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F. Postorino, Croce e l’ansia di un’altra città, Mimesis 2017.

 

Francesco Postorino

Croce e l’ansia di un’altra città 

Mimesis, Milano 2017, pp. 212, € 17.

 

 

 

 

 

Il presente volume Croce e l’ansia di un’altra città, di Francesco Postorino, risponde al tentativo di ricostruire il pensiero politico crociano, in considerazione dell’«incoerenza» che ne caratterizza le diverse fasi dello sviluppo. Tale punto di vista è comprensibile soltanto a condizione che si rinunci ad una visione unitaria dello stesso, a vantaggio di una lettura maggiormente onnicomprensiva del suo pensiero. A partire dall’attenta ricostruzione delle fonti e della struttura del pensiero politico crociano compiuta da Postorino, diviene possibile ricostruire il terreno storico e politico su cui si è innestato un ampio dibattito teso a ridiscutere i presupposti e le contraddizioni interne al pensiero liberal italiano. L’autore precisa come il Croce maturo, impegnato nella lotta contro il Fascismo, non possa essere in alcun modo confuso con il filosofo Croce alle prime armi, ma nemmeno con il Croce che, alla fine dell’Ottocento, introdotto da Antonio Labriola al Marxismo ne ricercava pregi e difetti. Egli non elaborò immediatamente la sua visione religiosa della libertà sin dalle prime fasi della propria riflessione, anzi Postorino addirittura ci ricorda come Croce, nell’opera Riduzione della filosofia del diritto a filosofia dell’economia, si definisse addirittura un anti-storicista. Un’importante svolta nel pensiero crociano si ebbe nel 1930, e nella fondamentale opera La storia come pensiero e azione (1938) in cui è possibile rintracciare la famosa affermazione: la vita e la realtà è la storia e nient’altro che storia. Tale momento segna il definitivo passaggio a una compiuta affermazione dello “storicismo assoluto”. Nella prima parte del volume, Postorino ci offre un ampio sguardo preliminare sul pensiero politico crociano, e in particolar modo sulla sua concezione religiosa della libertà che, come osserveremo in seguito, costituisce un importante assunto ai fini della comprensione della struttura dialettica del suo pensiero. L’autore sottolinea come tutti i differenti momenti che animano il meccanismo dialettico di Croce debbano essere intesi entro un orizzonte aprioristico, poiché essi scaturiscono da un atto di fede che costituisce l’inizio assoluto del suo dispositivo dialettico, il momento religioso. Tutto ciò si gioca lungo il filo sottile che separa la religione dalla filosofia. All’inizio v’è appunto un sentimento religioso, così come Croce lo definisce: «una libertà senz’altra determinazione», che deve essere necessariamente superato dalla filosofia: «la prospettiva religiosa è uno stadio da sconfiggere in nome della filosofia reale». Ed è questo punto che segna l’inestricabile contraddizione tutta interna alla dialettica crociana, tra il suo Sollen (atto di fede) e la libertà come determinazione, che rappresenta in quanto tale il progredire dello spirito della storia (p. 26). Se nelle intenzioni di Croce v’era il tentativo di leggere l’intera realtà, così come la storia, come una storia di libertà, ricomprendendo in sé tutti gli estremismi (marxismo, fascismo, giacobinismo etc.) in quanto considerati elementi imprescindibili alla determinazione di quella stessa libertà, non si può tuttavia non denotare un punto di rottura all’interno di questa visione. Ogni tentativo compiuto dal filosofo napoletano di eliminare qualunque impulso trascendentale, ogni residuo metafisico, pone in essere la propria incompiutezza. Cosicché, l’atto di fede (Sollen) non viene a essere eliminato dalla sua filosofia neoidealistica, rendendo in tal modo impossibile il passaggio a una più perfetta determinazione dello spirito della libertà. Ciò che permane, in quanto momento religioso, è un sentire privo di ogni altra determinazione. Una libertà senz’altra determinazione, scrive Postorino, trionfa in partenza e svilisce ogni altro genere di coinvolgimento religioso. La storia crociana, secondo l’autore, finisce dunque per determinare sempre il medesimo esito: il trionfo della libertà. L’autore chiarisce che nonostante Croce, attraverso il suo circolo dei distinti, abbia trasformato l’iniziale immanentismo in chiave gnoseologica, deve fare pur sempre i conti con un’ulteriore determinazione aprioristica; ciò poiché le componenti negative non hanno alcuna cittadinanza all’interno del suo sistema sintetico degli opposti. Nella dialettica crociana, così come per il sentimento religioso, il brutto viene ad essere immediatamente vinto e superato; in questo senso, si può dire che non vi sia alcuno spazio per l’informe, per il male, per le opere anti-spirituali della storia. V’è un’unica storia, la quale non può che fare riferimento ai quattro elementi categoriali: il bello, il vero, l’utile e il bene. Anche se il filosofo sembra riconoscere il negativo, il cattivo, all’interno della sua dialettica degli opposti, in realtà Postorino spiega, il vincitore è già deciso in partenza: è la tesi, l’essere, quindi il valore positivo della storia. Dall’analisi di Postorino emerge dunque uno scoglio aprioristico incapace di afferrare l’accadimento imprevedibile della storia. L’eccessiva aurea metafisica del pensiero crociano ci restituisce un sistema di pensiero ingessato, interamente ripiegato su sè stesso. Esso oscilla tra un momento religioso, che ripropone l’accadimento storico nel suo reale compiersi, e un altro filosofico che, nel fare i conti con il procedimento logico del sistema dei distinti, rinnega gli eventi imprevedibili della storia mediante la realizzazione di opere sempre belle, vere, utili e morali (p. 36). È importante mostrare anche la critica, riportata dall’autore nel presente volume, di Croce verso la prospettiva positivistica della storia, la quale è rea di relegare l’estetica, la poesia e il sentimento al di fuori del tracciato della storia; ma soprattutto, egli rivela quanto la storia non aneli all’assoluta generalità e astrattezza tipica dell’oggettività delle scienze fisiche. La storia non è un racconto di eventi generici e astratti, ma sempre di questo evento o di quella persona. In tal senso, Croce avverte l’esigenza di separare l’empiria dal valore speculativo, cioè di rivendicare la filosofia contro gli abusi del metodo classificatorio degli empiristi; se la prima s’indentifica con il concetto puro e le quattro dimensioni fondamentali dello spirito, invece il concetto delle scienze naturali è un finto concetto, e in quanto tale inadatto a sincretizzarsi con il particolare della storia; sulla base della presente distinzione è qui definito lo “pseudoconcetto”, proprio delle risultanze positiviste. Ossia un concetto inteso come un involucro astratto, vuoto e inutile. (p.50). Il concetto puro crociano, in parte mutuato dal pensiero hegeliano è, per certi versi, immobile nella sua dimensione ideale ma, nel medesimo tempo, in grado di divenire concreto e storico, pertanto mutevole: «la sfera categoriale è un universale che si rinnova grazie alle infinite realizzazioni delle opere storiche inscritte nel suo scenario». Il concetto deve, quindi, determinarsi come un universale che deve intrecciarsi in termini sintetici con la dimensione particolaristica della storia, affinché possa distinguersi dal guscio vuoto dello pseudoconcetto. La seconda parte del volume illustra la complessa concezione crociana della democrazia, nella fattispecie lo scontro sul piano religioso tra due fedi opposte: la fede della libertà e la fede della democrazia. La specifica adesione del filosofo alla democrazia diviene comprensibile a partire da due assunti: da una parte, il rifiuto ideologico nei confronti di una certa eredità democratica illuministica e dall’altra il tentativo di introdurre una separazione della “libertà da” dalla “libertà di”. L’autore ci aiuta a comprendere la prospettiva crociana: se il liberalismo classico promuoveva “un’eguaglianza legale” , riconosciuta all’interno di un determinato ordinamento giuridico, la quale garantiva pari dignità legale a tutti, al contrario Croce si arresta dinanzi a un’idea della comune umanità. La sua idea di democrazia viene a definirsi a partire da una coscienza della comune umanità che si sposa ad una fede di tipo liberale; tale idea non coincide con prospettive cosmopolite dal vago accento kantiano, bensì si determina a partire da una rivalorizzazione del valore umano (p. 70). Il filosofo si oppone a un certo tipo di democrazia livellatrice di chiara derivazione illuministica, che finisce per sottrarre alla libertà il suo primato per collocarla accanto ad altri principi ritenuti di pari importanza: la famosa triade liberté, egalitè, fraternitè. Postorino chiarisce come Croce non rifiuti l’ideale democratico, chiaramente a patto che questo sia incorniciato all’interno di una struttura di carattere liberale. Dell’individuo, inteso come un soggetto finito e pensato all’interno di un popolo concepito come somma algebrica entro cui smarrisce la propria soggettività, la concezione religiosa della democrazia presenta un’idea di personalità estremamente determinata e eguale alle altre, sulla base di ciò che Croce definisce un’idea minima di umanità. Ciò che Croce abborrisce è certamente il livellamento indifferenziato degli individui, dunque l’impossibilità di considerarli individualmente all’interno della forza collettiva complessiva. Per tale motivo, la libertà si rivela assolutamente incompatibile con l’ideale di democrazia: «nel silenziare i bisogni della qualità e allargare le illusioni del volgo mediante un’onda livellatrice diretta a colpire il cuore della libertà». Egli introduce una fondamentale distinzione tra la “democrazia degli ingenui” e il “liberalismo degli adulti”, tale passaggio storico si rinviene nel travaglio morale di ogni uomo, il quale prima crede di poter aggiustare il mondo (Sollen), per poi proporsi finalmente di comprenderlo e di indirizzarlo (liberalismo). In tal misura, è possibile giungere a una coscienza etica soltanto coll’irrompere della realtà e dell’universale concreto che non ammette alcun scarto differenziale tra il Sollen e lo Sein (di chiaro stampo illuminista). Il passaggio dall’ingenuità a quello del compimento del pensiero individuale segna la vittoria hegeliana di un ”reale razionalizzato”, dunque di un Sein di chi sostiene che il legno storto di derivazione kantiana non può essere raddrizzato e che il mondo va migliorato attraverso le opere di libertà. (p. 74).

Successivamente l’autore analizza la natura dello pseudoconcetto in relazione all’ideale democratico, così come è rappresentata del pensiero di Croce. L’eguaglianza non è nulla più che una finzione: l’eguaglianza serve, non è. Essa non deve essere nulla più che un finto scenario di sostegno alle opere dello spirito, quindi essa non possiede alcun valore e ne costituisce alcuna filosofia. Ciò che Postorino intende far comprendere è che, se in ambito religioso l’eguaglianza era assolutamente respinta, al contrario, in sede filosofica diviene il riscontro sintetico dell’ ”io voglio”, dell’accettazione del reale così com’è e dell’affermazione delle opere dello spirito, giacché solo in questa dimensione astratta tale concetto diviene fondamentale. La democrazia è, pertanto, tutt’uno con lo pseudoconcetto; e, in questa misura, essa contribuisce indirettamente alla legge della storia. La libertà nella sua concretezza (sintetica) non potrebbe in alcun modo sorgere sul terreno dello pseudoconcetto, tuttavia essa è sempre “auto-teleologica”, ossia ritrova il suo fine nella sua stessa libertà. Persino l’eguaglianza è soltanto un’utile astrazione e una finta molla al raggiungimento di ideali eudamonistici, tra i quali troviamo in primo luogo la democrazia (p. 77).

