Dalla crisi di senso alla ricerca di un valore trascendentale del concetto di fratellanza. (Ancora illuminismo in tempi difficili)
*Il sottotitolo (Ancora illuminismo in tempi difficili) è un omaggio a Salvatore Veca, scomparso proprio mentre cominciavo a scrivere questo contributo. Riprendo il titolo di un suo paragrafo nel testo Progetto 89- libertà, uguaglianza fraternità, con cui intendo confrontarmi in questa riflessione.
Premessa:
L’Enciclica Fratelli Tutti e il Documento sulla «fratellanza umana per la pace mondiale e convivenza comune», sono due testi che contengono una richiesta esplicita di dialogo e di riflessione per tutti gli intellettuali, i filosofi, artisti e uomini di cultura di tutte le parti del Globo, e questo invito, fatto da papa Francesco e dal grande imam al-Tayyeb, merita un serio impegno da parte di tutti nel corrispondere, con la riflessione e la critica, a un atto che ha innescato nel cuore di molti un anelito di cambiamenti circa l’idea di convivenza umana. Documenti che non si possono che sottoscrivere, programmi che devono essere posti con urgenza alla condivisione collettiva.
Come vedremo nel corso di questa riflessione, il concetto di Fratellanza universale si è imposto nel dibattito pubblico, e nella pubblicistica politico-religiosa, ogni volta che un evento tragico, o la fine di un equilibrio tra poteri, ha messo in tensione l’immaginario ideale su cui si basa la narrazione delle società politiche.
Così la Fratellanza è quel concetto che tutti rievocano nel momento in cui la frattura fra libertà ed eguaglianza sembra non essere facilmente ricomponibile e oggi, dopo l’attacco alle Torri gemelle, tutte le élites politiche e religiose s’interrogano intorno al suo significato, proprio come è stato dopo il crollo del Muro di Berlino e di altri momenti simbolicamente significativi della fine di equilibri politici evidenti.
Introduzione:
L’arco temporale che va dal 1989 al 2019 è stato un trentennio di trasformazioni senza precedenti nella storia umana. Dopo il crollo del muro di Berlino, l’Europa ha conosciuto una repentina serie di cambiamenti politici e sociali che hanno stravolto gli equilibri geopolitici di tutto il Globo. La riunificazione della Germania, la fine della Guerra fredda e l’affermazione del capitalismo finanziario, con i suoi cicli di crescita improvvisa e repentina distruzione di una ricchezza sempre più concentrata in mano a pochi soggetti, hanno dato l’avvio a un’inedita condizione di globalizzazione che nulla ha in comune con i sogni cosmopolitici dei filosofi della Modernità.
Con la fine dell’opposizione fra il Blocco dei Paesi dell’Ovest, culla della Libertà politica, e il Blocco dell’Est patria dell’Uguaglianza, l’Occidente si rende conto di non essere più in grado di monopolizzare il discorso politico di tutto il Pianeta, e per questo riscopre un concetto della modernità lasciato nel dimenticatoio per due secoli: la Fratellanza (universale).
La crisi di senso
Nel 1989 ricorreva il bicentenario della Rivoluzione francese e fu un proliferare di convegni, articoli e pubblicazioni in ogni parte del Globo.
Il 1989 è anche, o soprattutto, l’anno del crollo del Muro di Berlino e, con la fine della Guerra fredda, la speranza della fine dei conflitti militari globali e l’ipotesi di una nuova predisposizione morale dell’umanità. Per questo motivo mi pare interessante sottolineare come un gran numero di intellettuali occidentali dedicarono molte riflessioni al concetto più sottovalutato nei secoli dei nazionalismi e dei fascismi: il concetto di fraternità.
Nel tentativo di corrispondere alla richiesta del Papa e del Gran Imam di riscoprire «i valori della pace, della giustizia, del bene, della bellezza, della fratellanza umana e della convivenza comune […] per cercare di diffonderli ovunque[1]», confronterò due studi, a mio avviso emblematici, che mettono in evidenza la crisi di senso del termine fraternità che, da più parti oggi, si pretende di ricollocare al centro del dibattito politico, con rinnovati significati.
In prima istanza analizzerò lo studio di un teologo, appartenente a un collettivo di studiosi cattolici, che riflette dalla Patria del laicismo, la Francia, e lo confronterò, in un secondo momento, con un testo di filosofi laici provenienti dal Paese occidentale che ospita, in modo simbiotico e problematico, la sede politico-istituzionale della Chiesa cattolica, l’Italia.
La rivista internazionale cattolica Communio- Strumento internazionale per un lavoro teologico, nel 1989 pubblicò un numero monografico, La rivoluzione francese (n. 106 luglio-agosto 1989- Jaca Book), contenente un interessante studio di Jean-Louis Quantin sul trinomio Liberté, Egalité Fraternité a partire dalle origini religiose del termine «fraternité».
Quantin osservò che il Termine non possiede una storia coerente e lineare nel suo passare dall’accezione strettamente religiosa a quella politica moderna che lo colloca quale momento finale del Trinomio rivoluzionario.
Per questo motivo Quantin, nel tentativo di tracciarne una genealogia, è costretto a prelevare dati linguistico-lessicali da testi lontani nel tempo e nei contesti più disparati, nel tentativo di ricostruire un percorso, il più lineare possibile, dal lessico biblico dei Padri della Chiesa, passando dalle Lettere di san Paolo, e percorrendo una variegata composizione di opere di teologi e filosofi di diversi periodi storici. Il giovane teologo riesce in pochi passaggi a ricostruire il filo rosso di una secolarizzazione di lunga durata che dalle sacre scritture si riversa fino nelle pagine delle Costituzioni moderne, passando prima nei trattati dei filosofi illuministi e nei documenti ufficiali della burocrazia rivoluzionaria. Condivido con Quantin che questo transito rappresenta la logica della continuità e della coerenza della coscienza europea che approda a un lessico rivoluzionario attraverso una secolarizzazione dei termini religiosi che si tramutano in termini politici così come aveva ben visto Carl Schmitt nel 1922.
Il sociologo tedesco, infatti, afferma che il passaggio dalla teologia alla dottrina dello Stato di molti termini andava studiata sul piano «della loro struttura sistematica» perché la conoscenza di questi «è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti[2]».
La domanda implicita nel saggio di Quantin si può tradurre in questo modo: in occasione della ricorrenza del Bicentenario rivoluzionario e nell’aspettativa che la Glasnost offre di ripensare il mondo fuori dall’opposizione dei «due blocchi», in che modo possiamo tenere in equilibrio le prospettive del trinomio che campeggia fuori dei municipi francesi?
Quantin procede nell’analizzare l’importanza per i nostri tempi di una migliore valutazione della fraternità rispetto a Libertà ed uguaglianza, cosciente che, invece, nella Rivoluzione esso è stato un termine usato solo in un’accezione utopica per coprire la tensione politica fra i due concetti principali[3].
Dalla sua analisi si evince che la fraternità è un concetto che già Antoine Arnauld nel 1644 aveva tratto dal De moribus ecclesiae catholicae, testo in sui S. Agostino dichiarava che la Chiesa riunisce gli uomini in una «specie di fraternità»; un passaggio che mette al centro l’idea generale che in Cristo tutti gli uomini possono sentirsi come fratelli e sorelle. Dalla tradizione giansenista Quantin ricava con destrezza una serie di conferme alla sua verifica genealogica, spostandosi poi ad analizzare le occorrenze in autori come l’abate Fleury e Fénelon che vanno inseriti in quella schiera di intellettuali che guardavano al Trinomio «senza vedervi né temere alcuna carica rivoluzionaria[4]».
Per Quantin a parte i casi famosi del Vicario savoiardo di Rousseau, di Reynal e di Meslier, che lui nomina per far capire quanto sia stato raro anche nei filosofi illuministi il riferimento alla Fraternità, è con il Selvaggio taitiano di Diderot che si arriva a una concezione alternativa a quella cristiana del nostro termine e lo è nel senso di considerare tutti gli uomini, europei inciviliti e selvaggi che non conoscono la Rivelazione, fratelli in quanto figli della natura. In questo senso il nostro teologo ammette che la parola, come la troviamo nel lessico diderottiano, «significa che la fraternità può anche essere laicista, quando la Natura rimpiazzi il Dio cristiano con una notevole dose di buona volontà[5]».
