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Sulla situazione epidemica

Nihil sub sole novum

La novità «antidiluviana» di una pandemia  mondiale

di Paolo Quintili

Il saggio di Alain Badiou che qui offriamo al pubblico, offre una serie di importanti riflessioni filosofiche che collocano l’evento emergenziale che stiamo vivendo in una dimensione al tempo stesso storica e critica. L’esperienza in corso dell’evento, nei diversi paesi dell’Occidente, in Europa in particolare, è stata affidata a tre «corpi» sociali che ne stanno gestendo l’emergenza: il corpo politico, il corpo medico e il corpo mediatico delle nostre società.

Ora, una parola che venga dal «corpo filosofico» è di grande utilità in quanto ci permette di coglierne la dimensione reale, al di là delle pur necessarie misure prese per arginare il pericolo epidemico. Anzitutto, la sua presunta «novità»: appare tale per la sola ragione che il flagello sta colpendo il pacifico e opulento Occidente capitalista, fino ad oggi al riparo (illusorio) da questi fenomeni. Niente di nuovo sotto il sole (Qoelet, I, 9), sono decenni oramai, che a partire dal virus Ebola, passando per numerosi altri agenti patogeni, influenzali e virali, diversi organismi viventi ostili, generati dall’azione (politico-economica) umana, han fatto strage fuori dell’Europa, e non nel solo Terzo Mondo. Ora si stanno diffondendo nel pianeta intero. Agenti patogeni originati dal mondo animale non-umano, passati e trasmessi all’uomo. La ragione di fondo del fenomeno è ­– non si può più ignorarlo, né nasconderlo – ecologica (vedi il saggio di Sonia Shah, Da dove vengono i coronavirus? Contro le pandemie, l’ecologia, in «Le Monde Diplomatique», n.3 anno XXVII, marzo 2020, pp. 1 e 21).

Per la prima volta nella storia, si sta vivendo sulla propria pelle, in Europa, una realtà nuova che investe la comunità mondiale intera, dopo che il genere di agente patogeno in questione ha iniziato da gran tempo la sua avanzata per le rotte della mondializzazione. Ci credevamo al sicuro, la reazione autoimmunitaria sembrava infrangibile e ora testiamo manifestamente che le cose non stanno così. L’origine del fenomeno di fragilizzazione del mondo (cui vanno aggiunte le altre «emergenze», climatica ed energetica) è legata al concorso, come spiega bene Badiou, di determinazioni naturali e determinazioni storico-economiche. Al di là delle diverse facce risorgenti di una caccia all’untore di medievale memoria, camuffata sotto apparenze diverse (il dilagare dell’irrazionale si fa inquietante), è il modello di sviluppo capitalista iperliberista dell’ultimo trentennio (almeno) ad aver prodotto un tale squilibrio nel rapporto tra le due determinazioni. L’effetto risultante rende, è evidente, tale «modello» del tutto insostenibile. Al di là dell’emergenza contingente, dunque, occorre riattivare un’azione – non una semplice riflessione– critica nei riguardi del «modello», non più rinviabile.

Le chiare, semplici, «cartesiane» considerazioni di Badiou aiutano a ripensare criticamente i fatti e orientare, si spera, diversamente, la nostra azione collettiva. Mai questa filosofia critica è stata ed è, oggi, tanto necessaria. Il dibattito è aperto.


Sulla situazione epidemica

di Alain Badiou

Ho sempre ritenuto che l’attuale situazione, segnata da un’epidemia virale, non aveva certo nulla d’eccezionale. Dalla pandemia (anch’essa virale) dell’HIV, passando per l’influenza aviaria, il virus Ebola, il virus SARS 1, per non parlare di diversi tipi d’influenze, persino del ritorno del morbillo o delle tubercolosi, che gli antibiotici non guariscono più, sappiamo ormai che il mercato mondiale, combinato con l’esistenza di vaste zone sotto-medicalizzate del pianeta e con l’insufficienza della disciplina mondiale nelle necessarie vaccinazioni, produce inevitabilmente delle epidemie serie e devastanti (nel caso dell’HIV, diversi milioni di morti). Messo da parte il fatto che la situazione dell’attuale pandemia colpisce, stavolta, l’abbastanza confortevole mondo detto occidentale – fatto in sé stesso privo di significato innovativo, e che chiama in causa sospette deplorazioni e asinerie rivoltanti sui social network – non avevo visto che, al di là delle ovvie misure protettive e del tempo che il virus impiegherà a scomparire in assenza di nuovi obiettivi, si debba andare su tutte le furie.

