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Quale «Illuminismo»? Ragione, diritto d’esistenza e movimenti sociali

Il dibattito sollevato sulle pagine del quotidiano italiano «La Repubblica», nell’ormai lontano 2000 – dunque prima del 11/09/01 – sull’Illuminismo e la necessità di «nuovi Lumi» per il nostro tempo ha avuto una discreta risonanza non sui soli media, portando infine all’edizione del libretto a cura di E. Scalfari, Attualità dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza, 2001. Dalla distanza di ciò che nel frattempo è storicamente accaduto – Le rivoluzioni arabe, le nuove guerre in medio oriente, Daech ecc. – il tono del dibattito, tuttavia, non sembra uscire dal terreno di vecchi luoghi comuni su un’Età dei Lumi come «Età della Ragione» a tutto tondo, la cui immagine non tiene presente, anzitutto, il retaggio del processo storico di formazione della ratio illuministica e del suo rapporto al concetto di diritto. E del diritto dei popoli, in particolare.

Avere comunque iniziato a discutere di questi temi è stato un bene e il sintomo di un bisogno, nella sinistra italiana (e oltre), di fare chiarezza sulla propria provenienza, non solo ideale.  Si è parlato di Lumi che «non sono più di moda nel nostro secolo» (E. Scalfari, 8/12/2000) ma da riattivare, magari, chissà? con un’opera di marketing contro-contro-illuministica (eco della «critica della critica critica» di marxiana memoria?). Funzionerà? Ci manca, la bella «Ragione» del secolo decimottavo! da erigere contro integralismi, risorgenze superstiziose, nuovi assoggettamenti, particolarismi. D’accordo. Ma, come è stato notato (F. D’Agostini, Il Manifesto, 15 febbraio 2001), la filosofia (e il presente storico) «non ha il proprio futuro alle spalle». La déraison futura come la individueremo? Questo è un primo problema che riguarda un possibile «nuovo Illuminismo». Come ? Opponendo un Illuminista ideale, senz’altro seguace di Rawls o di un Kant habermasiano, ad un Torbido-Postmoderno, il primo ovviamente più simpatico del secondo (S. Maffettone)?

Da un lato, c’è la difesa “illuminata” di un’etica pubblica e la fiducia in un uso pratico della «ragione» (e che cos’è, qui, nel contesto dell’etica pubblica, ratio?), dall’altro il relativismo a-moralistico, scettico New-Age, del libertario preso all’interno del proprio clan. Troppo facile optare per il primo a scapito del secondo. Sono tentativi generosi di messa a fuoco, ma hanno i connotati delle caricature anti-storiche, implausibili per eccesso di riferimento all’oggi. Givone, ad esempio, sostiene che «il progetto illuminista qual è possibile ricavare dall’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert (…), risponde a una doppia esigenza: diffondere un sapere tecnico-scientifico e contrastare un sapere tradizionale giudicato retrivo, mitologico. Evidente il nesso tra questi due aspetti. E come non ammettere che il modello di conoscenza privilegiato, finisce col diventare esclusivo di tutti gli altri ? (…) qualcosa non ha funzionato nel progetto illuminista».

Non ci sembra un giudizio fondato: la tesi di Givone finisce col riproporre lo stereotipo dei lumi rovesciati in barbarie (Adorno-Horkheimer), da ri-rovesciare (chissà come) con un atto di buona (e crociana, idealistica) volontà. Stesso afflato idealistico si percepisce nei Lumi «deboli» di Gianni Vattimo o nel «cuore battente» per un Illuminismo sempre da ricuperare di Dahrendorf : sarebbe la ragione incompiuta dell’Enlightenment  (inglese) quella da perseguire, piuttosto che la Ragione-dea dei francesi «intesa come qualcosa di definitivo». Afferma infine, saggiamente, Scalfari: va smitizzata l’immagine di un’età dei Lumi come «una sorta di impero della Ragione astratta contro la concretezza della vita, delle emozioni, dei sentimenti». E ha mostrato nel Sogno di una rosa, che accompagna la riedizione a cura di Daria Galateria del Sogno di d’Alembert (Sellerio, Palermo, 1994), quanto sia necessaria una simile demitizzazione.

Ora, va spesa una parola di critica di queste posizioni, pure legittime e intelligenti, che tuttavia inquadrano idealisticamente il problema della ratio illuministica, senza riguardo alle forme e alle condizioni materiali del processo storico che la generano, ricollocandone appunto quelle varie forme in ciò che «illuminato» o «illuministico» (ancora) non è. Ragione è, in generale, la maniera in cui «si fa» una determinata cosa. Ratio, è metodo riconosciuto, in linea di principio da tutti, valido ed efficace, per compiere un’azione costruttrice, misuratrice delle cose. Dalla lingua corrente, nel latino classico Ratio medendi è «metodo di cura».  De temporis nostri studiorum ratione, «Sul metodo degli studi del nostro tempo», è il titolo di un celebre scritto anticartesiano con cui Vico propose un nuovo metodo per l’uso della storia.