La democrazia, in tal senso, non è, cioè “è” soltanto in quanto produce degli effetti, tuttavia non è reale. La realtà, secondo Croce se si tiene fede al suo circolo dei distinti, è caratterizzata da quattro libertà spirituali nelle quali non v’è alcuno spazio per la finzione concettuale (lo pseudoconcetto); laddove l’opera del politico si realizza nel trovare un punto di congiungimento tra l’ideale e la realtà. In definitiva, quando Croce definisce la democrazia, non pensa affatto alla giustizia pura e né tenta di farla rientrare nel suo circolo dei distinti, ma fa riferimento alla scienza e al nodo problematico dello pseudoconcetto. Il pensatore napoletano non esclude tout court la giustizia ma intende, in altro modo, separarla dall’ideale egualitario. A dispetto dell’istanza fortemente egualitaria diffusasi nell’Ottocento, nel tentativo di istituire condizioni eguali di natura economica ed eliminare qualsiasi genere di gerarchia sociale, Croce invita a considerare il rapporto tra giustizia e egualitarismo alla luce dello pseudoconcetto. Egli crede che la giustizia non dovrebbe in alcun modo ridursi ad un’esigenza di eguaglianza materiale, perché vorrebbe dire sottoporre la realtà a uno schematismo di tipo matematico, nondimeno avrebbe l’effetto di distruggere l’individualità e la vita. La giustizia, in quanto espressione del reale, deve pertanto essere separata dall’egualità appartenente ad uno schema aritmetico e finto. Ma Croce non si limita a separare la giustizia dall’eguaglianza, bensì opera tale discernimento anche tra questa e la democrazia: essere giusti non vuol dire essere democratici. La democrazia egualitaria è definita all’interno di una prospettiva utopica, della quale gli azionisti hanno abbracciato deliberatamente la finzione. Essa, nella sua finzione, è relegata alla dimensione dello pseudoconcetto nel connotare la sua estraneità a ciò che appartiene alla vita, a ciò che è vitale. Se l’eguaglianza appartiene all’ufficio scientifico degli pseudoconcetti, al contrario la giustizia può coincidere con la categoria dell’Etica, alla libertà nella sua determinazione morale, cioè l’essere moralmente giusti vuol dire riferire un “Sì incondizionato” al progressivo “farsi” dello spirito nella storia. Da un punto di vista meramente politico, Croce non palesa alcuna ostilità nei confronti della democrazia, ma solo nei confronti di coloro che la praticano per professione. Mentre il liberalismo è un ideale morale meramente regolativo, la democrazia finisce per divenire un ideale pratico e una realtà empirica (p. 81); ed è questo che egli rimprovera alla sinistra e agli azionisti, nonché il tentativo di equiparare la libertà a una nozione di giustizia illuministica. Resta il nodo centrale della questione che riguarda la proposizione di una “democrazia liberale”, cioè il tentativo di stabilire i modi e procedure ipoteticamente utili al coniugarsi di liberalismo e democrazia.

Francesco Postorino rileva come il liberalismo di Croce sia portatore di alcune anomalie, soprattutto sul versante politico, in confronto ai risultati teorici del liberalismo classico e della tradizione liberale italiana, seppur nelle sue molteplici configurazioni. Ciò partendo dall’analisi che vede in Croce soltanto un critico del pensiero illuminista, tesi che viene smentita successivamente dimostrando quanto Croce, pur condannando l’ideologia illuminista, ne approvasse comunque i risultati storici (p. 84). Il filosofo italiano è in accordo con una certa declinazione del sapere illuministico, tuttavia ritiene che non si possa fare a meno dell’attività logica (un chiaro riferimento alla dialettica di matrice hegeliana): non è tuttavia sufficiente purificare la ragione in nome del Sollen. Occorre storicizzarla. Ciò costituisce un evidente affermazione del valore che il filosofo napoletano assegna alla ragione, a patto che sia collocata all’interno della storia; in virtù di essa lo storicismo viene a rappresentare il perfezionamento di quella stessa ragione illuministica tanto da porsi come la sua affermazione più autentica. Del resto, le parole di ammirazione che Croce dedica all’illuminismo della Repubblica partenopea e ai suoi creatori, che definisce creatori eroici di una prima coscienza civile e patriottica in Italia, dimostra quanto egli sia in parte debitore di una certa tradizione illuministica. La sua profonda adesione alla “libertà della storia” mette in risalto, su un altro versante, la tensione crociana tra lo spirito illuministico giovanile e quello romantico, nel quale è possibile collocare il pensiero liberale di Croce. Osservando le variegate posizioni sorte in seno alla filosofia azionista, si può notare come esse non siano strettamente identificabili con il cosiddetto pensiero liberal, soprattutto se si fa riferimento alla cultura del liberalsocialismo o del socialismo liberale. Il filosofo napoletano si oppone in particolar modo alla sintesi dottrinale tra liberalismo e socialismo inaugurata da Guido Calogero, che viene denunciata come un inutile tentativo progressista di aggiustare il mondo; in questo incontro tra liberalismo e socialismo, Croce oppone un netto rifiuto ad una politica egualitaria, che egli assimila all’interno di uno schema giusnaturalistico e illuministico, persino riconducendo le formazioni democratiche a questi stessi fondamenti. (p. 87). D’altra parte, Croce si muove nel tentativo di operare una netta distinzione tra la sua concezione liberale e quella egualitaria, ma anche da un liberalismo ritenuto più tecnico, in cui si rintraccia un impianto razionalistico e settecentesco orientato a coniugare i propri elementi empirici con un’ipotetica formazione democratica. Va sottolineato anche come Croce cerchi di evitare a tutti i costi una possibile identificazione tra il suo sistema politico-storicistico e quello hegeliano; l’autore evidenzia, a tal proposito, la mancata compatibilità dello stato etico e divino hegeliano con lo stato “attività” di Croce. Postorino ci spiega come molti critici abbiano mosso al pensiero liberale crociano l’accusa di essere poco utile, e quindi di essere un sistema chiuso, così costituito come un insieme di astrazioni e metafisiche che nulla hanno a che vedere con la lotta per le libertà personali e politiche. Alla luce del confronto tra lo storicismo assoluto di Croce e i maggiori interpreti del partito d’azione, è necessario procedere con cautela nel riunire sotto una medesima voce tutti i protagonisti dell’azionismo, ad esempio tra l’area azionista di sinistra guidata da Emilio Lussu e l’ala amendoliana di Ugo La Malfa e Ferruccio Parri, laddove la prima auspicava a creare un terzo partito socialista e l’altra ne prendeva rigorosamente le distanze (p. 90) Oltretutto, Croce nutriva una certa simpatia per il socialismo liberale di Carlo Rosselli, dal momento che ne osservava un certo grado di concretezza e storicità che lo riconduceva, per l’appunto, all’interno di una nuova formazione liberale, mentre d’altra parte sembrava opporsi al liberalsocialismo di Calogero e Capitini. Ciò che il volume in oggetto vuole dimostrare è quanto sia indebita l’assoluta assimilazione della democrazia ad un quadro di riferimento giusnaturalistico: la figura intellettuale di Piero Gobetti ne fornisce una buona giustificazione. Dal momento che, così come Postorino scrive, il giovane Gobetti respingeva qualsiasi affermazione giusnaturalistica per aderire ad una logica del conflitto, che egli sembrava aver pienamente attinto dalla formulazione politica marxiana, al fine della riaffermazione di un ideale della libertà avente carattere morale. Egli non soltanto prendeva le distanze dal liberalismo classico, ma intendeva salvaguardare il proprio ideale etico di libertà, ricorrendo ad uno spirito storicista che sembra allusivamente richiamarsi a quello crociano. Gobetti riconosceva nella classe proletaria un nuovo soggetto storico liberale, dato che la classe borghese aveva ormai perduto la propria vitalità. Il giovane torinese sostiene, dunque, che la vera natura del liberalismo debba essere ricercata in un azione volta al riscatto morale, ossia in un impulso conflittuale volto alla liberazione della classe partigiana. Entrambi, sia Gobetti che Croce, ripudiano qualunque ideale egualitario, tuttavia Gobetti non divinizza la storia, non accetta la realtà storica cosi com’è, questa deve altresì necessariamente esplicitarsi mediante il conflitto (p. 93) . L’autore del volume sottolinea la dura polemica innescata da Croce in direzione del Partito d’Azione, reo di celare ambizioni socialistiche attraverso procedimenti rivoluzionari. Il loro disegno liberal-progressista è, secondo Croce, destinato a fallire nel suo obiettivo riformista a causa della sua incapacità di conciliarsi con il programma socialista. Ciò nonostante, la critica mossa da Croce all’intero partito azionista appare essere priva di fondamento, sebbene la sua concezione religiosa del liberalismo e il suo disegno immanentista siano molto distanti dal liberalsocialismo promosso dagli azionisti (p. 101).

