Heidegger e Cartesio. La trasformazione heideggeriana della soggettività cartesiana

La VI uscita di Pagine Heideggeriane ospita un paper a firma di Luca Bianchin dell’Università di Padova, in cui l’autore ricostruisce il rapporto fra Heidegger e Descartes attraverso la figura che funge da trait d’union fra i due, cioè Husserl. Attraverso un’analisi del ruolo svolto da Descartes nel pensiero di Heidegger degli anni ’20, in cui l’autore francese sembra essere il grande assente della speculazione heideggeriana, Bianchin delinea con precisione ed acribia il percorso attraverso cui Descartes diventa il polo d’interesse per la critica alla soggettività. Non solo: con estrema puntualità Luca Bianchin riesce a mettere in evidenza come l’inversione di cogito sum in sum cogito permetta a Heidegger di radicare le cogitationes nella trascendenza del soggetto  e di assumere l’espressione sum cogito in una prospettiva fenomenologica tale da poter portare alla luce ciò che lo stesso Cartesio non aveva colto. Appellandosi al reciproco richiamarsi di existere ed ego (ego sum, ego existo), Heidegger elabora un altro fondamentale elemento della costituzione ontologica del Dasein: la Jemeinigkeit.

Francesca Brencio

Heidegger e Cartesio.
La trasformazione heideggeriana della soggettività cartesiana
di
Luca Bianchin

1. La funzione di Cartesio negli anni Venti: né Husserl, né Cartesio

Straniero: Allora di questo ti voglio pregare ancora con maggiore insistenza.
Teeteto: Di che cosa?
Straniero: Non credere che io divenga quasi un parricida.[ref]Platone, Sofista, 241d.[/ref]

È singolare notare come in un testo del 1912, il cui titolo programmatico è Il problema della realtà nella filosofia moderna[ref]M. Heidegger, Il problema della realtà nella filosofia moderna, in Scritti filosofici (1912-1917), a cura di A. Babolin, La Garangola, Padova, 1972, pp. 131-148.[/ref], il nome di Cartesio non ricorra nemmeno una volta. L’omissione di Cartesio in un contesto in cui si tratta della «realtà» nell’epoca moderna stupisce se si pensa al ruolo chiave che le riflessioni heideggeriane negli anni Trenta/Quaranta  fanno assumere al filosofo francese.
Dunque, in che momento Cartesio fa la sua comparsa nei testi heideggeriani? Per quale motivo, quindi, Heidegger sente la necessità di introdurre un confronto specifico col suo pensiero quando, per esaurire l’essenza della modernità, era sufficiente un’analisi limitata a Berkeley, Kant, Hegel[ref]Cfr. ibidem.[/ref]?

La necessità che induce Heidegger a confrontarsi con la filosofia cartesiana si rintraccia nel suo progressivo distanziarsi dalle posizioni filosofiche del maestro, Husserl. Ovvero: l’abbandono e la rielaborazione della fenomenologia husserliana e la lenta conquista dell’ontologia fondamentale. Si è costretti, per soddisfare una legittima esigenza di completezza in merito alle questione trattate, a rinviare ad altri luoghi[ref]Cfr. M. Heidegger, Il problema della realtà nella filosofia moderna, in Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli, 2001; M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, ed. it. a cura di R. Cristin e A. Marini, Il melangolo, Genova, 1999 (in particolare pp. 17-164). Circa il rapporto tra Heidegger e Husserl negli anni Venti, per un primo, ma puntuale, riferimento, si veda A. Fabris, L’«ermeneutica della fatticità» nei corsi friburghesi dal 1919 al 1923, in F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 2008, pp. 59-111; C. Esposito, Il periodo di Marburgo (1923-28) ed «Essere e tempo»: dalla fenomenologia all’ontologia fondamentale, in ivi, pp. 113-166; F. Volpi, La trasformazione della fenomenologia da Husserl a Heidegger, in «Teoria», IV, 1, 1984, pp. 125-162; A. Masullo, La «cura» in Heidegger e la riforma dell’intenzionalità husserliana, in «Archivio di filosofia», LVII, 1-3, 1989, pp. 377-394. In merito al tema trattato, ovvero il rapporto tra i due pensatori visto alla luce della prospettiva assunta da Cartesio in tale confronto, si veda P.A. Rovatti, La posta in gioco. Heidegger, Husserl, il soggetto, Bompiani, Milano, 1987; R. De Biase, L’interpretazione heideggeriana di Descartes, cit., pp. 11-159; R. Morani, Soggetto e modernità, cit., pp. 244- 295.[/ref]; tuttavia, non ci si esimerà dal tracciare, seppur brevemente, il rapporto tra Husserl e Heidegger nel periodo precedente alla pubblicazione di Essere e tempo. È in tale periodo, infatti, che Cartesio subirà una vera e propria riabilitazione, arrivando Heidegger a identificarlo come il luogo, nella filosofia occidentale, nel quale avviene un’accelerazione storica colpevole di aver impedito a Husserl la completa attuazione delle potenzialità insite nella sua scoperta.

Jean-Luc Marion richiama l’attenzione su un fatto curioso: nel 1923-24, in contesti diversi, Heidegger e Husserl citavano contemporaneamente Cartesio, esprimendone pareri opposti. Se il primo ne dava una lettura (paradossalmente: fenomenologica) negativa, il secondo spendeva per il francese parole di elogio[ref]Ci si riferisce al corso heideggeriano del 1923-24 (Einführung in die phänomenologische Forschung) e alle lezioni friburghesi di Husserl, poi raccolte nell’opera Erste Philosophie (cfr. J.-L. Marion, L’‘ego’ cartesiano e le sue interpretazioni fenomenologiche: al di là della rappresentazione, in J.-R. Armogathe e G. Belgioioso [a cura di], Descartes metafisico. Interpretazioni del Novecento, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 1994, pp. 181). È giusto sottolineare i diversi riferimenti che l’analisi heideggeriana della fenomenologia andava assumendo al principio degli anni Venti: l’attenzione è riposta, infatti, soprattutto sulle Idee per una fenomenologia trascendentale e una filosofia fenomenologica, testo husserliano nel quale «l’intenzionalità viene definitivamente risolta nell’auto-fondazione di una coscienza pura e assoluta, il cui essere cioè è identificato esaurientemente in una struttura ideale o essenza idealizzata» (C. Esposito, Il periodo di Marburgo (1923-28) ed «Essere e tempo», cit., p. 125).[/ref]. Questa coincidenza deve restare tale. Pur tuttavia ci suggerisce che, proprio quando lo “scontro” tra i due tedeschi assumeva radicalità e incisività, entrambi si sentivano chiamati ad “appellarsi” alla figura di Cartesio: l’uno per attaccare le tesi dell’altro.