In breve: la ragione, quella illuminista geneticamente, ha a che fare col fare. È conto, calcolo, prima; misura di quantità e di rapporti, interessi, vantaggi, utilità, poi. In un progressivo astrarsi, è maniera di concepire tutte queste cose, è capacità di raziocinarle, rifletterle, spiegarle: passarle al vaglio del pensiero (logos). In uno scarto ulteriore, la ratio è facoltà di capirsi, di conoscere i propri poteri e limiti (Kant). Il cammino di costruzione della ratio del fare dura da circa un millennio e mezzo, tempo di maturazione di una civiltà tecnologica (i greci e i latini si fermarono sulla soglia). Il processo d’autocomprensione invece è cosa recente. L’evoluzionista direbbe: è un processo adattativo che nasce per le mutate, recenti condizioni storico-biologiche nelle quali l’uomo tende a contenere gli esiti della razionalizzazione del mondo, al fine di renderli vantaggiosi rispetto alla condizione presente che minaccia anche esiti rovesciati, dopo decine di migliaia di anni di non-ragione.

Sta di fatto che l’Illuminismo in quanto momento storico concreto ha messo in moto l’ultima fase del processo, nella quale ci troviamo ora. Con la cosiddetta «Età dei Lumi» entra in scena la storia della ragione, storia di uomini inventori e produttori delle proprie esistenze (Engels), fuori dei miti delle origini e degli imperialismi dei poteri, uomini che s’interrogano (e lavorano) sui modi di gestire gli atti, le conseguenze della propria stessa razionalità. E ha prodotto, tale ragione nuova, due secoli fa, una Rivoluzione. Il nesso ragione illuministica-rivoluzione politica (dei diritti umani) è l’aspetto più vistosamente dimenticato nei contributi degli autori di Attualità dell’Illuminismo.

In nome di questa ragione produttrice d’esistenza, ad esempio, nell’aula dell’Assemblea Nazionale, a Parigi, il 2 dicembre 1792, Maximilien Robespierre pronunciò il suo celebre «discorso sulle sussistenze» che fondò il primato del diritto d’esistenza dei popoli sul diritto di proprietà. Qui possiamo individuare anche l’inizio di una nuova tradizione della ratio occidentale. Punto di arrivo della filosofia illuministica nel suo insieme e punto di partenza. Affermò Robespierre:

Nessuno ha il diritto di ammassare montagne di grano per trarne profitto, accanto al proprio simile che muore di fame. Qual è il primo scopo della società? Tener fermi i diritti imprescrittibili dell’uomo. E qual è il primo di questi diritti? Quello di esistere. La prima legge sociale è dunque quella che garantisce a tutti i membri della società i mezzi per esistere. Tutte le altre leggi sono subordinate a questa legge. La proprietà è stata istituita o garantita solo per cementarla: è innanzitutto per vivere che si hanno delle proprietà (…). Gli alimenti necessari all’uomo sono sacri quanto la vita stessa; tutto ciò che è indispensabile per conservarla è una proprietà comune alla società intera. Solo l’eccedente è proprietà individuale, abbandonato all’industria dei commercianti. Ogni speculazione mercantile che si faccia a spese del mio simile non è affatto un commercio, è un brigantaggio e un fratricidio!

 

Nel «diritto d’esistenza» di cui parlò Robespierre si può comprendere, oggi, il diritto ad una casa, ad un lavoro decente, insomma il diritto alla «felicità pubblica», per usare i termini della stessa filosofia illuministica settecentesca (Verri, Beccaria). Robespierre salì a capo del governo giacobino nel biennio 1793-94. Chi esercitò il «terrore» sotto la Rivoluzione? Vexata quæstio storiografica. Il «terrore» non lo esercitarono i soli giacobini ma, ancor prima, i controrivoluzionari armati e appoggiati dalle monarchie europee che quel diritto d’esistenza volevano, a tutti i costi, affossare. Le esperienze che seguiranno la caduta di Robespierre (1794) — Babeuf, Buonarroti, Congiura degli Eguali, bonapartismo, ecc.  — segnarono la nascita (una delle nascite) del movimento operaio internazionale, sull’onda dell’universalismo e del cosmopolitismo illuminista.

