che cos’è la paura?, Quodlibet 20-07-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-che-cos-u2019-a-paura. [/ref].
È tuttavia curioso che nel condannare la paura, e nello specifico la paura della morte, come prigione della vita, Agamben rivolga la sua condanna unicamente alla paura del virus e mai a quella del vaccino. Perché, potremmo domandarci, la paura del vaccino dovrebbe essere meno “volontà di impotenza” della paura del Covid-19? Perché tanto livore contro chi, a suo avviso, diffonde la paura della pandemia ma non una parola spesa su quelle piattaforme di orientamento reazionario come “Byoblu”, “Informare per Resistere” e “Imola Oggi” che, già sostenitrici delle strampalate teorie sul Piano Kalergi, alimentano il complottismo storico e, a colpi di notizie false o distorte, creano e diffondono ad arte il terrore per le terapie di immunizzazione? Dove finisce l’invito di Agamben a superare la paura, a recuperare l’heideggeriano coraggio di fronte alla morte, quando si tratta di vaccinazioni?
Più che ad Heidegger, in realtà, e ai discorsi dei vari esponenti della Kriegsideologie, ci sembra qui più opportuno riesumare questa considerazione di Rosenzweig che incontriamo ne La stella della redenzione:
La filosofia che davanti [all’uomo] esalta la morte come propria prediletta e come la nobile occasione per sottrarsi alle angustie della vita, sembra soltanto prendersi gioco di lui. L’uomo sente fin troppo bene di essere condannato alla morte, ma non al suicidio[ref]Cfr. Losurdo, cit., p. 180.[/ref].
È in questi termini che Rosenzweig si fa beffe della Kriegsideologie, di tutta la filosofia che inneggiava all’eroismo, al sacrificio, che esortava a sfidare la morte. Si può allora affermare oggi, sulla scorta di queste considerazioni, come la sostanziale sollecitazione a non temere la perdita della vita, a respingere le misure antipandemiche, a non avere paura del virus (che, si tenga presente, ha già ucciso allo stato attuale oltre 5 milioni di persone – sono le cifre di un olocausto) mentre si alimenta invece la paura nei confronti del vaccino (qui il “coraggio di fronte alla morte” non viene più evocato, nonostante il vaccino costituisca lo strumento finora più adeguato, fra quelli a disposizione, per evitare un’impennata dei decessi e altri tipi di restrizioni), sia, con le parole di Rosenzweig, più che “la nobile occasione per sottrarsi alle angustie della vita”, ovvero alle angustie della “nuda vita”, una vera e propria “condanna al suicidio”.
4. Cospirazionismo e complottismo
L’assenza, o quantomeno la carenza, in Occidente, di una sinistra sociale e autenticamente internazionalista, in grado di stimolare processi di emancipazione e indirizzare la rabbia dei ceti subalterni verso rivendicazioni di carattere universalistico, anziché verso particolarismi, corporativismi e arroccamenti identitari, ha fatto registrare, sul piano del dibattito, una complessiva scarsità di quegli strumenti analitici legati alla sua tradizione culturale. In luogo del materialismo storico e della dialettica, propensi a vagliare le connessioni esistenti fra interessi e pratiche discorsive, ma anche ad analizzare i rapporti di forza economici e politici su scala planetaria, nonché i diversi conflitti di potere, si è affermata allora una tendenza deteriore e più accessibile a quell’“analfabetismo di ritorno” già denunciato a suo tempo da Tullio De Mauro (e che comporta naturalmente anche un preoccupante analfabetismo politico): il complottismo storico. Tutto viene semplificato e ogni fenomeno reale ricondotto alla volontà di pochi soggetti (talvolta nominati, altre volte indicati generalmente come “poteri forti”) che tesserebbero la tela degli avvenimenti con un’impeccabile precisione, con una meticolosità degna di un dio. L’analisi del quadro politico, lo studio della storia, l’esame delle linee tendenziali dei vari conflitti, vengono gettati nella pattumiera, nulla serve più a niente. L’intero quadro politico/sociale è divenuto magicamente semplice e ognuno può capirlo con facilità: tutto ciò che è, è così perché alcune persone, per perseguire i propri interessi, vogliono che sia così. Qualcuno arriva a teorizzare che