Se è vero che «la fenomenologia husserliana aveva […] legato il suo destino a quello dell’interpretazione di Descartes»[ref]J.-L. Marion, L’‘ego’ cartesiano e le sue interpretazioni fenomenologiche, cit., p. 183.[/ref], possiamo dedurre che Heidegger – nell’intento di indagare la radice ontologica della fenomenologia (e per lui significava analizzarne le tre scoperte fondamentali: «in primo luogo l’intenzionalità, poi l’intuizione categoriale e infine il senso autentico dell’apriori»),[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 34.[/ref] nel progetto sistematico di «un trapasso dalla prospettiva trascendentale a quella ontologico-ermeneutica»[ref]F. Volpi, La trasformazione della fenomenologia da Husserl a Heidegger, cit., p. 129.[/ref] – fosse necessariamente “costretto” ad individuare in Cartesio il punto archimedeo sul quale attuare la presa di distanza. Le strade che Heidegger indicava come percorribili erano due:

Cartesio è fenomenologo perché anticipa Husserl; la fenomenologia husserliana non è pienamente fenomenologica, perché resta prigioniera di ‘deliberazioni’ cartesiane non sottoposte a critica. Heidegger sceglie senza indugi la seconda via.[ref]J.-L. Marion, L’ego cartesiano e le sue interpretazioni fenomenologiche, cit., p. 183.[/ref]

 Se Husserl, quindi, travisa il senso generale della fenomenologia, privilegiandone l’elemento «teoretico-razionale e specialmente teoretico-conoscitivo e [quello costituito dall’idea] di una scientificità assoluta e rigorosa»[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 163.[/ref], lo fa perché «torna ad adagiarsi nella tradizione»[ref]Ivi, p. 162.[/ref]. Di quale tradizione si tratta? Appunto,

nel caso di Husserl, si tratta della recezione della tradizione cartesiana e della problematica della ragione che ne deriva.[ref]Ivi, pp. 162-163. Heidegger, inoltre, adotta maggiore precisione; criticando le quattro determinazioni della coscienza pura husserliana, come essere immanente, esser dato assolutamente nel senso dell’assoluta datità, esser dato assolutamente nel senso del “nulla re indiget ad existendum”, esser puro («ideale, cioè non reale» [ivi, p. 133]), evidenzia che «l’istanza primaria che lo guida [Husserl] è l’idea di una scienza assoluta. Questa idea: ossia che la coscienza deve essere regione di una scienza assoluta, non è semplicemente inventata, ma assilla la filosofia moderna a partire da Cartesio» (ivi, p. 134).[/ref]

Mostrato che Husserl, pur nell’intento di una generale epochè trascendentale, non riesce a svincolarsi da concetti di matrice cartesiana, resta da chiarire di cosa fosse stato allora manchevole Cartesio. Quale errore compì, tale che, dopo tre secoli, ricadde su Husserl, facendogli fallire il progetto fenomenologico?

Cartesio voleva trovare un fundamentum absolutus e inconcussum capace di fondare «la filosofia su basi nuove e più sicure»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 38. Baillet, che riorganizzò le carte cartesiane dell’inventario di Stoccolma, scrive: «Egli stesso ci dice che il 10 novembre 1619, essendo andato a letto “tutto pieno del suo entusiasmo” e tutto preso dal pensiero “di aver trovato quel giorno i fondamenti di una scienza meravigliosa” […]» (R. Cartesio, Olympica, trad. it. E. Garin, in Opere filosofiche, 4 voll., a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari, vol. I, 2009, p. 4). Non deve stupire se, invece di “filosofia”, il giovane Cartesio parla di “scienza” (‘mirabilis scientiae!): gli sforzi giovanili di Cartesio erano, infatti, volti a fondare un sapere universale che possedesse un principio (un fondamento) tanto certo ed indubitabile che da esso potesse dedursi ogni sapere: anche la filosofia (anche il soggetto pensate, anche Dio). Cfr. F. Alquié, L’idea originaria di un metodo e di una scienza universali (1619-1628), in Lezioni su Descartes. Scienza e metafisica in Descartes, a cura di T. Cavallo, ETS, Pisa, 2006, pp. 9-24.[/ref]. Pensò di scorgerlo quando, sospinto il mondo nell’abisso del dubbio, si accorse che v’era qualcosa dal quale ogni ente di cui si dubitava doveva dipendere. Cosa trovò Cartesio? Non è possibile dare una risposta univoca, ma è necessario avanzare una distinzione[ref]Questa distinzione permetterà di comprendere appieno la sottile ambivalenza che l’analisi heideggeriana mostra in questi anni. Infatti, se Heidegger impiega una serie considerevole di “energie fenomenologiche” per criticare gli esiti teoreticistici e cosalistici del pensiero cartesiano (e quelli che questo ha imposto alla filosofia a seguire – fra tutti, a Kant), contemporaneamente, con sempre misurata prudenza, indicherà alcune possibilità  interpretative da adottare nei riguardi di Cartesio, in grado di collocarlo in una “dimensione ermeneutica” nella quale esso sia capace di dialogare positivamente con presente (ovvero con l’ontologia fondamentale del Dasein).[/ref].

Prior fundamentum (absolutus): l’esistere di un qualcosa, la cui esistenza (non meglio specificata) permette il dubitare[ref]Scrive Cartesio nella Seconda Meditazione: «Ma allora, non sarò qualcosa almeno io? […] Esistevo di certo, se mi sono persuaso di qualcosa! […] non potrà [il genio maligno] mai far sì che io non sia niente, fintantoché penserò di essere qualcosa. Così […] alla fine si ha da stabilire che l’asserto io esisto è impossibile che non sia vero» (R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, trad. e intr. di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 40). Nel testo latino l’espressione «io esisto» è resa, più chiaramente, con «ego sum, ego existo» (cfr. ivi, p. 39).[/ref]. Questa esistenza è la mia esistenza (‘ego sum). La mia: di colui che dubita.
Alter fundamentum (inconcussum): nel nulla in cui io sono inserito come esistente (come indefinito ego sum), specifico la mia natura di res dubitante, cioè di res pensante. Tuttavia, poiché ciò che devo individuare è una certezza (una verità), abbisogno di una proposizione nella quale siano espresse una causalità ed una consequenzialità: cogito, ergo res cogitans sum[ref]Sono note le parole del Discorso: «E osservando che questa verità, penso dunque sono, era così salda e certa da non poter vacillare sotto l’urto di tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accettare senza scrupolo come il primo principio della filosofia che cercavo. […] conobbi così di essere una sostanza [une substance] la cui essenza o natura era esclusivamente di pensare, e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo e non dipende da alcuna causa materiale» (R. Cartesio, Discorso sul metodo, trad. it di M. Garin, intr. di T. Gregory, Laterza, Roma-Bari, 2008, pp. 44-45, corsivo mio).[/ref].

Heidegger ha chiare queste due distinzioni, e le conseguenze (gli approcci filosofici, di pensiero) da esse derivanti. Non solo. Comprende perfettamente anche l’imporsi di una sola di queste – e, quindi, di una ben determinata problematica filosofica – nella storia della filosofia post Cartesio: la linea-guida che dominerà il pensiero moderno, arrivando ad esercitare in toto la sua influenza anche nella fenomenologia husserliana, è la seconda. L’imporsi con Cartesio della “cura della conoscenza conosciuta”[ref]Con quest’espressione (Sorge um die erkannte Erkenntnis) Heidegger indica, nel primo corso marburghese del  1923-24, il carattere costitutivo della res cogitans e della coscienza husserliana, nell’intento di sottolinearne l’inconciliabile differenza con la Cura (Sorge) del Dasein (cfr. R. Morani, Soggetto e modernità. Hegel, Nietzsche, Heidegger interpreti di Cartesio, Franco Angeli, Milano, 2007, p. 255). «Affrancandosi dalle cose, la conoscenza si avvita su se stessa e si preoccupa soltanto di conseguire la propria autofondazione mediante la scoperta e la conseguente applicazione di un principio di evidenza apodittica. Funzionale a questa svolta epistemologico-teoretica risulta la nozione di verità quale incontrovertibile validità di un enunciato, una dottrina che smarrisce la sua accezione aristotelica di disvelamento e si pone sotto il rassicurante dominio del logos apofantico» (ibidem). Quest’aspetto solleva un’ulteriore questione, la cui importanza impedisce di tralasciarla: la cura della conoscenza conosciuta, per Heidegger, inizia non con Cartesio, ma con Aristotele e la sua scelta «di anteporre la dianoetica alle altre capacità della psyché» (ivi, p. 259). Cartesio, quindi, funge da “catalizzatore storico”: accelera il processo di imposizione della cura della conoscenza conosciuta fino a farle assumere «un’impronta totalizzante», ma non produce, come invece dirà in seguito Heidegger, un pensiero nuovo.[/ref], in cui è privilegiato l’elemento gnoseologico, comporta il ripresentarsi dell’“errore cartesiano”, con diverse forme, in tutta la filosofia successiva. E quest’errore, che per Heidegger è causa del naufragio fenomenologico di Husserl, è la mancata indagine ontologica della res cartesiana e quindi anche della coscienza husserliana:

Due fondamentali lacune possono essere constatate nei riguardi del problema dell’essere [nella scoperta cartesiana della res cogitans e nella ricerca fenomenologia di Husserl]: in primo luogo, si tralascia il problema dell’essere di questo ente specifico [dell’uomo]; in secondo luogo, è tralasciato il problema del senso dell’essere stesso.[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 144.[/ref]

Quindi, l’errore di Cartesio, per Heidegger, fu di sottomettere la propria intuizione (l’esistenza di un io) al peso della tradizione (la sostanzialità dell’io)[ref]«Quando Cartesio pone in generale il problema dell’essere di un ente, egli si interroga, nel senso della tradizione, sulla sostanza» (ivi, p. 209).[/ref]: quello che avrebbe dovuto fare (per giungere veramente alla conquista di un nuovo principio) era interrogarsi sul sum dell’ego, esplicitare l’ontologia di quell’esistenza allora indeterminata, indagandola nel suo essere. Invece, la dipendenza (linguistico-concettuale) dalla Scolastica lo indusse a ritenere l’io ontologicamente uguale a tutti gli altri enti – ridusse l’ego a res, più precisamente: a un ens creatum[ref]«La res cogitans è determinata ontologicamente come ens, e il senso dell’essere dell’ens è quello stabilito dall’ontologia medievale, che intende l’ens come ens creatum» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 38-39).[/ref]. Non solo, quindi, l’ontologia cartesiana è manchevole di qualsiasi originalità filosofia, ma anche la determinazione ontica dell’uomo è siffatta che non giunge ad attribuire all’ente-uomo alcun primato rispetto agli enti difformi da esso[ref]Nel corso del 1923-24, Heidegger enucleando le ragioni che certificano la corrispondenza tra il cogito e la cura della conoscenza conosciuta, si sofferma, nell’ultimo aspetto trattato, sulla «mancata interrogazione ontologica della res cogitans» (ivi, p. 276). Scrive Heidegger: «La proposizione cogito sum è il risultato nella forma del fundamentum absolutus simplex, presso cui Descartes si acquieta. […] La questione dell’essere della res cogitans è svolta una volta per tutte. Non si presenta più in Cartesio, poiché per Cartesio non si tratta di giungere da questo fundamentum […] sulla via della deductio a ulteriori proposizioni sulle connessioni dell’essere. [Da ciò consegue che] la base dell’essere è l’esse certum. Fin dall’inizio l’orientamento della ricerca è tale che non si propone affatto di porre una questione dell’essere, nel senso di manifestare liberamente ciò che indaga cosicché esso si esprima a partire dal proprio carattere d’essere. Ciò che è cercato può entrarci solo se soddisfa il senso dell’essere che gli viene attribuito dalla ricerca: essere nel senso dell’esse certum» (M. Heidegger, Einführung in die phänomenologische Forschung, cit. in R. Morani, Soggetto e modernità, cit., p. 51 n).[/ref].
Husserl eredita questi “errori” nel suo pensiero, precludendosi l’approfondimento dell’ originaria (quindi, ontologica) radice della coscienza pura. Infatti, le quattro determinazioni fondamentali che la caratterizzano, per Heidegger, «gli vengono attribuite nella misura in cui questa coscienza come coscienza pura viene posta in determinate angolazioni prospettiche»[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 135. Heidegger giustifica scrivendo: «Se la coscienza viene considerata come appresa, si può dire che è immanente; se viene considerata rispetto al suo modo di datità, si può dire che è data assolutamente. Circa il suo ruolo come essere costituente, come ciò in cui ogni altra realità si annuncia, è essere assoluto nel senso del nulla re indiget ad existundum; rispetto alla sua essenza, al suo che-cosa, è essere ideale […]» (ibidem). Cfr. ivi, pp. 129-134.[/ref], cioè «sono tali che non vengono attinte dall’ente stesso»[ref]Ivi, p. 135.[/ref], e, quindi, sono «determinazioni che determinano la regione in quanto regione, ma non riguardano l’essere della coscienza stessa»[ref]Ibidem.[/ref].
In particolare, l’omissione husserliana di una trattazione ontologica della coscienza porta la fenomenologia dinanzi ad un’aporia difficilmente solvibile, che Heidegger evidenzia quando tratta della «coscienza pura come regione propria dell’essere»:[ref]Ivi, p. 119.[/ref] se la coscienza, à la Husserl, è sempre separata, con una frattura assoluta, dalla natura reale «di qualsiasi essere umano fattuale»[ref]Ivi, p. 123. Questo, specifica Heidegger, è indicato chiaramente da «ogni percezione della cosa nella differenza fra immanenza e trascendenza» (ibidem).[/ref], ma, allo stesso tempo, in quanto «componente [dell’] unità animale»[ref]Ibidem.[/ref], è ad essa «unita realmente»[ref]Ibidem.[/ref], resta da chiedersi: com’è in generale possibile

che la coscienza pura, che deve essere separata per mezzo di una cesura assoluta da ogni trascendenza, si unifichi al tempo stesso con la realtà nell’unità di un uomo reale, che pure a sua volta si presenta come oggetto reale nel mondo? Com’è possibile che i vissuti costituiscano una regione dell’essere assoluta e pura e nello stesso tempo si verifichino nella trascendenza del mondo? Questa è l’impostazione problematica in cui si muove la rilevazione del campo fenomenologico della coscienza pura in Husserl.[ref]Ivi, p. 127.[/ref]

È evidente che si ritrova qui espressa, con altri metodi e con altri intenti filosofici, la stessa problematica espressa da Cartesio: la corrispondenza reale dell’ente oggettivo («i corpi che vediamo e tocchiamo»)[ref]R. Descartes, Meditazioni metafisiche, a cura e trad. it. di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 49.[/ref] con l’idea dell’ente stesso nella sfera del mio pensiero – ovvero della res cogitans con la res extensa[ref]Corrispondenza richiesta dalla loro originaria separazione. Si legge nei Principi: «Mi sembra anche che questo punto sia assolutamente il migliore che possiamo scegliere per conoscere la natura dell’anima, e che essa è sostanza affatto distinta dal corpo: […] per esistere, non abbiamo bisogno di estensione, di figura, di essere in qualche luogo e di nessun’altra cosa che si può attribuire al corpo, e che esistiamo per il fatto solo che pensiamo» (R. Cartesio, Principi della filosofia, trad. it. A. Tilgher, in Opere, 2 voll., 1967, a cura di E. Garin, Laterza, Bari, vol. II, 1967, p. 28). Inoltre, cfr. R. Descartes, Discorso sul metodo, cit., p. 45. [/ref]. L’essenziale richiamo fra i due autori è definitivamente chiarito da Heidegger quando dice che

certamente quello che su un livello superiore dell’analisi fenomenologica è stato enucleato come coscienza pura, è il campo che Cartesio ha in mente sotto il titolo di res cogitans, il campo complessivo delle cogitationes, mentre il mondo trascendente, il cui indice esemplare è individuato da Husserl allo stesso modo nello strato fondamentale del mondo materiale delle cose, in Cartesio è caratterizzato come res extensa.[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 126.[/ref]