Quantin studia il Trinomio nell’accezione dell’uso che ne fa la Massoneria, e mentre nota bene che questi tre termini non sono stati utilizzati sin dalla sua origine newtoniana di inizio Settecento, il nostro teologo vede nell’acquisizione del concetto di fratellanza per i massoni una carica utopica che funge da apertura all’idea di una nuova umanità pronta a superare le divisioni tra Stati, religioni e classi sociali.
Ovunque sia stato inserito, nella Repubblica, nella Massoneria o nella coscienza del popolo della Chiesa, il termine fratellanza mantiene una chiara connotazione interna ed esclusiva ad ognuna delle strutture che ne fa un vessillo ideale. Ognuna di queste comunità costruisce la propria identità di gruppo che consente di identificare come «fratelli» i suoi aderenti, ma solo nel senso stretto di soggetti che «fra loro» si riconoscono in modo esclusivo nel Termine, escludendo tutti gli altri uomini.
Infatti la conclusione di Quantin è che nel passaggio del termine fraternité dal religioso al politico, non è stata ottenuta alcuna universalizzazione e che, anzi, vi è stata una mera appropriazione da parte di partiti e associazioni che si sono posti in lotta contro la Chiesa e questa, per reazione, si è posta fuori dalle possibilità di contribuire, in un ambito politico laico e plurale, all’edificazione di una società Libera, uguale e fraterna.
Ora possiamo concludere, in questo primo passaggio della nostra riflessione, che lo studio di Quantin ci chiarisce che il concetto di fratellanza universale, di cui parla il cristianesimo, entra in crisi di senso già con le guerre di religione e poi, nel divenire un’accezione massonica e repubblicana, si restringe ancora di più in un’ottica sempre meno universale essendo riferita, nel primo caso, ai soli aderenti alla fratellanza muratoria e, nel secondo, ai soli cittadini rivoluzionari di sesso maschile che si riconoscono fra loro in opposizione alle classi aristocratiche e alla parte del popolo reazionario e vandeano.
Se seguendo lo studio di Quantin abbiamo potuto misurare la crisi di senso del concetto di fraternità nel suo travaso dalla connotazione strettamente religiosa a quella politica di unità fraterna repubblicana, con la lettura del testo pubblicato in Italia da Alberto Martinelli, Michele Salvati e Salvatore Veca, Progetto 89– Tre saggi su libertà, uguaglianza e fraternità[6], possiamo cogliere un’ulteriore crisi che è quella della speranza che noi moderni abbiamo spesso riposto nell’idea stessa di Politica.
Alberto Martinelli, nella sua breve analisi[7], circoscrive la fratellanza quale concetto politico «soprattutto come fraternità nazionale», che si afferma quale valore a difesa dell’unità della Repubblica. Secondo il nostro autore la fraternità non è inscrivibile nella teoria liberale ma si configura più come una trasposizione del primo cristianesimo nell’ideale socialista, e nella Francia rivoluzionaria è figlia dell’influenza di Rousseau nel ’93 e non di Voltaire dell’89. Soprattutto «le radici della fraternità sono da ricercare sia all’interno della famiglia, del clan, della razza, cioè in fattori genetici sanzionati socialmente, sia nella religione, cioè in un vincolo di un’appartenenza di un ecclesia o una setta […]», e per questo è facile dedurre che il “politico” della fraternità è tutto diretto alla fondazione e giustificazione della nuova idea di Nazione moderna, e che la secolarizzazione del termine religioso non andava oltre un sentimento di appartenenza al partito, allo Stato o all’identità culturale di un popolo.
La ricognizione genealogica del Trinomio si era resa necessaria in un tempo politico di grandi cambiamenti e incertezze: la Glasnost faceva intravedere la resa dei conti fra i due blocchi contrapposti, l’Ovest «liberale» che sentiva di essere la realizzazione delle aspirazioni della Rivoluzione francese nel senso della libertà e l’Est comunista che aveva interpretato la via dell’uguaglianza.
Immaginare una ricomposizione delle parti avverse della Guerra fredda già prima del crollo del muro, portava molti intellettuali a riconsiderare la fratellanza quale dimensione di incontro fra le due sponde dell’ideologia illuminista. Più individualismo liberista o più comunitarismo socialista? La fraternità sembrò ad un punto una misura che portasse equità per l’Occidente.
Ma questo concetto è inservibile sia per immaginare l’universale religioso, visto che i teologi sanno bene che ogni fraternité è pensabile solo all’interno di una definita rivelazione che è «l’unica vera», sia per pensare l’universale politico che, senza i due blocchi, ha riacceso la fratellanza nazionalista e regionalista di comunità sempre più chiuse nell’idea di razza e di tradizione culturale, alla ricerca di narrazioni identitarie escludenti ogni idea cosmopolitica.
Insomma la riflessione dell’89 sulla fratellanza non è riuscita a emancipare il significato del terzo termine rivoluzionario dall’idea che gli uomini posso essere fratelli grazie a un Padre celeste che è solo quello del libro giusto e, ancor peggio, che si può essere fratelli nella città dell’uomo solo se si condividono sangue e narrazioni originarie comuni.
Così i nostri intellettuali laici sentirono il bisogno, nel 2009, di ripubblicare il testo rimettendo in gioco le loro considerazioni sulla «fratellanza universale» venti anni dopo alla luce degli avvenimenti tragici del nuovo millennio.
Con il crollo delle Torri gemelle l’Occidente e i suoi intellettuali si sono accorti che la visione dell’umanità che era stata al centro delle riflessioni novecentesche, ovvero di una contrapposizione tra le Weltanschauungen, ossia tra la visione liberale e quella comunista, non poteva più spiegare la complessa articolazione dell’intera umanità. Oggi, anche grazie al ruolo che è giocato dalle nuove tecnologie e ai sistemi di informazione, la comunità globale si trova a vivere in un continuo confronto e scontro inedito per la storia dell’umanità. In un Mondo improvvisamente troppo piccolo, interconnesso ed emotivamente scosso dall’ibridazione fra linguaggi e culture, le spiegazioni della modernità filosofica occidentale non sono più l’unico referente per la convivenza tra i popoli, ma neanche i monoteismi sono più in grado di plasmare la coscienza di uomini in continuo movimento e migrazione senza più una comunità di destino e di appartenenza.
Nel dibattito contemporaneo il concetto di libertà nell’arena globale ha spesso accezioni semantiche problematiche, e c’è una concreta difficoltà a concepire l’uguaglianza quando le differenze tra Nord e Sud del mondo, e tra la parte ricca e la parte povera dell’umanità si fanno sempre più evidenti. Per questo se da una parte sono comprensibili le ragioni del Documento sulla «fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», dall’altra non posso non osservare che l’idea di un valore trascendentale del termine «fraternità» non si può affermare a seguito di un semplice accordo fra le élite politico-religiose del mondo e, ancora meno, si può pensare di edificarla attraverso i dibattiti filosofici di intellettuali accademici o afferenti a think tank del mondo finanziario.
Esiste, nella coscienza dell’uomo globalizzato, un valore trascendentale su cui sostenere il concetto di Fratellanza Universale?
Il Documento redatto ad Abu Dhabi viene esplicitamente sottoposto alla discussione pubblica: «Al-Azhar e la Chiesa Cattolica domandano che questo documento divenga oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle Università […] al fine di contribuire a creare nuove generazioni che portino il bene e la pace difendendo ovunque il diritto degli oppressi e degli ultimi […] questa Dichiarazione sia un invito alla riconciliazione e alla fratellanza tra tutti i credenti, anzi tra i credenti e i non credenti, tra tutte le persone di buona volontà[8]»
Questo invito è condivisibile e subito sottoscrivo la necessità di questa nuova opportunità per cambiare le prospettive di convivenza degli uomini sul Pianeta. Non posso, tuttavia, non notare che l’invito è rivolto a «tutti i credenti, anzi a tutti i credenti e non credenti» che è una formula tanto inedita, dal punto di vista di un leader religioso, quanto resta distante da una vera proposta universalizzante. Soprattutto se questa proposta deve diventare «oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole e le Università», in queste scuole e Università avremmo bisogno di portare questa proposta su basi più solide di un auspicio di matrice confessionale.