l’intera storia del genere umano altro non sarebbe che il disegno della volontà di pochi soggetti che si tramandano il mondo di generazione in generazione, giocando con le nostre vite, come fossimo marionette di cui soltanto loro, di padre in figlio, controllano i fili. Certo, è il trionfo della semplificazione, ma non solo. Sul piano filosofico è la morte della dialettica e l’apoteosi del soggettivismo: nessuna dialettica delle volontà e nessuna dialettica del potere. Proprio come la biopolitica così anche la volontà e il potere vengono pensati come fossero sostanze uniformi e privati della loro dinamica interna: i conflitti tra le biopolitiche, i conflitti tra le volontà e i conflitti tra i poteri (ancorché fra loro non equipollenti), scompaiano come per incanto trasformando dunque “biopolitica”, “volontà” e “potere” in entità astratte. Ma questa morte della dialettica e questa apoteosi del soggettivismo significano sul piano più prettamente politico la rivalsa della tradizione controrivoluzionaria. È in essa che incontriamo la facile sostituzione del “materialismo storico” con il “complottismo storico” come criterio con cui fornire le spiegazioni degli avvenimenti. Così ad esempio, rimuovendo le “contraddizioni oggettive” fra lo sviluppo dello spirito e le istituzioni politiche (Hegel) e quelle fra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali di produzione (Marx), la Rivoluzione Francese viene spiegata dagli ideologi della Restaurazione come il complotto di un pugno di agitatori, dalla natura malvagia, folle e malata. Una simile dinamica si ripresenta con lo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre. Nel mondo liberale comincia a essere agitato lo spettro del “complotto ebraico/bolscevico”: i tipografi della corona inglese stampano “I Protocolli dei Savi di Sion” (poi rilanciati da Hitler per presentare le proprie persecuzioni antisemite come una legittima difesa di fronte a un’incombente e terribile minaccia) e Winston Churchill parla apertamente di una «cospirazione mondiale per il rovesciamento della civiltà». La cultura reazionaria denuncia il grave pericolo in cui si trovavano le tradizioni, le identità nazionali, le peculiarità territoriali a causa dell’ascesa di comunisti ed ebrei sulla scena storica. Sì, le culture millenarie delle nazioni erano ormai sul punto di soccombere per colpa della «repubblica internazionale» voluta dai bolscevichi e dall’ebraismo apolide. L’ebreo viene denunciato come freischwebend, privo di radici e di storia, incarnazione di uno spirito mercantile e utilitarista («un parassita e un autentico mercante» lo definisce Carl Schmitt) e incline a entusiasmarsi per parole torbide come «internazionale». Dunque ebrei e comunisti, facce di una stessa medaglia, costituiscono gli artefici di un enorme complotto: un complotto di dimensioni planetarie che, come denunciava ancora Carl Schmitt, va da «Rothschild» a «Karl Marx»[ref]Su ciò cfr. Losurdo, cit. pp. 93-111[/ref]. Il nazismo si presentava allora come un eroico atto di resistenza, come una difesa della libertà minacciata da questa gigantesca cospirazione. Così come un atto di libertà si presentano quelle teorie che denunciano in un fantomatico “Piano Kalergi”, un complotto per sostituire l’etnia europea con le popolazioni provenienti dall’Africa o dall’Asia, nella presunta idea che l’annientamento delle identità nazionali e locali, ma anche l’intorbidamento della razza bianca attraverso il meticciato, sia per i gruppi economici transnazionali la via migliore per garantirsi il proprio incontrastato dominio. Ancora una volta lo stesso concetto di “economia” (o di “gruppi economici”) viene privato di una sua dialettica interna e reso uniforme in una semplificazione senza precedenti che riconduce nuovamente a una manciata di volontà soggettive una serie infinita di avvenimenti. Come nel caso delle persecuzioni naziste, anche in questo caso colpire i flussi migratori viene presentato come un atto di resistenza contro la volontà delle elite, contro la loro cospirazione: contrastare le politiche di integrazione e accoglienza diventa, vale a dire, secondo le tesi del “complottismo storico”, un atto di libertà.