La terza e ultima parte del volume è volta ad approfondire il pensiero politico di alcuni dei maggiori esponenti intellettuali dell’azionismo. Chiaramente non li affronteremo tutti, ma piuttosto ci confronteremo in particolar modo con due concezioni, da una parte il pensiero liberal-socialista di Guido Calogero e dall’altra il pensiero liberalista di Noberto Bobbio. Nella sua opera, La conclusione della filosofia del conoscere (1938), Calogero lascia immediatamente trasparire la sua volontà di prendere le distanze dal pensiero crociano, in virtù della sua radicale riproposizione dell’attualismo di Gentile, motivo per cui l’autore lo inscrive interamente nell’orizzonte dell’idealismo italiano. Egli pone al centro del suo pensiero «ciò che per il filosofo laico costituisce la suprema necessità»: l’io, giacché non v’è alcuna realtà che sia al di fuori di esso che si possa definire nella sua specificità ontologica. L’io, secondo tale misura, sfugge a qualunque identificazione o processo dialettico. Esso si costituisce di due momenti, uno determinato in base al quale possiamo dire che una cosa sia come sia e che non sia un’altra cosa e un altro indeterminato che corrisponde a un’alterità, a ciò che non si riconosce nel tutto, «in quanto ha un limite oltre il quale c’è altro», e tutto ciò è reso possibile attraverso il pensiero che li riconosce. La libertà dell’io calogeriana non è affatto dissimile dalla struttura circolare dello spirito di Croce, a eccezione del fatto che per Calogero la libertà non costituisce un valore assoluto. In altri termini, la libertà calogeriana si estrinseca nell’incontro con la morale; v’è infatti un perenne dualismo che attraversa il concetto di libertà, tra una liberta in sé che funge soltanto da presupposto per la realizzazione di un’altra libertà ideale. La base dialettica di tale sistema morale vede l’io in quanto soggetto morale. L’io, in quanto soggetto morale, non si rinchiude nella sua dimensione egoistica bensì è proprio il desiderio di proiettarsi verso l’altro che gli permette di strutturare la base del proprio io. Affinché un’azione possa definirsi morale, è necessario che vi si presenti un richiamo all’altro. Tuttavia, tale dialettica non si limita ad uno scambio tra l’Io e il Tu, piuttosto l’Io deve educare il Tu all’importanza del Lui (p. 110). L’importanza del lui è data esattamente dal suo costituirsi come espressione di un’alterità, nonché dalla necessità del Tu, dalla configurazione determinata, a confronto con un Lui totalmente indeterminato e che attende di essere riconosciuto eticamente. Calogero, spiega Postorino, rimprovera a Croce l’indefinitezza della sua azione morale, pur simpatizzando con la sua visione storicista. La morale universale calogeriana vive in uno stato di sospensione, tra il conosciuto e lo sconosciuto, ossia in quello spazio tra il tu e quel lui che deve diventare tu (p. 111). Mentre l’infinito di Croce si divinizza e si esplica nel provvidenzialismo della storia, quello di Calogero resta sospeso nei ritmi particolaristici dell’umanità. Calogero intende recuperare dal pensiero dialettico crociano soltanto lo strumento materiale e operativo, traducendolo in altro modo, sotto una prospettiva etica. Il pensiero calogeriano, inserendosi all’interno del proprio orizzonte storico-culturale, risponde alla minaccia fascista mediante i principi del rispetto e della fratellanza. Tutto il suo sistema morale si fonda sul dialogo, concepito come la volontà di intendere l’altro, che costituisce alla maniera kantiana l’a-priori trascendentale di qualunque atto reciproco di comunicazione tra l’Io e il Tu; tale volontà d’intendere è, pertanto, un principio etico che si nutre della mia volontà: «la volontà d’intendere è una verità assoluta che neppure il diretto interlocutore potrebbe smentire». A partire da questo punto si dipana la critica calogeriana allo storicismo assoluto crociano, o ancor più specificamente, la critica che egli indirizza al logos storicista di Croce, ovvero alla possibilità che lo storicismo possa impadronirsi anche dell’aspetto etico, del momento decisivo dell’ascolto. Inversamente, il logos calogeriano deve sempre esplicarsi all’interno di una pratica dialogica, data dalla capacità comune d’intendimento dell’altro. Infine, effettuando un parallelo tra Croce e Calogero, si può dire che secondo quest’ultimo persino la comprensione della storia si può tradurre soltanto nel desiderio di comprendere gli altri. Tale struttura morale deve essere collocata dentro la cornice politica del liberalsocialismo, in riferimento alla capacità morale di intendere il “tu” calogeriano nello spazio democratico del linguaggio, esso costituisce lo scopo morale a cui ogni azione politica dovrebbe mirare. È proprio il riferimento morale al “lui”, quindi all’altro, totalmente ignorato dal liberalismo di Croce, a definire l’intero orizzonte storico-politico di Calogero: «il liberalismo è sempre dell’altro, mai di se stesso, e si deve tradurre nella giusta libertà che bisogna attribuire, con i mezzi politici opportuni all’altro.» (p. 118). L’azione politica progressista calogeriana è improntata decisamente su politiche egualitarie in favore dei bisognosi (ad esempio provvedimenti legislativi intenti a distribuire in modo più equo il reddito sociale). Se per Croce tali politiche, in considerazione del proprio contenuto economico, devono essere necessariamente sancite dalle leggi provvidenzialistiche della storia, al contrario per Calogero esse costituiscono nient’altro che un atto di riconoscimento nei riguardi del “tu”. Postorino sostiene che il realismo politico calogeriano non debba essere confuso con l’immanentismo crociano. Calogero afferma, infatti, che un partito non possa riduttivamente rifarsi a un principio pragmatico in quanto tale limitato alla contingenza dei fatti, ma che piuttosto debba ricavarsi una “terza via” di composizione dell’eterna assenza di convergenza di libertà e giustizia.                                                                                                            Osserviamo poi come, tra le file degli azionisti, Noberto Bobbio rivesta una funzione centrale, poiché egli ha il merito di aver operato un vero e proprio capovolgimento della dialettica storica crociana, sostituendo alle opere “buone” della storia il ruolo centrale della persona, in quanto centro assoluto di valori.

Pur avendo compiuto i suoi primi studi sul terreno della fenomenologia husserliana, Bobbio abbraccia presto il filone culturale del personnalisme, che lo condurrà in direzione di una concezione liberal-democratica dagli ampi accenti sociali. Egli mostrò immediatamente la sua ritrosia nei confronti del filone esistenzialista, pur giungendo, tuttavia, ad accettare un distinguo tra un esistenzialismo passivo ed un altro positivo. E quest’ultimo vuol far riferimento a una corrente filosofica nata in Italia, il cui iniziatore è Nicola Abbagnano, la quale è sì alla ricerca del limite umano esistenziale, ossia della finitudine dell’uomo, ma senza precipitare nelle tele del nulla e del nichilismo. In una prospettiva più generale, l’esistenzialismo scompagina lo storicismo assoluto crociano, mettendo al centro l’uomo, ovvero un soggetto determinato (con il suo nome e cognome e la sua fisicità), che costituirebbe il vero punto di partenza ai fini della comprensione del reale (p. 147). Ciò nonostante, Bobbio teme quella deriva “decadentistica” dell’esistenzialismo, quella di un uomo che ormai con sguardo disincantato ha annunciato la morte di dio, che ripiegato su stesso non intende più interloquire con le sofferenze dell’altro. Quindi l’uomo esistenzialista è, per Bobbio, un uomo che ha smarrito ogni ragione sociale. Ora non v’è più il “tu” calogeriano, ma un uomo nichilista, posto in difesa di sè stesso e immerso nel proprio nulla. Diversamente, l’uomo dei personalisti è chiaro, empatico e vicino al tema della solidarietà sociale, dunque pensare la persona vuol dire porre l’accento sulla questione della giustizia sociale. Sebbene Bobbio sia propugnatore di ideali neo-illuministici, egli sostiene comunque che non si possa completamente voltare le spalle all’esperienza storicista ottocentesca: il suo è, però, uno storicismo relativo, cioè liberato dalla gabbia metafisica di Croce. La persona, secondo Bobbio, deve infatti muoversi in una sfera di tensione tra il concreto e l’astratto, allorché l’astratto è quel di più, quella peculiare eccedenza custodita in ogni individuo innalzato a valore. Il neo-illuminismo di Bobbio è sorretto dalla storia, ma tuttavia senza ridursi a un’accettazione dei meri fatti della storia. Persino Croce si oppone alle teorie nichiliste, ma ciò che accomuna neoidealismo crociano ed esistenzialismo, è la medesima svalutazione dell’individuo; da una parte v’è un individuo esistenzialistico totalmente proiettato verso il nulla, dall’altra un individuo totalmente assimilato, e ridotto in pezzi, in una realtà-spirito che trova il proprio compimento nelle singole e perfette opere immanenti della storia. Ciò che emerge dall’impegno personalistico di Bobbio è l’affermarsi del Sollen, del fascino speculativo del dover essere, secondo cui la persona deve essere il centro assoluto dei valori (p. 150): «una filosofia dei valori (Sollen) che scavalca le ragioni, pur apprezzate, della storia effettuale (sein)».

È necessario notare il fondamentale passaggio di Bobbio dall’idea di una filosofia prescrittiva a un approccio di tipo metodologico, che lo avvicina all’impegno avalutativo della scienza. Ciò sembrerebbe contrapporre l’atteggiamento speculativo che caratterizza la scuola neoidealista e il metodo analitico bobbiano, nel quale sembra prevalere la componente empirica; in realtà, Bobbio non intende in alcun modo estirpare la radice del suo Sollen in nome dell’osservazione empirica e della sperimentazione positivista. La sua eterna tensione tra l’ideale e il reale dimostra quanto il suo Sollen sia inestirpabile. Egli sostiene sia necessario «essere un po’ utopisti e un po’ realisti», ossia quanto sia necessario adottare un approccio di tipo scientifico nel metodo, per poi riflettere con un approccio tendenzialmente ontologico, giacché non è possibile eliminare la tendenza naturale a crescere insita nel destino di ogni persona. In tal modo Bobbio, pur non essendo per definizione un naturaliste, giustifica sul piano storico la prospettiva del diritto naturale come uno degli elementi fondativi della costruzione di uno Stato liberale moderno. Così, se da una parte egli accoglie parzialmente il giusnaturalismo, da un’altra parte aderisce alle prospettive classiche del positivismo (l’istituto della certezza del diritto, il principio della legalità etc).

In conclusione, volendo fornire un quadro sinottico parziale del saggio, si può evidenziare come l’analisi elaborata da Postorino porti alla luce la posizione fondamentale rivestita dalla legge del Sollen, che Croce tenta inutilmente di assorbire, e di superare, all’interno del suo storicismo assoluto; poiché è proprio la dimensione trascendentale, il momento religioso, a condizionare l’operato politico del suo Partito Liberale. Nell’immanentismo crociano è presente il tentativo di oscurare qualunque prospettiva trascendentale; e mi riferisco alla critica che egli muove all’azionismo e alla sua tensione continua verso il reale che nasce dal rifiuto di un storicismo assoluto considerato privo di sostanza pratica. Il messaggio azionista nasce, infatti, dal riscontro effettuale con la realtà e con l’esperienza. Il tu devi (Sollen) calogeriano e bobbiano, e degli altri azionisti, nasce e si erge nell’agone della lotta politica e culturale contro le molteplici manifestazioni del male, dunque contro il Fascismo e il razzismo. Mentre la libertà religiosa di Croce rifugge la funzione livellatrice dell’uguaglianza, d’altro canto gli azionisti inseguono l’ideale di una libertà autentica interamente rivolta all’altro, al “tu” calogeriano, nel sentiero dialogico di un’infinita comprensione (p. 203). Sebbene gli azionisti si muovano all’interno di prospettive appartenenti alla tradizione esistenzialistica, essi non riabilitano l’immagine dell’ “uomo decadente” che, disancorato dall’impalcatura divina che ne reggeva l’esistenza e posto in una condizione di gettatezza al di fuori di ogni orizzonte di senso, va incontro fatalmente al proprio nulla. Ma sulla scorta di un esistenzialismo di segno diverso, viene posta in primo piano la persona come centro assoluto di valori. Ciò che viene a determinarsi è una visione politica, filosofica e culturale posta al confine tra lo storicismo assoluto e il pensiero nichilista, ad intrecciare l’onnicorrelativo rapporto tra socialismo e liberalismo. Infine, se il pensiero crociano nel segnare la parabola idealistica del suo liberalismo ha finito per confinare il problema sociale nell’alveare dello pseudoconcetto, gli azionisti invece si muovono nel tentativo di risvegliare la coscienza italiana dal proprio torpore, e come dal titolo del volume, da “l’ansia di un’altra città”.

                                                                                       Luigi Somma

 

 

 

 

Autonomia e secessioni: la Catalogna e le altre

I recenti indipendentismi (o addirittura secessionismi) invocati da più parte in Europa, a mio modo di vedere, rappresentano un errore clamoroso. Essi dipendono da una doppia inefficienza: quella dello Stato da una parte e quella delle istituzioni sovranazionali dall’altra. Gli indipendentismi sono connessi, altresì, agli egoismi irresponsabili delle comunità monoculturali. Stiamo andando nella direzione esattamente contraria a quella di una sana e quanto mai auspicabile integrazione europea.

In questo quadro, credo sia impossibile occuparsi della “questione catalana” senza porre quest’ultima in un contesto storico e politico più ampio. Sono convinto, anzi, che tale crisi sia incomprensibile se non la si considera alla luce della globalizzazione – intendendo quest’ultima come lo stadio estremo della storia occidentale moderna.