Concordo con le osservazioni di Mario Reale nel saggio che ha pubblicato in questo stesso dibattito (vedi supra): il Documento di Abu Dhabi e la seguente Enciclica possono muoversi coerentemente ai propri assunti solo se presuppongono un fondamento di laicità valido e condiviso nello Spazio politico globale, mentre il suo contenuto permane nella logica di una presunta prevalenza del piano etico-religioso.
Questa sfasatura, descritta molto bene da Reale, non è l’unico piano su cui mi interessa proporre una riflessione, il mio intervento muove dal convincimento che non si può pensare a un «valore trascendentale» capace di fondare una nuova idea di Fraternité, se questo non è in grado di superare ogni esperienza particolare e porsi come condizione primaria per ogni adesione possibile per qualunque soggetto senza porre nessun’altra definizione di uomo che non sia quella di essere appartenente alla specie umana.
La mia critica tenta di mettere in luce le difficoltà che hanno le élite religiose e politiche a misurarsi con il cambio di paradigma che la globalizzazione tecno-finanziaria ha imposto alla nostra civiltà. La comunicazione digitale ha superato ogni confine, sta unificando i costumi e plasma i desideri con una velocità mai vista prima, ognuno di noi vive due realtà esistenziali: quella tradizionale della propria comunità politica e quella virtuale di una interconnessione planetaria digitale dove la vita di ognuno sembra non avere più confini di tempo e di spazio.
A questo uomo nuovo, come è possibile parlare ancora come se ci si rivolgesse al proprio concittadino o correligionario?
Oggi gli uomini sono coscienti dell’esistenza di una pluralità di culti, di lingue, di Stati di costumi e stili di vita, che non sono raccontate da qualche romanzo o descritte in qualche libro di viaggio ma sono la nostra realtà quotidiana di frequentatori dell’infosfera. L’interazione orizzontale con l’altro è sempre più l’evidenza del nostro tempo, inutile nascondere che, a queste condizioni, ogni intermediazione è deprivata della sua autorevolezza. In questo clima appellarsi all’umanità intera partendo da un punto di vista particolare a me pare una prospettiva alquanto debole.
Così mentre i leader religiosi e capi di Stato ancora misurano le parole dentro uno schema di pluralità di linguaggi e di identità, la tecno-finanza, che si muove nello spazio del «WWW», ha trasceso qualunque differenza ponendosi quale elemento di superamento ed omologazione di linguaggi e di costumi. La promessa suadente dell’infosfera è stata quella di eliminare ogni intermediazione e di creare un modello di esistenza autonoma di contatto diretto tra gli uomini. Un modello che, al contrario delle sue promesse, non ha liberato l’uomo dal bisogno e dalla sottomissione al potere politico-religioso, ma lo ha reso ancora più succube ad un sistema che lo sottomette facendo leva sui suoi desideri e lo ha trasformato nel devoto consumatore prono al cospetto del dio del Mercato.
Per questi motivi, il modo per trovare una dimensione fraterna fra tutti gli uomini deve essere dimensionato alla tragica nuova esperienza a cui noi tutti siamo soggetti: la fragile atomizzazione dell’individuo moderno, isolato e frastornato difronte la terribile potenza globale della tecnica.
Abbiamo bisogno di un’idea di Uomo che sia davvero universale, che sia riconoscibile da qualunque individuo-atomo nel mondo, e per questo non possiamo partire dalla dicotomia credente-non credente, o della fraternità per discendenza di uno stesso Padre che si è rivelato in diverse modalità in diversi tempi nella Storia a una parte minoritaria dell’umanità.
Sin dalla Premessa, il Documento contiene evidenti limiti assiologici che creano subito un problema di stratificazione del concetto di «umano» a partire da gradi di maggiore o minore adesione di questo all’idea di «creato».
Figli di una stessa madre.
Il testo del Documento comincia dall’assunto che «La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere»; questo è esattamente il limite che abbiamo tutti presente nel concetto di fratellanza chiusa in una «setta» che al massimo «salvaguarda», «sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere». Questo non è un «valore trascendentale» come pretendono il Papa e l’Imam, al massimo questo è un sentimento di benevolenza che la parte di umanità più fortunata deve concedere a quella più sfortunata e a quella che non è toccata dalla Grazia misericordiosa del Padre.
Un concetto di Fraternité che possa fondarsi su un «valore trascendentale» può avere senso solo se si superano le concezioni storiche del termine così come le ha studiate Quantin nel passaggio dal religioso al politico.
Se si dice che «Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani- uguali per la Sua Misericordia-, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana» c’è il fondato rischio che il «non-credente» e «l’ateo» non siano vincolati al reciproco rispetto di questa fratellanza umana. «La fede in Dio» resta comunque un atteggiamento, un sentimento, una posizione spirituale che non assicura nulla sull’eguaglianza e sulla reciprocità delle intenzioni umane.
Il Documento, mentre indica la necessità per l’umanità, mostra la limitatezza di un messaggio che si rivolge al novero dei «credenti», immaginando di poter coinvolgere l’intero Globo che, invece, resta drammaticamente diviso dagli interessi economici e politici di Stati e multinazionali, che si vanno ad aggiungere alle tensioni identitarie che proprio le religioni hanno sempre alimentato. Da questo punto di vista, anche il «progetto 89», l’utopia laica della modernità, delle “repubbliche sorelle» ha sancito l’impossibilità della «fratellanza» come fondamento ideale-generale di un progetto meramente politico-costituzionale.
Difronte a queste difficoltà c’è ancora una possibilità per dare un fondamento trascendentale a un concetto che è stato così poco rappresentativo della civiltà umana fino ad oggi. Non certo possiamo fondare alcunché sul concetto abusato ed equivoco di natura, ma è possibile sul più solido ed evidente trascendentalismo biologico[9], che rende ogni uomo semplicemente uguale ad ogni altro in quanto appartenente alla specie umana e che condivide lo starci al Mondo con tutti i suoi simili e con tutti i viventi. Questo assunto non ha nulla a che vedere con i fattori genetici, derivanti da famiglia e razza, sanzionati da religione e politica come aveva ben spiegato Martinelli, ha, invece, a che fare con la ricerca di una radice essenziale di ciò che è «umano», secondo una tradizione illuministica che ha cercato di comprendere davvero l’uomo nella propria realtà di essere vivente, di animale e di ente biologico.
Proprio come aveva ben detto Rousseau bisogna prima comprendere l’uomo per quello che è e poi pensare le leggi per come devono essere. Allo stesso modo noi dobbiamo considerare l’uomo con le sue necessità di autoconservazione, di bisogni primari, di desideri esistenziali, e di prospettive di realizzarsi in quanto soggetto unico ed irripetibile; insomma considerare ogni individuo in quanto ente materiale con un proprio posto in questo Globo che gli spetta allo stesso modo in cui spetta a chiunque altro. Affermare l’uomo per quell’animale che è ci costringe a immaginare il modo in cui dobbiamo costruire la società globale: un luogo dove ognuno possa trovare il proprio posto.
Così, nel dire che tutti i viventi sono usciti dal grembo materno e vengono nutriti dal corpo materiale della madre Terra, stiamo già dicendo, ad esempio, che le risorse del Pianeta devono essere di tutti e per tutti. Significa che la «questione ecologica» non può essere sottomessa ad accordi tra parti, ma deve diventare un imperativo per ognuno. In questo modo stabiliamo a priori che se ci deve essere un accordo, questo sarà solo quello che contempla la realizzazione e la felicità per ognuno, per ogni singolo soggetto prima che di ogni cultura o comunità. Per quale strampalato motivo si può immaginare una sola singola persona che si voglia sentire affratellata ad un altro in una modalità che lo renda inferiorizzato o subalterno?