Del resto, il vero nome dell’epidemia in corso dovrebbe indicare che essa dipende, in un certo senso, dal «niente di nuovo sotto il sole» contemporaneo. Questo vero nome è SARS 2, ossia «Severe Acute Respiratory Syndrom 2» denominazione che tiene inscritta, infatti, un’identificazione «in secondo tempo», dopo l’epidemia di SARS 1, che s’era manifestata nel mondo durante la primavera del 2003. Questa malattia era stata denominata, all’epoca, «la prima malattia sconosciuta del XXI secolo». È dunque chiaro che l’epidemia attuale non è in alcun modo il sorgere di qualcosa di radicalmente nuovo o d’inaudito. È la seconda del secolo, nel suo genere, ed è situabile nella sua filiazione. Al punto stesso che la sola critica seria rivolta oggi alle autorità, in materia predittiva, è di non aver sostenuto seriamente, dopo la SARS 1, la ricerca che avrebbe messo a disposizione del mondo medico dei veri mezzi d’azione efficace contro la SARS 2.

Non ho trovato dunque nient’altro da fare che provare, come tutti, a sequestrarmi in casa mia, e nient’altro da dire se non esortare tutti a fare altrettanto. Rispettare, su questo punto, una rigida disciplina è tanto più necessario in quanto è un sostegno e una protezione fondamentale per tutti coloro che sono più esposti: certo, tutto il personale medico curante, che è direttamente sul fronte, e che deve poter contare su una ferma disciplina, ivi comprese le persone infette; ma anche i più deboli, come le persone anziane, in particolare quelle in EPAD (European Prevention of Alzheimer’s Dementia) o immunodepresse; e inoltre tutti coloro che vanno al lavoro e corrono così il rischio di un contagio. Questa disciplina per coloro che possono obbedire all’imperativo «restate a casa!» deve anche trovare e proporre i mezzi affinché coloro che non hanno affatto un «a casa» dove «restare», possano comunque trovare un rifugio sicuro. Qui si può pensare a una requisizione generalizzata degli hotel.

Queste obbligazioni sono, è vero, sempre più imperiose, ma non comportano in sé, almeno a un primo esame, grandi sforzi di analisi o di costituzione di un pensiero nuovo.

Ma ecco che veramente leggo troppe cose, sento troppe cose, ivi compreso nella mia cerchia, che mi sconcertano, per il turbamento che manifestano e per il loro carattere del tutto inappropriato rispetto alla situazione, a dire il vero semplice, nella quale ci troviamo.

Queste dichiarazioni perentorie, questi appelli patetici, queste accuse enfatiche, sono di diverse specie, ma hanno tutte in comune un curioso disprezzo della temibile semplicità, e dell’assenza di novità, dell’attuale situazione epidemica. O sono inutilmente servili nei confronti dei poteri costituiti, i quali di fatto non fanno altro che ciò a cui sono costretti, per la natura del fenomeno. Oppure ci tirano fuori la retorica del Pianeta e la sua mistica, il che non ci fa avanzare di un passo. Oppure, ancora, scaricano tutto sulle spalle del povero Macron, che fa unicamente, e non peggio di un altro, il suo lavoro di capo di Stato in tempo di guerra o di epidemia. Oppure gridano all’evento fondatore di un’inaudita rivoluzione, che non si vede quale rapporto potrebbe intrattenere con lo sterminio di un virus, e per la quale, del resto, i nostri «rivoluzionari» non hanno il minimo mezzo nuovo. O ancora, sprofondano in un pessimismo da fine del mondo. O si vedono portati all’esasperazione al punto che il «me stesso innanzitutto», regola d’oro dell’ideologia contemporanea, in questa circostanza, non sia di alcun interesse, di alcun aiuto, e possa addirittura apparire come complice di una continuazione indefinita del male.