 

  1. Globalizzazione

Dal 1945 al 1989 i confini interni dei paesi europei non sono cambiati. Alla caduta del muro di Berlino, invece, annose quanto irrisolte questioni culturali e politiche sono riemerse con prepotenza. A partire dalla fine della guerra fredda, infatti, sono venute alla ribalta questioni etniche e nazionalistiche che hanno provocato spesso conflitti dolorosi. Tutto ciò, del resto, alla maggior parte degli osservatori è apparso non facile da spiegare dal momento che molte dei problemi riaffiorati – peraltro talvolta in maniera estremamente cruenta – erano parsi superati da una nuova e più pacifica fase storica. E così, la dissoluzione della ex-Iugoslavia avvenuta nel sangue, negli anni Novanta, è stata la prima grande lacerazione, esplosa peraltro nel cuore stesso dell’Europa, che ha riportato alla luce il problema della convivenza pacifica fra etnie diverse.

Questi fenomeni – come detto – sono particolarmente complessi da valutare e anche gli analisti politici fanno fatica poiché ci sono buoni motivi per ritenere che le spinte indipendentistiche costituiscano delle secessioni illegali (o addirittura dei tradimenti), ma si può ammettere anche che esse rappresentino il coronamento libertario di un sogno cullato da tempo.

Ciò che è certo, tuttavia, è che viviamo in un tempo in cui la frammentazione socio-politica – per non parlare di quella esistenziale, familiare, istituzionale – costituisce una questione di estrema rilevanza. Sul piano geopolitico il referendum catalano, così come quello svoltosi nel Kurdistan iracheno, insieme alle molteplici manifestazioni indipendentistiche in diversi Paesi del globo, mostrano in quale misura il nazionalismo a base mono-etnica o mono-culturale riguardi ormai tutti i continenti. Per rimanere nella vecchia Europa, e citando soltanto en passant le rivendicazioni nostrane relative alla Sardegna e soprattutto al Lombardo-Veneto, come non menzionare in Spagna, oltre alla questione catalana, il focolaio indipendentistico basco, quello corso in Francia, quello relativo alle Fiandre in Belgio e, anche, le richieste autonomistiche delle Isole Far Oer per quanto riguarda la Danimarca?

Se dunque alla fine del bipolarismo USA-URSS vanno riemergendo, magari con rinnovata virulenza, antichi conflitti etnici, mi sembra che si possa giungere già ad una conclusione teorica: il processo di globalizzazione, nel momento in cui si prende atto che non riesce a coniugare insieme l’universale dello Stato e delle istituzioni sovra-nazionali con le spinte identitarie delle appartenenze locali, fallisce il suo intento e anzi si risolve drammaticamente in un potente stimolo verso ulteriori frammentazioni più o meno cruente.

 

  1. Comunità europea

Il dato su cui dobbiamo lavorare, dunque, è molto chiaro: la globalizzazione ha coinciso con una nuova e ancor più rigida ripresa dei nazionalismi particolaristici. Diventa di somma importanza, allora, verificare quali elementi siano venuti meno dal lato dell’universalismo, ossia dello Stato e delle comunità sovranazionali nate nel tempo della globalizzazione.

A questo proposito, vorrei citare qualche rigo di un libro che io stesso, in quanto appassionato di letteratura e soprattutto come uomo del sud, ho sempre amato. Carlo Levi, in Cristo si è fermato ad Eboli, riferendosi al governo fascista nell’Italia degli anni ’30 del Novecento, scrive quanto segue: “Pare infatti che il governo avesse da poco scoperto che la capra è un animale dannoso all’agricoltura, poiché mangia i germogli e i rami teneri delle piante: e aveva perciò fatto un decreto valido ugualmente per tutti i comuni del Regno, senza eccezione, che imponeva una forte imposta su ogni capo, del valore all’incirca della bestia. Così, colpendo le capre, si salvavano gli alberi. Ma a Gagliano non ci sono alberi, e la capra è la sola ricchezza del contadino, perché campa di nulla, salta per le argille deserte e dirupate, bruca i cespugli di spine, e vive dove, per mancanza di prati, non si possono tenere né pecore né vitelli. La tassa sulle capre era dunque una sventura: e, poiché non c’era il denaro per pagarla, una sventura senza rimedio. Bisognava uccidere le capre, e restare senza latte e senza formaggio”[1].

Nella potente suggestione della pagina di Levi, mi pare che un punto debba essere sottolineato con forza. Il potere centrale – in particolare quello dei governi democratici – ha il dovere di conoscere e di “rappresentare” l’intero territorio entro il quale gli è stata attribuita la sovranità. Ebbene, è storia antica e sempre rinnovata che ciò non avvenga, o avvenga in maniera parziale o addirittura del tutto insufficiente. Venendo alla situazione che si è venuta determinando nei nostri giorni, la comunità europea appare maggiormente inclinata verso la promozione di fatti burocratico-finanziari i quali, in larga misura, non vengono compresi come propri da tutte le micro-regioni che fanno parte integrante dell’Unione. Le decisioni dell’Unione Europea vengono viste anzi dai territori locali, soprattutto quelli più poveri, più o meno come veniva considerato il governo fascista e la politica di Roma dai contadini del sud al tempo di Levi, e cioè come un fenomeno lontano se non addirittura ostile.

Vi è inoltre da considerare un altro elemento estremamente importante, ossia le crescenti disuguaglianze in abito europeo che vengono registrate e perfino incrementate.

Per limitarci al caso della Catalogna, vorrei elencare alcuni dati particolarmente significativi. In questa bellissima regione spagnola, quasi il 20% delle importazioni arrivano dalla Germania: un numero decisamente superiore a qualunque altro paese. Basterebbe già questo a mostrare l’importanza decisiva che assume per questa regione il rapporto con la potente economia tedesca. Ma c’è dell’altro. La Germania è il secondo più grande acquirente delle esportazioni catalane. In Catalogna, inoltre, oltre il 10 per cento degli investimenti provengono dalla Repubblica Federale. La regione, infine, è il principale punto di appoggio per le aziende in Spagna, dal momento che circa la metà delle 1600 aziende spagnole con partecipazione tedesca hanno la loro sede in Catalogna. Fra queste BASF, Bayer, Böhringer, Henkel, Merck e Siemens.

Sotto il profilo della collaborazione commerciale con la Germania, oltre all’esempio catalano, è possibile, anzi doveroso, ricordarne altri: tutti molto significativi dal punto di vista delle richieste di autonomia. Una situazione simile, infatti, vige anche nei rapporti tra la Germania da una parte e la Lombardia e le Fiandre dall’altra. Esistono canali esclusivi e privilegiati che connettono insieme “economie forti”, indifferenti, se non ostili, ad economie più deboli. Tutto ciò – è evidente – ha provocato un aumento considerevole delle disuguaglianze in ambito europeo e infra-nazionale. E ciò si comprende assai bene: mentre giocavano un ruolo decisivo nell’espansione della già forte economia tedesca, tre regioni economicamente rilevanti come Catalogna, Fiandre e Lombardia aumentavano il già consistente divario con le zone più povere di Spagna, Belgio e Italia.

Esiste, infine, un altro elemento che crea disuguaglianza. All’interno della comunità europea, vi sono accordi fra regioni più ricche, tesi a tagliare fuori le regioni meno sviluppate. Va detto, inoltre, che tali collaborazioni fra economie forti non è soltanto – come forse vorrebbero i liberali – una faccenda “naturale”; una situazione, cioè, che risponde a dinamiche spontanee del mercato. Molto diversamente, essa rientra in un preciso disegno politico. Un esempio significativo è costituito dalla comunità di lavoro denominata “Quattro motori per l’Europa”, fondata nel 1988. Di tale comunità fanno parte – manco a dirlo – il Land tedesco del Baden-Württemberg, la Catalogna, la Lombardia e il Rodano-Alpi. Tale comunità si propone il non trascurabile obiettivo di estendere la cooperazione economica delle aree consociate. Insomma, si prevede una stretta collaborazione fra ricerca, investimenti e tecnologia sul campo: l’accordo era infatti quello di intessere una relazione fra le quattro regioni suddette nei campi della scienza, della ricerca, dell’istruzione, dell’ambiente, della cultura e in altri ancora.

 

  1. Indipendentismo

In una situazione di questo tipo, e cioè in una situazione di forte e crescente disuguaglianza, è chiaro che le élite regionali hanno fatto (e faranno) di tutto per condizionare il flusso di redistribuzione nazionale dei fondi statali, chiedendo a viva voce maggiore autonomia o, in ultima analisi, perfino la secessione. E pazienza – così come è avvenuto nel referendum sull’autonomia catalana – se tutto ciò impone uno strappo profondo del dettame costituzionale e non potendo contare neppure sulla maggioranza interna che sia favorevole alla secessione.

L’età moderna – ciò che è nato con la fine delle guerre civili di religione e la fondazione degli Stati nazionali – aveva colmato il vuoto che si era aperto fra gli uomini, quando le comunità tradizionali si erano sgretolate, con i grandi apparati politico-burocratici nei quali si identificavano, in fondo, le costituzioni delle “nazioni”. Lo Stato aveva ricondotto, cioè, ad unità quelle soggettività frammentate, irrelate, atomizzare e fondamentalmente solitarie che rivendicavano uguaglianza e libertà meramente individuale se non individualistica. Nel nostro tempo, ora che lo Stato appare bypassato da sovranità sovra-nazionali da una parte, infra-nazionali dall’altra, il vuoto riemerge allora in tutta la sua forza.
In una condizione geopolitica nella quale la finanziarizzazione dell’economia elide le sovranità statuali classiche, oltre alle loro abituali prerogative, accade pertanto che piccole comunità etniche – appunto, più ricche di altre – rivendichino piena autonomia politica. Tali richieste vorrebbero andare nella direzione della libertà: in realtà rappresentano un’espressione inconsapevole e pericolosa delle disuguaglianze, degli egoismi e delle inefficienze delle istituzioni statuali – in fondo, dunque, esse non sono altro che l’espressione dello stesso vuoto che le ha generate.

La forma caratteristica della soggettività moderna fa sì che gli individui entrino soltanto in quanto unità astratte e sradicate nelle masse storiche (di consenso o di partecipazione) che di volta in volta si costituiscono. Gli individui a noi coevi, però, non dispongono di alcuna massa o, meglio, le masse contemporanee vengono formate rapidamente e repentinamente si dissolvono. E tutto questo grazie all’ausilio di una tecno-scienza che informa di sé, nel profondo, tutte le forme di vita dell’attuale. L’individualismo diventa così polverizzazione estrema del fatto sociale e lo sradicamento raggiunge livelli inauditi nella storia dell’uomo.

Slegati da qualsiasi contesto comunitario, privi di un potere centrale capace di porsi da collante, vincolati esclusivamente alle regole della finanza e a quelle del capitalismo tecnocratico, è inevitabile, allora, che forze regionalistiche provino, in ogni modo, a far prevalere i propri egoismi ai quali, del resto, non si contrappone altro che l’egoismo simmetrico dei poteri centrali – magari collocati in maniera supina e subalterna rispetto ad organizzazioni sovra e transnazionali.

Se vogliamo traghettare questo mondo fuori dal nichilismo della globalizzazione – credo sia evidente a tutti – dobbiamo cercare un’altra strada.