Quanto si allontanano da queste narrazioni tipiche della tradizione reazionaria, le odierne visioni che riconducono tutti gli avvenimenti della pandemia da Covid-19 alla volontà soggettiva, nella sostanza al complotto, di pochi “gruppi economici” transnazionali, ovvero di poche “case farmaceutiche”? Quanto si discosta dalle narrazioni tipiche della tradizione reazionaria chi ha parlato della pandemia come di una vera e propria «invenzione» (dunque nuovamente come di un complotto) per opera dei «media», delle «autorità» e dei «governi» (ancora una volta, nel processo di semplificazione della logica populista queste tre istanze vengono uniformate e private di dialettica interna) finalizzata a varare «provvedimenti d’eccezione» e «limitazioni della libertà»[ref]G. Agamben, L’invenzione di un’epidemia, Quodlibet, 26-02-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-l-invenzione-di-un-epidemia. [/ref]? Quanto si discosta da quelle narrazioni chi ha dipinto l’«emergenza sanitaria» come «il laboratorio in cui si preparano», in maniera soggettiva e volontaristica, «i nuovi assetti politici e sociali che attendono l’umanità»[ref]G. Agamben, Distanziamento sociale, Quodlibet, 06-04-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-distanziamento-sociale. [/ref]? A ben vedere, a uno sguardo più attento, il complottismo di Agamben si riconnette alla tradizione reazionaria non soltanto sul piano metodologico, ma anche su quello dei contenuti: esso rivela infatti tutti i tratti del suprematismo occidentale (un mito particolarmente caro ai teorici della “white supremacy” – come Lothrop Stoddard, che indicava nei “neri” e “nei gialli” la “minaccia del sotto-uomo” in procinto di avanzare contro la civiltà bianca – a Oswald Spengler e agli stessi ideologi del Terzo Reich): «È possibile, infatti», a suo avviso, «che noi stiamo oggi assistendo a un conflitto fra il capitalismo occidentale, che conviveva con lo stato di diritto e le democrazie borghesi e il nuovo capitalismo comunista, dal quale quest’ultimo sembra uscire vittorioso», un conflitto in sostanza fra un capitalismo civile, quello bianco e occidentale, e un capitalismo barbaro, di matrice comunista, quello giallo e orientale: è infatti questo «il significato storico del ruolo di guida che sta assumendo la Cina non solo nell’economia in senso stretto, ma anche, come l’uso politico della pandemia ha mostrato eloquentemente, come paradigma di governo degli uomini»[ref]G. Agamben, Capitalismo comunista, Quodlibet, 15-12-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-capitalismo-comunista. [/ref]. Insomma, mancano ormai soltanto “I protocolli dei savi di Mao Zedong”: le misure antipandemiche rappresenterebbero ad avviso di Agamben un processo di “cinesizzazione” del mondo. L’erosione del suprematismo occidentale e dell’unipolarismo americano, la riduzione del potere globale degli Usa, che possiedono ancora circa 800 basi militari sparse per il mondo, vengono viste da Agamben come una minaccia. La resistenza contro le misure antipandemiche costituirebbe allora anche un atto di resistenza contro il “yellow peril”, contro il processo di “comunistizzazione” e “cinesizzazione” del pianeta. Insomma, dopo la teoria del “complotto ebraico/bolscevico” cara alla tradizione reazionaria del primo Novecento, Agamben si propone di combattere oggi le misure di contenimento della pandemia diffondendo la teoria del “complotto sino/comunista”. Non è un caso che la medesima minaccia da lui percepita venga denunciata anche da un intellettuale di orientamento apertamente reazionario come Marcello Veneziani, il quale paventa, dal canto suo, l’instaurarsi nel nostro paese di un «comunismo sanitario», pronto a ridistribuire «i redditi, livellando ogni attività», ma soprattutto a ridefinire il «capitalismo dentro una gabbia statuale, come accade già nel modello maocapitalista cinese». Sarebbe, ad avviso dell’intellettuale noto anche per le sue difese della figura di Mussolini, un vero e proprio incubo: «la crescita del modello asiatico, l’egemonia della Cina comunista, la caduta di leadership degli Stati Uniti»[ref]M. Veneziani, Dopo la pandemia, Mondo nuovo, maggio 2020.[/ref]. La “minaccia del sotto-uomo”, insomma, il “yellow peril” e il “complotto sino/comunista”, con la loro messa in discussione del suprematismo occidentale, stanno tentando di iniettare, attraverso le misure antipandemiche, la loro barbarie nelle vene del mondo bianco e civilizzato, e così facendo preparano il decadimento dei nostri superiori costumi sociali, preparano, vale a dire, ciò che Spengler aveva già a suo tempo definito “il tramonto dell’Occidente”.
