Sul Rousseau politico e sul Rousseau à part entière
Poiché, senza alcuna esclusione preventiva, la sezione «Pagine roussoiane» sarà spesso dedicata, in senso largo, al Rousseau politico, conviene interrogarsi anzitutto sulla legittimità di questa scelta: se non costituisca cioè una riduzione di campo troppo parziale rispetto alla totalità delle opere di Rousseau, ai molteplici e disparati campi in cui il ginevrino ha genialmente esercitato i suoi talenti. Dopotutto, si può obiettare, una qualche giustificazione deve pur essere avanzata, se non pochi e importanti testi critici a lui dedicati nel secolo XX si occupano appena delle sue opere politiche (per es. il fine libro di Starobinski, senza contare le opere tematicamente delimitate come quelle di Masson o di Gouhier). Il tema della parte e del tutto, com’è facile intuire, conduce alla questione dell’«unità» del pensiero di Rousseau. Il problema è qui di vedere se gli scritti politici costituiscano una sorta di universo, importante quanto si voglia, ma autonomo e separato, o se sono invece connessi agli altri e vari interessi, rappresentando persino un buon un filo conduttore per avvicinarsi, fin dove è possibile, al cuore unitario o meno frammentario dei diversi pensieri e della multiforme attività intellettuale di Rousseau. Dentro questo tema, se ne incontra un altro, ancor più interessante ai nostri fini, e cioè se gli stessi scritti politici costituiscano un mondo unitario, o se non siano essi stessi internamente contrastanti.
Innanzitutto, inferire da ciò che gli scritti politici rappresentino solo uno tra i molti interessi di Rousseau sarebbe eccessivo e fuorviante. È sempre utile richiamare in proposito le tante testimonianze roussoiane che indicano nella politica un terreno privilegiato, a partire dal celebre asserto secondo cui «tout (tient) radicaliment à la politique»: una fondamentale intuizione fatta risalire al periodo veneziano (1743-44), ma richiamata come più che mai vera una quindicina di anni dopo, quando le Institutions politiques erano viste da Rousseau come l’impresa più importante da compiere, l’opera della sua vita (O.C. I, 404). La politica, inoltre, costituisce il più costante e duraturo interesse di Rousseau, il più lungo impegno di lavoro. Il quindicennio di maggiore attività, da metà secolo alla metà degli anni ’60, reca un forte segno politico, tra l’elaborazione critica e la ricerca di una «bonne socialisation». La stessa decisione di «rinunciare» al progetto delle Institutions politiques, così com’era stata preceduta, è seguita da un intenso lavoro sulla politica, che dal Contratto sociale arriva fino agli scritti sulla Corsica e sulla Polonia.
Queste considerazioni tuttavia, rilevanti circa l’importanza dei temi politici in Rousseau, ancora non ci dicono molto riguardo al punto della totalità. Intorno al tema dell’Unité dans l’oeuvre de J-J Rousseau (G. Lanson, 1912) e, si capisce, al suo opposto, la disorganicità o le «contraddizioni», si potrebbe costruire una storia delle interpretazioni del ginevrino: dalla fine dell’‘800 fino, per esempio, al monumentale lavoro di A. Philonenko, che vede il centro fortemente unitario di Rousseau nel grande tema filosofico, posto all’altezza sistematica di Kant e Fichte, dell’insormontabilità del problema del male («il n’existe pas de bonne solution au problème du mal»), nonostante ogni tentativo di porvi riformistico rimedio – contro la banale tradizione del ginevrino come «philosophe du bonheur». (J.-J. Rousseau et la pensée du malheur, 3 voll., Vrin, Paris 1984).