L’essere prima uomini che credenti è la condizione trascendentale per la fratellanza universale. Non vedo nulla di più universale che l’appartenere alla specie umana, non penso nulla di più trascendentale di ogni mia esperienza che pensarmi unito al genere umano nel destino comune dell’esistenza nel Cosmo.
La mia riflessione, a queste condizioni, si pone in contrasto con la tesi di Debora Tonelli che abbiamo letto nelle pagine precedenti: la nostra teologa parte dal punto di vista dell’Enciclica in cui il Papa sa bene che «Parlare di “fratellanza” è cosa diversa che parlare di “specie umana”. Radicalizzando la questione, la parola “fratellanza” rimanda a relazioni di familiarità e intimità, mentre la parola “specie”, con i suoi echi darwiniani, può rimandare (anche, ma non solo) alla competitività della sopravvivenza. In realtà, quanto il Pontefice pone come presupposto delle riflessioni successive ha solo apparentemente una pretesa di oggettività e ovvietà: se è vero che ciascun individuo appartiene alla specie umana, non è altrettanto vero che tale specie sia una comunità fraterna né che ciascun individuo si senta parte di una simile comunità» (Cfr. supra Tonelli)
Proprio qui sento la necessità di aprire un confronto: non è una questione di echi darwiniani[10] ma, al contrario, è proprio per il «fatto» di aver chiaro la natura competitiva di specie (dell’Homo sapiens) che ci possiamo permettere di affermare che è giunto il momento di dover riflettere sul nostro ruolo di occupante invasivo e distruttore del Pianeta. Da questa riflessione, e dall’invito al confronto che è meritoriamente l’esplicito valore del Documento e della Enciclica, noi dobbiamo rispondere che questa umanità può, per effetto della propria natura perfettibile, essere in grado di comprendere che la Fraternità è lo stadio più conveniente e più consono per un futuro di convivenza e «sopravvivenza».
Abbiamo bisogno dunque di far rinascere una filosofia della storia che, partendo criticamente dalla memoria condivisa di millenni di scontri fratricidi (guerre, olocausti e colonialismi), sia in grado di ragionare intorno a un lessico comune, e da qui immaginare la possibilità per un cambio di paradigma dove fratellanza sia davvero «l’esito di un impegno continuo per il bene dell’altro[11]». La base comune è l’uomo e una volta compresi a fondo i suoi bisogni vitali, si può costruire una civiltà che prenda sul serio le aspettative di felicità anche del Pharmakos del nostro tempo.
Già Norberto Bobbio aveva notato che «[…]la filosofia della storia è la riflessione sul destino dell’umanità nel suo complesso, [e che] il luogo di origine delle filosofie della storia sono le grandi catastrofi dell’umanità. La filosofia della storia, come riflessione sistematica è nata proprio grazie all’ideale politico insito nel Trinomio durante la Rivoluzione francese […][12]», e con questo noi confermiamo che la conflittualità fra gli uomini è un elemento costitutivo della nostra specie che si è evoluta nella pratica della guerra, dalla conflittualità tra piccoli villaggi fino alla guerra mondiale per gli interessi di Stati, e di grandi gruppi finanziari. Così con Bobbio possiamo concordare che per dare un senso alla storia umana bisogna saper rispondere alla domanda «qual è il fine ultimo della storia?», forse è la sua autodistruzione? Forse la salvezza in una vita oltre la dimensione terrena? Ma se ci poniamo l’obiettivo di una convivenza fra gli uomini pensando la Dignità di ogni vivente quale orizzonte di senso, allora abbiamo bisogno di rovesciare la tradizionale visione della fraternità biblica e della concezione politico-religiosa che ne hanno le culture mediterranee. Abbiamo, invece, necessità di pensare una fraternità su base cosmopolitica dall’uomo per l’uomo, in quanto figli tutti di questa Terra madre.
Conclusioni: riconoscere i diritti umani.
Il concetto di fraternité è decisamente ambiguo, sia che lo si voglia cogliere nella sua genealogia storico-politica, sia che lo si voglia riferire a qualche categoria teologica.
Eppure concordo con il Papa e l’Imam nell’avvertire la necessità di un suo aggiornamento nel senso di una prospettiva di nuova dimensione per una convivenza pacifica e solidale fra tutti gli uomini.
Sono altresì convinto che ognuno degli attori in campo, di questo dibattito, sia motivato al medesimo obiettivo, ora si tratta di trovare un Lessico critico comune per smontare la conflittualità e la violenza che hanno caratterizzato gli uomini nel loro processo storico. Un tale Lessico è già attivo dal 1948 grazie alla Dichiarazione dei diritti umani che prevede nel suo primo articolo che «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza». Come si evince dalla lettura dell’articolo si parla di «tutti gli esseri umani» (dunque maschio-femmina, di qualunque colore o provenienza geo-politica)[13], e già prevede che in nome dell’appartenenza alla specie dei viventi denominata «essere umani» essi devono «agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza».
Questo è un lessico che «riconosce», e non «concede» dall’alto in un moto caritatevole di un’autorità bonaria, i diritti che ogni individuo già possiede in virtù della sua condizione di essere un uomo. Il Papa e l’Imam «semplicemente» possono riconoscere i Diritti umani che sono stati «dichiarati» nel 1948 senza riserve e senza per questo mutare il loro sentimento di devozione all’Unico Dio a cui entrambi si riferiscono. La Dichiarazione è già universale, si riferisce proprio a tutti e non è promulgata né creata da nessuno, è appunto un «riconoscere» un dato di fatto.
La fratellanza universale è già la realtà di ogni uomo che è in grado di vederla e desideroso di condividerla come base per una nuova prospettiva per l’umanità.
NOTE
[1] AA.VV, Fratellanza– La Civiltà Cattolica, Roma 2020, p.192
[2] Carl Schmitt, le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, Pag. 61.
[3] Quantin nel 1989 non possedeva gli strumenti tecnologici che abbiamo noi oggi, gli dobbiamo una conferma alla sua tesi grazie allo studio del prof. Cesare Vetter dell’Università di studi di Trieste che ha pubblicato una ricerca alla luce delle nuove potenzialità̀ di ricerca aperte dalla digitalizzazione delle fonti e dalla messa in campo degli strumenti della linguistica computazionale. Il lavoro di Vetter conferma che numero di occorrenze è modesto, non solo rispetto alle altre due parole della devise républicaine, ma anche rispetto a gran parte delle parole ad alto contenuto socio-politico del periodo rivoluzionario. Vetter in Fraternità, rivoluzione francese e linguistica computazionale ci fornisce un dato preciso relativo ai documenti fino ad oggi digitalizzati e che mostrano come «l’interrogazione delle Archives parlementaires con PhiloLogic4 (PhiloLogic4 Databases) evidenzia 59429 occorrenze di «liberté», 13508 occorrenze di «égalité» e 3243 occorrenze di «fraternité[3]». (Cesare Vetter, Fraternità, rivoluzione francese e linguistica computazionale, in Endoxa – Prospettive sul presente, 3, 13, Maggio, 2018, pp. 27-33.
[4] AA.VV., La Rivoluzione Francese, Communio-strumento internazionale per un lavoro teologico, n 106, luglio-agosto 1989, Jaca Book, Milano 1989, P.61.
[5] Ivi p.63.
[6] Alberto Martinelli, Michele Salvati, Salvatore Veca, Progetto 89- tre saggi libertà, uguaglianza e fraternità, Il Saggiatore, Milano 2009.
[7] Ivi, p 42.
[8] Fratellanza op cit.197.
