La Politica al tempo dei Robot ovvero si dà ancora un “Principio speranza”?
Bruno Montanari
Università «Cattolica» di Milano
Perché ho ricordato il titolo di un famoso testo di Ernst Bloch? Per una questione seria che balza immediatamente agli occhi: quella dell’ampliarsi della forbice sociale dipendente dal modo in cui l’operare dell’attuale capitalismo, che definirei sinteticamente tecnologico-finanziario, va configurando il mondo del lavoro. Il che significa avere di fronte agli occhi la “condizione umana”, divenuta strutturalmente precaria, di una marea di umanità che è sottopagata, marginalizzata o del tutto emarginata, che non è più in grado di vivere dignitosamente il suo “oggi” e di concepire un futuro come una possibilità della vita.
Comincio con il ripetere ciò che viene tritato ogni giorno da tutti i media: che la Sinistra è in crisi ovunque in Europa, che “destra” e “populismi” sono in crescita e che ricevono il consenso da quelle aree della società che un tempo votavano “a sinistra”. Ciò che tuttavia occorrerebbe chiedersi è se termini che hanno una loro storia culturale ed una loro forte incisività storico-politica conservino ancora oggi un significato che attragga l’interesse pratico della gente comune. Direi di no; mi sembra, invece, che costituiscano uno stereotipo della comunicazione mediatica, incapace di fatto di colpire la sensibilità politica dell’ambiente cui si dirigono. Prova ne sia l’alto astensionismo elettorale (non solo italiano) che altera l’effettività rappresentativa di qualsiasi percentuale partitica. A tal proposito, c’è da chiedersi se, in un siffatto contesto di astensione dai processi elettorali, non sia il caso e proprio al fine di confermarne l’indispensabilità, di introdurre un quorum per la loro validità.
Queste considerazioni spostano il tema della discussione oltre la contingenza degli eventi, cui siamo giornalmente abituati, verso una questione di fondo, che pure viene adombrata, ma più come battuta polemica che non come livello centrale per una riflessione che entri davvero nel clima umano del tempo che viviamo: quello della effettività politica delle democrazie rappresentative. Questione che ho definito di fondo per la ragione storica che le moderne democrazie rappresentative hanno come elemento fondativo e legittimante la sovranità popolare.
Allora, la domanda brutale è: oggi esiste ancora un “popolo”? Intendo una entità umana definibile come “popolo”. Ebbene, temo che la risposta sia No, per la ragione che oggi al popolo si è sostituita quella che in letteratura viene definita “moltitudine”. Tra i due termini esiste una differenza specifica legata ai processi identitari che il pensiero e la cultura politici hanno disegnato tra ‘800 e ‘900 e che ebbe il suo battesimo nell’autolegittimazione di Napoleone come Imperatore dei Francesi. Tale differenza passa per la costruzione concettuale di quel “soggetto” storico-antropologico declinato politicamente secondo i diversi nomi di “popolo”, “Nazione”, “classe operaia”; un tale soggetto è stato la base di legittimazione dello Stato costituzionale (nella versione autoritaria o “di diritto”, qui non fa differenza). Il punto va sottolineato, perché è qui che il pensiero politico ha distinto culturalmente una “destra” ed una “sinistra”: la “destra” si caratterizza per una linea di continuità individuo – popolo – Stato, la “sinistra” nasce in chiave dialettica e approda ad un soggetto collettivo, la “classe operaia”. Si badi: non tengo conto delle diverse concretizzazioni politico-istituzionali (liberal-democratiche o democratico-totalitarie) nelle quali le due soggettività si sono realizzate; intendo solo sottolineare che si tratta di costrutti del pensiero, che hanno dato voce e operatività storica ad una interpretazione e rappresentazione concettuale del fattore umano. Oggi si direbbe, con espressione segnata dall’economicismo attuale, … al “capitale umano”.