Ma, in ogni caso, il problema dell’unità in un pensatore è in realtà sempre difficile; difficilissimo in Rousseau. Scrisse una volta E. Garin che «in un certo senso tutte le opere di Rousseau sono politiche». L’affermazione è al fondo vera, e certo più determinata di quella che metta al centro il concetto di «homme», del resto interno allo stesso ambito politico e in più esposto a diventar retorico; ma la questione, che del resto Garin sapeva, è come si precisi il «senso» unitario della politica in sé e in rapporto al tutto. Prima ancora che si ponga il problema della parte e del tutto, riguardo alla concordia tra le opere di Rousseau, nella loro folta varietà di temi, già gli scritti politici sono essi stessi campo di battaglia tra sostenitori dell’unità o di fratture e discontinuità. Si tratterebbe dunque di ricostruire, paradossalmente, l’unità a partire da un campo già in se stesso scisso. Che si può dire, preliminarmente, su questo punto (sul quale si dovrà in ogni caso analiticamente tornare)?
A mio parere s’incontrano, innegabilmente, discordanze e anche, se così si vuol dire, «contraddizioni» nelle opere politiche di Rousseau, sebbene la pia e irresistibile forza dell’immediata unità spinga spesso gli interpreti a ignorarle nella loro radicalità e a ricucirle subito in un qualche tessuto di coerenza. Il caso più evidente – ma altri non mancano, come nella relazione tra il Contratto e altri scritti politici – è quello del nesso tra il Discorso sull’ineguaglianza e il Contratto, le due maggiori opere «politiche» di Rousseau e tra le sue più grandi in assoluto. Premesse, impostazioni ed esiti a rigore si collocano, in queste due opere, lungo una linea di incompatibilità, se non di vera e propria contrarietà. Il tentativo di connetterle attraverso il criterio del «rimedio al male», sembra ignorare la gravità della malattia, e conferisce al Contratto (una conseguenza che Althusser rigorosamente tirava) una portata troppo lievemente riformistica. Eppure limitarsi ancora a rilevare la «contraddizione» (come talvolta si diceva un tempo) tra i due scritti sarebbe oggi assoluto segno di povertà interpretativa. Che si fa in questi casi? Il problema, senza arrestarsi a rilevare discordanze, è quello di «costruire», per così dire, una trama ermeneutica meno scontata e più sottile, entro cui l’unità possa trovare posto. L’unitaria totalità, quando si diano in un autore importante, divaricazioni e incoerenze, non è mai un dato iscritto nell’immediatezza dei testi, quasi che solo una lettura distratta o capziosa, lontana dall’intelligente buon senso, avesse impedito di metterlo in luce.
Per escogitare ambiti più intelligenti e comprensivi di connessione, almeno relativa, tra posizioni che sembrano a prima vista inconciliabili, è necessario così risalire ai problemi più profondi e radicali che sono all’origine della discrasia. La premessa essenziale di una simile operazione, come s’è detto, è anzitutto di non negare, quando si mostrino con sufficiente evidenza critica, le discontinuità, i mutamenti di prospettiva, o i vicoli chiusi cui certe strade conducono. L’unità può non consistere in un solo centro o in una sola determinazione, ma si può anche articolare attraverso una pluralità di soluzioni possibili, diverse e convergenti tutte verso lo stesso scopo. Ma, certo, non è sempre facile riconoscere le domande e i problemi unitari che sorreggono e guidano anche percorsi alternativi e divaricanti. Per esempio, come nel caso che s’è ricordato, lo stesso problema può mutare prospettiva, forma e svolgimento, dando vita a un vero e proprio ricominciamento, a partire dalla posta iniziale, dell’intero cammino, dove tuttavia quello nuovo lascia almeno intravedere qualche traccia di quello vecchio. La difficoltà sta dunque nel pervenire a forme di unità che appartengono, più ancora che alle risposte e alle soluzioni, alla natura delle questioni problematicamente messe in campo; così come è l’interpretazione teorica e non il dato empirico a produrre il proprio oggetto, la trama entro cui le soluzioni trovano il loro significato.