[9] Mutuiamo il concetto di «trascendentalismo biologico» dalla riflessione di Paolo Quintili sull’«emergere dell’io» nella filosofia illuminista degli enciclopedisti, in particolare nel materialismo di Diderot, e la estendiamo alla nostra riflessione sulla Fratellanza universale: «[l’individuo] Il pensante (agente, senziente), è in cerca e dà una legittimazione di sé nel (e attraverso) il conoscere nel mondo del finito empirico, riconosciuto in quanto tale, nel suo insieme, come un finito determinato dalle leggi della natura e della materia. In quanto individuo concreto, questo “pensante” è nella pienezza esperienziale della natura, deve confrontarsi con essa senza esitazioni teoretiche o teoreticistiche. […]» (cfr. Paolo Quintili, Il pensiero critico di Diderot, in Denis Diderot, opere filosofiche, romanzi e racconti, a cura di P. Quintili e V. Sperotto, Bompiani editore, Milano 2019, p. XVII). Ma egli è, nello stesso tempo «infinito», aperto e indeterminabile in quanto soggetto biologico universale, in quanto «specie». Grazie a questa capacità di ogni singolo uomo di sapersi nel mondo, di conoscere il proprio ruolo sul pianeta in qualità di un «essere», fra i tanti, connesso indissolubilmente al destino del Pianeta, che possiamo sperare che ognuno si riconosca figlio della madre terra e dunque fratello di ogni essere vivente. Questa conoscenza del nostro posto nel cosmo è una conoscenza di «specie», qualcosa che si è sedimentata nell’esperienza, nella cultura, nella nostra evoluzione di specie. L’umanità si è evoluta assecondando e comprendendo le leggi di Natura che sente essere un «proprio sapere» e da questo sapere fa derivare la comune coscienza di specie.
[10] Non riesco, data la natura di questo saggio, ad approfondire l’argomento, ma desidero qui chiarire che ritengo che non esista una connessione necessaria fra la teoria biologica di Darwin e il darwinismo sociale di H. Spencer. Da questo, in generale, ritengo che non si possa dimostrare in alcun modo che una teoria biologica contenga un’opzione sociologica obbligata, e per questo rigetto ogni «biologismo politico» che a me pare spesso una forzatura funzionale sempre a giustificare il potere costituito e il razzismo culturale. Diversamente il sopracitato «trascendentalismo biologico» è la presa d’atto della natura materiale dell’uomo come vivente e che gli conferisce una «sostanza» certa in quanto individuo partecipante la vita terrena: l’individuo è l’idea-concetto del singolo vivente (animale-uomo ente-finito originale e irripetibile).
[11] Ancora D. Tonelli (vedi supra)
[12] Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 1979, P.31.
[13] A confermare l’universalità del Primo Articolo è il Secondo, che così recita: «Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità».
La fraternité del 1793 e la «fratellanza». Differenze e compatibilità filosofiche, sull’enciclica di papa Bergoglio.
Il motivo conduttore dell’Enciclica papale «Fratelli tutti» (2020) è la ripresa di una tematica classica nella tradizione politica rivoluzionaria moderna, a partire dalla grande Rivoluzione del 1789, passando per la costituzione del 1848, fino alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino di un secolo successiva (1948). È il tema della Fraternité, l’ultima delle tre famose ingiunzioni divenute la «divisa» della Repubblica francese, inscritta nella Costituzione del 1958: Libertà, Eguaglianza, Fraternità![1] La prima considerazione da avanzare, riguardo la posizione del problema offerta dall’Enciclica, è che la nozione papale, francescana, di fratellanza appartiene, com’è ovvio, anzitutto al dominio della morale e della religione; la nozione di fraternità – termine più raro nell’italiano corrente – uscita da una vicenda rivoluzionaria di oltre due secoli, appartiene al dominio della politica e del diritto. Vediamone dunque le differenze e le affinità, le compatibilità concettuali e pratiche.
Nell’Enciclica di Bergoglio si può osservare una costante oscillazione dall’uno all’altro dominio, già a partire dal sottotitolo: «Sulla fraternità e l’amicizia sociale», espressioni sinonime nella nostra lingua («fraternità» = «amicizia sociale»). Nella 4a di copertina dell’Enciclica, tuttavia, la questione è subito spostata sul terreno morale e religios0: «La fratellanza è stata il primo auspicio di Francesco fin da quando, all’inizio del suo Pontificato, ha espresso un desiderio: “Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza”. Proprio questa aspirazione, che pone al centro della sua terza Enciclica, gli appare oggi l’unica via d’uscita dal dramma della solitudine dell’uomo consumatore e spettatore, chiuso nel suo individualismo e nella passività…». L’oscillazione terminologica è presente in tutto il testo e l’intenzione appare chiara: estendere la portata del valore morale cristiano della fratellanza – come espressione del comandamento dell’amore del prossimo – dal terreno della religione/teologia a quello della politica laica, in un tentativo di mettere in dialogo le due nozioni, senz’altro compatibili, tanto sul piano storico (delle origini), quanto su quello teorico-filosofico (dei contenuti concettuali).
Nondimeno, sussistono differenze storico-filosofiche importanti e, direi, sostanziali, tra fratellanza e fraternità che occorre qui rilevare.
La prima volta che la nozione di fraternité appare in un contesto politico-istituzionale, come oggetto di dibattito, è nel vivo delle feroci lotte di potere che opposero giacobini e girondini, in seno alla Convenzione nazionale, all’atto della redazione della nuova Costituzione del 1793. Sono i primi vagiti di una «Repubblica universale» che avanzava – in periodo di guerra e di mancanza delle «sussistenze», cioè dei generi di prima necessità – l’esigenza di diritti sociali da garantire ai cittadini vittime «della cattiva sorte», diritti fino ad allora mai istituiti, né discussi. In prima battuta, l’abate Emmanuel Sieyès, nel 1790, in seno all’Assemblea costituente mentre stava redigendo la prima Costituzione della Francia rivoluzionaria, nel 1791, avanzò timidamente la questione: «Si sa che tra i nostri concittadini coloro i quali una cattiva sorte condanna all’impotenza di provvedere ai propri bisogni, hanno dei giusti diritti ai sussidi dei loro concittadini»[2]. Ma il rilievo di Sieyès restò un semplice accenno inascoltato, diremmo pure una pia intenzione. La fraternité infatti non compare come un «giusto diritto» nella celebre Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 26 agosto 1789[3].
Il marchese J.-A. C. de Condorcet (1743-1794), ultimo rappresentante dei philosophes, di quella che Robespierre definirà sprezzantemente «la setta enciclopedista», nel 1791 presentò un progetto di riforma degli istituti d’insegnamento, in cinque Mémoires sur l’instruction publique, in cui si propone di estendere l’istruzione elementare a tutto il popolo e, soprattutto, alle donne, in perfetta égalité e fraternité. Nel difendere il diritto delle donne all’accesso alla medesima istruzione degli uomini, in classi miste e non separate (perché ciò garantirebbe una sana e reciproca «emulazione» fondata sul piacere), Condorcet argomenta, nella prima Memoria, dal titolo «Natura e fine dell’istruzione pubblica»:
La vita umana non è punto una lotta, dove i competitori si disputano i premi; è un viaggio che si fa insieme come fratelli, e dove ciascuno, impiegando le sue forze per il bene di tutti, ne è compensato dalle dolcezze di una benevolenza reciproca, dal piacere unito al sentimento d’avere meritato la riconoscenza o la stima. Un’emulazione che avesse per principio il desiderio di essere amato o di essere considerato per le qualità assolute, e non per la propria superiorità sugli altri, potrebbe anche divenire potentissima[4].
Per Condorcet dunque il primo terreno d’esperienza della fraternité repubblicana è quello dell’educazione e dell’esperienza della parità di genere femminile/maschile, in cui la fraternité è la condizione della égalité.
Due anni e mezzo più tardi, dopo la proclamazione della Repubblica, dopo il processo e la condanna a morte per alto tradimento del re Luigi XVI (21 gennaio 1793), con le nazioni europee nemiche alle porte, Maximilien Robespierre, il 21 aprile 1793, lesse al Club dei Giacobini il progetto di nuova Dichiarazione che ebbe grande risonanza, in quanto doveva includere pienamente la fraternité tra i diritti/doveri dell’uomo e del cittadino – con uno statuto giuridico alquanto ambiguo, tra il politico, il morale e l’economico.
