Searle e la filosofia del Novecento
[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]I[/drop_cap]l percorso filosofico di J. Searle rappresenta sicuramente una felice coniugazione tra la tradizione cosiddetta “continentale” e lo stesso terreno di gestazione del suo pensiero, ossia la filosofia analitica americana. Nato a Denver nel 1931, Searle si è formato inizialmente ad Oxford in Gran Bretagna sotto la guida del suo maestro J. Austin per sviluppare nel corso degli anni 60 del secolo scorso la teoria degli Atti Linguistici il cui libro è uscito nel 1969. In questa importante opera Searle evidenziava come il nostro linguaggio non è solo un strumento di rappresentazione della realtà ma un “agente” diretto, un “fare”. In sostanza con le parole o le frasi non ci limitiamo a dare un Significato al mondo, bensì facciano cose. Il linguaggio, dunque, è uno strumento di comunicazione in cui “parlare”, è sempre un impegno in una forma di comportamento. In questo senso Searle distingue 4 atti linguistici diversi , così riassumibili:
1) Atti linguistici che proferiscono;
2) Atti proposizionali;
3) Atti illocutivi;
4) Atti perlocutivi;
Tra questi, di cui Searle in questa opera studia il secondo e terzo tipo, è veramente centrale il terzo, ossia gli atti illocutivi. Solo questi indicano la completezza dell’atto linguistico stesso. In altre parole solo gli atti illocutivi nel dire “fanno”.
Un atto linguistico illocutivo è il solo che ci fornisce una vera e propria cognizione di ciò che significa comunicare. Il caso della promessa che un parlante A fa nei confronti di un parlante B viene utilizzata da Searle come “paradigma” di riferimento della sua teoria degli atti illocutivi. A Searle interessa dunque ciò che si fa mentre parliamo. Come filosofo del linguaggio Searle ha avuto una certa influenza sulla linguistica contemporanea proprio nel dare una priorità concettuale alla completezza di quegli atti linguistici che chiamiamo “illocutivi” (locutivo ed illocutivo è una distinzione di Austin, solo in parte accettata da Searle), come sono dare ordini, fare promesse, affermare, domandare.
Ben presto però la teoria degli atti linguistici sarà ritenuta non sufficiente a spiegare una cognizione fondamentale della filosofia contemporanea, ossia il concetto di intenzionalità, rimesso in auge da Brentano a fine ottocento e ritenuto in seguito dalla stessa fenomenologia un suo asse portante. Proprio perché l’Intenzionalità rappresenta la possibilità di discriminare il mondo fisico dal mondo psichico era necessario individuare una cornice teorica più ampia per giustificare le scoperte della linguistica novecentesca, che avevano denotato la prima fase del lavoro di Searle. Dunque, fin dal 1983 con l’opera dal titolo “Dell’intenzionalità”, e poi in seguito nel 1992 con l’opera “La riscoperta della mente”, Searle estende il suo impegno epistemologico concentrando i suoi interessi filosofici nella critica al cognitivismo e alle scienze cognitive che avevano “ridotto” gli studi sul rapporto mente-cervello ad un modello computazionale.
Con la teoria della Stanza Cinese Searle critica fortemente la possibilità di descrivere il funzionamento della mente come un sistema di calcolo, distinguendo tra le giuste conquiste delle scienze neurobiologiche e il permanere di un’ontologia in prima persona e cioè di una soggettività irriducibile a processi neurocomputazionali. La sua teoria della coscienza rappresenta il modello attuale più originale di confluenza tra gli studi neurobiologici e il mantenimento di una visione “fenomenologica” della mente che dia conto dell’esperienza cosciente soggettiva.
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