E’ certo paradossale, a sviluppo di questo discorso, che un’opera come quella di Philonenko, tra le maggiori del secondo ‘900, ritrovi il filo unitario del pensiero di Rousseau nel segno del fallimento (échec), per cui tutti i campi cui il ginevrino ha posto mano si rivelerebbero alla fine dominati dalla disgrazia e dalla miseria, dall’infelicità e dal male. Ma, al di là ora di ogni altra considerazione, lo scacco, le soluzioni solo apparentemente riuscite e coerenti, e in realtà cariche di interne e rovinose faglie, devono certamente entrare a far parte, come del resto sempre accade, dell’universo «unitario» dei pensieri di Rousseau. L’unitario problema per cui si cercano soluzioni vale sia nel caso degli esiti più o meno favorevoli, sia in quelli deludenti; e certo, la pluralità delle vie tentate è tanto segno di ricchezza tanto di insoddisfazione. Questa considerazione potrebbe essere svolta riguardo a opere di diversa natura, come la Nouvelle héloïse o l’Emile, ma basterà fare per ora un cenno proprio agli scritti politici.
Rousseau, com’è noto, è, segnatamente nel Contratto, autore di una teoria politica normativa persino prepotente, che ha fondato la sua fortuna e le sue disgrazie. Mi sono invece convinto (anche di questo si dovrà a lungo discutere) che la grandezza di Rousseau in quanto pensatore politico risieda – lungo il grande modello machiavelliano e, per certi versi, anche hobbesiano – in una sorta di permixtum tra le istanze normative, con la loro sovresposizione di coerenza risolutiva, e la sotterranea consapevolezza realistica circa la possibilità che la trama della positiva costruzione teorica riesca a resistere alla forza dissolvente delle cose, ossia della “natura” degli uomini, ostinata nei suoi comportamenti e ostile a ogni grande trasformazione politica. L’esigenza normativa sembra occupare per intero il campo della teoria politica, ma il disincanto sulla tenuta connettiva dell’intero ha bisogno di puntelli, di nuove figure, come il legislatore, o di nuovi terreni, come la religione civile, che e contrario danno spessore ai dubbi, ricorrenti per tutta l’opera, circa la debolezza dell’ideale costruzione contrattualista, insidiata dall’invincibile natura della particolarità, dalla preferenza accordata al moi individuale piuttosto che a quello commun. Riuscita normativa e scacco realistico si tengono, e la grandezza dell’opera per un verso ne esce intatta, mentre per altro verso la potenza delle obiezioni getta un’ombra insostenibile. Ma proprio l’insieme costituisce, senza paradosso, un percorso carico d’insegnamenti. La filosofia, è, più ancora che risoluzione di problemi, e già trionfo armonico della metafisica, il luogo di apprendimento del dubbio e dell’individuazione formalizzata delle difficoltà. Gli échecs dei grandi classici danno molto da pensare, essendo a volte più istruttivi delle stesse costruzioni “riuscite”, e un’unità raggiunta per vie travagliate può essere più vitale, più vicino a noi, di quella che sembra procedere lungo cammini diretti.
Di fronte a un campo d’interpretazione che sembra, ed è, piuttosto arduo, vi sono però una sorta di più agevoli variazioni: quali che siano le conclusioni cui Rousseau perviene nelle opere strettamente politiche, c’è, da parte sua, la disponibilità a riformulare in altri scritti, in modi diversi e più agevoli, se non proprio nel loro rigore le medesime questioni, temi che a esse si avvicinano – e non solo per una semplice parentela di famiglia. Il problema della connessione tra gli scritti politici e le altre opere di Rousseau, da cui siamo partiti, s’incontra significativamente a questo punto. Il problema della compossibilità unitaria di opere diverse, discordanti in sede politica e in rapporto incerto con l’intero, si stempera in una sorta di più larga unità, certo essa stessa problematica, sottesa a tutti i testi di Rousseau. Ogni opera mantiene, nonostante ciò, la sua distinta personalità. Il Contratto sociale, in particolare, non può mai esser compreso se di esso si perde la sua peculiarità specifica e «tecnica», persino sorprendente in un autore che si vuole autodidatta, a riprova di quanto il lavoro sulle Institutions politiques sia stato lungo e appassionato, colto e approfondito, oltre che innovativo. Se fosse altrimenti, non già l’unità si perderebbe, ma la varia individualità delle opere, ridotte alla stanca ripetizione di un monotono tema.
