Il “dio sporco”
Con questo epiteto, non ingiurioso bensì elogiativo, Eduardo Galeano chiamava Maradona, e potremmo pensare che si riferisse alla sua faccia da cabecita negra (piccola testa negra), come vengono chiamati coloro che vivono nelle villas miserias, le baraccopoli, attorno a Buenos Aires. Anche altri calciatori latinoamericani, anzi più precisamente argentini, venuti a giocare in Italia alla fine degli anni Cinquanta, erano stati chiamati in Italia “gli angeli dalla faccia sporca”. In realtà Galeano spiegava: «Maradona è diventato una specie di Dio sporco, il più umano degli dei. Questo forse spiega la venerazione universale che ha conquistato, più di ogni altro giocatore. Un Dio sporco che ci assomiglia: donnaiolo, chiacchierone, ubriacone, divoratore, irresponsabile, bugiardo, fanfarone». Come dare torto a Galeano, alla coscienza civile dell’America latina?
In effetti Maradona è stato l’espressione più giocosa dell’essere argentino. Per questa ragione Maradona è appartenuto al popolo. Se Fichte avesse conosciuto il calcio – come capiterà ad Heidegger – avrebbe detto che Maradona era l’esempio più tipico della sua Zusammengehörigkeit (co-appartenenza). Heidegger riutilizzerà quel termine a proposito di se stesso e della sua appartenenza alle montagne bavaresi, non avrebbe potuto utilizzarlo per il calciatore che amava, il Kaiser Franz Beckenbauer, perché Beckenbauer non apparteneva a nessuno, se non a se stesso. Nessun calciatore è appartenuto al popolo, eccetto Maradona e Garrincha, entrambi hanno finito la loro vita malamente. Garrincha, addirittura, è tornato da dove era partita la sua avventura nel mondo calcistico, in una favela, Maradona lo ha evitato.
Appartenere al popolo in Argentina e in America latina significa conoscere l’esclusione, la miseria, la fame. Maradona lo ha sempre riconosciuto: lui è nato povero, anzi era orgoglioso della sua nascita in povertà. Non è un caso che è stato tifoso del Boca Juniors, la squadra dei poveri, e amato da una città italiana destinata all’esclusione: Napoli. Non poteva esserci miscela più esplosiva di un argentino, nato povero, che si trasferisce al Napoli. Ci aveva provato Omar Sivori, ma il calcio italiano degli anni Sessanta non tollerava l’idea che lo scudetto non finisse tra Milano e Torino. Con Maradona fu impossibile negargli lo scudetto, anzi ne vinse due, come al solito esagerò! Proprio per l’esclusione dal calcio dalla quale Maradona la tirò fuori, Napoli l’ha amato come il migliore dei suoi figli. Addirittura qualcuno pensò che l’esclusione fosse finita definitivamente, ma il Milan di Berlusconi riportò le cose al loro luogo “naturale”.
Maradona ha incarnato il mito argentino e latinoamericano, è stato come un dio greco, ma un dio sporco, ma a differenza degli dei greci ha creato ossimori. Un ossimoro è la categoria tipica della letteratura latinoamericana, il “realismo magico”, un ossimoro è il calcio giocato da Maradona. Nel calcio sempre più geometrico e collettivo dei tempi moderni, lui ha imposto un gioco senza alcuna razionalità, fondato su un solo schema: «Datemi la palla e ci penso io». È un ossimoro calcistico una squadra che si affida a un solo uomo, ed è una verità incontrovertibile, eccetto in un solo caso, quando giocava Maradona, testimonianza sono i Mondiali del 1986, che vinse praticamente da solo. Anche ai Mondiali italiani del 1990, per giunta infortunato ad una gamba, portò l’Argentina in finale, ma il “cerchio magico” del calcio mondiale non poteva permettere all’Argentina e a Maradona di vincere due volte di seguito il Mondiale e poi bisognava dare alla Germania neo-riunificata qualcosa da festeggiare.
