T. Morton, Iperoggetti. Filosofia ed ecologia dopo la fine del mondo, Nero 2018

 

Timothy Morton

Iperoggetti. Filosofia ed ecologia dopo la fine del mondo

Nero, Roma 2018, pp. 279, € 20,00.

 

 

 

 

 

A partire dal titolo Un terremoto nell’Essere dell’introduzione alla sua opera Iperoggetti (2013), Morton presenta una nuova classe ontologica di oggetti, con cui la filosofia è chiamata a confrontarsi oggi nel dibattito ecologico, ontologico e politico, «che consiste in primo luogo nel precedere il pensiero» (p. 36) di fronte all’urgenza del riscaldamento climatico. Gli iperoggetti vengono presentati come realtà enormemente più vaste dell’individuo, a cui appartengono fenomeni ecologici come il riscaldamento globale, il petrolio, i rifiuti tossici, ma anche il Capitale, l’evoluzione, l’inconscio, fino a estendersi alla biosfera e ai buchi neri. Questi sono oggetti che inglobano l’uomo, in un’ontologia dove «a contare come oggetti sono anche le relazioni tra gli oggetti e all’interno degli oggetti stessi» (p. 152). Invece di considerare gli oggetti come cose in sé, Morton evidenzia che ogni oggetto è in realtà un iperoggetto, contenitore e contenuto allo stesso tempo in altri oggetti su diversi livelli di realtà, che compongono il tema dei capitoli del libro.

Questi oggetti vengono studiati attraverso il campo della Object-Oriented-Onthology fondata dal filosofo Graham Harman, per cui gli iperoggetti sono entità reali «la cui essenza ultima è preclusa agli esseri umani» (p. 28). Rielaborando l’assunto kantiano dove la conoscenza è conoscenza umana racchiusa in un mondo, dato che in Kant il soggetto conoscente si pone come filtro epistemologico tra il fenomeno (la cosa per come appare) e il noumeno (la cosa in sé, inconoscibile), la OOO rifiuta e amplifica a un tempo l’antropocentrismo kantiano, concentrandosi sulla realtà oggettuale indipendentemente dalla percezione intersoggettiva. Caratteristica della nuova oggettualità è che «l’intersoggettività è solo un esempio particolare, molto familiare per gli esseri umani, di interoggettività» (p. 111). Il soggetto in sé scompare, e può esistere solo come un particolare oggetto in relazione ad altri oggetti, che persistono nella loro identità sfuggevole nonostante l’esistenza umana, «la stranezza risiede negli oggetti stessi, non nell’interpretazione che ne facciamo» (p. 205). Umani e non-umani sono parti di reti, «un’interconnessione che non permette una perfetta trasmissione priva di perdite di informazione, ma che al contrario è costituita anche da buchi e vuoti» (p. 112).

Morton spiega che l’uomo non può cogliere gli iperoggetti nella loro interezza in primo luogo perché questi sono non-locali, termine tecnico mutuato dalla meccanica quantistica, e ondulatori temporalmente, cioè distribuiti diffusamente nel tempo e nello spazio, oltre la durata della vita umana. Rifacendosi alla relatività di Einstein, spazio e tempo emergono dagli oggetti stessi a causa della loro massa, e non possono esistere corpi rigidi estesi, perché ciò violerebbe il limite della velocità della luce. «Ne viene che l’universo fisico consiste di oggetti che assomigliano più alle turbolenze di una corrente che a corpi estesi» (p. 86). Esaminando il comportamento dell’elettrone, Morton espone, riprendendo il fisico Bohm, la non-località degli iperoggetti come l’impossibilità di poter dire che qualcosa abbia proprietà intrinseche, «non esistono particelle in quanto tali, non esiste la materia in quanto tale, esistono solo oggetti quantici discreti» (p. 65). La discrezione è dovuta al fatto che a causa del principio di indeterminazione di Heisenberg, quando si osserva un fotone o un elettrone con un dispositivo di misurazione, «almeno un aspetto dell’osservato gli è precluso» (p. 60). Ciò vale sia alle scale dei quanti, sia a livelli di realtà maggiori, dove viene ripreso il riscaldamento globale come esempio madre, di cui per l’autore è impossibile avere una visione d’insieme, perché questo si mostra di volta in volta come tante realtà e situazioni particolari tra loro. Singoli eventi riconducibili a uno stesso fenomeno, ma non correlati causalmente da nessun rapporto estetico che possiamo intrattenere con essi, spingono per Morton verso una ripresa del sistema causale humeano «entro cui associazione, correlazione e probabilità sono gli unici fattori su cui si possa fare affidamento» (p. 57), concependo diversi livelli del concetto di causa.