Con la trama dei difficili problemi, in qualche caso persino insolubili, che il Contratto mette in campo, bisogna così duramente misurarsi, senza che siano possibili né scorciatoie né rinvii a più larghi orizzonti tematici, usati come passe-partout. E tuttavia, se si perde lo sfondo del problema più generale entro cui Rousseau viene disponendo le specifiche e ardue articolazioni dei suoi «principi di diritto politico», ci si trova non di rado dinanzi a un muro impenetrabile. Per un solo esempio, la lunga e monotona interpretazione d’antan del Contratto come manifesto prima giacobino, e quindi di ogni realtà che, approssimativamente, vien detta «totalitaria», cade già – a tacere di ogni altra critica interna e storica – appena sia vista entro il quadro più largo di problemi in cui Rousseau iscrive la sua opera. Fuori di questo ambito complessivo, il Contratto diventa quasi (ed è conclusione cui s’è giunto) un’inspiegabile stravaganza, un contrappasso singolare, e non la radicale esplorazione di un polo interno a una costitutiva relazione, che mai, pur nella diversa accentuazione dei suoi momenti, può essere smarrita. Per questo, in breve, è necessario e utile affidarsi a una rete di pensieri, di trama forte e larga, che mentre sta al fondo della riflessione politica, ne oltrepassa e attenua i significati più specifici, ed è perciò disposta, come momento unitario di variabile autonomia, a trasferirsi in contesti diversi, anche in quelli che sembrano e sono più lontani dal diretto ambito politico.
Quale sia ora il nodo più unitario della riflessione di Rousseau, rispetto al quale la politica può fare da filo conduttore privilegiato, si può dire in questa sede in poche parole, ed è del resto intuitivamente noto già da quel che s’è detto: riguarda in generale il problema della socialità, la fondamentale relazione tra la natura propria, persino irripetibile, degli individui, nella loro tensione a una piena e compiuta libertà, e la trama comunitaria, con i suoi ineludibili obblighi e il suo fascino, nelle cui strutture i singoli si trovano fatalmente a vivere. Il tema della relazione tra individuo e comunità o società (o stato), da sempre centrale nella riflessione politica, esploso, comprensibilmente, nell’età moderna, è ancora ben presente nel nostro orizzonte storico, sebbene spesso, nell’ovvietà del discorso ordinario, sfoci in banali genericità, dove i due poli (ormai quasi solo quello della sovranità degli individui) sono contrapposti in forme rigide e arcaiche. Al tempo stesso però, consumato e generico quanto si voglia nella sua formulazione il tema di per sé non è niente affatto irrilevante. Dai tempi di Rousseau, la filosofia, le scienze umane (compresa l’economia), la psicanalisi e altri saperi hanno lavorato, da diverse prospettive, a dar forma spessore e direzione a questo problema. Nessuno, certo, riprenderebbe oggi la questione nei termini in cui fu posta da Rousseau; e tuttavia la permanenza della lezione di Rousseau è assicurata dal fatto che i risultati di questa complessa ricerca non si sono depositati nella comune coscienza e nell’ordinario sapere. Anzi, è forse impossibile che ciò accada, poiché la ricerca, come nello stesso Freud, si conclude lungo un margine di indeterminazione, dove c’è posto, insieme con la speranza, per quella realtà democratica o, in generale, per quelle forme di relazione umane che non si lasciano ricondurre a “scienza”. La permanenza di Rousseau, fuori della pura ricostruzione storica, sembra affidata appunto alla presenza ci ciò che vi è di elementare e di radicale nel rapporto tra le individualità e la totalità sociale.
