L’ARTE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS. LA “CHIUSURA” ALL’ARTE È LA “CHIUSURA” ALLA VITA
di Fabrizio Vona
Purtroppo non abbiamo appreso nulla dalla riflessione di tutti i più grandi filosofi: da Hegel a Nietzsche, da Kant a Gadamer, Diderot, Voltaire, Schopenhauer, e tanti altri: ogni volta che parliamo di arte ci ostiniamo a considerarla un divertissement, un lusso, un momento di piacevole distrazione dopo le fatiche quotidiane. Continua a essere considerata solo un passatempo, un momento di ricreazione, una cosa dalla quale si può fare benissimo a meno. In pochi ormai sentono che l’arte non è semplicemente un diversivo, un semplice accidente, ma è propedeutica e costitutiva della vita umana. Anzi si potrebbe ben dire che l’arte è la vita stessa e senza di essa siamo ombre, siamo morti. Non ci rendiamo conto che quando ci rapportiamo con l’opera d’arte, con l’accadimento artistico, con l’esperienza estetica, che sia una mostra, un concerto sinfonico, uno spettacolo teatrale, ci predisponiamo senza volerlo, potremmo dire ontologicamente, ad una “situazione emotiva” che non è di semplice ascolto, come si è soliti dire, ma è un “luogo” dove ci offriamo ad essere partecipi di un’ aletheia, di uno svelamento, di una ulteriore e determinante comprensione del reale. Come ha colto Gadamer l’opera d’arte equivale ad una “trasmutazione nella verità” ed un ritrovamento “del vero essere delle cose”. Quando uno spettatore si trova dinanzi ad un quadro, quando entra in una sala concerti o in un Teatro, senza che se ne accorga sospende il suo quotidiano e mette il proprio essere in “ascolto della struttura profonda della Cosa”. Sia nello spettatore più attento che in quello più distratto e dis-educato questo miracolo accade a prescindere, come in una sorta di a-priori nel gioco-dell’essere. L’arte è necessaria quindi ed il Teatro in particolare vista la sua specificità di mettere al centro l’essere umano, la sua finitudine, il suo corpo. Quando vediamo Macbeth che rimane nella sua solitudine tragica e straziante, non vediamo solo quello che sta avvenendo “nello spettacolo”, vediamo il nostro Io, cogliamo il “mondo” illuminato da una luce nuova. Si apre uno squarcio di comprensione, un modo di rappresentar-ci e giustificar-ci il contingente, un modo per ordinare il nostro essere-nel-mondo, quello stesso mondo che necessita dell’uomo e della sua azione per non cadere nel dis-umano, nella malattia, nel tragicamente fallimentare. Afferma mirabilmente Diderot “Se si bandisce l’uomo, essere pensante e contemplante, dalla superficie della terra, lo spettacolo sublime e patetico della natura non è più che una scena triste e muta; l’universo tace, è invaso dal silenzio e dalla notte. Tutto si muta in una gran solitudine, ove i fenomeni, inosservati, si susseguono in modo oscuro e sordo. Soltanto la presenza dell’uomo rende interessante l’esistenza degli esseri: qual proposito può essere migliore, per chi voglia far la storia di quegli esseri, che l’accettare siffatta considerazione?[ref]Voce «Enciclopedia», in Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, ordinato da Diderot e D’Alembert, a cura di P. Casini, Laterza, Bari, 1968, p. 468.[/ref]. Non è solo una questione di divertimento quindi, di piacere, o di scegliere di concedersi una serata mondana, ma è una semplice e indispensabile necessità di conoscenza e visto che vivere è conoscere allora l’arte si offre come strumento per una vita vivente possibile. Se non seguiamo questa strada cadiamo in un pericoloso abisso, se ci precludiamo la possibilità della “relazione”, di creare, di pensare, di filosofare e quindi di conoscere, rischiamo di scadere nel non-umano. Non considerare tutto questo, non voler comprendere queste basilari certezze sarebbe una pericolosa ostinazione. Purtroppo dobbiamo registrare che in questi giorni questo tragico errore sta emergendo in tutta la sua portata e sta venendo chiaramente alla luce: la mancanza di priorità che si sta attribuendo all’arte, al Teatro, al mondo della cultura, della ricerca e dell’istruzione, ne è la dimostrazione inequivocabile. In questo tempo sciagurato e complicato abbiamo assistito come spettatori inermi e passivi allo “spettacolo” del Coronavirus. Siamo stati travolti e co-involti da una situazione inimmaginabile solo fino a qualche settimana fa. Impotenti dinanzi a scelte