Per lo storico, certo, esistono tanti Illuminismi, tutti egualmente determinanti: quello delle corti, dei nobili riformatori, dei despoti illuminati, dei borghesi imprenditori, degli «artisti meccanici», dei filosofi naturali, dei libertini ecc. e quello dei rivoluzionari. Quale Illuminismo resta visibile ai nostri tempi? Il comun denominatore, sul terreno culturale, va cercato nel definitivo trionfo del diritto naturale – esistenza, libertà, solidarietà ecc. etsi Deus non daretur, «anche se Dio non ci fosse» – con la sua penetrazione, a partire dalla fine del Settecento, nella struttura delle istituzioni europee. Tale penetrazione rimane incompiuta, ancora oggi, per la maggior parte delle istituzioni nazionali del pianeta. Là dove è avvenuta, faticosamente, e pagata a caro prezzo dai filosofi, dagli intellettuali, dagli uomini delle classi lavoratrici, ciò è stato possibile anche senza rivoluzioni cruente, seguendo la spinta avviata dall’89, nel diritto.

Ma il problema «quale Illuminismo?» si mette meglio a fuoco inquadrandolo nella storia dell’ingresso definitivo delle masse — con le loro passioni «illuminate», emancipate — nell’agone politico-istituzionale. Dopo la Rivoluzione francese, l’intelligenza progressiva delle masse, gettando «più luce» (Goethe) sulla processualità del loro divenire, nel presente trovò realtà grazie ad una pratica razionale del diritto — inteso alla maniera del Discours des subsistances di Robespierre — che s’incorporava via via alle nuove istituzioni democratiche (fase storico-biologica adattativa della ratio). Tale pratica non era (e non è) contenibile nella sola idea di nazione, alla quale il diritto rivoluzionario, una volta istituzionalizzato, legò la propria origine. L’idea di Stato/Nazione —  universale laico (e borghese) che avrebbe «conciliato» e «superato» definitivamente i particolarismi (Hegel) — è oggi entrata in crisi. Il concetto stesso di «diritto» o di «diritti imprescrittibili dell’uomo», usciti vittoriosi dalla prima fase del processo adattativo, di conseguenza, vacillano scossi da potentati economici e localismi di varia natura.

Ciò nondimeno, la portata rivoluzionaria del diritto in quanto tale non s’è storicamente esaurita, qualora la s’intenda come la fase evolutiva, bio-politica, più avanzata della storia umana e dell’umanità tutta intera («globalizzata», come s’usa dire) , al di là dello sforzo di recupero di un ideale riconciliativo di Stato-Nazione. Fra luci ed ombre, si delinea qui il quadro mobilissimo dei nostri tempi, con i nuovi problemi aperti.

L’Illuminismo sembrerebbe ridursi, per gli intellettuali coinvolti nel dibattito di Scalfari, antecedente al 2001, ad un affare di moda, di preferenza verso questo o quello «stile di pensiero». Si tratta, secondo noi, piuttosto di una questione aperta che chiama in causa il concetto di lotta per il diritto e di progressiva estensibilità della sua portata laica e rivoluzionaria, contro quelle forze storiche che tale spinta di lotta vorrebbero, anche oggi, vedere estinta. Oggi, i Forum sociali e i movimenti riunitisi a Porto Alegre, le lotte dei sem terra, dei sans papier, dei contadini del Chiapas, degli operai italiani (articolo 18 del codice del lavoro) ed europei che tengono fermi i diritti del lavoro penosamente conquistati ecc., cos’altro sono (e saranno) se non lotte per il diritto d’esistenza? Quando parliamo – da intellettuali, da filosofi –  di Illuminismo, ci pare necessario dover ricordare, primariamente, il processo di adattamento bio-politico della ratio ai tempi, sempre nuovi, della critica della/alla «ragione presente» che si pretende data, fissata, istituzionalizzata una volta per tutte. E il pensiero va così agli illuministi più coerenti, ai grandi riformatori (Montesquieu, Beccaria), ai materialisti (Diderot, Helvétius, D’Holbach), agli enciclopedisti (D’Alembert, Voltaire ecc.), ai radicali (Meslier, Naigeon) e infine ai rivoluzionari del 1789-94 (Danton, Saint-Just, Robespierre, Fabre d’Eglantine, Hebert, Chaumette ecc.) che hanno fondato, nella prassi, il concetto del diritto e la sua ratio in divenire.

Il resto del discorso su «Lumi inattuali», alla moda o fuori moda è, per dirla con Hegel (Fenomenologia dello spirito, II, 6, b), «fatuità della cultura», «spirito estraniato a sé stesso».