Si direbbe che la prova epidemica dissolva dappertutto l’attività intrinseca della Ragione, e obblighi i soggetti a ritornare ai tristi effetti – misticismo, affabulazioni, preghiere, profezie, maledizioni ecc. – a cui il Medioevo era consueto addivenire quando la peste devastava i territori.

Di conseguenza, mi sento in certa misura costretto a raccogliere alcune idee semplici. Direi volentieri: cartesiane.

Per iniziare, conveniamo pure col definire il problema, peraltro così mal definito e, dunque, così mal trattato.

Un’epidemia ha questo di complesso, che è, sempre, un punto di articolazione tra le sue determinazioni naturali e le determinazioni sociali. La sua analisi completa è trasversale: bisogna afferrare i punti in cui le due determinazioni s’incrociano, e trarne le conseguenze.

Ad esempio, il punto iniziale dell’attuale epidemia si situa, con molta probabilità, nei mercati della provincia di Wuhan. I mercati cinesi sono ancora oggi noti per la loro pericolosa sporcizia, e il loro insopprimibile gusto della vendita all’aria aperta di ogni specie di animali vivi ammucchiati l’uno sull’altro. Da ciò, il fatto che il virus s’è trovato, in un certo momento presente, sotto una forma animale, essa stessa ereditata dai pipistrelli, in un ambiente popolare molto denso e a un ridotto tasso d’igiene.

La spinta naturale del virus da una specie a un’altra transita allora verso la specie umana. Come esattamente? Non lo sappiamo ancora, e solo delle procedure scientifiche ce lo insegneranno. Di passaggio, stigmatizziamo qui tutti coloro che lanciano, sulle reti sociali di Internet, delle favole tipicamente razziste fondate su immagini truccate, secondo le quali tutto proviene dal fatto che i Cinesi mangiano i pipistrelli quasi crudi, vivi…

Questa transizione locale tra specie animali, fino all’uomo, costituisce il punto originario di tutta la faccenda. Soltanto dopo ciò, opera un dato fondamentale del mondo contemporaneo: l’accesso del capitalismo di Stato cinese a un rango imperiale, ovvero una sua presenza intensa e universale sul mercato mondale. Da qui, le innumerevoli reti di diffusione, prima, evidentemente, che il governo cinese fosse in grado di confinare totalmente il punto d’origine – di fatto, un’intera provincia, quaranta milioni di persone – cosa che il governo finirà per riuscire a fare con successo, ma troppo tardi affinché all’epidemia venga impedito di partire sulle rotte – con gli aerei, e con le navi – dell’esistenza mondiale.

Un dettaglio rivelatore di quella che chiamo la doppia articolazione di un’epidemia: oggi, la SARS 2 è arginata a Wuhan, ma ci sono numerosi casi a Shanghai dovuti per la gran parte a delle persone, cinesi in generale, che ritornano dall’estero. La Cina è dunque un luogo in cui si osserva il legame stretto, per una ragione arcaica, poi moderna, tra un incrocio natura-società su dei mercati mal tenuti, di forma antica, causa dell’apparizione dell’infezione, e una diffusione planetaria di questo punto d’origine, trasmessa, questa, dal mercato mondiale capitalista e dai suoi spostamenti tanto rapidi quanto incessanti.

Dopo di che, si entra nella fase in cui gli Stati tentano, a livello locale, di arginare tale diffusione. Notiamo di passaggio che questa determinazione resta fondamentalmente locale, anche quando l’epidemia, essa, è trasversale. A dispetto dell’esistenza di alcune autorità transnazionali, è chiaro che sono gli Stati borghesi locali a essere in trincea.

Tocchiamo qui una contraddizione maggiore del mondo contemporaneo: l’economia, ivi compreso il processo di produzione di massa degli oggetti manifatturieri, dipende dal mercato globale. Si sa che la semplice fabbricazione di un telefono cellulare mette in moto del lavoro e delle risorse, comprese anche quelle minerarie, in almeno sette stati diversi. Ma d’altro canto, i poteri politici restano essenzialmente nazionali. E la rivalità degli imperialismi vecchi (Europa, USA) e nuovi (Cina, Giappone…) impediscono ogni processo di formazione di uno Stato capitalista mondiale. L’epidemia è anche un momento in cui questa contraddizione tra economia e politica si fa patente. Anche i paesi europei non riescono ad adattare in tempo le loro politiche di fronte al virus.

