Il virus della Sacra Famiglia

di Laura Paulizzi

 

Il discorso di G. Conte del 26 aprile scorso, in cui sono state annunciate le nuove disposizioni per la fase 2 dell’emergenza sanitaria, ha messo in evidenza due aspetti della nostra società che meritano di essere approfonditi, soprattutto in seguito allo scalpore suscitato dall’inadeguatezza dei termini utilizzati. In particolare, ascoltando le parole del Presidente del Consiglio, è emersa l’assenza di un lessico confacente alle dinamiche sociali eterogenee del nostro tempo; questo significa che oggi viviamo uno scarto tra la parola e i processi relazionali a cui questa assegna un significato coerente e universale. 

Se da un lato il linguaggio ha perso la sua aderenza con la realtà, dall’altro, quella stessa realtà, non più riducibile a definizioni ordinarie finora funzionali, deve essere ripensata a partire da quei pilastri che ne fondano il tessuto politico e culturale: famiglia e lavoro. Questi due elementi sono stati i veri protagonisti della crisi che stiamo attraversando, e proprio nel momento inaugurale della nuova fase acuiscono la loro problematicità. Tra le motivazioni per gli spostamenti concessi a partire dal 4 maggio ci sono infatti: comprovate esigenze lavorative e spostamenti mirati per far visita a congiunti. La condizione di “congiunto” è stata in seconda battuta e con difficoltà riformulata come “rapporto di parentela e stabili relazioni affettive”, e infine chiarita goffamente dal Viceministro Sileri che include in queste relazioni anche l‘amico, ma quello vero. 

I primi a esprimere il loro dissenso come rappresentanti di una minoranza sociale importante, sono stati Gabriele Piazzoni (segretario generale dell’Arcigay), che ha sottolineato come al di fuori del legame biologico lo stato non veda e non riconosca altre realtà, e Fabrizio Marrazzo (portavoce del Gay Center), che ha lamentato il ricorso a logiche di parentela ottocentesche. 

In effetti, è proprio tra il XVIII e il XIX secolo che si delinea una nuova immagine di donna e di uomo, non più nelle sole vesti di madre e padre, sudditi di uno potere sovrano, ma in quanto liberi cittadini. Nel 1800 è il passaggio dalla famiglia alla società civile, per dirla con Hegel, ad assicurare agli individui la loro emancipazione da dinamiche famigliari basate sul sentimento, sui legami di sangue e su quei ruoli che il focolare domestico conserva nella loro stabilità e immutabilità. Uscendo dalla famiglia, infatti, una donna non è più figlia, madre o moglie, ma una persona che incontra altre persone e si esprime attraverso nuovi linguaggi. La separazione dalla famiglia comporta la perdita di tutte le categorie in essa vigente, e conseguentemente l’acquisizione di nuove conoscenze, attraverso quelle dimensioni relazionali che le mura domestiche non ci consentono di esperire.

Il passaggio dalla famiglia alla società implica la perdita della propria identità come membro di essa, e l’assunzione di un’autonomia che si realizza nel lavoro, nell’arte e in tutte le connessioni inedite che solo l’uscita e la separazione dal focolare domestico garantiscono. Al di fuori di esso si conquistano indipendenza, autonomia e diversità. È proprio una nuova immagine di sé, non più come semplice membro di un nucleo fondato sull’appartenenza biologica, che la famiglia per sua stessa natura non ammette. Essa, infatti, non è che lo stadio inaugurale del processo di realizzazione di un individuo, quello più vicino a una dimensione naturale dell’umano, dove vigono quelle consuetudini che in uno spazio sociale extra-famigliare risultano inadeguate, in quanto non adatte a riflettere la più complessa identità che una donna, ad esempio, realizza quando smette di essere madre, figlia e moglie. Il tessuto relazionale che lo spazio sociale fonda e garantisce, è il  superamento di ciò che era stato stabilito come valido all’interno di un contesto domestico. È in questo luogo che si realizza la volontà dell’individuo, quindi la sua libertà. Da un lato la libertà da precetti e dogmi che spesso strutturano l’educazione imposta dall’habitus famigliare, dall’altro, la libertà di essere responsabile del proprio agire mediante un mutuo riconoscimento sociale: “La civiltà pertanto nella sua determinazione assoluta è la liberazione e il lavoro della superiore liberazione, cioè l’assoluto punto di passaggio alla sostanzialità non più immediata, naturale, dell’eticità, bensì spirituale, infinitamente soggettiva, in pari tempo innalzata alla figura dell’universalità”. [ref] G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. di G. Marini, Bari, Laterza, 2021, §187, p. 158.[/ref] 

Il passaggio dalla famiglia alla società civile, consente all’individuo di uscire da uno stadio naturale e soggettivo della propria esistenza, per abbracciare una dimensione universale dell’esistere che sia riconosciuta da tutti, non in funzione dell’appartenenza biologica da cui deriva, ma dal suo essere un soggetto agente, responsabile e libero di infrangere quelle leggi imposte dalla naturalità primordiale da cui la vita sviluppandosi si separa. L’individuo, nello spazio sociale, non è un membro della propria famiglia, ma parte di un contesto universale dove vige una normatività il cui principio non è il sentimento che lega i famigliari, ma la razionalità del diritto che lo stato incarna, tutelando e comprendendo questa eterogeneità.  