Occorre allora prendere le mosse dal termine centrale: “soggetto”, poiché è sulla peculiarità di tale termine che si è costruito il pensiero filosofico della “modernità”; dei secoli, cioè, che vanno, indicativamente, dal XVII fino a quasi tutto il XX. Al termine “soggetto” il pensiero “moderno” associa altri due termini, che costituiscono il ponte tra il livello cognitivo e quello pratico, politico-giuridico; essi sono “ordine” e “legittimazione”. Come il primo è la premessa dogmatica per ogni forma di conoscenza vera della Natura, così il secondo è la garanzia del vero detentore dell’ordine che artificialmente regge l’associarsi degli uomini: il Sovrano (sia esso persona fisica o sistema costituzionale ed istituzionale, qui, ancora una volta, non fa differenza).
Insomma, le espressioni correnti come “democrazia rappresentativa” e “sovranità popolare”, prese nella loro autentica forza espressiva, rinviano al termine “soggetto”, il quale a sua volta chiama in causa l’intero quadro culturale dal pensiero moderno. Ma allora, se si desidera allestire un “pensiero” che venga sentito e afferrato dalla gente comune come effettivamente politico, che prospetti cioè “visioni della società”, e dia vita a confronti, scontri, dibattitti, discussioni… sui relativi progetti, ciò che entra in gioco è proprio il primo termine: “pensiero”.
Ne segue che la domanda da farsi per prima, per quanto sconcertante possa essere (e pur tuttavia mi sembra assolutamente lecita), è: oggi è ancora possibile allestire un “pensiero”? Perché, per allestire un pensiero, occorre ovviamente pensare. E allora le domande si rincorrono ed in misura ancor più radicale e sconcertante: è possibile oggi svolgere quella funzione cerebrale che corrisponde al “pensare”, come atteggiamento mentale genericamente diffuso?
Ebbene, se il XX secolo è stato, secondo varie definizioni, il secolo della “post-metafisica” e della “post-modernità”, il XXI credo che inauguri il tempo del post-pensiero. Se, infatti, quella funzione cerebrale che è il pensare tende a venir meno, per le ragioni che dirò, diventa impossibile dar forma al suo prodotto, cioè un pensiero determinato nei contenuti. D’altra parte, ciò che oggi è ancora definita “politica” si manifesta nel linguaggio pubblico e mediatico non più sotto la forma culturalmente elaborata di “visione della società” (sotto forma di “pensiero”, appunto), ma attraverso quella impressionistica dello spot, che non si rivolge alle teste, ma alle pance, con conseguenze significative e sintomatiche: l’affermarsi degli estremismi nella politica corrente e il conflitto generazionale nell’ambiente umano.
La questione che ho temerariamente aperta, quella del “post-pensiero”, è bisognosa di una spiegazione che la giustifichi, per le sue conseguenze sul piano antropologico e sulle relative ricadute sul quadro politico-giuridico-istituzionale che aveva allestito la “modernità”: l’uomo come soggetto e le Istituzioni di governo, Stato e organismi sovranazionali.
L’origine del fenomeno è nell’affermarsi di una tecnologia che per la prima volta nella storia dell’umanità non sostituisce l’agire del corpo, le “braccia”, ma incide su di una specifica porzione del cervello umano: in una parola, incide sulla “testa”. Questa tecnologia si chiama “robotica”, non sotto forma di pupazzo automatizzato, ma di sistema intelligente, cioè come “intelligenza artificiale”, nelle sue attuazioni già ora evolute e in quelle che inarrestabilmente si svolgeranno in futuro.
