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Il mio Congresso mondiale di Filosofia: riflessioni dopo l’articolo di Marcello Veneziani

di Ivana Zuccarello

Non è stata una passeggiata partecipare al XXV Congresso mondiale di Filosofia a Roma dal 1 all’8 agosto sia in termini di organizzazione, sia di impegno fisico, di concentrazione, di forza di volontà e dedizione richiesti.

Ha ragione Veneziani, – e con lui molti altri -, a denunciare i disagi dovuti alla canicola romana, ai cantieri aperti con ricadute significative sul sistema trasporti, all’immondizia non ritirata, e perché non citare un grande classico, la presenza molesta dei gabbiani (ne ho visti almeno un paio stazionare fieri sulle aiuole della Sapienza)?

Di certo, un Congresso mondiale organizzato a Roma ad agosto non sembrava affatto un’idea felice, eppure vorrei raccontarvi perché ne è valsa la pena.

Ogni giorno alla Sapienza, dalle ore 9.00 alle ore 19.00, per una settimana, abbiamo avuto la possibilità di assistere e partecipare a lezioni, simposi, tavole rotonde sui più svariati temi del dibattito contemporaneo, accademico e non.

Fin dalla registrazione sono rimasta colpita dalla copiosa presenza di cinesi, giapponesi, americani, africani, indiani, forse più numerosi rispetto agli europei (ma potrebbe semplicemente trattarsi di un bias cognitivo) che già da sola bastava a comunicare l’idea di una filosofia senza confini, e perché no, “senza frontiere”. Tuttavia, è probabile che poi i cinesi siano rimasti a fare scuola fra loro e che raramente abbiano davvero interagito con gli altri.

L’interazione multietnica nel suo senso più profondo forse è mancata, eludendo, fatta eccezione per le lezioni plenarie al rettorato, dove la traduzione simultanea aiutava a superare le barriere linguistiche, la vocazione globale annunciata dal tema congressuale. Soprattutto nelle aule più periferiche del campus, infatti, in cui ci si ritrovava a discutere di micro temi o di prassi filosofiche e didattiche, -sicché più che al congresso mondiale di filosofia sembrava di stare, a volte, partecipando a un corso di aggiornamento scolastico, – era raro imbattersi in esponenti più o meno illustri delle periferie del mondo.

Il punto di debolezza del congresso, però, stando all’articolo pubblicato il 3 agosto su La Verità (forse dovremmo chiederci se intesa come epistème o come alétheia prima di andare avanti), vale a dire l’evidente assenza di grandi nomi della filosofia mondiale, ritengo sia stato, invece, proprio la cifra di fruibilità e quindi di riuscita dell’evento. Studenti, insegnanti, professori universitari, e soprattutto giovani ricercatori, vero carburante del sistema e del dibattito accademico, hanno potuto trovare uno spazio, presentare i loro papers e discuterne pubblicamente, laddove tutti noi sappiamo quanto certi spazi siano, al contrario, normalmente già occupati.

E se ho molto apprezzato la lezione sull’I.A. del prof. Mario De Caro, ascoltare Paolo D’Angelo interrogarsi sul rapporto tra ambiente e paesaggio, e ancora gli interventi della filosofa algerina Malika Bendouda sul potere delle donne in un mondo sostenibile, di Kristie Dotson sul femminismo afroamericano, sono stata soprattutto felice di aver partecipato alla tavola rotonda sull’insegnare filosofia oggi coordinata da Marco Ferrari,  di aver discusso di politica ed educazione civica col prof. e collega Andrea Suggi, di aver conosciuto il collettivo del CRIF e la loro philosophy for children e, infine,  di aver ritrovato persone amiche al topic sulle pratiche filosofiche.

Chi ha criticato l’evento, infatti, ha trascurato, a mio avviso, il punto di forza, vale a dire la riuscita democratica del congresso: le voci di chi conta (poco o tanto in un momento di così alta popolarità della filosofia che importa!) mescolarsi in mezzo a tutte le altre, occhi che si guardano negli occhi aldilà delle cattedre, mani che si stringono fuori dalle aule, cartellini al collo senza titoli né gradi di onorificenza.

Forse senza, oltre, o attraverso i confini, ricordo che il tema scelto era “Philosophy across boundaries”, significa anche e innanzitutto questo: abbattere le gerarchie imperialistiche del pensiero e ritornare a discutere insieme facendo precedere l’ascolto alla parola.