Figlia del retaggio cattolico-ortodosso patriarcale che domina la nostra cultura, la famiglia, più che essere mantenuta e conservata nella propria sacralità, va ripensata come primo momento di un processo di emancipazione e di realizzazione di sé, affinché diventi il punto di partenza e non il fine dell’uomo. 

In ciò che concerne l’altro virus che infetta il paese ormai da molti anni, la disoccupazione, possiamo dire di essere tornati a uno stato “pre-costituzionale” dell’esistenza. Nel nostro paese, uno dei mezzi di emancipazione dell’uomo, ma soprattutto della donna, è proprio il lavoro, che, come recita l’articolo 1, fonda l’Italia in quanto repubblica democratica, la cui sovranità, è bene ricordarlo, “appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Non tutte le classi dei lavoratori sono state colpite allo stesso modo dalla crisi sanitaria; ad alcuni non è cambiato molto, altri sono costretti a lavorare in condizioni disumane, e molti hanno perso il lavoro. Tra tutte le categorie, una in particolare resta invisibile agli occhi di questa società, quella degli artisti. Essi non vengono riconosciuti in quanto lavoratori, non sono rappresentati da alcun ente, e non costituiscono l’oggetto di un dibattito politico. Una testimonianza di questo mancato riconoscimento ci è giunta su un articolo apparso il 29 aprile su Repubblica di Bologna. Il cantante di un gruppo romagnolo stava andando a recuperare i suoi strumenti musicali, con tanto di foto e video dei live sul telefono e addirittura un articolo stampato per dimostrare la partecipazione del suo gruppo a un talent show italiano. Ora, il motivo dell’autocertificazione non ha convinto i carabinieri che, ritenendo che quello del musicista è un hobby e non un lavoro, lo hanno multato in “assenza di comprovate esigenze lavorative”. 

L’arte è l’inconscio dell’umanità, la sua più potente forza creativa. Nata, secondo Bataille, 18 mila anni fa all’interno di una caverna a Lascaux, dove l’uomo con le prime pitture rupestri si distingueva dalla bestia, innalzandola “al di sopra dei compiti subordinati che accettava, dettati dalla religione o dalla magia”. In un paese come l’Italia, il cui patrimonio artistico la distingue da tutto il mondo, gli artisti riflettono l’assenza di un linguaggio in grado di esprimerne la loro identità. Un’identità che schiude una dimensione estetica non riducibile ai freddi meccanismi che governano l’odierna visione del lavoro, e che non si lascia sottomettere, proprio per la sua dionisiaca vitalità, al carattere razionale entro cui si tenta brutalmente di contenere la complessità dell’umano.

Il covid-19, da un lato, ci ha costretti a un ritorno alla casa e alla famiglia, dunque, a una dimensione primordiale della vita, in cui si è imposta una normalizzazione dell’agire umano, promossa da una propaganda mediatica che  non fa che alimentare questo conformismo. Dall’altro, non solo ci priva di quella dimensione estetica e creatrice mediante cui l’uomo si è congedato dalla sua mera animalità, ma dà voce a istituzioni che non ne riconoscono l’esistenza. 

Siamo tornati a vivere nel “si” heideggeriano (das Man), espressione di una condizione non autentica dell’esistenza, priva di scelta, in cui si lavora, si comunica, ci si esprime, sotto la stessa modalità e a prescindere dalle nostre specificità. Siamo nel dire del senso comune, molto lontano da quella chose du monde la mieux partagée di  Descartes, più vicino all’ordinario discorso dissociato che lacera l’individuo moderno. 

Il polverone sollevato dai termini che avrebbero dovuto chiarire le indicazioni da seguire in questa nuova fase, è giustificato, ma bisogna comprenderne le ragioni. Stiamo soffrendo l’assenza di un linguaggio che non è più in grado di dire la diversità della vita. Un linguaggio che non vede e non riconosce l’arte, in tutte le sue forme, come pars construens della nostra umanità; non considera la vita se non in funzione del suo carattere organico e biologico, sacrificando la dimensione universale e non razionale dell’umano che sola assegna alle donne e agli uomini la loro unicità.

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