politiche, certo difficilmente contestabili, che ci hanno imposto forti limitazioni delle libertà personali, ci siamo ritrovati “chiusi” nelle nostre abitazioni, esclusi da ogni contatto con l’esterno, costretti a guardare con diffidenza ogni relazione sociale. Proprio una delle cose che caratterizza maggiormente il nostro essere-umani, il nostro esser-ci, il nostro essere-nel-mondo e cioè la possibilità della relazione, è la cosa che in questo momento ci è preclusa. Tutta la nostra umanità, tutto il nostro agire e conoscere non avrebbe né senso né origine senza la relazione, il confronto, la dialettica, lo scontro, l’amore: senza “l’altro da sé”, senza il polo dialettico, non c’è movimento, non c’è vita. Incredibilmente una delle locuzioni più usate e abusate nelle ultime settimane è stata proprio “distanziamento sociale”. Tutto è chiuso, tutto è morto, tutto è fermo… improvvisamente, in un colpo solo, da un giorno all’atro. Niente lavoro, niente ufficio, bar, ristorante, parco, passeggiata, amici, scuola, università, fabbrica, biblioteca, teatro, riunioni, gruppi di studio, aperitivi, negozi, nulla. Tutto è irrimediabilmente caduto nel “niente”. Il nostro vicino è diventato l’untore, il runner è irresponsabile, l’altro-da-me deve rimanere altro-da-me. Niente più dialogo, niente più relazione. E se non c’è relazione ovviamente non può esserci arte. Dialogo e relazione non sono più necessari al “movimento” della vita, non sono più ontologicamente indispensabili per far si che io esista, ma si sono trasformati in fonte di malattia, di virus, di morte. Quella morte a cui non pensiamo mai, non pensiamo più, che allontaniamo dalle nostre vite, ormai certi che la scienza prima o poi sarà in grado di eliminarla dalla nostra esistenza, come noi già l’abbiamo eliminata dal nostro linguaggio. Non è il caso di entrare nel merito delle scelte prese, probabilmente sono state dolorose ma necessarie. L’unico modo di fermare il contagio era proprio il distanziamento sociale. Ma adesso la questione sta prendendo una piega diversa e sta emergendo drammaticamente un problema sociale. Siamo tutti consapevoli che non si può chiudere tutto in eterno, non soltanto perché il nostro sistema economico, quello che credevamo imbattibile, non reggerebbe a lungo, ma anche perché è la Vita stessa che non potrebbe reggere. La morte, la malattia, il “negativo”, sono un qualcosa dal quale non si può fare a meno e la nostra pretesa di volerne a tutti i costi sfuggire non è altro che la dimostrazione, paradossale, della perversa trappola del mortifero nella quale stiamo cadendo. Proprio la fuga ossessiva dal “negativo”, dalla malattia, dalla morte non è il sintomo di una maggiore vitalità, ma al contrario, è il sintomo di un voler rimanere fermi, di un non-essere. Non andare “incontro alla tragedia della vita con un grido di sfida”, per usare una frase di Nietzsche, vuol dire rimanere immobili nell’astratto, vuol dire fuggire dall’inevitabile, vuol dire in definitiva essere già morti.
Ebbene, il trattamento che si sta riservando all’arte in questo momento, è uno dei sintomi chiari ed inequivocabili della malattia che ormai da tempo affligge il mondo contemporaneo. Proprio ora che si sta predisponendo la famosa FASE 2, quella in cui si dovrebbe decidere sulle riaperture, sul graduale ritorno alla “vita”, possiamo notare che si sta prevedendo di riaprire tutto: attività produttive, negozi, parchi, bar, ristoranti, i tabaccai erano già aperti, centri commerciali, qualcuno parla anche di riaprire i campionati, insomma tutto. L’Arte no. O meglio, si sta pensando ad una timida riapertura dei Musei, lasciando però nell’incertezza più totale i teatri, i cinema, la sale concerti, gli eventi culturali in genere. Stessa incertezza riguarda il mondo della scuola, dell’università, della ricerca. Ma quello che è ancora più grave il totale dimenticatoio nel quale è caduto il Teatro in particolare. A parte qualche buona intenzione annunciata o qualche assurda proposta, come quella di trasmettere il Teatro in TV, ossia l’antiteatro per eccellenza, costringendo quest’ultimo a chiedere l’elemosina a mamma Rai come ennesimo ultimo atto di umiliazione e prostrazione, non abbiamo udito proposte concrete ne da parte del governo ne da parte del Ministro della Cultura. Perché accade questo? Perché non consideriamo il Teatro come un “settore” necessario?