5. Il quadro internazionale
Se siamo d’accordo nel pensare la libertà non già come una vuota forma ma come un contenuto dal valore universale, non possiamo allora fare a meno di riscontrare come nel corso della pandemia da Covid-19, fra i vecchi sistemi a conduzione capitalistica (vedi in primo luogo Stati Uniti ed Europa) e gli esperimenti sociali a orientamento socialista (vedi Cuba, Cina e Vietnam) – per quanto questo possa sembrare un paradosso agli occhi di quel suprematismo occidentale che identifica “Occidente” e “democrazia” ed è abituato a concepire la “libertà” unicamente come “libertà dell’Occidente” e mai come “libertà dall’Occidente” – siano stati i secondi ad avere difeso ben più dei primi il valore dell’universalismo e la causa della libertà. Nei primi infatti la libertà del potere economico (la libertà particolaristica) ha inficiato la libertà di esistenza e il diritto alla vita (la libertà universalistica), ben più che nei secondi.
Questo può essere constatato non soltanto dal punto di vista delle scienze matematiche (confrontando cioè il numero dei decessi fra gli uni e gli altri, ovvero l’impegno e la capacità con cui rispettivamente hanno difeso il diritto alla vita all’interno del proprio dominio), ma anche dal punto di vista dello spirito generale e dei comportamenti via via assunti su scala planetaria. Fin dal primo momento la Repubblica Popolare Cinese ha esortato tutti i paesi del mondo a mettere da parte gli asti politici, a cooperare, a coordinarsi tutti insieme nella lotta contro il Covid-19: «L’epidemia ci mostra chiaramente che il virus non conosce confini nazionali, non distingue tra Nord, Sud, Est o Ovest. Nessun Paese può affrontarlo da solo, soltanto unendo le forze è possibile vincere questa sfida»[ref]M.G. Napolitano, Ambasciatore cinese: “Gli aiuti? Siamo amici, vogliamo salvare vite”, Adnkronos, 05-04-2020.[/ref], ha affermato ad esempio l’ambasciatore cinese in Italia. Così ben presto alle parole sono seguiti i fatti: soltanto alla nostra penisola la Repubblica Popolare ha inviato «31 tonnellate di materiali, tra cui equipaggi per macchinari respiratori, tute, mascherine….alcune medicine anti virus insieme a sangue e plasma»[ref]Coronavirus, l’aiuto cinese all’Italia: “Materiale, esperti e i risultati del lavoro di migliaia di medici”, La Stampa, 13-03-2020.[/ref]. Nelle Marche, in provincia di Ancona, la Cina ha realizzato un ospedale da campo con 50 medici, 80 infermieri e 30 tecnici tutti provenienti da Wuhan, pronti a rischiare la vita, in un momento in cui di vaccini non v’era neppure l’ombra, pur di portare il proprio bagaglio di esperienze e aiutare l’Italia a prendersi cura dei malati di Covid[ref]Un ospedale e medici cinesi a Ancona, ANSA, 25-03-2020.[/ref]. Numerose task force sanitarie sono state d’altro canto inviate da Pechino nel nostro paese per sostenerci in un momento di grande difficoltà[ref]Coronavirus, la Cina invia in Italia il terzo team di medici, RaiNews, 25-03-2020.