Essi stessi preda di questa contraddizione, gli Stati nazionali tentano di far fronte alla situazione epidemica, rispettando, per quanto è possibile, i meccanismi del Capitale, benché la natura del rischio li obblighi a modificare lo stile e gli atti del potere.

Si sa da gran tempo che in caso di guerra tra paesi, lo Stato deve imporre, non soltanto, certo, alle masse popolari, ma ai borghesi stessi, delle costrizioni considerevoli, e questo per salvare il capitalismo locale. Alcune industrie sono quasi nazionalizzate, a profitto di una produzione di armamenti intensiva, ma che sul momento non produce alcun plusvalore monetizzabile. Una gran quantità di borghesi sono mobilitati come ufficiali e esposti alla morte. Gli scienziati cercano, notte e giorno, d’inventare nuove armi. Gran numero di intellettuali e di artisti sono chiamati ad alimentare la propaganda nazionale ecc.

Dinanzi a un’epidemia, questa specie di riflesso statale è inevitabile. Ecco perché, contrariamente a quanto si dice, le dichiarazioni di Macron o di Edouard Philippe riguardanti lo Stato, ridiventato improvvisamente «Provvidenza», una spesa pubblica di sostegno alle persone che hanno perso il lavoro, o ai lavoratori autonomi a cui si chiude il negozio, che impegna cento e duecento miliardi di denaro pubblico, lo stesso annuncio di «nazionalizzazioni»: tutto questo non ha nulla di sbalorditivo o di paradossale. E ne consegue che la metafora di Macron, «siamo in guerra», è corretta. Guerra o epidemia, lo Stato è costretto – oltrepassando talvolta il corso normale della sua natura di classe – di mettere all’opera delle pratiche insieme più autoritarie e a destinazione più globale, per evitare una catastrofe strategica.

È una conseguenza del tutto logica della situazione, il cui scopo è di arginare l’epidemia – di vincere la guerra, per riprendere la metafora di Macron – con la maggiore sicurezza possibile, restando purtuttavia dentro l’ordine sociale stabilito. Non è per nulla una commedia, è una necessità imposta dalla diffusione di un processo mortale che sta all’incrocio tra la natura (da ciò il ruolo eminente degli scienziati, in questa faccenda) e l’ordine sociale (da cui l’intervento autoritario, e non può essere altrimenti, dello Stato).

Che in questo sforzo appaiano grandi carenze è inevitabile. Come nel caso della mancanza di maschere di protezione, o l’impreparazione riguardo l’estensione del confinamento ospedaliero. Ma chi può dunque vantarsi di avere «previsto» questo genere di cose? Per certi aspetti, lo Stato non aveva previsto la situazione attuale, è del tutto vero. Si può anche dire che indebolendo, da decenni, l’apparato del servizio sanitario nazionale, e in verità tutti i settori dello Stato che erano al servizio dell’interesse generale, lo Stato borghese aveva agito piuttosto come se niente di simile a una pandemia devastatrice potesse mai colpire il nostro Paese. Su questo lo Stato è assai colpevole, non soltanto nella sua forma-Macron, ma anche in quella di tutti coloro che l’hanno preceduto da oramai almeno trent’anni.

Tuttavia, è qui comunque corretto dire che nessun’altro aveva previsto, anzi neanche immaginato, lo sviluppo in Francia di una pandemia di questo tipo, salvo forse qualche specialista isolato. Molti pensavano probabilmente che questo genere di storia era buona per l’Africa profonda o per la Cina totalitaria, ma non per la democratica Europa. E non sono certamente gli esponenti dell’estrema sinistra (gauchistes) – o i Gilet Gialli, o persino i sindacalisti – ad avere ora un diritto particolare a sentenziare su questo punto e a continuare a dargli addosso a Macron, da sempre il loro bersaglio di derisione. Non hanno, neanche loro, avuto assolutamente contezza di qualcosa di simile. Tutt’al contrario: mentre l’epidemia era già in corso in Cina, hanno moltiplicato, fino a tempi assai recenti, i raggruppamenti incontrollati e le chiassose manifestazioni; il che dovrebbe proibire a costoro, oggi, quali che siano i soggetti, di pavoneggiarsi di fronte ai ritardi, mostrati dal potere, nel prendere le misure esatte di ciò che stava accadendo. In realtà, nessuna forza politica, in Francia, ha realmente preso queste misure prima dello Stato macroniano.