Il fenomeno è terrificante, ma semplice da comprendere grazie alla spiegazione agile di un neuroscienziato di valore, Lamberto Maffei. Se il cervello umano è un muscolo, formato da porzioni diverse, dette – come è noto – “aree”, ciascuna delle quali è destinata ad una funzione, ne segue che tali aree vengono diversamente stimolate, cioè “allenate”, a seconda dal rapporto che il muscolo-cervello instaura con l’ambiente circostante. Ora, se si sviluppa una tecnologia che sostituisce le funzioni proprie di quelle parti del cervello che presiedono alla elaborazione della sequenza pensiero-linguaggio, ne segue che le relative funzioni tendono a ridursi in quanto le “aree”, che ad esse presiedono, sono progressivamente sempre meno allenate.
Si dirà: ma l’uomo continua a manifestarsi nel mondo in tutta la sua potenza; dunque, l’intelligenza artificiale non sostituisce l’uomo. Osservazione esatta; ma la domanda è: quale è il tipo d’uomo che sopravvive all’affermarsi dell’intelligenza artificiale? La letteratura in argomento, ormai copiosa e variegata nelle valutazioni del fenomeno, ha come obiettivo centrale della discussione il futuro dell’umanità sul piano delle condizioni socio-economiche conseguenti al modificarsi strutturale e organizzativo della fenomenologia del lavoro. Il che rappresenta la preoccupazione centrale per i suoi effetti ravvicinati e potenzialmente perversi. Il tema radicale, però, salvo generici accenni, non viene analizzato: è il tema della novazione antropologica. In altre parole, attraverso quale funzione cerebrale il tipo d’uomo compatibile con l’intelligenza artificiale si rapporta all’ambiente? Quale area del suo cervello viene allenata? Quali nuove teste governeranno la condizione umana? Come verrà trattato, in particolare, il rapporto uomo – lavoro? Rapporto che non è solo economico ma altamente simbolico, come già Locke aveva mostrato.
Su questo punto il paragone con i due secoli passati può essere ancora utile per uno specifico profilo, determinato dallo sviluppo industriale, quello della configurazione antropologica: il nascere e l’affermarsi dell’uomo – massa, che fece la sua comparsa negli assalti alla baionetta nella prima guerra mondiale e che trovò una sua identità storica in un soggetto, in un Noi collettivo: la “classe operaia”. Ciò che accade oggi, come conseguenza dell’affermarsi a tutto campo dell’intelligenza artificiale, è l’affermarsi di un uomo ancora “massa”, ma polverizzato nella solitudine corporea nella quale vive come moltitudine. Cambia, infatti, il rapporto di ciascuno con l’ambiente umano circostante, con il Tu e poi con il Noi, cioè con l’“altro” in generale.
In altre parole, all’interno del contesto culturale del pensiero moderno a quella “massa” si poteva dare l’idea di essere un soggetto operante concretamente nella storia, nel quale il singolo poteva riconoscersi come un Noi, e in questo Noi (la “classe operaia”, appunto) sentirsi riscattato. Oggi, nel tempo che ho definito del post-pensiero, l’uomo-massa resta confinato entro la sua percezione corporea, la sua pancia appunto, ed è sensibile a quella tipologia di messaggi, che colpendo i sensi della vista e dell’udito, stimolano il suo interesse sotto la forma della immediatezza dell’attrazione e della reazione emotivo-operazionale. Il “pensiero”, con la sua origine riflessiva che parla alle teste, non ha forza attrattiva: è troppo complicato e, soprattutto, è diluito nel tempo il pensare ed il far pensare. Gli spot, con l’immediatezza della battuta, vera o falsa che sia, colpiscono immediatamente nel segno: ottengono rapidità di risposta sotto forma reazione irriflessa.