[/ref]. La prima di queste (mentre il governo italiano mostrava tutta la propria debolezza nei confronti di Confidustria e del potere economico, permettendo alle fabbriche e ai centri di produzione di rimanere aperti nonostante gli scioperi e le proteste operaie[ref]Emergenza coronavirus, la rabbia nelle fabbriche aperte. Scioperi spontanei: “Non siamo carne da macello”, La Repubblica, 12-03-2020.[/ref]), ha mostrato forte preoccupazione per il lassismo mostrato dalla nostra dirigenza politica di fronte a una simile emergenza: «Dovete fare di più per contrastare la diffusione dell’epidemia. In Lombardia le misure prese non sono abbastanza rigide: bisogna fermare le attività economiche e la mobilità», ha affermato la Croce rossa cinese in Italia; «per strada ci sono ancora troppe persone», hanno ammonito a Roma un docente cinese di medicina polmonare e il vicedirettore dell’Istituto Nazionale delle malattie parassitarie; purtroppo «non vi sono altre misure», ha affermato in maniera perentoria Qiu Yunqing (infettivologo cinese al vertice della delegazione dei tredici esperti che ha visitato gli ospedali del nord Italia), è necessario un «distanziamento sociale “rigido” con tutte le serrande abbassate: fabbriche, uffici, negozi. Tutto chiuso»[ref]Coronavirus, l’infettivologo cinese: “Per fermare il contagio bisogna chiudere tutto. Servono più tutele per i vostri medici”, Il Fatto Quotidiano, 30-03-2020.[/ref].
Sarebbe sciocco e malizioso, una sorta di atteggiamento da “Yellow Peril” o da “Protocolli dei savi di Mao Zedong”, ritenere che dietro questi suggerimenti vi fosse un perfido desiderio cinese di attentare alla libertà della popolazione italiana anziché una chiara volontà di difenderla.
Anche il Vietnam, dal canto suo, non ha fatto mancare il proprio spirito collaborativo e solidaristico, spedendo a Malpensa un carico di oltre tre tonnellate di materiale ospedaliero[ref]COVID-19: Arrivato carico di aiuti sanitari dal Vietnam, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, 17-04-2020 https://www.esteri.it/mae/it/sala_stampa/archivionotizie/approfondimenti/covid-19-arrivato-scarico-di-aiuti-sanitari-dal-vietnam.html.[/ref]. E persino la piccola Cuba ha inviato i propri medici e infermieri esperti in malattie infettive, poi candidati al Nobel per la Pace, con l’obbiettivo di portare il proprio contributo[ref]Coronavirus, Cuba in soccorso dell’Italia: 52 medici e infermieri in arrivo a Crema, La Repubblica, 21-03-2020; Coronavirus: Cuba invia seconda brigata medica in Italia, Sicurezza Internazionale 14-04-2020; L. Landoni, Coronavirus, i medici cubani al lavoro in Lombardia candidati al Nobel per la Pace, La Repubblica, 28-09-2020.[/ref].
Nessuno di questi paesi si è sognato anche soltanto lontanamente di sferrare un attacco economico, a colpi di embarghi e sanzioni, contro un qualunque Stato occidentale o orientale.
Come si è comportato invece, da questo punto di vista, il mondo capitalistico? Nel marzo 2021 l’Italia, insieme a Gran Bretagna, Francia e Olanda, esprime a Vienna, presso il Consiglio dei diritti umani dell’Onu, il proprio voto contrario a una risoluzione di condanna degli embarghi unilaterali[ref]Polemiche per la decisione dell’Italia di votare “no” all’Onu alla condanna delle sanzioni Usa su Cuba, La Repubblica, 30-03-2021.[/ref].