Maradona non ha giocato quasi mai con compagni del suo livello, cosa che invece hanno fatto Pelé o Cruyff, che al più è stato un primus inter pares, un dio solitario. Ma, come ho appena scritto, lui bastava, anzi era anche di troppo, visto come ha terminato la sua carriera: fuggendo. Anche questo è stato molto argentino, ha vissuto quasi sempre la condizione del destierro (dello sradicamento), è stato un vagabondo, anche nella vita post-calcistica. Gli argentini si sentono prestati alla loro terra, loro discendono de los barcos (dalle navi), si sentono sempre immigrati, hanno sempre la valigia in mano, è la loro Bestimmung (destinazione o determinazione), sono sempre pronti alla Schicksalswende (la svolta del destino). Adesso Maradona ha lasciato la valigia, il suo destino non ha più svolte.
Fin qui ho scritto le mie riflessioni alla notizia della sua morte. Una ventina di anni fa, mentre vivevo a Buenos Aires, scrissi una recensione alla sua autobiografia Yo soy el Diego (Io sono il Diego) che uscì su La Rinascita. L’ho riletta e l’ho trovata ancora attuale, forse anche troppo attuale. La ripropongo con qualche leggera variazione:
Maradona è condannato al successo e non solo da calciatore. Come scrittore può vantare un successo di vendite da fare morire di invidia autori come Eco, García Marquez, Coelho, King. Nella sola prima settimana di vendite la sua autobiografia è stata acquistata in 125.000 copie in un paese come l’Argentina (36 milioni di abitanti), che raramente concede successi editoriali di questo genere. Ma il villero, cioè il nato in una villa miseria, fin dalla nascita era destinato al successo in qualsiasi attività che avesse intrapreso, ad esclusione della vita quotidiana, dove conduce una solitaria lotta alla droga. È un paradosso, ma Maradona è un personaggio paradossale, così non si direbbe invece del calciatore, sempre capace di risolvere situazioni di gioco in modo fantasioso, estroso, in una sola parola bello.
La lettura dell’autobiografia di Maradona mette di fronte alla descrizione di un carattere piuttosto che di un calciatore. Chi la leggesse per trovarvi segreti del gioco del calcio, oppure la descrizione tecnica di qualcuna delle formidabili giocate del suo autore o la narrazione aneddotica di qualche episodio di gioco rimarrà deluso. L’autobiografia di Maradona è la esatta narrazione della sua vita, cioè una lunga serie di lotte personali, che somigliano più a liti che a battaglie. Non c’è dubbio che il carattere, privo di diplomazia, ha spinto Maradona in questa interminabile serie di scontri. Un esempio lo dà quando narra della sua sfrontatezza di fronte allo stesso Papa, Giovanni Paolo II. Prima di narrare l’episodio, cita la ricchezza della Chiesa, la vicenda del Banco Ambrosiano e le parole del papa rivolte ai bambini poveri e poi rimane incantato, perché il papa gli diede un rosario dicendogli che era un dono speciale per lui. Ma una volta controllato che il suo era identico a quello che era stato offerto alla madre, ritorna e chiede al papa: «”Scusi, Sua Santità, qual è la differenza tra il mio e quello di mia madre?». Non mi ha risposto … Mi ha soltanto guardato, mi ha battuto la mano sulla spalla, ha sorriso, nient’altro! Diego, non rompere le palle e prenditelo che ho gente che mi aspetta, questo mi ha detto con la battuta sulla spalla» (p. 140). Forse Maradona avrà imparato che in certi ambienti e con certi personaggi anche Maradona non è che uno come gli altri?
Gli aspetti del carattere di Maradona, che in campo erano positivi, quali l’irriverenza mai irrispettosa verso qualsiasi avversario, la voglia di giocare sempre al livello che egli solo sapeva raggiungere, l’impegno a vincere qualsiasi partita, in una sola parola l’essere picaro nei significati sia positivi che negativi, erano certamente insopportabili fuori del campo di gioco, dove a tutti gli sportivi si chiede di tornare ad essere persone normali. È comprensibile che chi viene da Villa Fiorito, la villa miseria dove nacque Maradona 40 anni fa, e conquista il mondo correndo dietro ad una palla, o meglio facendo correre la palla dove lui voleva, finisce, poi, per credere di avere una missione speciale nel mondo. Da qui il titolo gridato: «Io sono il Diego della gente!». Il calcio è per Maradona uno strumento per la rivelazione di questa missione. È così inevitabile che il Maradona calciatore compaia nell’autobiografia sempre unito all’uomo e la sintesi non si rivela felice.