In definitiva, insieme al pensiero evapora in particolar modo quella categoria che aveva segnato l’esistenza, sia etica ed affettiva sia sociale e politica, della modernità: il soggetto. Due conseguenze. La prima: la relazione interpersonale Io – Tu diviene strutturalmente effimera ed il Noi associato e sociale perde di stabilità e di organicità, si sfibra. La seconda: poiché il governo delle cose umane, il potere nella sua effettività, si è trasferito da quello che Carl Schmitt aveva individuato come il campo proprio de “Il politico”, il nomos della terra, alla competizione globale del capitale tecnologico-finanziario, la conseguenza spicciola è la destrutturazione del mondo del lavoro come luogo esistenzialmente simbolico. Emblematicamente, Amazon, Google, Facebook, e così via, da un lato, hanno colpito la simbologia esistenziale immanente al lavoro, mutando quest’ultimo in mera attività di sopravvivenza materiale. Dall’altro, hanno ridotto la relazione umana ad esibizioni individuali di solitudine, confezionate per ricevere come risposta un emotivo “like”, e insieme hanno destrutturato il linguaggio e la grammatica, sostituendo la parola con segni e abbreviazioni sconcertanti. Non vado oltre; sappiamo tutti in che mondo stiamo vivendo. Solitudine e alienazione emotiva.
Nel suo insieme, tale fenomeno è la ricaduta antropologica del nucleo duro della “globalizzazione”, quello che ha liquefatto il significato umano ed il ruolo storico-politico dello Stato moderno, senza trovarne per ora un vero sostituto.
La tecnologia dell’impatto destruttura un altro caposaldo del “pensare”: la temporalità. Se il pensare produce pensiero ed il pensiero costruisce progetti, ciò sottintende, come idea che dà senso alla vita stessa, la sequenza passato – futuro ed il presente come luogo nel quale si elabora della transizione. E’ in questo percorso che il pensiero si accredita come speranza nel futuro. L’attuale tecnologia, invece, per sua natura persegue un fine del tutto opposto: quello di trasformare il presente nel puro e secco immediato, svuotando di senso la categoria del futuro, e con questa quella del passato con la sua significatività storica.
L’impressione dell’evento al posto della forma del pensiero. Fenomeno, questo, antichissimo nella storia dell’umanità; solo che nell’antichità l’impressione dell’evento aveva un’origine divina, mentre oggi è un mero prodotto materialistico-tecnologico. Nell’antichità aveva preparato la nascita del pensiero, la filosofia; oggi è la morte del pensiero.
In un mondo divenuto così, nel quale la sovranità statuale e le procedure democratico – rappresentative sono alla merce della effettività del potere finanziario e tecnologico-mediatico e nel quale la dimensione esistenziale si è risolta in un solipsismo competitivo di massa, mi chiedo come possa esservi spazio per un pensiero politico, di qualsiasi orientamento. Ma dico di più, anche se mi rendo conto che l’affermazione è assai “politicamente scorretta”: se manca un “popolo”, cioè un’entità umana resa sufficientemente omogenea dalla “credenza” nella legalità (à la Weber) o da standard comportamentali comunemente diffusi (à la Dworkin o Coleman), come ne è possibile la “sovranità” e le relative forme rappresentative?
Cosa si può e si deve fare allora? Innanzitutto sottrarsi all’attrazione dell’immediatezza degli spot e avventurarsi nella “lentezza” del pensiero (rubo l’espressione a Maffei). Anche le ricette pragmatiche hanno bisogno di una loro organicità e dunque di un pensiero. Tornare a pensare, dunque, e porsi un obiettivo: dare forma di “soggetto” umano, prima ancora che politico a quei nuovi diseredati che sono, e lo saranno sempre più in futuro, il prodotto della globalizzazione competitiva. Dare forma di “soggetto” significa, cioè, dare tutela e dignità a quelle fasce di umanità che il dominio tecnologico-finanziario ha privato non solo del “principio speranza”, ma anche di una più modesta possibilità del vivere l’oggi. Alla fine mi si dirà: questo è di nuovo solo “pensiero moderno”, sia pure pragmaticamente rivisitato al di là delle categorie tradizionali della politica: “destra” – “sinistra”. Rispondo: sì, perché, pur con tutti i suoi difetti e i suoi misfatti storici, è ancora un pensiero degno di questo nome; non ne vedo all’orizzonte un altro.