Gli Stati Uniti, da parte loro, dopo oltre 60 anni di blocco commerciale e di vere e proprie attività terroristiche contro Cuba[ref]Cfr. S. Lamrani (a cura di), Il terrorismo degli Stati Uniti contro Cuba. Il caso dei Cinque: una storia inquietante censurata dai media, Sperling & Kupfer, Segrate 2006.[/ref], intensificano sotto l’amministrazione Trump la guerra economica ai danni dell’isola, varando ben 243 misure coercitive, poi confermate e incrementate dal Presidente Biden[ref]Cuba, Biden conferma le misure di Trump, Adnkronos, 16-07-2021; Usa, Biden: “Le nuove sanzioni a Cuba sono solo all’inizio”, Tgcom24, 23-07-2021.[/ref]nonostante la già espressa condanna dell’Onu[ref]D. Battistessa, Embargo Cuba, Onu: “Il blocco economico Usa vìola i diritti umani”, Osservatorio Diritti, 16-07-2021.[/ref]. Il 4 giugno 2020, Steve Bannon, uomo dell’estrema destra americana ed ex-capo stratega della Casa Bianca, fonda a New York, assieme a Guo Wengui, miliardario e dissidente cinese già accusato di corruzione, il “New Federal State of China”, organizzazione che si propone in modo esplicito l’obbiettivo di rovesciare il PCC e il governo di Pechino. Il Presidente Trump, dal canto suo, vara sanzioni contro la Cina[ref]Trump firma le sanzioni alla Cina per Hong Kong, ANSA, 14-07-2020.[/ref], anche queste, come quelle contro Cuba, incrementate e inasprite dall’amministrazione Biden[ref]Biden estende bando Trump su società cinesi, 59 aziende nella black list, Il Sole 24 Ore, 03-06-202; I Bremmer, Perché Biden mostra i muscoli con la Cina (più di Trump), Corriere della Sera, 08-07-2021.[/ref]. Questa continuità in politica estera fra i due presidenti americani si è manifestata anche nel modo in cui entrambi hanno alimentato, senza alcuna prova concreta e in assoluto spregio alle dimostrazioni dei più autorevoli studi scientifici[ref]Cfr. Kristian G. Andersen, Andrew Rambaut, W. Ian Lipkin, Edward C. Holmes & Robert F. Garry, The proximal origin of SARS-CoV-2, Nature Medicine, n. 26, 2020 https://www.nature.com/articles/s41591-020-0820-9; L’Oms, ‘il virus è di origine naturale’, ANSA, 01-05-2020; L’Oms: “I dati portano all’ipotesi di un’origine animale del virus”, ANSA 10-02-2021.[/ref], le tesi complottiste sull’origine artificiale del Covid-19[ref]G. Belardelli, Biden e Facebook riabilitano la teoria dell’origine artificiale del Covid, HuffPost, 27-05-2021. A confutare la strampalata tesi sul virus uscito da un laboratorio di Wuhan è anche un dato di cui qualunque epidemiologo dovrebbe essere a conoscenza: l’epicentro di un contagio virale non coincide necessariamente con il luogo in cui il virus ha avuto origine, che invece potrebbe essere plurimo, come sembrano suggerire anche gli studi sulla presenza del Covid già in Italia nel settembre del 2019: cfr. Covid in Italia già da settembre 2019, lo dice uno studio dell’Istituto dei tumori di Milano, ANSA, 15-11-2020 e altri che hanno rilevato già la presenza di malati di Covid negli Usa a dicembre e in Francia nel novembre 2019: ‘Covid era già negli Usa a dicembre 2019’: lo studio federale su un milione di volontari, Il Fatto Quotidiano, 15-06-2021; Coronavirus, “in Francia primi casi già a novembre”, Adnkronos, 07-05-2020.[/ref].