Da parte di questo Stato, la situazione è quella in cui lo Stato borghese deve, esplicitamente, pubblicamente, far prevalere degli interessi in qualche modo più generali di quelli della sola borghesia, pur preservando strategicamente, nell’avvenire, il primato degli interessi di classe, di cui tale Stato rappresenta la forma generale. O, in altre parole, la congiuntura obbliga lo Stato a non poter gestire la situazione se non integrando gli interessi di classe, di cui esso è il fondamento di potere, in interessi più generali, e ciò in ragione dell’esistenza interna di un «nemico» esso stesso più generale, che può essere, in tempi di guerra, l’invasore straniero, ed è, nella situazione presente, il virus SARS 2.

Questo genere di situazione (guerra mondiale, o epidemia mondiale) è particolarmente «neutro» sul piano politico. Le guerre del passato non hanno provocato rivoluzioni se non in due casi, per così dire eccentrici nei riguardi di quelle che erano le potenze imperiali: la Russia e la Cina. Nel caso russo, fu perché il potere zarista era, sotto tutti i rispetti, e da lungo tempo, ritardatario, compreso in quanto potere che si potesse adattare alla nascita di un vero e proprio capitalismo in quell’immenso paese. E, per altro verso, esisteva, con i bolscevichi, un’avanguardia politica moderna, fortemente strutturata da dirigenti notevoli. Nel caso cinese, la guerra rivoluzionaria interna ha preceduto la guerra mondiale, e il Partito comunista era, già nel 1940, alla testa di un esercito popolare che aveva fatto le sue prove. In compenso, per nessuna delle potenze occidentali la guerra ha provocato una rivoluzione vittoriosa. Anche nel paese vinto nel 1918, la Germania, l’insurrezione spartachista è stata rapidamente schiacciata.

La lezione da trarre da tutto questo è chiara: l’epidemia in corso non avrà, in quanto tale, alcuna conseguenza politica notevole in un paese come la Francia. Anche a supporre che la nostra borghesia pensi, alla vista dell’aumento dei brontolii informi e degli slogan inconsistenti ma diffusi, che è venuto il momento di sbarazzarsi di Macron, ciò non rappresenterà assolutamente alcun cambiamento notevole. I candidati «politicamente corretti» sono già dietro le quinte, come lo sono anche i sostenitori delle forme più ammuffite di un «nazionalismo» altrettanto obsoleto, quanto ripugnante.

Quanto a noi, che desideriamo un cambiamento reale dei dati politici in questo paese, bisogna approfittare dell’interludio epidemico e persino del confinamento – del tutto necessario – per lavorare a delle nuove figure della politica, al progetto di luoghi politici nuovi, e al progresso transnazionale di una terza tappa del comunismo, dopo quella, brillante, della sua invenzione e quella, interessante ma finalmente sconfitta, della sua sperimentazione statale.

Bisognerà anche passare per una critica serrata di ogni idea secondo la quale dei fenomeni come un’epidemia aprono, per se stessi, a qualsiasi cosa di politicamente innovativo. Oltre alla trasmissione generale dei dati scientifici sull’epidemia, conserveranno una certa forza politica solo delle affermazioni e convinzioni nuove riguardanti gli ospedali e la salute pubblica, le scuole e l’educazione egualitaria, l’accoglienza degli anziani e altre questioni di questo genere. Sono le sole che potranno essere eventualmente articolate con un bilancio delle pericolose debolezze messe in luce dalla situazione attuale.

Di passaggio, si mostrerà coraggiosamente, pubblicamente, che le presunte «reti sociali» mostrano, una volta di più, che sono anzitutto – oltre il fatto che ingrassano i maggiori miliardari del momento – un luogo di propagazione della paralisi mentale più sfacciata, di rumori incontrollati, della scoperta di «novità» antidiluviane, quando non è il caso dell’oscurantismo fascistizzante.