In campo incantava la gente anche per la sua correttezza del gioco, perché di solito lo si vedeva a terra a prendere calci da chi non riusciva a contenere la sua bravura, ma era sempre pronto a risollevarsi senza polemiche e a riprendere a giocare come se niente fosse. In sole due occasioni si rese protagonista di gesti aggressivi verso gli avversari, entrambe per lo stesso motivo: mancanza di rispetto alla sua eccelsa bravura. Una nella partita dei Mondiale del 1982 tra Argentina e Brasile, quando scalciò l’incolpevole Batista, perché i brasiliani passandogli la palla lo ridussero al ruolo del “torello”, come si dice in termini calcistici; l’altra nel 1984 nella finale della Copa del Rey tra Barcellona e Atletico di Madrid, per lo stesso motivo. La seconda volta furono botte da orbi tra le due squadre sotto gli occhi sbalorditi del re di Spagna. Il suo commento è molto eloquente: «Dopo ho avuto molta vergogna a causa del re. Chiaro, il re Juan Carlos stava lì, nel palco d’onore, era la sua Coppa, e noi ci stavamo ammazzando di botte. Mi ha fatto pena per lui, perché lui mi piaceva molto, mi era simpatico» (p. 82). Prima di questo scandalo, lo stesso Maradona ricorda di essere stato ricevuto al palazzo reale e di essersi fermato a parlare con il re per un’ora e mezza, invece dei soliti venti minuti del cerimoniale. Il Barcellona, dopo quello sfogo, si liberò di lui, vendendolo al Napoli, probabilmente era già nota la sua dipendenza dalla cocaina. I catalani sono freddi, razionali, cortesi, non potevano sopportare uno spirito perennemente fuori dalle righe, come il suo. Così Maradona arrivo in Italia, anzi a Napoli.
Un altro episodio da ricordare riguarda noi italiani più direttamente. La sua famosa dichiarazione alla vigilia di Italia-Argentina nel mondiale del 1990, quando dichiarò: «”Mi disgusta che adesso tutti chiedano ai napoletani che siano italiani e che sostengano la Nazionale … Napoli è stata emarginata dal resto d’Italia. L’hanno condannato al razzismo più ingiusto”. Non volevo sollevare i napoletani contro l’Italia, affatto, ma stavo dicendo la verità» (p. 181). Classica giustificazione di un adolescente mal cresciuto, che non ha il minimo senso dell’opportunità e della situazione. Molto più maturi furono proprio i napoletani che gli risposero: «Tiferemo perché vinca l’Italia, ma rispettando e applaudendo gli argentini». Lo stesso Maradona riconosce che fu la prima volta che l’inno nazionale argentino fu applaudito in quel mondiale. Ma non si chiese cosa stavano pensando gli italiani d’Argentina, i milioni di tanos, come ci chiamano in Argentina, parola che viene da napolitanos? Si era dimenticato che l’Italia in Argentina è chiamata la “segunda madrepatria”. Purtroppo nella finale di Roma, i soliti cretini accolsero l’Argentina con i fischi e a Buenos Aires altrettanti cretini posero una bomba nel consolato italiano e ci furono manifestazioni aggressive nei confronti della numerosissima colonia italiana. Sono dovuti passare dieci anni per fare dimenticare quelle stupide parole e quelle ancor più stupide conseguenze.