Resta da esplicitare l’esito ultimo a cui Heidegger giunge. La fenomenologia, pur proponendosi di andare “alle cose stesse”, rientra «definitivamente in quella logica […] moderna di soggetto-oggetto»[ref]C. Esposito, Il periodo di Marburgo (1923-28) ed “Essere e tempo”, cit., p. 125.[/ref] colpevole di non esplicare la relazione originaria tra i due – e quindi «risulta non fenomenologica!»[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 161.[/ref]. In conclusione, poiché «il domandare fenomenologico conduce, secondo i suoi tratti più intimi, proprio alla domanda circa l’essere dell’intenzionale e soprattutto dinanzi la domanda circa il senso dell’essere in generale»[ref]Ivi, p. 166 (corsivo mio).[/ref] e poiché tale domanda non è stata ancora affrontata dalla fenomenologia, quello che si dovrà fare, per giungere ad una comprensione autentica tanto dell’essere interrogato quanto dell’essere di colui che interroga, sarà porre nuovamente la domanda sull’essere.
Porre tale domanda, e cercarle una risposta, sarà il compito di Essere e tempo.

2. ‘Essere e tempo’: dialettica della soggettività.

Ma … s’illuminano le lampade, e sul vetro tutt’a un tratto ecco apparire un frammento di viso. […] Se mi avvicino un po’ a quest’io spezzettato d’ombre che mi guarda, l’eclisso, mi abolisco, divento il caos notturno.[ref]P. Valéry, Il suono della voce umana.Variazioni su Cartesio, a cura di F. C. Papparo, Filema, Roma, 2008, p. 38.[/ref]

Nel § 8 di Essere e tempo Heidegger, tracciando lo “schema dell’opera”, annuncia il contenuto tanto dalla prima, quando dalla seconda parte. Questa non vedrà mai la luce, ma lascia chiari gli intenti: «Una distruzione fenomenologica della storia dell’ontologia sulla scorta del problema della temporalità [Temporalität]»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 56.[/ref]. La seconda sezione di questa seconda parte avrebbe dovuto lasciar spazio ad un dettagliato confronto con Cartesio, con lo scopo di studiare «il fondamento ontologico del sum […] e l’assunzione dell’ontologia medievale nella problematica della res cogitans»[ref]Ibidem.[/ref]. Pur venendo alla luce solo le prime due sezioni della prima parte, nei luoghi dell’opera in cui il confronto con Cartesio è esplicito, lo sforzo ermeneutico heideggeriano si avvale di una particolare “dialettica della soggettività” capace di mantenere, nella penetrazione fenomenologica tanto della soggettività tradizionale quanto del Dasein, la figura di Cartesio in un’ambiguità interpretativa costante.

È subito da chiarire un aspetto: le osservazioni su Cartesio sono, quasi sempre, negative[ref]Questa presa di posizione drastica non è, invece, riscontrabile nei riguardi di altri pensatori. Nel § 8, parlando di Kant, Heidegger non esita a riconoscere che fu «il primo e l’unico che percorse un tratto di strada nel senso della ricerca della dimensione della temporalità» (ivi, p. 37). Inoltre, se esso abbandona questa ricerca lo fa perché «accetta dogmaticamente la posizione di Cartesio. […] Per effetto dell’assunzione della posizione ontologica di Cartesio, Kant omette una cosa essenziale: l’ontologia dell’Esserci» (ivi, p. 38).[/ref], collocandosi in terreni di confronto caratterizzati da una forte dinamica distruttiva – terreni nei quali Heidegger si sforza di prendere (apertamente) distanza dagli assunti cartesiani.
Tuttavia, al di là degli intenti programmaticamente dichiarati da Heidegger, si tenterà di mostrare come, offuscato dalla maestosa critica distruttiva, in Essere e tempo vi sia anche un tentativo (sempre prudente) di riappropriarsi di alcune energie racchiuse nel pensiero cartesiano, e mai espresse. Alla critica dell’omissione della mondità del mondo da parte di Cartesio, si farà seguire una breve analisi volta e mostrare il “volto di Giano” dell’interpretazione heideggeriana.

2.1. L’omissione cartesiana della mondità del mondo[ref]Tale critica si trova già, praticamente identica, nel § 22 dei Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., pp. 208-226). Tuttavia, poiché le ragioni che inducono Heidegger a confrontarsi con Cartesio sul terreno della mondità del mondo dipendono e dalla configurazione dell’analitica esistenziale del Dasein e dalla piena maturazione del suo progetto ontologico, e poiché questi aspetti trovano come luogo principe d’espressione Essere e tempo, si è preferito analizzare tale confronto in questo paragrafo.[/ref]

Se nei Prolegomeni alla storia del concetto di tempo Heidegger aveva già individuato l’aporia insolvibile alla quale giungeva la fenomenologia husserliana accettando l’assoluta separazione tra la coscienza intenzionale e l’oggetto intenzionato, tale che si sarebbe richiesta una “fuoriuscita” da una «“sfera interna” [ad] un’altra, “diversa ed esterna”»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 82.[/ref], in Essere e tempo dichiara l’insolvibilità di tale rapporto declinandolo nei termini di Esserci e mondo[ref]Se in precedenza si trattava di “assecondare” la fenomenologia, seguendola nel suo lacunoso terreno teoretico-gnoseologico, ora Heidegger “aggira” la problematica soggetto-oggetto affrontandola fin da subito dal punto di vista ontologico, ovvero esplicitandola nell’analitica esistenziale dell’Esserci.[/ref].
Affrontando, nel § 13, il problema della «conoscenza del mondo» Heidegger afferma

che ancor oggi il conoscere è assunto come una “relazione tra soggetto e oggetto”, il che è tanto “vero” quanto vuoto. Soggetto e oggetto non coincidono con Esserci e mondo.[ref]Ivi, p. 81. La drasticità con cui Heidegger nega tale raffronto è indicata ancor meglio da una nota a margine nella sua copia personale di Essere e tempo, accanto alla frase qui citata. Scrive: «Certo che no! Così poco che già con la combinazione risulta fatale anche la repellenza» (ibidem).[/ref]

Questa coincidenza è tanto meno opportuna, quanto più la tradizione filosofica si è impegnata a trovare nella relazione conoscitiva un “ponte” che, in diversi modi, fosse in grado di collegare le sponde, altrimenti separate, di soggetto e oggetto.
Tuttavia, lo ripetiamo, l’oscurità caratteristica del rapporto conoscitivo è causata dalla mancata posizione del problema ontologico. Solo ora è possibile capire fino in fondo la portata rivoluzionaria della posizione heideggeriana.