Tuttavia, per continuare a esercitare un simile ruolo, la posizione di Rousseau non può essere colta solo in un punto debole e, per così dire, residuale. Nel lungo cammino percorso dal tema di individuo e società la riflessione roussoiana occupa un posto cruciale. Accennerò qui solo a due questioni: la radicalità e la complessità, o i molti piani in cui la questione si articola. Il ginevrino, s’è detto, non “inventa” certo il tema, ma l’articola e lo riformula in modi decisivi, originali e inconfondibili. In generale, dall’antichità al ‘700, parlando alla grossa, il problema veniva pensato nel senso che, quali che fossero le ulteriori distinzioni e persino opposizioni, c’era in ogni caso una positiva solidarietà di fondo tra i due momenti dell’individuo e della società, legati che fossero da umana razionalità, empatia o interessi. La radicalità di Rousseau arriva fino a esplorare, contro ogni naturale sociabilità e in maniera del tutto inedita, la via della completa assenza di relazione sociale; o, all’opposto, quella, più battuta, di un rapporto sociale e politico così compatto da rendere funzionali a esso le individualità. Uno spettro estremo di possibilità racchiuso nei termini che compaiono nel titolo del libro di B. Baczko: solitude e communauté (qui in senso forte).
La solitudine è, in primo luogo, quella dello stato di natura, che apre, prima della tempesta della diseguaglianza e dell’universale alienazione, lo scenario felice, o almeno pacificato, del Discours sur l’inégalité. La relazione sociale si mostra qui, come nel Freud di Disagio della civiltà, la peggiore, la più dolorosa e insieme la più ambigua (visto che noi stessi ne produciamo le forme) causa di infelicità umana. In un bel passo di una nota al Discours sur l’inégalité (OC III, 202), sono freudianamente tenute insieme sia la più facile e anzi strepitosa vittoria ottenuta dagli uomini sugli ostacoli opposti della natura esterna – abissi colmati, montagne abbattute, paludi bonificate –, che pone rimedio a una delle principali fonti del disagio degli uomini, sia la dura permanenza della difficoltà a superare lo sforzo o la fatica dello stare insieme (l’enfer, come si dirà), ossia la più forte e indomabile resistenza esercitata dalla natura interna; anzi, oltre e contro Freud, la corsa al dominio sulla natura, comprova come «non è senza pena che siamo giunti a diventare così infelici». Ma la solitudine, che pure comanda la distinzione fondamentale in Rousseau tra stato di natura e stato di società, è qui la radicale, e persino un po’ disperata premessa, un gesto estremo che mai riesce veramente a dimenticare ciò che avverrà dopo, nell’inesorabile accadere «sociale» della storia, ed è pertanto già disposta alla critica e al superamento, non appena abbia adempiuto la sua funzione di critica impensata. Al capo opposto del folgorante inizio, in un complesso intreccio di esperienza esistenziale e riflessione teorica, s’incontra la solitudine dell’ultimo Rousseau dei Dialogues e delle Rêveries, quando sembra che ogni legame con la socialità e la politica, con le relazioni umane, sia ormai interrotto e dissolto. Ma in realtà, anche qui, come nello stato di pura natura, la difficile relazione non perde mai del tutto l’altro dei suoi poli, sicché lo sprofondamento in sé e nella solitaria foresta è sempre segnato da nostalgia o timore per quel mondo sociale degli uomini che sembra non esserci più.