Ecco perché un’altra proprietà degli iperoggetti viene ritrovata nel phasing, cioè «il segno indessicale di un oggetto diffusamente distribuito nello spazio delle fasi che è multidimensionale rispetto agli strumenti che usiamo per misurarlo» (p. 105). Di un iperoggetto è possibile solo avere un rapporto estetico parziale, nel momento in cui le sue parti entrano gradualmente nella nostra percezione tridimensionale. L’uomo può quindi porsi nei confronti degli iperoggetti solo asimmetricamente, per cui nonostante accumuli sempre più dati su di essi, non può conoscere totalmente l’iperoggetto, anche se ne fa parte. La nostra epoca per Morton è caratterizzata dall’Età dell’Asimmetria, iniziata nel 1748 con l’avvento della macchina a vapore e il sedimentarsi dei primi strati di carbone sulla superficie terrestre, dove «il non-umano è fuori controllo, irrimediabilmente ritratto rispetto all’accesso umano» (p. 221). Rifacendosi tra le altre alle riflessioni sul gigantismo in Heidegger, e all’esperienza estetica primordiale della pelle d’oca in Adorno, l’iperoggetto appare per l’autore esteticamente percepibile solo «sotto forma di spettralità spettrale che si allinea e si sfasa con lo spaziotempo normalizzato degli esseri umani» (p. 217). Questo causa ciò che Morton chiama la fine del mondo, cioè l’impossibilità per il soggetto, riprendendo Harman, di tracciare attorno a sé un orizzonte al cui interno si situi il proprio mondo, perché «non sono situato in un mondo (unico e stabile), ma in un insieme mutevole di zone emesse da oggetti specifici» (p. 183).

La fine del mondo porta con sé la viscosità degli iperoggetti, che l’autore descrive come la condizione in cui «più li avviciniamo meno li conosciamo; ma non possiamo liberarcene per quanto lontano si possa fuggire» (p. 230). Con la definizione di “morte zuccherata del per sé” di Sartre, Morton concepisce la realtà come un miele viscoso che non permette all’uomo di porsi a debita distanza espistemologica da essa. Invece di ritirarsi metafisicamente “di fronte” l’oggetto, l’umano è invischiato negli iperoggetti, da essi circondato senza potervisi distanziare. Questo atteggiamento si ritrova nell’ipocrisia e la debolezza, termini che l’autore usa evidenziando il fatto che per queste realtà, come il riscaldamento globale, non sembra esserci soluzione, «scarseggia il tempo per affrontarlo, non vi è alcuna autorità di riferimento, chi cerca di risolverlo sono le stesse persone che hanno contribuito a crearlo» (p. 176). Nessuna politica finora ha dimostrato di poter trovare una soluzione al problema.

Morton scrive un libro denso e multipolare, che partendo dall’ecologia, mette in risalto un intreccio ontologico transdisciplinare di ampio respiro. La riflessione sugli iperoggetti spinge l’uomo a trovare nuovi modi d’essere e di agire nel mondo, fino ad ora inesplorati, segnati nella loro urgenza dall’epoca dell’Antropocene. Più che offrire delle soluzioni, il libro si preoccupa di orientare il lettore ad una prospettiva critica che segni l’uomo dal XXI secolo in poi.

Alessandro Mazzi

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