Trattare ontologicamente la relazione problematica, “enigmatica” tra soggetto e oggetto, tra uomo e mondo significa paradossalmente chiarire in primo luogo, e soprattutto, «perché mai il conoscere sia tale da costituire un simile enigma»[ref]Ivi, p. 82.[/ref], ovvero, se nel conoscere il rapporto tra uomo, in termini di Esserci, e mondo sia siffatto da portare inevitabilmente ad aporie di stampo teoreticistico o, piuttosto, non debba risolversi positivamente in una coappartenenza originaria di entrambi.
Infatti, dopo aver chiarito la costituzione fondamentale dell’Esserci come essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein)[ref]In particolare, Heidegger distingue i tre momenti che compongono la formula essere-nel-mondo, pur presentandola da subito come un «fenomeno unitario» (ibidem): «1) “nel mondo”: in ordine a questo momento occorre indagare la struttura ontologica del “mondo” e determinare l’idea di mondità come tale […]. 2) L’ente che è sempre nel modo dell’essere-nel-mondo […]. 3) L’in-essere come tale […]» (ivi, p. 73-74). Di particolare importanza sono le brevi considerazioni sull’in-essere proposte da Heidegger nel § 12 (cfr. ivi, p. 74), poiché introducono al “problema” della «conoscenza del mondo» (ivi, pp. 81), presentato come una «esemplificazione dell’in-essere attraverso un modo in esso fondato» (ibidem). La trattazione dell’in-essere come tale è svolta nel capitolo quinto della prima sezione (cfr. ivi, pp. 163-220).[/ref], Heidegger scrive:

Il conoscere è un modo di essere dell’Esserci in quanto essere-nel-mondo e […] ha la sua fondazione ontica in questa costituzione ontologica.[ref]Ivi, p. 82.[/ref]

Cadono i “ponti”. La necessità di trovare un legame tra un “dentro” e un “fuori” viene meno, se si comprende che «nel dirigersi verso … e nel cogliere, l’Esserci non esce da una sua sfera interiore, in cui sarebbe dapprima incapsulato»[ref]Ivi, p. 84.[/ref], ma che, in quanto Esser-ci, nella sua apertura «è cooriginariamente svelato rispetto al mondo […]»[ref]Ivi, p. 244.[/ref].
Non si tratta, quindi, nell’atto conoscitivo del mondo, di “uscire”, poiché l’Esserci è «già sempre “fuori” presso l’ente che incontra in un mondo già sempre scoperto»[ref]Ivi, p. 84.[/ref].

Nel § 43, contenuto nel sesto capitolo della prima sezione, Heidegger esplicita ulteriormente la questione, rapportandola al problema della realtà come essere del “mondo esterno” e della conseguente necessità di poterlo dimostrare. Dopo aver ribadito, stravolgendo una frase di Kant, che «“lo scandalo della filosofia” non consiste nel fatto che finora questa dimostrazione non è ancora stata data, ma nel fatto che tali dimostrazioni continuino ad essere richieste e tentate»[ref]Ivi, p. 249. [/ref], Heidegger, con tagliente chiarezza, afferma:

Il problema non è quello di dimostrare che e come sussista un “mondo esterno”, ma di spiegare perché l’Esserci, in quanto essere-nel-mondo, abbia la tendenza a relegare nel nulla il “mondo esterno” mediante una riduzione “gnoseologica”, per doverlo poi dimostrare come sussistente. La causa di tutto ciò sta nella deiezione dell’Esserci e nel conseguente smarrimento della comprensione primaria dell’essere mediante la sua interpretazione come semplice-presenza. All’interno di questo orientamento ontologico, l’impostazione “critica” del problema trova come realtà semplicemente-presente innanzi tutto e unicamente certa solo la mera “interiorità”. Dopo aver infranto il fenomeno originario dell’essere-nel-mondo, si cerca di gettare un ponte fra i suoi tronconi che rimangono, il soggetto isolato e il “mondo”.[ref]Ivi, p. 251. [/ref]

Quando Heidegger scrive queste righe si riferisce, come testimoniano le citazioni poco precedenti, a Kant[ref]«L’aggrovigliarsi dei problemi, la confusione fra ciò che si vuol dimostrare, ciò che è dimostrato e ciò con cui la dimostrazione è condotta si rivela nella “Confutazione all’idealismo” di Kant» (ivi, p. 247).[/ref]. Tuttavia non pare improbabile, ma, anzi, quasi inevitabile, viste le premesse tratte dai corsi marburghesi precedenti al 1927, estendere queste considerazioni anche alla posizione di Cartesio (come non ricordare, inoltre, che proprio la sesta delle Meditazioni aveva titolo L’esistenza delle cose materiali, e la distinzione reale della mente dal corpo?)[ref]R. Descartes, Meditazioni metafisiche, cit., p. 119.[/ref].

Non è un caso, quindi, che Cartesio compaia nei §§ 19-21 del terzo capitolo della prima sezione, interamente dedicatigli. Il titolo del punto B del terzo capitolo, in cui sono compresi i suddetti paragrafi, è fin troppo chiaro: «Contrapposizione dell’analisi della mondità all’interpretazione del mondo in Cartesio»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 115. Corsivo mio.[/ref]. Si tratta, dunque, da parte di Heidegger di opporre all’analisi ontologica del mondo, il cui significato genuino è tratto a partire dall’analitica esistenziale dell’Esserci, un contro esempio «negativo»[ref]Ibidem.[/ref] che possa mostrare «perché l’Esserci, nel modo di essere della conoscenza del mondo, salta onticamente e ontologicamente il fenomeno della mondità»[ref]Ivi, p. 88.[/ref].

Heidegger avanza subito una distinzione. Il termine substantia, pur indicando nel suo significato generale l’«essere di un ente che è in se stesso»[ref]Ivi, p. 116.[/ref], veicola due concetti fondamentali, di natura diversa: da un lato, l’essere di un ente che è in quanto sostanza, ovvero la sostanzialità, dall’altro, l’ente stesso, cioè una determinata sostanza. In seguito, relaziona tale distinzione alla teoria cartesiana della res corporea, chiedendosi se sia possibile determinare, a partire dai testi cartesiani, la sostanzialità della res corporea[ref]«La determinazione ontologica della res corporea richiede l’esplicazione della sostanza, cioè della sostanzialità di questo ente in quanto è una sostanza» (ibidem). Si legge nei Principi: «Ma poiché tra le cose create alcune son di tale natura da non poter esistere senza alcune altre, noi le distinguiamo da quelle che non hanno bisogno che del concorso ordinario di Dio, chiamando queste sostanze, e quelle, qualità o attributi di queste sostanze» (R. Cartesio, Principi della filosofia, cit., p. 52).[/ref].
Ogni sostanza possiede degli “attributi”: proprietà specifiche della sostanza stessa capaci di esprimerne «l’essenza della sostanzialità»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 116.[/ref]. L’attributo che esprime la sostanzialità della sostanza corporea è rintracciato da Heidegger nell’extensio: «L’essere della res corporea è l’extensio»[ref]Ivi, p. 118.[/ref].