Questa scelta non è altro che la negazione della vita, la volontà del ritrarsi nel “non vivere” per vivere un po’ di più. E’ come vivere una vita da morti per evitare di morire. Ma non solo. E’ ancor di più è il sintomo dell’idea di uomo e di mondo dalla quale ci stiamo facendo dominare. Sta emergendo chiaramente una gerarchia delle riaperture. Da questa gerarchia si evince qual è la scala di valori che attribuiamo alle cose ed appare chiaramente che prevedere la riapertura “dell’arte”, dei teatri, dei cinema, soltanto per ultimi, non trova fondamento solo nel pericolo di un non meglio precisato contagio ma anche e soprattutto nella perversa e mortifera idea che “di queste cose” se ne può fare a meno. Se, come sta accadendo, su questa gerarchia delle riaperture hanno un peso, di fatto vincolante, le scelte prese da un comitato tecnico-scientifico, allora vuol dire che la Politica non fa più la Politica. Affidare “la decisione” della “riapertura della vita” alla sola “scienza”, affidare integralmente ad essa la nostra esistenza, l’intera organizzazione del reale, sarebbe un profondo errore. La scienza è condannata ad occuparsi di verità parziali, la scienza è necessariamente settoriale, questa è forse la sua forza ma al tempo stesso è il suo più grande limite. Per questo lasciata sola è irrimediabilmente perduta. Come ha fatto notare giustamente Emanuele Severino “la scienza moderna procede dall’assunto metodico di isolare dal suo contesto quella parte della realtà che essa intende studiare e controllare così l’epistème alla quale si riferisce la moderna “epistemologia”, non ha più a che fare col senso filosofico dell’epistème” [ref]Emanuele Severino, La Filosofia dai Greci al nostro tempo; La Filosofia antica e medievale, Milano, BUR Saggi, 2017, p. 29.[/ref].Il senso dell’epistème, a cui si riferisce Severino è direttamente collegato alla comprensione della totalità, della physis. Physis, come la intendevano i primi filosofi, è quella parola costruita sulla matrice indoeuropea bhu, che significa essere, e la radice bha, che significa luce, cioè l’essere nel suo illuminarsi. Potremmo dire l’essere che si manifesta, che si offre alla nostra comprensione per essere colto, e al tempo stesso, consentirci di cogliere i sensi del nostro esser-ci, divenendo così capaci di orientarci nel reale. Sarebbe necessario allora che la Politica si assumesse la responsabilità di indicare un orizzonte, di non assoggettarsi ciecamente alla scienza, me eventualmente utilizzare i suoi dati particolari per rispondere alla complessità del reale. Non è un caso che in un mondo così dichiaratamente “scientista” il settore di cui si può fare a meno, quello che può riaprire per ultimo, è proprio il settore Teatro. Non metterlo tra le riaperture urgenti, come le industrie, il ristorante, il tabaccaio, l’ agenzie delle entrare, il centro commerciale, è un preoccupante sintomo di una malattia ben più grave del Coronavirus. Senza questa rappresentazione e auto-rappresentazione non saremo più in grado di dare ordine al caos, si perderebbe il senso profondo del nostro esser-ci e perderebbe senso proprio il nostro essere gettati dentro quelle industrie, quei ristoranti, quei negozi, quei tabacchi, quei centri commerciali. Senza il Teatro, senza la mimesis, intesa in senso aristotelico e cioè non come copia pedissequa del reale ma come “rappresentazione” in grado di “illuminare” di luce nuova il mondo che ci circonda, ci allontaneremmo dal nostro essere-umani e ci avvicineremmo sempre più allo stato animale e alla macchina. Pensare che vivere senza il vitale, senza l’arte, il Teatro, l’esperienza estetica, ci possa far difendere dal dolore, dalla morte, significa non comprendere invece che solo la ricerca del senso ci mette al riparo dal dolore del non-umano, dal sentirsi un nulla in un niente.
Possiamo ben dire in conclusione che mai come in questo momento siamo dinanzi ad una scelta: cosa vogliamo farne dell’arte, del teatro, degli artisti ? in una parola cosa vogliamo fare con la vitalità, la sete di conoscenza ? Ora è arrivato davvero il momento di dirselo chiaramente: pensiamo che il teatro sia indispensabile o lo consideriamo un qualcosa di cui si può fare a meno ? E’ il momento del coraggio e delle scelte. Non è più tempo di riempirsi la bocca con parole inutili e retoriche. Se tutti noi pensiamo, se soprattutto la classe dirigente di questo paese crede che il teatro sia superfluo allora lo lasci anche morire una volta per tutte. Se pensate davvero che se ne possa fare a meno, allora basta, niente più mezze misure ed elemosine: lasciate che muoia. Ma se lo si vuole tenere in vita allora bisogna farlo veramente, bisogna metterlo una volta per tutte al primo posto, con coraggio. E metterlo al primo posto significa credere veramente che una vita senza conoscenza e senza teatro è forse una non-vita, significa pensare e soprattutto agire dimostrando davvero che si crede nel più grande insegnamento che Socrate ci ha donato: “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”.
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