Non accordiamo credito, anche e soprattutto confinati come siamo, se non alle verità controllabili dalla scienza e alle prospettive fondate di una nuova politica, delle sue esperienze locali come dei suoi scopi strategici.

 [Trad. it. di Paolo Quintili]

Contro la frammentazione

In un tempo in cui gli uomini, in quanto singoli e in quanto specie, appaiono adagiati su un terreno che di stabile non ha più nulla, in un periodo storico che vede ciascuno di noi come un piccolo quanto insignificante ingranaggio d’un apparato tecnico sempre meno controllabile dal suo costruttore, in questo tempo, occorre ricordarsi che l’uomo è strutturato su un’identità che ha un centro psico-fisico unitario e che la comunità degli uomini non può essere frammentata senza produrle danni irreversibili.

L’uomo è un intero e l’umanità stessa non può essere concepita se non nella sua interezza. In un tempo segnato dalle grandi conquiste della tecnica, peraltro, l’uomo è ancor di più parte costitutiva ed essenziale dell’intera umanità: in un periodo storico segnato dalla globalizzazione culturale, sociale, economica, tutto ciò è del tutto (e a tutti) evidente. Ancor più evidente e decisiva, però, è l’interrelazione ambientale quando si assuma con chiarezza che viviamo in una fase temporale nella quale un qualsiasi “incidente” di tipo tecnico, qualsiasi evento che si registri in un determinato continente, prima o poi è in grado di diffondersi su larga scala, producendo danni catastrofici e spesso irreversibili. Per quanto riguarda poi il fenomeno dell’immigrazione transcontinentale, vero e proprio fenomeno esodale del contemporaneo, è sotto gli occhi di tutti che la mancanza d’una geopolitica globale e di istituzioni internazionali in grado di andare al di là di logiche spazio-temporali miopi e spesso ottuse e meschine, e dunque incapaci della sia pur minima lungimiranza, hanno prodotto e produrranno inesorabilmente fenomeni che minacciano di azzerare l’intero campionario dei diritti umani nella cui elaborazione si è affaticato l’Occidente da secoli.

Sulla base di considerazioni di questo tipo – forse troppo semplici per poter essere intese nella loro importanza epocale – occorre allora ripensare radicalmente l’essere dell’uomo, riconnettendolo strettamente con le sorti del suo mondo. Non c’è uomo senza mondo, mentre al contrario il mondo senza l’uomo è pensabile sia logicamente sia storicamente. In questa luce, dobbiamo aver chiaro che, se è senz’altro vero che è l’essere umano a produrre il mondo, è ancora più vero che il mondo possiede delle leggi che non possono essere alterate senza che l’umanità nel suo complesso ne debba risentire.

Entrando dunque in una logica di questo tipo (nulla è più necessario in sede politica di tali consapevolezze), una delle prime conclusioni a cui è necessario giungere è che le discipline settorializzate – così come gli interessi regionalistici – costituiscono un’espressione disastrosa del nichilismo imperante. Dividere le scienze e gli ambiti della produzione umana (simbolica o reale che siano), impedire la loro comunicazione essenziale, cioè, risulta del tutto irresponsabile ed è totalmente sbagliato. Così come è sbagliato e politicamente criminale costruire aree geopolitiche caratterizzate da crisi (economiche e politiche) permanenti, se non da vere e proprie guerre locali. In altri termini, tutto ciò va a costituire l’antefatto teorico di un tempo che, non occupandosi più del mondo, non è più in grado di curare neppure gli interessi fondamentali dell’uomo.

In modo particolare per le discipline filosofiche, inoltre, da sempre considerate a giusta ragione il collante di tutte le scienze, oltre che l’attività principale dell’uomo in quanto essere pensante, bisognerebbe entrare nell’ottica secondo la quale la conoscenza o è “integrale” o non è affatto. Nessuna particella dell’umano, in questo senso, può rendersi autonoma in maniera anarchica, nella convinzione che l’intero non reagisca.