Individuata qual è la sostanzialità (l’essere) della res corporea, Heidegger prosegue cercando di verificarne la legittimità dei fondamenti ontologici. Sennonché, Heidegger, richiamandosi ai Principi («Ma quando si tratta di sapere se qualcuna di queste sostanze esiste veramente, cioè se essa è attualmente nel mondo, non basta che esita in questo modo perché noi la percepiamo […]. Bisogna, oltre di questo, che essa abbia alcuni attributi»)[ref]R. Cartesio, Principi della filosofia, cit., p. 52 (corsivo mio). La citazione, riportata in latino, è in M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 120.[/ref], sottolinea l’ambiguità in cui cade vittima Cartesio, riconoscendo nell’estensione la sostanzialità della sostanza corporea e insieme dichiarando la sostanzialità inaccessibile in se stessa a partire sa se stessa, ma coglibile solo tramite un suo attributo.
Stando così le cose, è evidente per Heidegger che Cartesio confonde il principale attributo della res corporea, ovvero l’extensio[ref]Si legge nel 53 dei Principi: «Ma, benché ogni attributo sia sufficiente per far conoscere la sostanza, ve n’ha tuttavia uno in ognuna, che costituisce la sua natura o essenza, e dal quale tutti gli altri dipendono. Cioè l’estensione […] costituisce la natura della sostanze corporea; ed il pensiero costituisce la natura della sostanza pensante» (R. Cartesio, Principi alla filosofia, cit., pp. 52-53). [/ref], con il suo carattere dell’essere, in un’ambiguità generale che gli impedisce di comprendere l’autentica sostanzialità della sostanza corporea. Heidegger, quindi, può conclude asserendo che

in questa determinazione della sostanza in base a un ente sostanziale sta la ragione del doppio significato del termine. Si mira alla sostanzialità e la si intende come una qualità ontica della sostanza. Poiché l’ontico sottende l’ontologico, l’espressione substantia è intesa ora in senso ontologico, ora in senso ontico, ma per lo più in un senso confusamente ontico-ontologico.[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 121.[/ref]

Cartesio omette la trattazione autentica della mondità del mondo, credendo di aver trovato nell’estensione l’essere dell’ente. Ciò che più di ogni cosa lo ostacola nell’elaborare un’ontologia del mondo è, per Heidegger, «il predominio incontrastato dell’ontologia tradizionale»[ref]Ivi, p. 123.[/ref], la quale è soprattutto: «essere = semplice-presenza costante»[ref]Ibidem. Il ragionamento heideggeriano può così esser riassunto: è importante stabilire una via d’accesso privilegiata al fenomeno della mondità; tale via è ricavata da Cartesio «nel conoscere, l’intellectio» (ivi, p. 122); tale conoscere è inteso «nel senso del conoscere fisico-matematico» (ibidem); nel rapporto conoscitivo matematico, l’ente conosciuto è «caratterizzato dall’esser sempre ciò che è. Ne deriva che si assumerà come essere autentico dell’ente che si esperisce nel mondo quello di cui si potrà dimostrare il carattere di permanenza costante […]. È autenticamente ciò che permane perennemente» (ibidem).[/ref].
Dunque, di contro ad ogni sottolineatura del carattere matematico del pensiero cartesiano, che pur è presente, Heidegger tuttavia riconosce come

ciò che determina l’ontologia del mondo [come extensio] non è in primo luogo il ricorso a una scienza casualmente privilegiata, la matematica, ma l’assunto ontologico fondamentale dell’essere come semplice-presenza costante.[ref]Ivi, p. 123. Un passo del § 43 recita: «Se l’espressione “realtà” significa, come infatti significa, l’essere dell’ente (res) semplicemente-presente dentro il mondo, l’analisi di questo modo di essere dovrà attenersi al seguente principio: l’ente che è dentro il mondo, l’ente intramondano, è determinabile ontologicamente solo se è stato chiarito il fenomeno dell’intramondanità. Ma quest’ultima si fonda nel fenomeno del mondo, il quale, da parte sua, in quanto momento essenziale della struttura dell’essere-nel-mondo, rientra nella costituzione fondamentale dell’Esserci. L’essere-nel-mondo, a sua volta, è legato ontologicamente a quella totalità strutturale dell’essere dell’Esserci che fu caratterizzata come Cura. Sono questi i fondamenti e gli orizzonti la cui chiarificazione rende possibile l’analisi della realtà. Solo in questo contesto diviene comprensibile ontologicamente il carattere dell’in-sé» (ivi, pp. 253-254). Inoltre, si sottolinea, come già fatto, la dipendenza, anche qui espressa, di Cartesio con la tradizione. Solo che, questa volta, l’accento è posto da Heidegger più che sull’influenza esercitata dalla scolastica nel caratterizzazione la res come ens creatum, su Parmenide, ovvero sull’«inizio di quella tradizione ontologica […] che restò per noi decisiva» (ivi, pp. 127-128).[/ref]

Di fronte a tutte queste “mancanze” di Cartesio, inaspettatamente Heidegger non indietreggia voltando bruscamente le spalle ad ogni contenuto speculativo presente nei testi cartesiani, ma tenta un recupero in extremis di alcune posizioni filosofiche di fondo.
Due tentativi di recupero, in verità: il primo, più evidente ed esplicito, in relazione alla mondità del mondo e il secondo, estremamente più prudente, nella relazione cogito sum/res cogitans.

2.2. “ … mi sono state rivolte solo due obiezioni degne di nota”

Forse stupisce, considerato il percorso heideggeriano precedente ad Essere e tempo, che Heidegger, nei capitoli dedicati a Cartesio, là dove impiega il maggior numero di energie per realizzare il suo progetto distruttivo, si impegni, seppur timidamente, in una valorizzazione degli sforzi cartesiani di individuare un carattere dell’ente-mondo quanto più vicino a costituirne l’essere.
Heidegger, sorprendentemente, sostiene che nelle Meditazioni Cartesio non fosse solo preoccupato di «porre il problema “dell’io e del mondo” ma pretendesse risolverlo in modo radicale»[ref]Ivi, p. 125. Subito dopo, però, Heidegger chiarisce: «Se poi il suo orientamento ontologico di fondo sulla tradizione, alieno da ogni critica positiva e fedele, gli abbia reso impossibile scoprire una problematica ontologica dell’Esserci ordinaria e gli abbia inevitabilmente precluso l’accesso al fenomeno del mondo, provocando il capovolgimento dell’ontologia del “mondo” nell’ontologia di un determinato ente intramondano, tutto questo è quanto la discussione ora fatta intendeva dimostrare» (ibidem).[/ref].

Heidegger individua tale tentativo cartesiano di risolvere radicalmente il problema del rapporto uomo-mondo, senza ridurlo immediatamente ad una relazione gnoseologica tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, nella fondazione da parte della res extensa di tutte «le determinazioni che si presentano come qualità, ma che, “in fondo”, sono modificazioni quantitative dei modi dell’extensio stessa»[ref]Ivi, pp. 125-126, corsivo mio.[/ref]. Da queste “qualità” derivano poi, secondo Cartesio, delle qualità specifiche[ref]«Come il bello, il brutto, l’adatto, il non adatto, il conveniente e il non conveniente» (ibidem).[/ref], categorizzabili come «predicati di valore non quantificabili, in virtù dei quali le cose, dapprima soltanto materiali, vengono fornite di valore»[ref]Ibidem, corsivo mio.[/ref].

In questa caratterizzazione qualitativa e non quantitativa basata su quell’ente «che fonda nel suo essere ogni altro ente, cioè la natura materiale»[ref]Ivi, p. 125.[/ref], Heidegger vede prender forma la configurazione di quest’ente stesso come «mezzo utilizzabile»[ref]Ivi, p. 126.[/ref].
In chiusa al § 21, Heidegger scrive:

Se tuttavia si ricorda che la spazialità contribuisce evidentemente a costituire l’ente intramondano, diviene alla fine possibile un “salvataggio” dell’analisi cartesiana del “mondo”. Concependo il termini radicali l’extensio come praesuppostium di ogni determinazione della res corporea, Cartesio ha preparato la comprensione di un a priori il cui contenuto sarà fissato più rigorosamente da Kant. Entro certi limiti l’analisi dell’‘extensio’ resta indipendente dalla omissione di un’interpretazione esplicita dell’essere dell’ente stesso. L’assunzione dell’extensio come determinazione fondamentale del “mondo” ha un suo diritto fenomenologico […] [ref]Ivi, p. 128. In realtà Heidegger osserva grande cautela nell’attribuire meriti a Cartesio; infatti, dopo aver chiarito la possibilità che l’assunzione cartesiana dell’estensione  come sostanzialità della sostanza materiale si dia come fondamento per la costituzione dell’ente intramondano – attraverso la derivazione, dall’extensio, di proprietà di valore –, ricorda che Cartesio, «in verità, […] non colse l’essere della sostanza» (ivi, p. 127), in quanto, come detto prima, l’extensio è, di questa, un attributo – il principale, ma tale da non costituirne l’essere, comunque inaccessibile. Inoltre, Cartesio non riesce a svincolarsi dall’ontologia tradizionale che intende l’essere come semplice-presenza, e anche nella formulazione dei predicati di valore (i quali dovrebbero introdurre ad una definizione dell’ente intramondano, e quindi avvicinarsi ad una caratterizzazione della mondità del mondo), i valori stessi «sono determinazioni semplicemente-presenti di una data cosa. L’aggiunta di predicati di valore non può affatto fornire alcuna nuova spiegazione sull’essere dei “beni”, ma non fa che presupporre, anche per essi, il modo di essere della semplice-presenza» (ivi, p. 126). La conclusione a cui giunge Heidegger non può che essere coerente con il quadro programmatico generale di Essere e tempo e con le considerazioni fin qui svolte: «[…] il ricorso a essa [l’extensio] non rende possibile la comprensione ontologica della spazialità del mondo e della spazialità, scoperta per prima, dell’ente che si incontra innanzi tutto nel mondo-ambiente, e tanto meno la spazialità dell’Esserci stesso» (ivi, p. 128).[/ref]

Heidegger, quindi, pur consapevole che le posizioni cartesiane non possono in alcun modo (almeno nei loro punti essenziali) accordarsi al suo progetto filosofico, in quanto a respingersi vicendevolmente sono le stesse fondamenta ontologiche, tenta una valorizzazione proprio di queste posizioni, che pur si impegna a distruggere.
Il luogo in cui Heidegger, però, rischia “il tutto per tutto” è la distinzione tra res cogitans ed ego cogito, nel tentativo di condurle a due diverse modalità d’essere dell’Esserci.

Seguendo l’accurata analisi di Roberto Morani[ref]Di notevole spessore ermeneutico sono le considerazioni di Morani (qui richiamate) in merito al duplice atteggiamento di Heidegger nei confronti delle posizioni cartesiane. Cfr. R. Morani, Heidegger, Cartesio e la questione del soggetto, in Soggetto e modernità, cit., pp. 243-361. In particolare, sono rilevanti, per questi riguardi, le pagine conclusive del par. 3.2.3. (cfr. ivi, pp. 278-281), quelle del par. 3.2.4. (cfr. ivi, pp. 293-295) e, infine, l’intero punto ‘c’ del par. 3.2.5. (cfr. ivi, pp. 308-320).[/ref], si nota che, già a partire dagli anni Venti, Heidegger «instaura un duplice movimento di demarcazione e di riappropriazione della soggettività cartesiana, più precisamente di distacco dalla res cogitans e di presa di possesso dell’ego sum, in quanto anticipazione del Dasein»[ref]Ivi, p. 308.[/ref].
Non si può, quindi, guidati da questi suggerimenti interpretativi, restare indifferenti a quanto scritto da Heidegger in chiusura del punto ‘b’ del § 43:

Se il cogito dovesse servire come punto di partenza dell’analitica esistenziale dell’Esserci, esso dovrebbe non solo essere invertito, ma altresì sottoposto ad una nuova verifica ontologico-fenomenologica del suo contenuto.[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 256. Corsivo mio.[/ref]

Due aspetti di questa frase lasciano sconcertati.
Il primo: nello sforzo heideggeriano di formulare un’analitica dell’Esserci, capace di evidenziarne le forme autentiche e quelle deiette, con lo scopo di prendere da queste ultime le distanze – che si traduce nel congedo di una «soggettività autocentrata [in favore di] una figura eterocentrica del soggetto»[ref]R. Morani, Soggetto e modernità, cit., p. 257.[/ref] – Heidegger, dopo aver chiaramente criticato Cartesio per le sue omissioni ontologiche, arriva a ipotizzare che il cogito possa tradursi positivamente nel punto di partenza dell’analitica esistenziale stessa[ref]«Il fatto stesso che Heidegger lo riproponga [il cogito …] deve essere soprattutto inteso come la cauta e circospetta ammissione, prudentemente dissimulata dal periodo ipotetico, dello stretto legame fra l’ego e il Dasein, dell’assunzione entro il proprio pensiero dell’eredità cartesiana» (ivi, p. 309).[/ref].
Il secondo: non solo il cogito cartesiano viene, per un breve momento, investito di una dignità tale da presentarlo come momento preparatorio dell’analisi sull’Esserci, ma se ne auspica anche una rilettura fenomenologica capace di tradurre le sue potenzialità inespresse e di portare a manifestazione ciò che in esso non si è (ancora) manifestato. Heidegger, quindi, spiega in cosa consisterebbe questa «nuova verifica» e continua scrivendo:

La prima parte diverrebbe allora il sum e precisamente nel senso di: io-sono-in-un-mondo. In quanto tale, io «io sono» nella possibilità di esser-per diversi comportamenti (cogitaziones) quali modi di esser-presso l’ente intramondano.[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 256.[/ref]

L’inversione di cogito sum in sum cogito permette a Heidegger di «radicare le cogitationes nella trascendenza del soggetto»[ref]R. Morani, Soggetto e modernità, cit., p. 310.[/ref], e assumere l’espressione sum cogito in una prospettiva fenomenologica tale da poter portare alla luce ciò che lo stesso Cartesio non aveva colto. Le potenzialità inespresse del cogito sono sì riconosciute da Heidegger che, se possibile, si spinge oltre.
Richiamandosi alla distinzione, esaminata in precedenza, che sussiste nella formulazione cartesiana di un soggetto pensante – tale che si avrebbe, in un primo momento, l’esistenza di un io e, successivamente, la determinazione di questo ego come res cogitans – Heidegger, dopo aver recuperato positivamente la formula sum cogito, cerca di guadagnare, appellandosi al reciproco richiamarsi di existere ed egoego sum, ego existo»), un altro fondamentale elemento della costituzione ontologica del Dasein: la Jemeinigkeit. Scrive Morani:

Declinando l’essere alla prima persona, per non confonderlo con una proprietà necessaria e neutra posseduta da una sostanza, Cartesio opera la conversione egologica dell’ontologia e pertanto determina, almeno auroralmente l’essere del sum.[ref]Ivi, p. 312.[/ref]

Assunte queste considerazioni, sembrerebbe che Heidegger veda nella soggettività cartesiana, al di là di tutto, un precoce (e positivo) presentarsi di alcune fra le caratteristiche ontologiche più importanti dell’Esserci. Tuttavia, per quanto l’importanza di queste osservazioni sia sempre minata da un’ambiguità di fondo, ci sono almeno due aspetti che non possono non essere rilevati; aspetti che fanno emergere, contro lo sforzo heideggeriano di recupero, la ben più tenace forza con cui Heidegger si distanzia da Cartesio.

La prima questione da rilevare è il riferimento dell’ego sum con la Jemeinigkeit. Se è vero che Heidegger, implicitamente, cerca di avvicinare questi due fenomeni, sottolineandone la somiglianza nel riferimento dell’io all’essere, è anche (e soprattutto) vero che questi si esprimono in modi totalmente diversi nei due autori. Se per Cartesio, il fatto di esistere (che lui fosse esistito) è «impossibile che non sia vero»[ref]R. Descartes, Meditazioni Metafisiche, cit., p. 41.[/ref], per Heidegger l’essere dell’Esserci è, sì, «sempre mio»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 60.[/ref], ma in una modalità d’essere che l’essenza, ovvero l’esistenza «di questo ente consiste nel suo aver-da-essere»[ref]Ibidem.[/ref].