Pur restando fieramente avverso all’égalité economica rivendicata dagli «arrabbiati» (Roux) e dai sanculotti, Robespierre rifiutava di annoverare la proprietà tra i diritti naturali «inviolabili e sacri» dell’uomo, perché in certe condizioni e situazioni, il diritto primario all’esistenza – garantito dal lavoro e dall’accesso ai beni di prima necessità, e dunque la fraternité, in caso di «cattiva sorte» – è quello il solo, «sacro», a valere: «La proprietà è il diritto che ciascun individuo ha di godere e di disporre della porzione di beni che gli è garantita dalla legge… questo diritto è limitato, come tutti gli altri, dall’obbligo di rispettare i diritti degli altri»[5], perciò la proprietà non è annoverabile tra i diritti «sacri». In casi di emergenza, ad es. quando mancano le «sussistenze», la limitazione dei beni privati è non solo legittima ma necessaria. Si tratta di un argomento politico già avanzato con successo da Robespierre in occasione della crisi agraria del 1792, nel famoso «discorso sulle sussistenze» del 2 dicembre 1792. I soli diritti ad essere «sacri» sono dunque la libertà e l’esistenza[6]. Perciò, lo stesso Robespierre fece del «diritto al lavoro» e del «diritto all’assistenza» due diritti naturali fondamentali e imprescrittibili:
La società è obbligata a provvedere alla sussistenza di tutti i suoi membri, o procurando loro del lavoro, oppure assicurando dei mezzi di sussistenza a tutti coloro che sono fuori dalla condizione di poter lavorare. I sussidi indispensabili a colui che manca del necessario sono un debito di colui che possiede il superfluo[7].
Come osserva J. Godechot, Robespierre, assieme al nobile rivoluzionario di origini prussiane, membro della Convenzione, Anacharsis Cloots (1755-1794)[8], dopo questi rilievi, negli ultimi quattro articoli del progetto di nuova Costituzione si innalzava a considerazioni internazionali, cosmopolite, sulla fraternità tra i popoli:
Gli uomini di tutti i paesi sono fratelli e i diversi popoli devono aiutarsi vicendevolmente secondo i loro poteri, come i cittadini di uno stesso Stato. Quel popolo che opprime una sola nazione si dichiara nemico di tutte le altre. Quelli che fanno la guerra a un popolo [il riferimento non velato andava alle potenze monarchiche inglesi e tedesche. N.d.t.] per fermare il progresso della libertà e annientare i diritti dell’uomo devono essere perseguiti da tutti, non come dei nemici ordinari, ma come degli assassini e dei briganti ribelli. I re, gli aristocratici, i tiranni, quali essi siano, sono degli schiavi in rivolta contro il sovrano della Terra, che è il Genere Umano, e contro il legislatore dell’universo, che è la Natura[9].
Discorso potente, e bellicoso in senso autodifensivo, che faceva della fraternité ad un tempo una necessità politica e un dovere morale. Ma neanche stavolta la proposta passa. La fraternité non è annoverata tra «i diritti naturali, inalienabili e imprescrittibili dell’uomo» nella Costituzione del 24 giugno 1793. Tuttavia, l’articolo 21 reca l’impronta inconfondibile del progetto di Robespierre, in cui primeggia il diritto all’esistenza: «I sussidi pubblici sono un debito sacro. La società deve la sussistenza ai cittadini sfortunati, o procurando loro un lavoro, oppure assicurando i mezzi di esistere a coloro che sono fuori dalla condizione di poter lavorare». La fraternité non è evocata con il suo nome, ma è là presente, chiaramente espressa nella formula dei «secours publiques», i nuovi diritti sociali che tuttavia la neonata Repubblica non ebbe il tempo di applicare. La stessa Costituzione del 1793, passata alla storia con il nome di «costituzione giacobina», rimase allo stato di progetto e non venne mai applicata. Dopo il colpo di stato del 9 termidoro Anno II (27 luglio 1794), con la caduta di Robespierre, la nuova Convenzione «termidoriana» – formata per lo più da esponenti girondini rientrati in forze – lavorò subito a un nuovo progetto, di una terza Costituzione, proclamata il 5 fruttidoro Anno II (22 agosto 1795), e subito applicata, che espunse i principi dei diritti sociali espressi chiaramente nel 1793. Osserva con acume Charles Godechot: «Il merito principale della Costituzione del 1793 non risiede nelle sue possibilità di applicazione [perché era troppo avanzata. N.d.t.]. Consiste soprattutto nei principi che ha proclamato per la prima volta (i diritti “sociali”) e nei problemi che ha posto. Perciò, benché non sia mai stata applicata, conserva un’importanza capitale nella storia della Francia: è rimasta un esempio e un modello per i democratici. Babeuf e Buonarroti [capi della cosiddetta «Congiura degli eguali», protocomunisti. N.d.t.] ne tessero l’elogio, nel 1796. Ne trasmisero il ricordo ai rari democratici dell’età imperiale e della restaurazione. Grazie a costoro, i costituenti del 1848 se ne ispireranno, e persino quelli del 1946 vi si richiameranno. La Costituzione del 1793 non ha mai smesso di svolgere il ruolo di guida che i suoi autori, certo, non avevano previsto per essa»[10].
Tra i concetti motori di questa «guida» che la Costituzione del ’93 rappresenta, e che ancora oggi funzionano da sprone verso una democrazia reale, c’è senz’altro la fraternité rivoluzionaria. Sottolineerei l’aggettivo «rivoluzionaria», in quanto si tratta di un concetto giuridico e pragmatico che si aggiunge e integra il vecchio concetto religioso, non come una semplice ingiunzione morale (lo è, anche). Il problema è anzitutto economico, lo sottolineò Robespierre: come concepire pragmaticamente quel «debito sacro» che i cittadini più fortunati hanno nei confronti dei loro «fratelli» meno fortunati, nella forma di «sussidi pubblici»? C’è anzitutto, ovviamente, l’imposizione fiscale; ma sappiamo quanto le iniziative di «imposte di solidarietà» siano difficili da far passare, ancora oggi, al voto dei parlamenti. I cittadini «fortunati» non vogliono sentir parlare di «fraternità» in questo senso. L’ingiunzione religiosa e morale, dei «Fratelli tutti» appunto, per costoro sembra bastare, come «atto di buona volontà verso il prossimo» o di «tolleranza» di alcune restrizioni alla libertà economica, a patto di non toccare la sostanza del portafoglio privato. C’è poi, in secondo luogo, il problema giuridico: il diritto di aiuto ai bisognosi non può essere ostacolato dall’attività del legislatore. Il problema in Francia è stato sollevato nel 2018, nei casi dei cosiddetti «reati di solidarietà» contestati a cittadini francesi che in prossimità delle frontiere nazionali hanno dato soccorso a immigrati clandestini o migranti, passati illegalmente in Francia. Di fronte a un simile aborto giuridico – una legge che sanziona atti di umanità verso soggetti in difficoltà, compiuti senza scopo di lucro – Il Consiglio costituzionale francese, con una decisione del 6 luglio 2018, ha sanzionato di incostituzionalità quelle imputazioni contro coloro che s’erano «macchiati» di presunte violazioni della legge Macron contro l’immigrazione clandestina, i sans papier e contro chi dà loro asilo o aiuto. In base a quale principio la Corte sanziona? Il principio è appunto la fraternité (menzionata nel testo della delibera), che è ritenuta un diritto fondamentale, problematico sì, ma imprescrittibile, non passibile cioè di sanzione. Al contrario, la legge, il codice di entrata e di soggiorno degli stranieri non EU e il diritto di asilo, va cambiata. La conquista è notevole, come è stato notato, in quanto viene de-sanzionato il soccorso per il soggiorno, insieme a quello all’entrata e alla circolazione: «Il principio di fraternità è finalmente riconosciuto»[11], nondimeno con qualche distinguo.