 

 

  1. Lungimiranza

La civiltà europea si è caratterizzata da sempre in virtù d’una peculiarità decisiva. Essa, cioè, si è perennemente posta come una forma culturale “particolare” che ha in sé l’”universale”. La nostra cultura ha mostrato una singolare attitudine che soltanto apparentemente sembrerebbe andare in direzione auto-contraddittoria: essa, infatti, disgrega l’unità nella differenza proprio mentre si mostra disponibile a dare delle differenze una visione unitaria. È questa la nostra storia, ed è in questo dato che risiede anche la nostra grandezza. In un quadro simile, allora, è del tutto ovvio che porre la questione di identità etnicamente stabili e monolitiche in Europa sia una impresa destinata al fallimento anche soltanto per ragioni di tipo culturale – per non parlare di quelle economiche che vi si connettono. Nel nostro continente, nel corso dei secoli, nulla è stato più massiccio ed influente della contaminazione e di un fruttuoso incontro/scontro di valori. In fondo, a rifletterci bene, non stiamo parlando soltanto della storia ma anche dell’essenza stessa della libertà e della democrazia nate all’interno di quella storia. Non c’è libertà o democrazia – appunto – senza un confronto fra differenze da ricondurre all’unità della rappresentazione/rappresentanza. Per rimanere sul piano storico, tuttavia, occorre ribadire fortemente che la cultura occidentale è diventata la forma di vita più forte del pianeta non certo per il suo integralismo, meno che mai per la difesa rigida e ottusa delle sue innumerevoli forme culturali, ma piuttosto per la sua capacità di metterle in gioco. È diventata forte, cioè, per la sua portata democratica e perfino “anarchica” – per la sua capacità di emancipare gli individui e di considerare tutti, a prescindere dalle etnie e dalle convinzioni individuali, ugualmente preziosi per la comunità. La cultura europea – in estrema sintesi – fa del pluralismo il motore propulsivo della propria azione nel mondo.

Se tutto questo è vero, mi sembra ineludibile il bisogno di contrastare il gretto provincialismo che sembra dettare legge ormai nelle egocentriche (piccole o grandi) capitali europee: è del tutto ovvio, infatti, che non si possa fare affidamento soltanto sulle solite logiche di potenza economica particolaristica che, mentre favoriscono alcune zone dell’Europa, lasciano indietro le altre, incrementando ferali disuguaglianze che, prima o poi, non potranno che produrre frutti avvelenati. Se si vuole creare o consolidare un’identità politica, io credo, è invece assolutamente necessario indicare dei valori comuni capaci di integrare i territori e le diverse identità, lasciandole essere per quello che sono, nella convinzione che soltanto chi possiede una propria identità può metterla in gioco sul piano pubblico a beneficio di tutti.

Da questo punto di vista, pertanto, un’entità geopolitica che possiede da sempre una vocazione differenzialistica e universalistica insieme – come l’Europa appunto – potrebbe offrire un contributo decisivo al mondo globale. Al di là e oltre un’Unione Europea concentrata quasi esclusivamente su questioni finanziarie, e indifferente ad elementi che dovrebbero essere fondamentali quali la ricerca dell’uguaglianza e del confronto politico fra uguali, sono convinto che la politica, nazionale e internazionale, abbia il compito ineludibile di riprendere a praticare un valore come la “democrazia lungimirante”. Senza la capacità di con-vergere su un fronte unico, infatti, e senza “guardare lontano”, non c’è alcuna speranza di affrontare i fenomeni e gli eventi di un mondo sempre più complesso che richiede tutta la nostra attenzione e i nostri sforzi.

Le politiche che, per inseguire il loro interesse particolaristico, mostrino una pervicace incapacità di guardare al domani e tengano conto soltanto della logica del consenso a breve termine, della ricchezza del “noi” isolati dagli altri, sono viziate in partenza e gli effetti negativi non tarderanno a farsi sentire.

È necessario perciò – ora più che mai – ripensare con forza ad una “grande politica” europea. All’interno di un mondo sempre più interrelato, infatti, quale potrebbe essere il destino di una regione, magari oggi più ricca delle altre, ma che, slegandosi dalla nazione nella quale è cresciuta e si è sviluppata, rischia di tagliare lo stesso ramo sul quale è seduta?

Ancora una volta, dunque, credo sia assolutamente necessario l’uso d’una virtù consustanziale ad ogni “grande politica”: ciò che rappresenta una dote imprescindibile per ogni uomo politico o classe politica degni di questo nome, ossia – come detto – la lungimiranza.

 

ANTONIO MARTONE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] C. Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Einaudi, Torino 1990, pag. 42.

La volontà generale

Un saggio che analizza la volontà generale nella sua genesi, fornendo analisi e prospettive accurate partendo da una ricca letteratura aggiornata. Un ricerca sul fondamento teorico del Contratto sociale di Jean Jacques Rousseau.

Come nasce l’idea della Volontà Generale in Rousseau

 ENcyclopediePur condividendo il giudizio di Judith Shklar che considera Rousseau l’artefice della fortuna dell’espressione ‘volontà generale’ [ref]Judith N.Shklar, General will, in dictionary of the history of ideas a cura di Philip P.Wiener(New York, Charles Scribner’s Sons,1973) vol .2 pag 275.[/ref]ritengo però sia necessario tenere presente i debiti culturali e teoretici che il nostro filosofo contrasse con il dibattito filosofico in atto nel proprio tempo e nel proprio ambiente. Questa necessità mi pare chiara e doverosa proprio in virtù del modo attraverso cui lo stesso filosofo ginevrino mosse la propria riflessione a partire dal sistematico tentativo di confutare l’articolo di Diderot “Droit naturel” del 1755 , pubblicato sull’Enciclopedia, nel secondo capitolo del “ manoscritto di Ginevra”.

In questo capitolo, intitolato ‘della società generale del genere umano’ [ref]Si fa riferimento alla edizione a cura e con note di Maria Garin ed.Laterza 1994 “Rousseau scritti politici” volume 2 .[/ref], Rousseau riporta a scopo di confutarle, ben quattro proposizioni del suddetto articolo di Diderot. Sin dall’episodio di Vincennes, il rapporto di amicizia e il confronto intellettuale fra Rousseau e Diderot, ci dà l’idea del clima che nella Francia dell’enciclopedia si andava respirando.


Cap I: l’Encyclopédie[ref]“ L’Encyclopedie ou dictionnaire raisonnè des sciences , des arts et des metiers » titolo originale che noi rileggiamo nella traduzione e a cura di Paolo Casini ed.Laterza 2003.[/ref] di Diderot e d’Alembert come paradigma della modernità.

L’importanza di quest’opera non si misura nei ventotto volumi con 72000 voci, 2500 tavole redatte dai 160 collaboratori che Diderot scelse per le diverse materie fra gli intellettuali più diversi e ai quali lasciò completa libertà di espressione. Non si misura neanche nei 25000 abbonati e nel pubblico variegato fra cui borghesi di vari paesi europei. L’importanza di questa opera è da misurarsi entro il significato espresso dall’unione di uno studio sulle arti e sui mestieri a riflessioni sulla morale, sulla politica e sulle più alte questioni filosofiche. Tale significato coglieva in un opera a più voci la complessità del passaggio dal modello del filosofo o sapiente appartenente a determinate confessioni o stati a quella del filosofo militante che apparteneva a uno spazio europeo della cultura e della comunicazione letteraria, una sorta di “repubblica delle lettere”.

Laddove, come notò magistralmente Franco Venturi in “utopia e riforme nell’illuminismo”, il repubblicanesimo politico era ormai tramontato nelle istituzioni dei vari stati europei, grazie a questo esperimento culturale, l’etica e la morale repubblicana fondavano il cosmopolitismo e si ponevano come collante ideale per la nascente cultura riformatrice del vecchio continente.

Il ruolo essenziale che questi filosofi attribuiscono alle scienze e alle arti come motore del progresso dell’uomo, la predisposizione che il movimento tutto mostrava per la comunicazione internazionale, l’humus materialistico e razionalistico su cui basavano gran parte delle riflessioni sui disparati temi, rappresentano lo spirito di un tempo, il volto di un epoca.

Per capire quanto questa complessità fosse voluta e ricercata dai nostri autori e redattori, accennerò brevemente al famoso “discorso preliminare” di d’Alembert che proprio nella frase iniziale annuncia che: ”l’Enciclopedia, come suona il titolo, è opera di una società di scrittori”.

Unire le diverse esperienze e competenze per costruire dal basso l’edificio del sapere umano era entrato ormai nel vivo del dibattito culturale e l’enciclopedia doveva sancire la supremazia della filosofia che indagava la natura con i sensi e la ragione.

Questi assunti facevano emergere un sapere slegato da ogni dogma religioso, lontano da ogni dipendenza diretta dalle rivelazioni divine, eppure questo aspetto resta in secondo piano rispetto alle sottolineature sempre più marcate circa l’utilità che questo sistema culturale recava allo sviluppo e la crescita del genere umano.

Una filosofia empirista e proto-positivista faceva da sfondo a una riflessione sul metodo sperimentale e contestualmente venivano citati una pluralità di debiti teorici a una serie di padri nobili della filosofia occidentale. Tali riferimenti apparivano però sommari e tradivano da una parte una certa incoerenza nel discorso globale, da un’ altra ci danno la possibilità di gettare uno sguardo sulla complessità della sfida che gli enciclopedisti lanciavano al proprio tempo.

Nel “prospectus” Diderot pone in rilievo la volontà degli editori di porre in essere il grande progetto baconiano di fondere in un sol corpo le scienze, le arti e le tecnologie al fine di mostrare quali fossero gli strumenti della perfettibilità dell’uomo.

Le grandi polemiche e le contestazioni che questo passo di Diderot suscitò ci permettono un’ulteriore misurazione della centralità di questa opera nel dibattito intellettuale della metà del settecento.

Il prospectus uscì appena dopo il primo discorso di Rousseau e noi sappiamo quanto fu lo stesso Diderot a consigliare le linee guida del saggio del filosofo ginevrino.

Il punto in cui noi possiamo muovere un confronto serrato fra i due amici filosofi è nell’articolo “Diritto naturale” di Diderot che troviamo criticato da Rousseau nel manoscritto di Ginevra. In questo articolo Diderot espone i principi di un contrattualismo e giusnaturalismo laico, basandosi su una rilettura di Barberyac del famoso trattato di Pufendorf “De jure naturae et gentium” [ref]Secondo le indicazioni di R.Hubert così come riportato sul testo sopracitato di P.Casini.[/ref]; in questo passo il nostro editore contrappone al modello hobbesiano di uno stato di natura del modello del “bellum omnium contra omnes”, la teoria del diritto naturale di stampo giusnaturalistico con accenti a volte materialistici.

È in questa cornice che Diderot formula il concetto di Volontà Generale.

Nell’articolo che stiamo analizzando Diderot utilizza una proposizione in una forma solo apparentemente ipotetica sulla falsa sensazione di libertà che l’uomo avverte quando crede di essere lui a volere le cose che pensa e che sente.

Il determinismo che qui appare ancora non dichiarato apertamente è strumentale alla tesi che ogni nostra azione sia guidata dalla nostra natura che esula da “alcunché di materiale estraneo alla sua anima, la sua scelta non è l’atto puro di una sostanza incorporea”.