L’indubitabilità di esserci (di esistere) riscontrabile in Cartesio, nella quale ego e sum sono legati indissolubilmente da una conoscenza di tipo teoretico-matematica, non è per Heidegger assolutamente accostabile al fenomeno autentico dell’Esserci, il quale «comprende sempre se stesso in base alla sua esistenza, cioè in base a una possibilità che ha di essere o non essere se stesso»[ref]Ivi, p. 25. Corsivo mio. Dirà anche Heidegger: «L’essere di questo ente è sempre mio. Nell’essere che è proprio di esso, questo ente stesso si rapporta al proprio essere. Come ente di questo essere, esso è rimesso al suo aver-da-essere» (ivi, p. 60). Cfr. M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, a cura di F.-W. von Herrmann, ed. it. a cura di A. Fabris, intr. di C. Angelino, Il melangolo, Genova, 1988, pp. 147-150.[/ref].
Il secondo aspetto che induce Heidegger a dissociarsi dalla posizioni cartesiane è rintracciabile nella ricaduta sostanzialistica dell’ego: nel passaggio dall’ego sum alla res cogitans Cartesio smarrisce per sempre tanto il (possibile) positivo riferimento di ego ed esse, quanto la possibilità di fondare un’ontologia svincolata dalle determinazioni imposte dalla Scolastica.

Nel § 6 Heidegger, scrivendo che Cartesio «lascia indeterminato […] il modo di essere della res cogitans»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 38.[/ref], specifica che «non poteva che omettere il problema dell’essere [poiché] conduce le sue indagini fondamentali nel senso di un’applicazione dell’ontologia medievale»[ref]Ibidem.[/ref], quindi restando ancorato ad una visione che concepisce «l’ente […] nel suo essere come “presenzialità”»[ref]Ivi, p. 39.[/ref].

Per concludere, si può dire che l’interpretazione heideggeriana di Cartesio si presenta, all’interno di Essere e tempo, duplice: al progetto di «distruzione fenomenologica» dell’ontologia cartesiana[ref]Forse, a ben guardare, sarebbe più opportuno parlare di non-ontologia cartesiana, per due motivi: primo, perché Cartesio, come sottolineato continuamente da Heidegger già nel corso del 1925, non si pone né il problema dell’essere dell’uomo, né il problema dell’essere in generale; secondo, perché, se in Cartesio è riscontrabile un’ontologia, essa non è assunta come problematica specifica del suo filosofare, ma assimilata passivamente dalla Scolastica.[/ref], segue un tentativo, seppur debole, di recuperare alcune funzionalità del pensiero cartesiano. È interessante notare il diverso atteggiamento adottato da Heidegger, nei confronti del filosofo francese, negli anni Trenta/Quaranta e quello negli anni marburghesi fino al 1927. Se le riflessioni del “secondo” Heidegger sembravano circoscrivere Cartesio in un ben delineato hic et nunc storico, nel quale non poteva dialogare se non, necessariamente, con Nietzsche, ora Heidegger pare “liberare” Cartesio da qualsivoglia necessità storica, e, tramite una serrato confronto col suo pensiero, porlo in sinergia col Dasein.

Tale accostamento Cartesio-Dasein, infine, sembra essere costitutivamente diverso da quello Cartesio-Nietzsche. Se, in quest’ultimo, Heidegger “paralizza” i due pensatori, facendo convergere i loro rispettivi pensieri in un continuum storico nel quale si svela la necessità del fondamento, ora la soggettività cartesiana e l’analitica dell’Esserci sono complici di una dialettica capace di far “rimbalzare” il passato nel presente, reinvestito, quindi, della sua natura di possibilità[ref]A tal proposito, risulta esemplificativo il tentativo heideggeriano di individuare, all’interno della storia della filosofia occidentale, i sedimenti della cura della conoscenza conosciuta, col fine di mostrare come l’esito teoreticistico a cui giunge la fenomenologia husserliana non sia inevitabile, necessitato da alcunché: «Con il ritorno a Cartesio e con l’esplorazione della storicità della Sorge um die erkannte Erkenntnis, Heidegger si propone di sottrarre all’oggi all’oggi il suo carattere violento di dato indiscutibile e autoevidente: denunciare le radici storiche della configurazione cognitiva, osservativa e scientifica della cura equivale a strappare al presente il volto implacabile della necessità» (R. Morani, Soggetto e modernità, cit., p. 259): questa logica, che nel primo Heidegger si impone diffusamente, è successivamente oscurata dalla nuova struttura ontologica che domina l’operazione ermeneutica del Nietzsche.[/ref].

Luca Bianchin si è laureato all’Università degli Studi di Padova, discutendo con il professor Giovanni Gurisatti una tesi dal titolo Il pudore del pensiero. Una ricostruzione filosofica del percorso intellettuale di Franco Volpi (2014). Nel 2012 pubblica, insieme a un gruppo di studenti e docenti dell’Università di Padova, un volume collettaneo contente gli atti di un seminario svoltosi nel 2011 a Conco (Filosofia&Montagna [a cura di], Montagne mute, discepoli silenziosi. Percorsi di filosofia della montagna, il Poligrafo, Padova, 2012).

Bibliografia

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BERTACCO D., Descartes e la questione della tecnica, presentazione di G. Brianese, il Poligrafo, Padova, 2003;

CRAPULLI G., Introduzione a Descartes, Laterza, Roma-Bari, 2005;

GARIN E., La vita e le opere di Cartesio. Notizia biobliografica, in Cartesio. Opere, cit., vol. I, pp. VII-CLXXXVI;

LOJACONO E., Le letture delle Meditazioni di Jean-Luc Marion, in J.-R Armogathe e G. Belgioioso (a cura di) Descartes metafisico, cit., pp. 129-151;

MARION J.-L., Il prisma metafisico di Descartes. Costituzioni e limiti dell’onto-teo-logia nel pensiero cartesiano, trad. it. F. C. Papparo, Guerrini e Associati, Milano, 1998;

VALÉRY P., Il suono della voce umana. Variazioni su Cartesio, a cura di F. C. Papparo, Filema, Roma, 2008.

5) Studi su Martin Heidegger citati o di riferimento (in ordine alfabetico):

MASULLO A., La «cura» in Heidegger e la riforma dell’intenzionalità husserliana, in «Archivio di filosofia», LVII, 1-3, 1989, pp. 377-394;

VITIELLO V., Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla ‘Überwindung der Metaphysik’ alla ‘Daseinsanalyse’, Argalìa, Urbino, 1976;

VITIELLO V., Utopia del nichilismo. Tra Nietzsche e Heidegger, Guida, Napoli, 1983;

VOLPI F., (a cura di), Guida a Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 2008;

VOLPI F., ‘Itinerarium mentis in nihilum’. Heidegger e l’ascesi del pensiero, in «Archivio di filosofia», LVII, 1-3, 1989, pp. 239-264;

VOLPI F., La trasformazione della fenomenologia da Husserl ad Heidegger, in «Teoria», IV, 1, 1984, pp. 125-162.

6) Altre opere citate o di riferimento (in ordine alfabetico):

PLATONE Sofista, intr., trad. it. e note di F. Fronterotta, BUR, Milano, 2008.

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