Il suo carattere per molti aspetti è molto simile a quello dell’argentino medio, con una mescolanza di contrasti che può essere attrattiva, ma anche scostante. Generoso e arrogante, rispettoso e insopportabile, amichevole con chi gli è devoto e astioso con chi non lo ammira, altruista ed egocentrico, coraggioso e sfrontato, privo di senso delle cose e degli uomini, in una sola parola picador (il cavaliere che molesta il toro, prima che il torero entri nell’arena). Viene da chiedersi: sarà stato un buon esempio fuori del campo per gli argentini? Se lo si confronta con Pelé come esempio di correttezza sportiva e professionale dentro e fuori del campo, perde senza dubbio il confronto, ma non lo perde dentro il campo di gioco. A proposito di Pelé il giudizio di Maradona va riportato: «Come giocatore è stato il massimo, ma non ne ha saputo approfittare per esaltare il calcio. Ha pensato politicamente, ha pensato che poteva essere il presidente dei brasiliani. E non credo che un calciatore, o un ex calciatore, debba pensare ad essere presidente di un paese. Mi sarebbe piaciuto che si fosse proposto, come ho fatto io, a presiedere un’associazione che difendesse i diritti dei giocatori, che si fosse occupato di Garrincha e non lo lasciasse morire nella miseria, che lottasse contro tutte le azioni dei potenti che ci pregiudicano. Non mi confronto con lui, l’ho sempre detto e lo ripeto. E quando dico che non mi confronto, non parlo soltanto di questioni calcistiche. Ho avuto la possibilità di incontrarmi con lui diverse volte. […] Era una questione di pelle, cozzavamo troppo; ci vedevamo e saltavano le scintille» (p. 284). Non manca un fondo di verità nelle parole di Maradona, ma molte pagine prima nel libro lui stesso ricorda che Pelé, quando era coinvolto nello scandalo della droga a Napoli, gli aveva augurato di tornare a giocare.
Sulla droga, altro motivo per cui sarà sempre ricordato, si assume tutte le personali responsabilità, ma giustamente afferma che la lotta dei governi contro la droga è blanda, per interessi complessi che inducono i governi a tollerare l’esistenza dei drogati (p. 80). Sull’impegno a difendere i diritti dei calciatori, sostiene che in fondo lo spettacolo lo fanno i giocatori e che i dirigenti ne approfittano per i loro affari. Sono verità che è difficile porre in discussione, ma incomprensibile rimane quella lunga lista di nemici, come se tutto il mondo l’avesse con lui; anche se riconosce che il mondo lo ha beneficiato, dandogli la possibilità di vivere una vita fantastica. In fondo ha sempre dovuto giocare contro qualcuno, contro qualcosa. La più bella giocata della storia del calcio la fece, ovviamente, lui e la fece contro l’Inghilterra, ai Mondiali del 1986 in Messico, che aveva umiliato la sua Argentina nella guerra delle Falklands/Malvinas, soltanto quattro anni prima. E quella giocata fu preceduta da più famoso goal della storia del calcio; famoso perché un segnato da un Dio, un Dio sporco, si tratta del goal fatto con la mano de Dios.
La sua franchezza, anche sfrontata, è in contraddizione con l’amicizia di quei potenti che nulla fanno o hanno fatto per migliorare le condizioni della gente che non ha avuto la sua fortuna. Si dichiara così amico di Menem, a cui dedica il libro, mettendolo nella dedica insieme a Fidel Castro, che ammira e a cui deve la vita: «Per il fatto di essere vivo devo ringraziare il Barba (Dio) e … il Barba (Fidel)» (p. 298). Ammirazione incondizionata dichiara di avere per Ernesto Che Guevara, che ha scoperto proprio in Italia. Il suo orgoglio di argentino è stata la molla che lo ha spinto ad ammirare il Che. Un suo giudizio su Videla e il Che è del tutto condivisibile: «Gente come Videla, che ha fatto sparire 30.000 persone, non meritano nulla. Molto meno sporcare il ricordo del trionfo di una gran massa di ragazzi … [a proposito del Mondiale del 1978] … Per questo dico: si lamentano di me, dicono che sono contraddittorio, e il nostro paese? Nel nostro paese c’è ancora gente che difende Videla e sono molti meno coloro che difendono il Che. Molti di meno! Non lo conoscono affatto. Gente come Videla hanno agito in modo tale che il nome dell’Argentina all’estero rimanga sporco; invece, quello del Che ci dovrebbe far sentire orgogliosi» (p. 36).
Forse Maradona sarebbe dovuto rimanere ancora in campo e le sue contraddizioni le si sarebbero perdonate più facilmente. Nonostante dica: «La gente deve intendere che Maradona non è una macchina che dà felicità» (p. 66), non c’è dubbio che alcune sue giocate fanno parte dell’immaginario di tanta gente in tutto il mondo, che per questo lo ringrazia ancora.