Per spiegare la propria posizione mette in contrasto il “raisonneur violent” di stampo hobbesiano e l’uomo di natura che ascolta il proprio lume razionale. La capacità di analisi razionale è patrimonio sia del buono che del cattivo, e ci fa vedere come in ogni azione umana, il singolo, può anche preferire sempre di seguire il proprio piacere personale a discapito di tutto il resto dell’umanità, ma non può non riflettere sulla propria condizione al contrario di quello che accade alle bestie che agiscono per necessità senza riflessione.

Grazie a questo raffronto il nostro autore afferma che l’uomo ha sempre la possibilità di scoprire in se stesso la verità, ovvero la strada razionale per agire in conformità della ragione nel rispetto dell’agire di ogni altro uomo.

“Non sono tanto ingiusto da esigere da un altro un sacrificio che non voglio fare per lui”.

Il salto teorico avviene proprio qui allorquando Diderot ci fa vedere che un uomo nella propria individualità può essere sia buono che cattivo quando deve compiere una scelta per se stesso, mentre si accorda facilmente con ogni altro quando si tratta di pensare la società generale del genere umano: la volontà del singolo è sempre sospetta, la volontà generale è sempre retta.

Alla volontà generale si deve rivolgere il singolo per comprendere ciò che è giusto o sbagliato per se, per comprendere i propri doveri di uomo, padre figlio e cittadino.

Ogni volta che ci si riferisce alla volontà generale, ogni pensiero che si accorda con essa, partecipa interamente all’interesse generale e comune.

Secondo Diderot l’uomo può trovare entro se stesso quella legge sublime che è la Volontà Generale quando fa tacere quella ferina volontà di opprimere il prossimo e al contrario ricerca l’accordo con una volontà che voglia l’interesse generale.

“Sono un uomo e non possiedo altri diritti naturali realmente inalienabili che quelli dell’umanità “.

Ma dove sta questa Volontà generale? Dove la troviamo?

“Nei principi scritti del diritto di tutte le nazioni civili; negli atti sociali dei popoli selvaggi e barbari” ; nelle tacite convenzioni strette dai nemici del genere umano ed anche nell’indignazione e nel risentimento due passioni che la natura pare aver dato perfino agli animali per sopperire alla mancanza di leggi sociali e di vendetta pubblica”[ref]Tutti i virgolettati di questo passaggio si riferiscono all’articolo Diritto Naturale di Diderot nella già citata edizione a cura di P.Casini.[/ref].

Dopo questa serrata dissertazione, il quadro che Diderot ha composto lo porta a concludere che l’individuo che ascolta solo il proprio interesse personale è un nemico del genere umano; che la Volontà generale, presente in ogni individuo, è un atto puro dell’intelletto che ragiona nel silenzio delle passioni, su ciò che l’uomo può pretendere dal suo simile e su ciò che il suo simile ha diritto a pretendere da lui; che questa considerazione sulla volontà generale è la regola aurea della condotta degli uomini nella società e nel rapporto simmetrico di ognuno con ogni altro.

Tutte le società si fondano sulla Volontà generale, perfino quelle che si basano sul delitto, ma le leggi devono essere fatte per tutti e non per uno, altrimenti torneremmo a basarci sul principio del “raisonneur violent” di hobbesiana memoria. La volontà generale non muta con il mutare delle generazioni in quanto il diritto naturale fa riferimento sempre alla specie umana nella sua generalità, per cui l’equità resterà sempre la causa della giustizia che fonda l’interesse generale.

Sia il discorso preliminare, sia l’articolo di Diderot, ci danno la misura del progetto degli enciclopedisti che si pongono come “summa” del dibattito filosofico di un epoca pronta a costruire dal basso una società che tenga insieme giustizia e utilità, dove il progresso dell’umanità si debba compiere grazie al contributo di tutti attraverso il lavoro e la ragione, l’arte e il pensiero.


Cap II: Rousseau e il processo di socializzazione.

Il nostro intento è quello di portare un contributo all’analisi del concetto di volontà generale, e i concetti non hanno ne una collocazione temporale ne possono essere riferiti come proprietà esclusiva di qualcuno.

Eppure, come già accennato nella brevissima introduzione, non possiamo trascurare gli effetti che l’articolo di Diderot suscitò nella riflessione di Rousseau, visto che a partire da questo confronto il concetto a noi tanto caro prende un significato che ormai non è più possibile trascurare se si vuole raggiungere una comprensione profonda circa l’aspirazione dei moderni nel rintracciare nell’uomo e solo nell’uomo quel principio di giustizia che è fondante la comunità politica.

Dove nasce la necessità delle istituzioni politiche?

Nel manoscritto di Ginevra, lavoro preparatorio a un opera che avrebbe dovuto intitolarsi “istituzioni politiche”, Rousseau comincia con il ribadire le sue considerazioni circa le modalità secondo le quali gli uomini sarebbero passati da un primo stadio di naturale solitudine individuale ad una progressiva socializzazione.

Soprattutto mette in risalto il rapporto fra particolare e universale e la connessione fra cittadino e società universale.

La necessità di condividere il proprio tempo con i propri simili nasce in ognuno allorquando mutano i bisogni; fino a quando l’uomo resta in uno stadio di autosufficienza, irrazionale e pacifica animalità, non avverte altro che il “amour de soi”, ovvero quel naturale amore per se stesso che lo spinge alla ricerca del cibo, riparo, sonno e sesso.

È nel momento in cui incontra gli altri uomini che nascono nuovi bisogni e avviene il mutamento dello stato umano dal “amour de soi” all’amour propre”.

L’analisi Roussoiana nasce proprio dalla capacità del ginevrino di mettere in luce l’importanza dei rapporti simmetrici fra gli individui che stanno alla base della fondazione della comunità politica, di mettere in risalto come questa comunità si formi, a quali regole è soggetta, e questo ci da la misura di come l’uomo è andato trasformandosi ed evolvendosi fino al momento della comprensione della necessità della instaurazione della società politica.

Abbiamo bisogno degli altri, ma le nostre passioni minano la possibilità di un unione spontaneamente pacifica.

“Una marea di rapporti, senza né misura, né regola, né consistenza, alterati e mutati di continuo dagli uomini”.

Se la società generale si fondasse sui bisogni degli uomini non riuscirebbe a corrispondere alla pluralità delle necessità dell’uomo trasformato dal confronto con gli altri;potrebbe solo esaltare e fortificare le nuove differenze fra gli uomini, quelle che si basano sui rapporti di ricchezza/povertà, che avvantaggerebbero di gran lunga i ricchi a scapito dei poveri.

Bisogna tener presente che l’uomo si unisce a gli altri per necessità, dunque è da escludere ogni riferimento a un eventuale principio che unisca in vista di una felicità o fine comune.

Utilizzare espressioni quali “il genere umano” , per Rousseau, vuol dire usare categorie collettive che nulla ci informano sulla reale composizione dei rapporti reciproci fra gli uomini.

L’uomo, inoltre, è un animale perfettibile, dunque in grado di migliorare se stesso e questo dipende in parte dal linguaggio e dalla cultura del tempo.

Laddove l’umanità viene valutata in un rapporto chiaro con la propria storia, è facile affermare che la perfettibilità risiede nel singolo tanto quanto nella specie, e si può misurare nello sviluppo della civiltà.

Ma quando si innesca il processo culturale, non solo grazie al linguaggio ma anche grazie all’evoluzione di categorie sociali quali la famiglia e piccoli gruppi sociali, inizia la preoccupazione dell’uomo non più solo per l’”amour de soi, ma anche dell’opinione degli altri e della propria posizione in seno alle gerarchie della propria comunità.

“L’interesse particolare e il bene generale non vanno affatto d’accordo, al contrario, nell’ordine naturale delle cose si escludono a vicenda”[ref] virgolettati di questo capitolo sono tratti dal cap II del Lib.I del manoscritto di Ginevra, ed Laterza 1994 a cura di Maria Garin, introduzione di Eugenio Garin.[/ref].

A seguito di questa affermazione, Rousseau attacca direttamente l’articolo di Diderot con una critica in quattro punti.

Il contrasto fra il “saggio” e “l’uomo indipendente” per Diderot si misura nel passaggio:” ma devo essere infelice o fare l’infelicità degli altri, e nessuno mi è più caro di me stesso”, mentre per Rousseau non vi è certezza per l’individuo che osserva la legge razionale che tutti gli altri lo rispettino allo stesso modo, inoltre non vi è assicurazione di trovare sempre persone più deboli su cui rifarsi.

In pratica per il Ginevrino “ o mi garantite da ogni ingiusto attacco o non sperate che , a mia volta, io me ne astenga”. Nessuna garanzia dunque da il rispetto della legge naturale mentre un alleanza dei più forti a scapito del debole garantisce una spartizione delle risorse più efficace , dal punto di vista dei vantaggi e di ogni discorso sulla giustizia. Un ritorno poi alle sanzioni divine non farebbe altro che inasprire i contrasti nel “genere umano” visto che ogni credenza nel divino risiede nelle ristrette aree delle diverse comunità, dove ognuno possiede un suo dio, sempre unico e sempre quello giusto. Se anche le religioni hanno fallito sempre nel garantire il “maggior bene di tutti”, chi mai potrà?

Per Diderot:” l’individuo, mi dirà, per sapere fino a che punto il suo dovere è di essere uomo, cittadino, suddito, padre, figlio, quando gli conviene vivere o morire, deve rivolgersi alla volontà generale”, per Rousseau invece anche se la regola è giusta da consultare non risulta adeguata per fornire un motivo di azione conforme in mancanza di una indicazione circa la convenienza ad essere giusti.

Ma se per il nostro editore “ la volontà generale , in ogni individuo, è un atto puro dell’intelletto che ragiona , nel silenzio delle passioni, su ciò che l’uomo può esigere dal suo simile e su ciò che il suo simile ha diritto di esigere da lui”, per Rousseau invece la regola della reciprocità non si attua al livello di legge che giustifica la comunità bensì come regola che garantisca la possibilità di una vita giusta e pacifica fra i partecipanti. Infatti il pensare leggi generali non garantisce all’individuo la possibilità di non ingannarsi negli innumerevoli casi particolari in cui si imbatte nei suoi simili.

Dove poi andrà rintracciata questa legge? Se per Diderot si trova “ nei principi di diritto di tutte le nazioni, il consenso tacito di tutti i nemici del genere umano”, per il nostro filosofo Ginevrino questa è eventualmente rintracciabile solo dall’ordine sociale che vige e a cui l’individuo è abituato a sottostare e dalla quale forse riesce, generalizzando, a proiettare un modello migliore.

La critica al cosmopolitismo dei “philosophe”, che espandendo il loro amor di patria all’amore per l’intero genere umano, “si vantano di amare tutti per essere in diritto di non amare nessuno”, è un analisi che parte da una nuova visione di quell’amor proprio, che nato dall’unione degli uomini in società, impedisce l’ascolto della legge razionale degli enciclopedisti, ma se bene inteso può offrire una chiave di lettura per correggere i difetti della associazione generale attraverso la creazione di nuove forme di associazione politica.

La critica severa che Rousseau rivolge all’articolo comincia a mostrare le differenze e le sfumature fra la diversa concezione dei due autori circa il concetto di Volontà Generale.

Per Rousseau questo concetto si rinnova continuamente e deriva direttamente dalla coscienza popolare, niente a che vedere con una statica ed imperitura legge giusnaturalistica depositata per sempre nei libri del diritto positivo dei giureconsulti.