Al di qua dello stesso primato del diritto/dovere alla fraternità, c’è infine un terzo problema, quello antropologico. I diritti «imprescrittibili e inalienabili» dell’uomo e del cittadino, nella concezione filosofica dei costituenti, non vanno dimostrati o argomentati, esistono a priori, sono cioè dei trascendentali, ad un tempo giuridici e biologico-storici: non vanno «stabiliti» (quindi argomentati, discussi ecc.) ma solo constatati e dichiarati. Da cui le quindici «Dichiarazioni dei diritti» che la Francia ha conosciuto dal 1789 a oggi. Ora, tra questi diritti a priori, come s’è detto, c’è il diritto all’esistenza che primeggia, è il più alto ed è un diritto dell’«uomo» tout court, prima che questi acquisisca il ruolo, la funzione politica di «cittadino». Conseguenza: i diritti dell’uomo vanno «dichiarati» – e dunque riconosciuti - prima di quelli del cittadino, sono cioè primari in quanto «trascendentali», condizionanti tutti gli altri. Un diritto del cittadino è, ad esempio, il diritto di proprietà o di sicurezza, o il diritto di voto. Un diritto dell’uomo, primario, inalienabile e imprescrittibile, dunque «sacro» e superiore ai primi, e che va tutelato incondizionatamente, è invece il diritto all’esistenza (o alla «sussistenza», secondo la formula robespierriana), ovvero anche il diritto alla libertà di movimento per procurarsi degni mezzi di sussistenza, o anche il diritto alla proprietà e all’inviolabilità del proprio corpo individuale[12].
Su quest’ultimo punto si potrebbe aprire un lungo, difficile discorso (che non apriamo, ma ci limitiamo a evocare) attorno ai problemi legati alle vaccinazioni anti Covid-19, all’obbligo vaccinale che lo Stato potrebbe affermare, in nome del primato della tutela del «corpo sociale», ovvero negare, in nome del primato del corpo del singolo individuo, da tutelare sempre, e a cui l’opera del diritto è primariamente indirizzata e per cui è pensata. Il corpo dell’individuo è una proprietà inalienabile del soggetto giuridico. La «salute del corpo sociale» è invece una nozione più complessa e difficile da inquadrare nelle sue finalità proprie, non chiaramente concettualizzata nell’attuale quadro giuridico-normativo europeo, di stampo liberal-democratico. Diverso è il discorso per la Cina e i paesi «comunisti» o i regimi autoritari[13].
Jacques Le Goff ha affermato molto provocatoriamente che, da un punto di vista storico, «il diritto alla fraternità non esiste»[14]. In effetti, la fraternità è stata riconosciuta come la «parente povera», in termini giuridici, delle sorelle maggiori, la Libertà e l’Eguaglianza[15]. Osserva Le Goff:
Elle [la fraternité] est d’ailleurs négligée par la Déclaration des droits. D’où la commisération dont elle est l’objet : c’est une référence sympathique, mais elle ne génère qu’une faible productivité politique et juridique, à la différence de la liberté et de l’égalité, aisément convertibles en droits. La fraternité demeure par trop dans le vague des intentions généreuses, de l’injonction morale au partage dans la justice et la concorde. C’est un souhait, un devoir, plus qu’un axe politique fort. Elle contribuera pourtant très activement à l’édification du droit social sur ses deux versants : celui de l’assistance, de la protection sociale et celui du travail, en tant que pensée de la relation, de l’« entre deux » négligé par ses grandes sœurs[16].
L’osservazione sul ruolo di «pensiero della relazione», di operatore di «mezzo» che la fraternità svolge sul piano del mondo del lavoro è fondamentale. Libertà e eguaglianza sono «confinate» sul piano dei diritti soggettivi, mentre la fraternité prende corpo sul terreno dei diritti oggettivi, cioè i diritti sociali, terreno sul quale soltanto il discorso relativo alla tutela del «corpo sociale» acquista senso. Come osserva il grande storico delle Annales : «Seule la fraternité permet de rendre compte de la dynamique morale et politique de l’attention à autrui, du secours qui lui est porté et d’une action commune en vue d’une œuvre de justice. Étant ancrée dans la relation, elle est la vertu de l’entre-deux, l’âme du lien social bientôt juridiquement déclinée»[17].
Su questo piano può innestarsi la discussione portata avanti da Bergoglio nell’Enciclica «Fratelli tutti». La bella parabola evangelica del Buon Samaritano declina precisamente, in modo visibile, quell’entre-deux dei diritti dell’uomo che sta al di qua della posizione delle leggi, e sancisce l’incondizionalità trascendentale dell’atto d’umanità per l’uomo tout court, prima che diventi «cittadino», cioè soggetto appartenente a una «nazione», «popolo» o «tribù» – il Samaritano è infatti uno straniero, ma anzitutto un uomo che aiuta l’altro uomo senza chiedergli compenso e senza interessarsi a quale credenza, religione, nazione ecc. egli appartenga: tutto questo viene dopo. Bergoglio sottolinea adeguatamente tale aspetto del valore universale della parabola cristiana, in quanto essa stessa va al di là del Cristianesimo come semplice confessione religiosa, e attinge invece la dimensione universale del trascendentale bio-storico. Oltretutto, si dovrebbe meglio dire che la parabola del Buon Samaritano sta al di qua del Cristianesimo stesso, appartenendo – come i filosofi illuministi, materialisti e atei (Diderot, D’Holbach), hanno saputo ben rilevare –, alla «morale universale» dell’umanità razionale. Che i valori universali, trascendentali, dell’umanità dell’uomo (il Bene, il Giusto, il Vero ecc.) si fondino sull’idea di un Dio trascendente o sui «rapporti eterni» che regolano le giuste relazioni dell’uomo con l’uomo[18], la cosa non cambia.
È nel mondo del lavoro, soprattutto, che la fraternità fa e continua a fare problema. Il movimento operaio internazionale nato nell’Ottocento sulla scia della grande Rivoluzione dell’1789-1793, ha considerato con un certo sospetto ogni appello generale e universale alla fraternità, come un’ingiunzione che tenderebbe a neutralizzare la spinta della «lotta di classe». La fraternité ha valore operativo solo tra gli oppressi, i proletari, che devono unirsi universalmente nella loro lotta al capitalismo. Ma tra capitalisti e operai non potrà mai esserci vera «fraternità», se non in una società emancipata dai legami di dipendenza e, in ultima analisi, dall’oppressione capitalistica.
La fraternità operaia è selettiva, esclusiva. Del resto, il concetto stesso di «fraternità» nei secoli XVII-XVIII non è ancora caricato di un significato morale o religioso. Come si evince dai dizionari dell’epoca, la parola fraternité, nella lingua corrente, esprimeva, oltre al legame di sangue tra fratelli[19], un valore etico-nobiliare legato alla fedeltà d’armi, come ricorda ancora l’Encyclopédie (vol. VII, 1765) di Diderot[20]. È solo con la Rivoluzione del 1793 che «fraternité» si carica di quella connotazione politica e morale-religiosa (in senso deistico), che assumerà a poco a poco fino a noi, senza tuttavia dimenticare la connotazione etico-nobiliare (militare) che aveva conservato per secoli. Ecco perciò che durante la nuova rivoluzione del 1848 si assisterà a un «revival» della fraternité, dimenticata dal 1793, come argine alla guerra civile ma con l’aggiunta della valenza di lotta di classe che la nuova coscienza operaia internazionale iniziò a legarvi[21]. Con il Manifesto dei comunisti (Londra, 1848) di Marx e Engels il passo di affrancamento dalle ambiguità legate al concetto di fraternité è definitivamente compiuto. La fraternité resta e deve restare un valore, ma condizionato dalla lotta di classe; può limitare i «danni» che questa potrebbe causare in termini di guerra civile (il Terrore). Ma sono soprattutto i socialisti non comunisti, allievi della scuola di Saint-Simon a conferire dignità di «diritto» alla fraternità elevandola alla stessa altezza delle due sorelle maggiori, al di là delle sirene di una «rivoluzione comunista» che avrebbe fatto piazza pulita di tutti i diritti «del cittadino» (borghese e non), in primis la proprietà. Quest’ultima va subordinata ai diritti sociali, in maniera determinante, secondo la lezione giacobina, ma non «abolita» in nome della necessità (pretesa) scientifica di una «socializzazione dei mezzi di produzione». Si tratta ora di cambiare l’ordine della tradizionale «divisa» repubblicana, ponendo la fraternità al centro: «Liberté, Fraternité, Egalité!»[22]. L’Enciclica di Bergoglio sembra voler andare in questa direzione «socialistica», in modo singolarmente eretico in rapporto alla tradizione cattolica mainstream della dottrina sociale della Chiesa. E tal è, ci sembra, ancora oggi la posta in gioco di una democrazia reale che voglia pensarsi legata alle sue radici storiche, senza nulla concedere alla retorica populistica – dei due fronti: di governo e di opposizione – sempre più à la page in tempi di pandemia.