Di contro ai poli della solitudine, sta la communauté, la forza sostenuta di una socialità fortemente coesa, e non solo nel Contratto. Ma se la solitudine era veramente una sorta di esperimento mentale, seppur geneticamente avvertito, circa la possibilità di un solo polo, scisso da una relazione avvertita come inscindibile, le esperienze opposte, comunitarie, non giungono mai a una simile radicalità, poiché la forte tensione sociale, che pur sembra talvolta unilaterale nel Contratto, non perde mai di vista, fosse anche in modi travagliati e complessi, la centralità della relazione e il problema di trovare una positiva soluzione di equilibrio tra i due momenti; fino al punto, come promette il Contratto, di cercar di avvicinarsi addirittura all’ideale per cui, unendosi agli altri, gli uomini restano liberi «come prima» (OC III, 360). Un obiettivo questo francamente irrealizzabile, come il Contratto duramente sperimenterà, e tuttavia una sorta di filo conduttore che esplicita almeno il senso della ricerca, la tensione a risolvere in pacifica unità, senza sacrifici, i momenti di una difficile relazione.
Intanto però, a stemperare e ad allargare il problema, ci sono, come s’è detto, vie laterali più agevoli, approssimazioni che rinviano alla molteplicità degli approcci possibili a un tema che non si lascia stringere in un solo capo. Così, c’è una sorprendente vicinanza «tematica» tra il Contratto e le grandi opere composte e pubblicate in un tempo prossimo: La nouvelle Héloïse e l’Emile. Se per l’Emilio – la grande opera di pedagogia «naturale» che del resto s’incrocia con la stesura, la pubblicazione e i contenuti del Contract – la cosa è del tutto evidente, la stessa Eloisa, a lungo letta da grandi masse di lettori come una storia d’amore tormentato tra Saint-Preux e Julie, mostra ad occhi più esperti, come quelli di Starobinski, tutti i suoi legami con il mondo in senso largo politico; e quasi canonico è divenuto il paragone tra la piccola comunità di Clarens e quella che agisce al fondo del Contratto, con un arricchimento al tempo stesso nell’interpretazione del grande romanzo e della maggiore opera politica. Vie insomma del tutto diverse per avvicinarsi al cuore sfuggente di un medesimo problema, quasi prove d’esecuzione di un tema simile nelle tonalità più disparate. E la stessa cosa può dirsi per altre opere di Rousseau. Le Confessioni, per esempio, tormentata e mondana replica moderna all’antico itinerario agostiniano dello spirito a Dio, riesce incomprensibile fuori della fitta rete di relazioni sociali e in senso largo politico, che fondano, con la stessa identità, la pretesa autenticità del protagonista.
Qualche parola, infine, su quella che abbiamo detto la complessità, o l’interferenza di più piani nel modo roussoiano di porre il problema di individuo e comunità. Gli scritti di Rousseau che diciamo «politici» sono in realtà composti di tante cose, si muovono su piani diversi, sono ricchi di prospettive differenti tra loro, e non a caso si è avuto più volte il dubbio se includere o no alcune opere nelle raccolte che portano questo nome. Si dovrebbe ogni volta tener conto dei molteplici significati e delle varie elaborazioni che Rousseau attribuisce, esplicitamente o no, a «politique» – mai restringendosi all’angustia di ciò che si diceva o ancora stancamente si dice «dottrina politica». Così, solo esemplificativamente, politico può dirsi l’ambito fattuale dove l’uomo sperimenta sia l’angoscia e il malheur che la sua fragile felicità. Che «tout (tient) radicaliment à la politique» vuol dire che in quest’ambito si trova il segreto della natura dei popoli e delle società, della qualità delle vite individuali, dell’alienazione non meno che della riappropriazione di sé. Straordinaria intuizione di Rousseau è quella di fare della politica, identificata con i grandi movimenti sociali, il criterio ermeneutico di una storia e critica della civiltà, che è a tutti gli effetti politica, anche quando essa non riesca a esprimersi in forme positive ma ribadisce e aggrava il «cercle» governato dall’ineguaglianza sociale. Infine, per limitarci solo a questi cenni, politica è la riflessione di Rousseau quando s’innalza fino alla schietta e antica filosofia dell’uno e dei molti, della parte e del tutto, nel segno dell’amato Platone.
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