Già nell’articolo “economia politica” scritto per l’enciclopedia, in un clima di sostanziale concordia con l’amico francese, Rousseau aveva posto un primo accenno alla distinzione tra sovranità e governo che svilupperà nel “contratto sociale” ma già viene inteso che la sovranità spetta al popolo, in una visione che appare organicista come pure in un accenno nel manoscritto quando parla della società generale come un essere morale diverso e superiore dalle parti che lo compongono.

Il rapporto fra questo corpo unico, questo essere morale e l’individuo sarà uno dei temi centrali della nostra analisi.

Dunque la genesi della volontà generale dipenderà più da un processo di socializzazione, nel senso di individui che si uniscono ad un corpo sociale, che da un diritto rintracciabile nella natura dell’uomo.


Cap III: l’amor proprio come chiave di lettura della socialità.

Se la volontà generale si rivela un paradigma così attraente, come io credo, certamente è dovuto alla promessa che sottende quando si pone come regola che lega i rapporti tra gli uomini in un piano di giustizia, libertà e rispetto reciproco.

Per Diderot abbiamo visto che essa si rivela ad ognuno che ragioni con calma in assenza delle passioni.

Questa visione razionalista ha il suo fascino e la sua presa teorica ma non spiega, a mio avviso, come questo principio possa incidere in presenza di individui irrazionali, mancherebbe, infatti la rassicurazione della reciprocità.

Questa come ricordiamo era pure la critica di Rousseau.

Il filosofo ginevrino aveva sottolineato come invece l’uomo avesse un bisogno naturale, una volta entrato in contatto con un determinato gruppo di altri soggetti, di essere accettato dagli altri come un simile, una sorta di preoccupazione per la propria posizione all’interno del gruppo in cui si inseriva. Questa preoccupazione di relazionarsi alla pari con gli altri è il bisogno che ognuno di noi sente di assicurare a se stesso un uguale livello di partecipazione, non solo alla vita del gruppo, ma anche alla condivisione delle risorse.

Questa condivisione sulla base di bisogni e aspirazioni impone a noi stessi e agli altri obblighi e limiti che saranno rispettati reciprocamente grazie alla possibilità che gli uguali bisogni sono riconoscibili naturalmente da ognuno.

Chiedere che il proprio bisogno venga accettato dagli altri ci predispone ad accettare spontaneamente lo stesso bisogno che è in ogni altro.

Su questo punto non vige una legge umana che bisogna comprendere ed aspettare che altri se ne convincano, qui Rousseau fa leva su una visione ampia dell’amor proprio che ognuno di noi sente in se stesso ed è spontaneamente capace di scorgerlo negli altri.

Dunque l’amor proprio ci spinge a riconoscere all’altro uno status di reciproca esistenza, un piano di reciprocità che più che analizzato razionalmente è sentito naturalmente e fatto proprio nell’agire in società. Se il principio di reciprocità è comunque decodificato dalla ragione, dalla coscienza ci muoviamo verso tale atteggiamento mossi da un sentimento.

Questa visione “ampia” dell’amor proprio non è quella classica seguita dalla letteratura sterminata su Rousseau, segue tuttavia la linea tracciata da John Rawls nella sua lezione all’università di Harvard nel 1994 di filosofia politica[ref]A pag. 210 dell’edizione Feltrinelli “lezioni di filosofia politica” John Rawls del 2009 è riportata un ampia spiegazione della visione ampia dell’amor proprio; Rawls nella nota 9 alla stessa pagina dichiara che questa visione è ripresa dagli studi di N.J.H. Dent, Rousseau, Blackwell ,Oxford 1988; e quello di Frderick Neuhouser in Freedom, dependance and general will, in Philosophical Review” luglio 1993 pp37 e seguenti. Neuhouser è il precursore di questa connessione fra l’amor proprio e la reciprocità.[/ref]. Se seguissimo la visione accettata da tutti dell’amor proprio e non questa di Rawls parleremmo unicamente di quel sentimento molto vicino alla vanità, che Rawls chiama amor proprio “perverso”, il quale come sappiamo è un desiderio di dominare l’altro nel confronto, di essere ammirati e onorati dagli altri.

Rawls per dimostrare la fondatezza di questa interpretazione chiama a testimoniare Kant, il quale nella Religione ( libro I, Sez. I, AK: VI : 27) si esprime così :”le disposizioni all’umanità possono essere collocate sotto il titolo generale dell’amore di sé, sempre fisico, ma tuttavia comparato (per cui si richiede la ragione); in quanto ci si giudica felici o infelici solo in confronto con gli altri. Da questo amore di sé deriva l’inclinazione dell’uomo ad acquistarsi un valore nell’opinione altrui ed originariamente , ad acquistarsi , senza dubbio,solo il valore dell’eguaglianza , per cui a nessuno permettiamo la supremazia su noi stessi, sentendo insieme la costante preoccupazione che altri possano aspirarvi.”

L’operazione che vuole fare Rawls è chiara: mettendo a confronto questo passo di Kant con il secondo discorso di Rousseau, ottiene un principio coerente per collegare il pensiero rousseiano fino al contratto in cui è un desiderio, l’amor proprio, che lega fra coscienza e ragione riflessa i cittadini del contratto sociale a un principio di uguaglianza che diviene prima di tutto un bisogno intimo e reciproco.

Un ulteriore confronto, a mio avviso, è da compiersi tra questa visione ampia di Rawls e il dibattito analizzato nel capitolo precedente tra Rousseau e Diderot.

Come ricordiamo Diderot aveva formulato il concetto di volontà generale come diritto naturale intrinseco alla natura umana, ogni individuo che nel silenzio delle passioni interroga la volontà generale può scoprire dentro se cosa è giusto e cosa è sbagliato nella società nel confronto con gli altri.

Rousseau aveva obiettato che anche qualora la legge fosse stata giusta non ci avrebbe dato certezze ne sulla convenienza a seguirla ne ci avrebbe tranquillizzato che gli altri, altrettanto razionalmente, avrebbero agito allo stesso modo verso di noi.

Dunque per Rousseau l’unico principio che potesse motivarci a cercare la comunità degli uomini sta nel bisogno che l’uomo ha del suo simile, quando non è più bastevole a sé e si sviluppa quel sentimento del confronto reciproco che ci accomuna in un istintivo relazionarsi sulla base di un uguale necessità.

L’uomo diventa qualcuno solo in relazione agli altri, in questa comparazione continua comprende il nesso della reciprocità e dunque dell’uguaglianza delle condizioni e dei bisogni che regolano la società umana.

Questi aspetti ci portano ad affermare che il passaggio dalla aggregazione di uomini al progetto politico, si fonda sulla convinzione che il bene di ciascun appartenente al corpo sociale, e così successivamente il bene di ogni sottoscrittore del contratto sociale, coincida con il bene di ogni altro.

L’interesse per se stessi una volta che è posto su un piano di simmetrica reciprocità e capacità di riconoscersi nell’altro diviene un interesse ben inteso, l’interesse per la vita della comunità.

Questo interesse che è comune a tutti fa divenire la volontà di ognuno, se bene intesa, la volontà generale . Il nostro è un ragionamento su come sia possibile la società, stiamo insomma cercando il movente dell’associazione, quel fondamento psicologico che Rousseau dichiarava nel manoscritto di Ginevra nel capitolo V del libro I: “l’utilità comune è dunque il fondamento della società civile”.

Ora però io sono pronto ad evidenziare anche una linea di continuità fra Rousseau e il contesto culturale della sua epoca, una sottolineatura che mi permette di vedere Rousseau allineato alle aspirazioni e prospettive dei lumi.

Infatti l’aver analizzato le differenze fra Diderot e Rousseau ci permette di condividere con quest’ultimo la preoccupazione e lo studio di una volontà generale che sia coerente con le passioni e i bisogni degli uomini veri, “così come essi sono”, ma nello stesso tempo ci mostra ancora una volta che Rousseau è perfettamente inserito nel progetto culturale della modernità posta in essere dagli enciclopedisti: porre l’uomo come unità irriducibile della deliberazione, dell’azione e della responsabilità di tutto ciò che è sociale, per cui i fini umani sono i motivi della nascita, dello sviluppo e del futuro dell’agire politico.

L’individuo umano è il principio della comunità pre-politica, il cittadino è il fine della società politica.


Social_contract_rousseau_pageCap IV: la Volontà Generale la genesi.

La distinzione più importante che concerne quanto detto fino ad ora è che Rousseau tiene sempre forte una divisione fra un popolo e un aggregazione di uomini.

La società politica che è espressione di un popolo, avrà possibilità di esistere solo qualora gli interessi particolari che spingono l’uomo ad aggregarsi ad un gruppo, possano essere superati o si possano evolvere nella direzione di interessi generali.

La prima definizione di Volontà Generale la troviamo nel libro primo, capitolo sei del contratto sociale:”ciascuno di noi mette in comune la propria persona, e ogni proprio potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi in quanto corpo politico riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto”.

Ora ci porremo due domande a mio avviso essenziali, cosa significa volontà generale e qual è il suo ruolo, se ne ha uno, nella giustificazione dell’associazione politica.

Per capire come nasce la volontà generale abbiamo bisogno di muovere dei passi dall’analisi del momento aggregativo al momento dell’entrata di un individuo nel gruppo costituito.

Bisogna insomma fare dei passi all’interno della riflessione intorno al contratto sociale, in modo che se riusciremo a trovare delle risposte alle nostre due domande, certamente le avremo grazie alla nostra premessa circa il processo di socializzazione che in qualche modo prelude o già comprende il nesso con la possibilità della volontà generale.

Infatti la famosissima premessa capolavoro politico di Rousseau, uno degli incipit tra i più conosciuti nella storia della filosofia occidentale, se letto con attenzione già contiene in se tutte le domande e gran parte delle importanti questioni che attengono alla nostra riflessione:

“ voglio cercare se nell’ordine civile può esservi qualche regola di amministrazione legittima e sicura, prendendo gli uomini come sono e le leggi come possono essere. Tenterò di associare sempre in questa ricerca ciò che il diritto permette con ciò che l’interesse prescrive perché la giustizia e l’utilità non si trovino ad essere separate.”

Partire dalla reale natura dell’uomo, dai suoi bisogni e dalle sue passioni, per costruire una società che conughi giustizia e libertà è un progetto moderno, e illuminista, centrale nel dibattito dell’epoca in cui si trova il nostro autore, ma è anche un operazione che ha bisogno di un principio che funga da collante sicuro per non ricadere nell’utopia razionalistica dei philosophe che Rousseau aveva contestato.

Il punto resta che secondo Rousseau non avrebbe avuto senso parlare di leggi razionali per motivare l’uomo a lasciare lo stato di natura di relativa indipendenza e libertà per entrare in società senza mostrargli un vantaggio per questa scelta;invece c’ è la possibilità che il bisogno che nasce da una inadeguatezza delle possibilità dell’uomo , a un certo punto della sua storia, rispetto alle proprie necessità, fornisca il naturale stimolo alla accettazione della sottomissione alla volontà generale.

Tutti vogliono la società, è nell’interesse di ognuno ; comprendere questo sarà un equilibrio tra sentimento e ragione.