Infine, se anche gli appuntamenti serali promossi e aperti alla cittadinanza sapevano più di estate romana che di cenacolo ad Heidelberg che male c’è? Portare la filosofia nelle strade, trasformarla in evento artistico, non è forse offrire un’alternativa al degradante spettacolo che sempre più spesso investe i luoghi storici delle nostre città profanati da kermesse di dubbio gusto?

Se qualcosa di sostanziale, invece, secondo me, è mancato e continua a mancare nel dibattito, filosofico ma non solo, quella è la dimensione puramente politica dello stesso: vale a dire un confronto autentico tra paradigmi ideologico-culturali che ridiscutano dell’idea stessa di confine e non solo delle modalità scelte per oltrepassarlo. “Per il vero filosofo, si sa, ogni terreno è patria” diceva Giordano Bruno, ma che cosa si voglia fare della “patria” sarebbe, forse, il caso di ricominciare a chiederselo e di interrogarsi sulla questione a partire dalla Scuola, vera frontiera dell’esercizio filosofico, terreno di militanza e diserzione, ricettacolo di norme e prassi non allineate, ma ancora e sempre prima bottega di formazione. Il resto, le biblioteche e gli studioli medievali andrebbero lasciati entro il limite di chi ancora crede cha la Filosofia si declini al singolare, vieppiù pensando che chi la insegna ai giovani debba limitarsi a raccontare la sua Storia.

Ivana Zuccarello

 

La disgregazione del legame sociale

I concorrenti a qualsivoglia incarico o selezione non accettano i giudizi delle commissioni; i parenti del paziente che muore sotto i ferri, immediatamente fan causa ai medici per la loro imperizia, al punto che si è sviluppata un vero e proprio ramo assicurativo, la “medicina difensiva”; chi perde una causa se la prende coll’avvocato che lo difende; i genitori dei ragazzi bocciati a scuola mettono sotto accusa i docenti; chi viene bocciato in un concorso universitario, immediatamente evoca una combine di baroni. E tutti, se possono, fanno ricorso al TAR, che spesso si mostra assai ben disposto a riconoscere le ragioni dei presunti maltrattati.

Si assiste a un sempre più endemico diffondersi di comportamenti analoghi. In passato questo comportamento non era così diffuso. Cosa è cambiato allora, in cosa la società si è modificata per dare luogo a questa micro-conflittualità così diffusa e pervasiva?

Prendiamo il caso più eclatante: una volta il paziente si affidava fiducioso alle cure del proprio medico, consapevole che questo avrebbe fatto tutto il possibile per curarlo. E quando entrava in ospedale, non pensava che i medici fossero lì riuniti per mandarlo all’altro mondo, ma che agivano al meglio delle loro possibilità, in scienza e coscienza, per rimetterlo in sesto. Certo, poteva scapparci il morto, l’operazione poteva andar male, l’imperscrutabilità del caso poteva metterci il proprio zampino. Ma questo rientrava a pieno titolo nella contingenza delle cose umane, nella imperfezione degli eventi, nella possibile fatalità delle circostanze, nell’inevitabile margine di errore che è proprio di ogni cosa posta in atto dalla normale umanità, non dai marziani. A contare di più era la consapevolezza di aver ricevuto una assistenza umana, di essere stati trattati non come pazienti affetti da un morbo da curare, ma come uomini di cui ci si prende cura nell’integralità del loro essere, avendo rispetto per i loro sentimenti, la loro personalità, con il senso di affetto che deriva da una famiglia che può in qualche modo compartecipare alla cura e dei medici che non lo vedono come un “paziente”, solo un numero su una cartella, ma un umano sofferente nella totalità del suo essere. E anche la morte, in questo caso, non si accompagna con quel senso di disperante solitudine di chi si vede abbandono in un letto, in una camera dalle pareti bianchi di un freddo, anche se efficiente ospedale.