Nel frattempo la Repubblica Popolare Cinese, non soltanto ha difeso l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dagli attacchi dell’amministrazione Trump, che aveva già preparato l’uscita degli Usa e l’interruzione dei finanziamenti, ma anche dai recenti conflitti che, in merito alla gestione delle vaccinazioni, sono sorti fra questa e il blocco degli Stati capitalistici occidentali. A tal proposito va ricordato che la Cina ha sostenuto assiduamente, insieme a Cuba e al Vietnam, la proposta avanzata da India e Sudafrica al WTO, di sospendere i brevetti sui vaccini così da consentire al Terzo Mondo quelle coperture di massa che altrimenti questo, data la sua condizione di penuria economica, non sarebbe riuscito a garantirsi. La vita però sembra ancora una volta, per gli Stati/nazione a conduzione capitalistica, non valere tanto quanto i profitti delle grandi aziende farmaceutiche a cui essi hanno destinato i propri fondi pubblici per lo sviluppo dei vaccini: così con il voto contrario di Stati Uniti, Gran Bretagna e Paesi dell’Unione Europea, la proposta di India e Sudafrica viene respinta. “Senza pagamenti nessuna vaccinazione”: nonostante alcune dichiarazioni estemporanee del Presidente Biden, che soltanto verbalmente ha mostrato ripensamenti, questa è rimasta la decisione immutata dell’Occidente capitalistico. Ed è su questo punto che è sorto un nuovo scontro con l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Quest’ultima ha infatti ritenuto che per combattere in maniera più adeguata la diffusione del Covid-19 ed evitare un proliferare di varianti che renderanno via via meno efficaci gli stessi vaccini finora sviluppati, sia più importante garantire a tutto il pianeta almeno la copertura di una prima dose che a pochi paesi quella della terza. Accettata da tutto il mondo economicamente arretrato e dagli Stati a orientamento socialista, questa raccomandazione dell’Oms è stata invece bruscamente respinta dagli Stati occidentali a conduzione capitalistica, per i quali sembra più importante garantire la terza dose agli Übermenschen del blocco euroatlantico, che la prima agli Untermenschen degli Stati sottosviluppati[ref]Cfr. G. Cadalanu, Schiaffo dei Paesi ricchi all’Oms: “Prima la terza dose a noi, poi si vedrà”, La Repubblica 06-08-2021.[/ref]. La Repubblica Popolare Cinese, invece, oltre ad aver sostenuto assiduamente la richiesta di India e Sudafrica relativa alla sospensione dei brevetti sui vaccini, oltre ad avere già da sola vaccinato più di un quinto della popolazione mondiale[ref]Vaccini: Cina, somministrate oltre 1,5 miliardi di dosi, ANSA, 23-07-2021.[/ref] e limitato i contagi attraverso controlli sanitari rigorosi e l’introduzione del passaporto vaccinale[ref]R. Ippoliti, La Cina lancia il passaporto vaccinale, è il primo paese al mondo, La Stampa, 09-03-2021. Anche Cuba, dopo avere avviato nell’isola le vaccinazioni di massa per i bambini dai due anni in su e consentito il ritorno a scuola soltanto previa vaccinazione, ha aperto le frontiere unicamente per quei turisti che presentano un certificato di vaccinazione internazionale anti-Covid-19 o un certificato RT-PCR negativo rilasciato nel paese di origine entro le 72 ore di viaggio precedenti all’arrivo. Allo stato attuale a Cuba si sta pensando anche di introdurre un passaporto vaccinale per i cubani, sul modello Green Pass, sia per permettere il movimento all’estero dei propri cittadini, sia per consentirne l’accesso in sicurezza agli edifici pubblici. Cfr. Susana Antón Rodriguez, Pasaporte digital COVID-19 cubano, Granma (órgano oficial del comité central del pardido comunista de cuba), 26-05-2021.