Il rispetto della comunità, nelle deliberazioni della società politica, sarà dunque un criterio normativo per fornire un fondamento alla società partendo appunto dalla comprensione che ogni singolo ha scelto liberamente di entrarvi in conformità al proprio bisogno di servirsi della forza comune in relazione alla propria condizione di uomo non più autosufficiente.

Ma è questa autosufficienza che va ricercando e la società dovrà dargliela e lui dovrà corrispondere altrettanto ai suoi simili, non perché una legge gli appare in se stesso, ma perché nel confronto l’uomo ha imparato a rivedere se stesso.

A questo punto posso azzardare un primo chiarimento su questo concetto a partire dal presupposto che per trovare il contenuto della volontà generale bisogna attendersi che l’individuo debba fare una distinzione precisa fra i suoi interessi al fine di poter individuare l’interesse ben inteso[ref]Per l’approfondimento di questa tesi faccio riferimento a:” eguaglianza interesse, unanimità” di Alberto Burgio ed bibliopolis 1989 napoli cap 6 “Volontè gènèrale e raison publique.[/ref].

Questa possibilità, io dico, è pensabile al momento che l’individuo che si trovi con una serie di necessità vitali non più soddisfabili nella sua ferina solitudine, compresa l’importanza che l’aggregazione con altri gli consente di superare questo handicap, sviluppi, prima ancora che una oziosa competizione con il proprio sodale, la capacità di leggere correttamente entro la propria coscienza l’uguale condizione di ogni altro che è la base di questa forza con cui l’aggregazione sopperisce alla propria condizione di inadeguatezza a restare indipendente.

La volontà generale è dunque una categoria trascendentale che nasce dalla riflessione che ogni uomo deve compiere per comprendere come l’interesse bene inteso al rispetto per la società è l’assicurazione al soddisfacimento dei propri bisogni; il riconoscimento che il proprio desiderio di essere accettati a pari condizioni in questa associazione passa per l’accettazione dello stesso diritto del proprio sodale, questa è la garanzia al successo dell’intera struttura.

È la convergenza degli interessi comuni che rende possibile la società politica, e l’interesse bene inteso produce quel legame sociale che fa nascere la volontà generale.

Ma fino a qui abbiamo analizzato l’entrata in società degli “uomini come sono”, proviamo ora a verificare se da questo presupposto si può passare alla comunità politica con le leggi come “dovrebbero essere”.

Il passaggio da una moltitudine a un popolo, e cioè da una aggregazione di uomini alla società politica, può avvenire allorquando il principio della volontà generale può essere innalzato a categoria generale e preso come contento valoriale per l’edificazione della società giusta ed uguale.

La mia ricerca è nata successivamente alla lettura del famoso saggio del prof. Mario Reale, “le ragioni della politica” che ancora oggi risulta essere una pietra di paragone per lo studio della teoria Rousseaiana , in considerazione che nel settimo capitolo, parlando del nucleo teorico del contratto sociale , il prof. Reale spiega che il punto più alto della teoria di Rousseau è : “quello che fa consistere la politica non già nella garanzia della coesistenza di interessi contrastanti, bensì in ciò che in questi stessi interessi è immediatamente comune, nel punto di unione dove essi si accordano e si fanno solidali”. Trovo questo passaggio essenziale per impegnarmi a comprendere a fondo come dal punto di vista della volontà generale, la politica, la società e tutto ciò che ne deriva possa essere inquadrata come un unione in vista del bene comune.

Ma questo bene comune non ha una accezione utilitarista, non è cioè un unione di uomini che agiscono per la massimizzazione dei loro interessi particolari anche se coincidenti; qui la convergenza degli interessi comuni rende possibile la società politica, la fonda e non crea uno strumento per la soddisfazione degli stessi, anzi questa convergenza, dovuta alla necessità che l’amor proprio genera, rende possibile la volontà generale che nell’atto di istituire la società politica, diviene il principio guida per formulare la regola su cui modellare quelle leggi “come possono”. Cosa vuole dunque la volontà generale se non che le leggi della società siano pensate esclusivamente su interessi comuni, e questi possono essere individuati solo in termini di interessi fondamentali quali la sicurezza della persona, la difesa della proprietà privata.

Questo è un punto evidente visto che l’uomo di natura indipendente ricerca il proprio simile, laddove nella propria originaria solitudine non riesce più a garantirsi quel cibo, quel riparo, quella difesa dagli altri predatori che invece l’unione con altri può garantire.

Dunque la sicurezza della persona è un interesse fondamentale coincidente e preesistente all’unione, che spinge verso essa e ci aiuta a comprendere che la volontà generale muove da questa ricerca e produce leggi che devono rispondere a questi presupposti.

L’uomo vuol restare libero come prima, ma ha bisogno di una forza che da solo non possiede, per ottenere un equilibrio fra queste due necessità bisogna almeno verificare che la società che scaturisce da questa unione sia legittima, ovvero mostri una coerenza tra la natura della volontà generale e la sua espressione, cioè le leggi che ad essa si ispirano.


Cap V La legge come espressione della volontà generale

Nel paragrafo precedente ho sottolineato come il bene comune, che se ben inteso possiamo indifferentemente chiamare anche” la convergenza degli interessi”, non ha una natura utilitarista, anzi, questa convergenza nega ogni massimizzazione della felicità intesa come somma della soddisfazione di tutti gli interessi dei singoli. La società che si fonda sulla volontà generale non può che esprimere l’interesse di tutti nel senso di ottemperare alle aspettative di ognuno.

Già nell’articolo “economia politica” Rousseau bollava come la più esecrabile tra le tirannie quella società pronta a sacrificare un singolo in vista del bene comune. L’ interesse fondamentale comune a tutti gli uomini è dunque il bene comune. Questa società retta dalla volontà generale è resa possibile qualora la cooperazione sociale sia tesa alla realizzazione dei presupposti per una corretta attuazione degli interessi fondamentali di ogni membro. La cooperazione sociale deve produrre una sistema che mantenga inalterate le possibilità di ognuno di soddisfare i propri bisogni fondamentali, questo significa che ognuno cooperando allo sviluppo degli strumenti che innescano i processi deliberativi deve agire con il fine di armonizzarsi all’interesse comune.

Tanto che il singolo sia deputato alla formulazione di una regola generale, tanto che il singolo sia chiamato alla scelta tra diverse opzioni deliberative in relazione alle regole della società, ciò che è sempre richiesto dalla volontà generale è che il singolo agisca e scelga sempre in conformità a ragioni dipendenti solo dagli interessi fondamentali che condivide con ogni altro membro della società politica.

Qui l’interesse generale prevale su qualunque interesse particolare. Questa osservazione è comprensibile alla luce di quanto da me sostenuto nei capitoli precedenti, infatti gli appartenenti a questa società politica sono uomini consapevoli della necessità della società politica come rimedio alla propria inadeguatezza rispetto alle necessità vitali. Questi uomini agiscono dunque in una consapevolezza simmetrica rispetto ad ogni altro individuo, che attraverso il sentimento dell’amor proprio hanno imparato a riconoscere al fine di essere essi stessi riconosciuti come uguali.

Solo quelle scelte che hanno un senso entro la realizzazione degli interessi comuni saranno da considerarsi espressione della volontà generale.

Ognuno deve riconoscere all’altro un posto legittimo nella comunità, ognuno lavorando per gli altri lavora in realtà già per se stesso.

I doveri nella società politica sono vincolanti solo se sono reciproci, questo è il punto focale su cui Rousseau fa perno per pretendere che la società costruita dalla volontà generale è legittima.

La volontà generale nasce in ognuno disposto ad unirsi a tutti gli altri in una reciproca cooperazione per un fine comune, allo stesso tempo essa si riferisce a tutti quando ognuno è disposto a vedere in ciascuno gli stessi fini che si ricerca per se stesso.

Se la nostra lettura non ci inganna la certezza di ciò che ho affermato poggia sulla naturale predilezione che ognuno conserva per se stesso.

La società politica ci garantisce quella forza che ci manca per l’autoconservazione, ognuno di noi è qui per attingere a questa forza comune, l’interesse comune è l’interesse di ognuno.

Tuttavia potremmo concordare con David Hume che non è irrazionale preferire la distruzione di tutto il genere umano piuttosto di soffrire per un taglio al dito di una mano, eppure laddove il singolo riesca a leggere l’interesse ben inteso e sappia riconoscere gli interessi fondamentali che lo legano alla cooperazione sociale, allora la deliberazione avverrà su un piano di uguaglianza e le scelte che ne seguiranno garantiranno la giustizia.

La volontà generale garantisce un fondamento all’idea che la sovranità coincida con la totalità dei cittadini; essa ci dice che le deliberazioni di questa totalità, vanno dal popolo intero su e per il popolo intero. Il popolo fa atto sovrano solo quando emana regole generali che riguardano la società nel suo insieme. Queste regole, chiamate leggi, saranno espressione della volontà generale per origine e per contenuto. La volontà generale come giustificazione del potere legittimo, la regola di amministrazione legittima prendendo gli uomini come sono e le leggi come possono essere. Alla fine di questa analisi possiamo affermare che la volontà generale nasce come risposta all’obiezione dell’uomo razionale che chiedeva, a fronte di un comportamento giusto, di essere protetto da un’eventuale comportamento ingiusto da parte degli altri. La volontà generale nasce quindi come risposta alla ricerca di una razionalità che giustifichi la forza dello Stato; gli individui si sottomettono non a un potere qualsiasi, ma solo a quello che garantisca ognuno dalle ingiustizie dell’altro.

L’uomo indipendente “pre-sociale” è disposto a entrare nella società politica a patto che le deliberazioni del potere costituito si applichino a tutti in egual misura nella direzione di moderarne le passioni negative. Questo ordine sociale è solo quello fondato sulla volontà generale. Ne troviamo una dimostrazione nel passo di Rousseau: “Ciascuno di noi mette in comune la propria persona e ogni proprio potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi in quanto corpo politico riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto”[ref]Contratto sociale,cap III …[/ref]. Questo passo ci dice che la volontà generale guida le forze dello Stato nella direzione per cui gli individui lo hanno creato e cioè nella direzione del bene comune. L’istituzione del patto sociale è fatta da individui che si sottomettono attraverso un patto a un corpo sovrano che essi stessi istituiscono e di cui essi stessi fanno parte. Ogni individuo diventa così sia cittadino che suddito, questa è la scelta razionale che obbliga ognuno ad obbedire ai comandi di un’autorità sovrana formata da loro stessi e che è pensata per deliberare nel senso del bene comune. Come diceva lo steso Rousseau è impensabile che “il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri”[ref]Contratto sociale 1 Cap.7[/ref], ciò andrebbe in contraddizione con i motivi della fondazione; la garanzia della reciprocità degli obblighi è data inoltre dal fatto che tutti i membri si trovano in una stessa e simmetrica obbligazione rispetto al sovrano. La volontà generale garantisce l’equilibrio fra l’interesse privato del singolo, che per questo accetta di entrare in società, e l’interesse pubblico che per tutti è la salute della società politica ben ordinata. Per capire meglio come sia possibile questo equilibrio fra l’eguaglianza dei diritti individuali e la reciprocità degli obblighi basta pensare ancora una volta alla teoria della legge: la legge per Rousseau è il fondamento della giustizia e della libertà. Essa è una deliberazione del Sovrano che si applica a tutti ed è universale nel senso che il suo oggetto è indirizzato a regole generali e mai a qualcuno in particolare.