L’impero della tecno-finanza estesa a livello planetario, tuttavia, va in direzione diametralmente opposta. È del tutto ovvio che rientra negli interessi precipui del capitale dividere uomini, Stati, aree geopolitiche e saperi. Assistiamo così al sempre più incalzante processo di disgregazione individualistica a cui fa seguito da presso una costruzione artatamente costruita di conflitti fittizi messi in scena ad uso e consumo del capitale e delle classi dominanti. Donne contro uomini, bianchi contro neri, guerre fra poveri, sovranità assoluta di visioni del mondo antisociali e grette come il neo-liberismo prima e l’ordo-liberismo a seguire. Evidentemente, tutto ciò nel mentre asserisce di incorporare una verità storica, alle sensibilità più acute si manifesta per quello che è, ossia un tentativo di distruggere le masse orizzontali e compatte della modernità nella direzione di un’atomizzazione sociale sempre più estesa. Nulla sembra più evidente, infatti, di quanto i processi di soggettivazione contemporanei stiano costruendo un uomo senza alcuna appartenenza: fuori da tessuti comunitari e da radici ambientali. Sta emergendo e sempre più consolidandosi un modello (post)umano passivizzato, senza passato e senza futuro, interamente appoggiato sulla tecnica e con addosso una crescente sensazione di superfluità. Inutile far notare come individui di tale sorta (atomizzati ed irrelati) non possano in alcun modo sfuggire alla presa irresistibile del potere tecno-finanziario. Inutile sottolineare, altresì, quanto un dispositivo di “verità” di questo tipo sia del tutto funzionale all’edificazione e al consolidamento progressivo di una massa di “diseguali” che ha tutti i vantaggi dalle divisioni interne che vengono operate nelle masse di “uguali”.

In questo quadro, credo che debba essere la filosofia, anzitutto, a segnalare la necessità di un cambio radicale d’orizzonte. Ovviamente, non parlo della filosofia da “torre d’avorio”. Meno ancora di quella autoreferenziale che gioca i propri narcisismi nelle conferenze per élite sempre meno significative sul piano pubblico o che imperversa all’interno delle ritualità annose ed inveterate del potere accademico. Mi riferisco, molto diversamente, alla filosofia che ha per oggetto il pensiero e l’unità dello spirito umano che al pensiero corrisponde. Credo, infatti, che, da questo punto di vista, la filosofia sia anzitutto una politica. Una politica degna di questo nome, infatti, sa bene che il suo compito è quello di guardare alla comunità (lato sensu) nel suo complesso e al rapporto originario fra gli uomini, nel quadro di un bisogno ineludibile di costruzione del “luogo” del loro stesso abitare. Non c’è politica adeguata a se stessa che non sappia coinvolgere nella sua prassi quotidiana la filosofia, ossia l’unica disciplina capace di disporre di una visione complessiva dell’uomo in quanto singolo e in quanto specie. L’uomo che deve essere preso in considerazione, inoltre, non può più essere “il soggetto razionale” della tradizione illuministica, o il “cittadino” della tradizione statualistica moderna, né tantomeno l'”agente economico” tipico delle posizioni liberali, bensì un essere peculiare che si caratterizza essenzialmente per un’esposizione radicale all’evento della sua stessa esistenza.

Per giungere ad un approdo di questo tipo è chiaro che tutte le scienze sono utili e necessarie: anche quelle che non avevano mai raggiunto la dignità di “scienza accademica”. A patto, però, che tutte loro possano essere riconnesse al senso filosofico più generale ed originario possibile. Ad esempio, costituirebbe una buona filosofia quella che ritornasse a porre domande ingenue, come quelle dei bambini o dei poeti, o comunque di coloro che sanno proporre “uno sguardo straniero” sul mondo. Una buona filosofia è tale quando si mostra capace di porre in un colpo solo davanti ai tanti paradossi e alle innumerevoli contraddizioni che caratterizzano l’esistere.

In conclusione, dunque, credo che sarebbe necessario che la filosofia diventasse una visione dell’uomo esprimibile attraverso una politica internazionalistica. Per converso, occorrerebbe una politica capace di stringere una nuova, sacra alleanza con la filosofia.

Sarebbe urgente che la filosofia mutasse il suo senso e la sua ispirazione settorializzata e divenisse “antropologia politica”.

Antonio Martone