[/ref], oltre ad avere già offerto il proprio contributo in termini di medici, vaccini e materiale ospedaliero ai paesi in difficoltà, dopo avere già offerto 110 milioni di dosi al programma Covax (un’operazione lanciata dalle Nazioni Unite per facilitare l’acquisizione di vaccini ai paesi più poveri), si è impegnata a donare ben 2 miliardi di fiale al resto del mondo entro la fine del 2021 e 100 milioni di dollari al programma succitato. La Cina, ha affermato il Presidente Xi Jinping, «continuerà a fare tutto il possibile per aiutare i Paesi in via di sviluppo a fare fronte alla pandemia» e seguiterà a impegnarsi per «rafforzare la cooperazione internazionale sui vaccini e favorirne la distribuzione»[ref]Vaccini: Xi, Cina darà 2 miliardi di dosi entro fine 2021, ANSA 05-08-2021.[/ref]. Certo, fra i paesi che fanno capo al blocco euroatlantico va annoverato anche il caso di Israele, che ha avuto un numero relativamente basso di decessi e che ha garantito il “diritto alla vita” alla propria popolazione attraverso una vaccinazione di massa tempestiva. Ma un tale diritto, questo Stato, ha saputo pensarlo in termini realmente universali? Dopo aver ricevuto una pioggia di critiche per aver fatto mancare il sostegno alle popolazioni dei territori occupati, Israele ha stretto un accordo con l’Autorità nazionale palestinese (Anp) per la fornitura di 1,2 milioni di dosi Pfizer. Quest’ultima, però, è stata ben presto costretta a cancellare l’accordo e a restituire le dosi, non appena si è accorta che Israele le aveva fatto pervenire carichi di fiale con una data di scadenza imminente. Insomma, mentre il governo di Tel Aviv aveva già effettuato sulla propria popolazione il 60% delle vaccinazioni, i palestinesi, con gli ospedali già saturi di malati, restavano ancora sotto l’1%[ref]R. Bongiorni, Medio Oriente: israeliani vaccinati al 60%, palestinesi sotto l’1%, Il Sole 24 Ore, 03-04-2021; La denuncia contro Israele: vaccini solo ai coloni, esclusi palestinesi, Huffpost, 03-01-2021.[/ref], e si trovavano di fronte alla tragica possibilità di scegliere fra il morire (direttamente o indirettamente) di Covid-19 o inocularsi nelle vene dei farmaci scaduti[ref]Palestinesi annullano accordo su vaccini con Israele. Annuncio da Ramallah: la data di scadenza è troppo ravvicinata, ANSA, 18-06-2021.[/ref]. Ancora una volta è stata la Repubblica Popolare Cinese a giungere in soccorso, garantendo al popolo palestinese 200.000 dosi di vaccini e un milione di dollari in contanti da spendere in aiuti sanitari[ref]La Cina promette vaccini e un milione di dollari ai palestinesi, Sicurezza Internazionale, 22-05-2021.[/ref].
Al termine di questo quadro, possiamo giungere a una conclusione: fra, 1) i paesi capitalistici guidati da governi liberalconservatori o apertamente controrivoluzionari (vedi gli Usa di Trump e il Brasile di Bolsonaro); 2) quel mondo dei No-Vax, No-Mask, No-Pass e No-lockdown che, pur nelle proprie differenze interne, ne ha in qualche modo legittimato le scelte; 3) i paesi capitalistici guidati da governi liberaldemocratici (anch’essi troppo subalterni ai grandi poteri economici e incapaci di pensare la libertà sostanziale e il diritto alla vita in termini autenticamente universali) e 4) i paesi a orientamento socialista guidati da partiti comunisti (Cuba, Cina e Vietnam in primo luogo), sono questi ultimi che, pur con le loro contraddizioni, hanno manifestato una maggiore propensione universalistica, un maggiore spirito cooperativo e una più profonda inclinazione a difendere la libertà su scala planetaria. Sono d’altro canto gli stessi soggetti politici che hanno mostrato come quest’ultimo termine, “libertà”, non possa essere svincolato da un contenuto di valore universale, da quelle “lotte di classe” e quelle “lotte per il riconoscimento” (di marxiana ed hegeliana memoria), che proprio di un universalismo sempre più concreto vogliono essere il veicolo. Dovremmo ricordarcene tutte le volte che in un discorso sentiremo impiegata la parola “libertà” come un significante vuoto, come un vessillo retorico con cui adornare e adombrare il perseguimento di meri interessi particolari.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!