Lo stesso avveniva nelle varie prove che si dovevano superare nel corso della vita (concorsi, esami, giudizi): si metteva in conto il raccomandato e il fatto che la commissione era fatta da persone che potavano azzeccare o sbagliare il giudizio, ma il più delle volte i bocciati non pensavano di essere i più bravi che ingiustamente erano stati scartati a favore di persone che erano tutte più asini. Il più delle volte si era consapevoli di non avercela fatta, di aver sbagliato la prova, di essere stati impari al compito o semplicemente di essere stati sfortunati. E così avveniva a scuola: il bocciato non era la vittima di una sadica pratica educativa, ma era tale perché immeritevole, perché non aveva studiato; e le famiglie non davano la colpa ai docenti, ma al proprio figlio che si era poco applicato e magari lo prendevano a ceffoni affinché si mettesse sulla giusta via.

Ma il fatto che oggi tali meccanismi non funzionino più così è il sintomo di ciò che si potrebbe definire la progressiva disintegrazione del legame sociale, ovvero il decadimento della solidarietà tra le diverse parti che funzionalmente compongono la società. In ogni sistema complesso, in ogni società, v’è una interconnessione tale per cui ciascuna sua parte si affida al funzionamento dell’insieme. Si può dire che senza questa fiducia, senza questa solida e tacita base, mai messa in discussione, non si potrebbe nemmeno articolare la vita sociale. Certo esistono i conflitti, ma questi possono avvenire solo nella misura in cui ci si affida ad altri: ai propri compagni; ai componenti del proprio gruppo, della propria famiglia, della propria comunità; e nel momento in cui scoppiano con violenza, tendono poi a ricomporre un nuovo equilibrio, una nuova forma di solidarietà. E così, per continuare nel nostro esempio, accade che il paziente ha fiducia nel medico ritenendolo portatore di una conoscenza certificata da una università in cui i docenti hanno fatto il proprio meglio per trasmettergli la capacità di utilizzare le terapie migliori. Ma quando si viene a spezzare questo legame di fiducia, si diffida della conoscenza di cui il medico è garante, si nutre un profondo discredito dell’università che gli ha conferito il titolo, non si pensa che questa raccomandi le terapie migliori. Ed ecco allora il ricorso ai guaritori, alle medicine alternative, ai centri di cura eterodossi. Lo stesso avviene negli altri campi: il proprio ragazzo è bocciato? Sono i docenti ad essere incompetenti, e l’università che li ha formati non li ha saputo preparare, perché i suoi docenti sono dei fannulloni dediti solo ad ordire trame concorsuali. E così via.

Si viene così pian piano a logorare quel reciproco inconsapevole affidarsi, che è al tempo stesso un complessivo avallo del sistema sociale e dei processi di formazione, selezione e valutazione messi in atto dall’organizzazione complessiva di uno stato e dalle sue articolazioni territoriali e istituzionali. Ciascuno diffida del proprio prossimo e della qualifica, della competenza, della moralità di cui è portatore; e alla prima occasione, appena in qualche modo ritiene di essere stato danneggiato, è pronto a fare ricorso all’autorità giudiziaria. E sempre più spesso v’è qualcuno che si ritiene danneggiato: lo sono per definizione tutti i bocciati, gli esclusi, gli emarginati. In questo clima ha una funzione di ulteriore disgregazione la martellante campagna di diffusione dell’odio sociale che si esprime continuamente in vari ambiti: immigrati contro residenti; immigrati di seconda generazione contro quelli appena arrivati; assegnatari di case popolari contro gli abusivi; cittadini stanziali contro zingari; regioni contro altre, persino juventini contro interisti. Eppure tutto ciò non porta al conflitto aperto, alla crisi che poi è foriera di un riassetto del legame sociale su nuove base, a una “lotta di classe” che permette di ristabilire diversi equilibri. No, si ha un progressivo, lento, sterile e privo di prospettive deteriorarsi del legame sociale, alla cui fine restano solo le macerie.

Non è la prima volta nella storia che accadono fenomeni simili; e ogni volta o la società ha ritrovato in sé la forza di rinsaldare il legame sociale, oppure è andata incontro a un processo di progressivo sfaldamento che non l’ha posta in grado di reggere le sfide del futuro. È stata la condizione tipica dell’impero romano nel periodo della sua decadenza, quando non bastava la moltiplicazione delle norme e dei regolamenti a rimettere in piedi un organismo in disfacimento; è stata la condizione dell’Ancien Régime, in Francia, come nella Russia zarista e poi in quella sovietica. Sembra anche la condizione dell’Europa d’oggi, nella quale un singolare ruolo di avanguardia sembra stia avendo proprio l’Italia.