NOTE
[1] Cfr. Les Constitutions de la France depuis 1789, Présentation par J. Godechot, édition corrigée et mise à jour par H. Faupin, Paris, Flammarion, 2006, p. 435: «Titre Premier. De la souveraineté. […]. La devise de la République est “Liberté, Egalité, Fraternité”».
[2] E. Sieyès, Reconnaissance et exposition raisonné des droits de l’homme et du citoyen, in Orateurs de la Révolution française, I. Les Constituants, Textes établis, présentés et annotés par F. Furet et R. Halévi, Paris, Gallimard, 1989, p. 1012 [corsivi nostri].
[3] I testi editi e commentati sono disponibili oramai nell’utile raccolta già citata: Les Constitutions de la France depuis 1789, pp. 33-35 [Traduzione nostra].
[4] J.A.C de Condorcet, Elogio dell’istruzione pubblica, Introduzione di M. Bascetta, Roma, Manifestolibri, 2002, p. 63, edizione basata sulla traduzione di G. Jacoviello (1911), non priva di difetti. Considerata l’importanza e l’attualità dell’opera è auspicabile la preparazione di una nuova edizione critica.
[5] Ivi, p. 72 [Traduzione nostra].
[6] Sul rapporto tra questo ideale di prassi politica e le idee filosofiche dell’Illuminismo, soprattutto quello «radicale», mi permetto di rinviare al saggio: P. Quintili, Quale Illuminismo? Ragione, diritto d’esistenza e movimenti sociali, in «Filosofia in Movimento», 2016: https://filosofiainmovimento.it/quale-illuminismo-ragione-diritto-desistenza-e-movimenti-sociali/; e in Micromega, «Il rasoio di Occam», 2016: https://www.sinistrainrete.info/filosofia/8756-paolo-quintili-quale-illuminismo.html.
[7] Les Constitutions de la France cit., p. 72 [Traduzione nostra].
[8] Cfr. A. Cloots, Le basi costituzionali della repubblica del genere umano, Prefazione e cura di A. Guerra, Roma, Castelvecchi, 2019; ateo e materialista, fautore di una «nazione mondiale», in nome di una fraternità universale del Genere Umano, Jean-Baptiste du Val-de-Grâce, baron de Cloots fu uno degli esponenti giacobini più coerenti e radicali.
[9] Les Constitutions de la France cit., p. 72 [Traduzione nostra].
[10] Ivi, pp. 76-77 [Traduzione nostra].
[11] Cfr. C. Cerda Guzman, La fraternité: un nouveau droit fondamental? Le Conseil consitutionnel français et la reconnaissance du principe de fraternité. La confusion des sentiments, in rete: https://www.justice-en-ligne.be/-La-fraternite-un-nouveau-droit.
[12] Sul tema capitale della «dignità umana», e del vivere-insieme nella dignità, in relazione alla fraternité e alla liberté, cfr. F. Triki, Éthique de la dignité, Révolution et vivre ensemble, Tunis, Arabesque, 2018; e J. Poulain-H. J. Sandkühler-F. Triki (a cura di), La dignité humaine. Perspectives transculturelles, Peter Lang, Frankfurt am Mein, 2009; e in FIM: F. Triki, Voler vivere nella dignità, 2018: https://filosofiainmovimento.it/voler-vivere-nella-dignita/, da cui è nato il volume collettaneo: A. Cecere-A. Coratti (a cura di), Lumi sul mediterraneo. Politica, diritto e religione tra le due sponde del Mediterraneo, Milano, Jouvence, 2019.
[13] Sull’insieme del dibattito in Francia attorno alle libertà e ai diritti ad essa legati in regime di crisi sanitaria, cfr. Cercle Droit & Liberté, Contribution extérieure à la saisine 2021-824 DC concernant le projet de loi du 25 juillet 2021 relative à la gestion de la crise sanitaire, indirizzo al Conseil constitutionnel del 3 agosto 2021, in : Contribution extérieure devant le Conseil Constitutionnel.docx (cercledroitetliberte.fr).
[14] J. Le Goff, Le droit à la fraternité n’existe pas, in «C.E.R.E.S.» | « Revue Projet », 2012/4, n. 329, pp. 14-21, disponibile in rete : https://www.cairn.info/revue-projet-2012-4-page-14.htm.
[15] Come ha sottolineato M. Ozouf, in Dictionnaire de la Révolution française, a cura di M. Ozouf e F. Furet, Paris, Flammarion, 1988, p. 731 sgg. e ID, Liberté, égalité, fraternité, in P. Nora (a cura di), Lieux de mémoire, Paris, Gallimard, 1989, vol. III, p. 4353 sgg.
[16] J. Le Goff, Le droit à la fraternité n’existe pas cit., p. 14.
[17] Ibidem. Sulla nozione di fraternité nel diritto costituzionale francese oggi, vedi anche G. Canivet, La fraternité dans le droit constitutionnel français. Conférence en l’honneur de Charles Doherty Gonthier, 20-21 mai 2011, in : La fraternité dans le droit constitutionnel français (conseil-constitutionnel.fr), l’autore individua quattro «attributi del concetto costituzionale di fraternità» : «l’incrédulité », «la positivité», «la fertilité» e la «subversivité».
[18] Cfr. Diderot, Osservazioni sulla “Lettera sull’uomo” di Hemsterhuis, in Opere filosofiche, romanzi e racconti, a cura di P. Quintili e V. Sperotto, Milano, Bompiani, 2019, p. 905: «Mai nessun autore, materialista o meno, si è proposto di rendere ridicole le nozioni di vizio e di virtù e di attaccare la realtà dei costumi. I materialisti, respingendo l’esistenza di Dio, fondano le idee del giusto e dell’ingiusto sui rapporti eterni dell’uomo con l’uomo. Vedete il Sistema della natura».
[19] Cfr. Dictionnaire de l’Académie française, Paris, 1694 : «Il signifie aussi, Union fraternelle, Amitié fraternelle. Ils vivoient dans une grande fraternité. Il n’ a point de sentiment de fraternité pour ses cadets. Il se dit aussi De la Liaison estroitte que contractent ensemble ceux qui sans estre freres ne laissent pas de se traiter reciproquement de freres. Il y a fraternité entre ces deux hommes, entre ces deux familles, entre ces deux Republiques, entre ces deux Eglises».
[20] Enc., VII, p. 290a : « FRATERNITE d’Armes, (Hist. mod.) Association entre deux chevaliers pour quelque haute entreprise qui devoit avoir un terme fixe, ou même pour toutes celles qu’ils pourroient jamais faire ; ils se juroient d’en partager également les travaux & la gloire, les dangers, & le profit, & de ne se point abandonner tant qu’ils auroient besoin l’un de l’autre. L’estime, la confiance mutuelle de gens qui s’étoient souvent trouvés ensemble aux mêmes expéditions, donnerent la naissance à ces engagemens ; & ceux qui les prenoient devenoient freres, compagnons d’armes. Voyez Frère d’Armes. Ces associations se contractoient quelquefois pour la vie ; mais elles se bornoient le plus souvent à des expéditions passageres, comme une entreprise d’armes, telle que fut celle de Saintré, une guerre, une bataille, un siége, ou quelque autre expédition militaire. L’usage de la fraternité d’armes dont il s’agit ici, est fort ancien».
[21] Cfr. l’interessante saggio di J.-C. Caron, La fraternité face à la question sociale dans la France des années 1830, in F. Brahami et O. Roynette (a cura di), Fraternité. Regards croisés, Besançon, Presses universitaires de Franche-Comté, 2009, p. 135-157: «Ce troisième mot de la devise républicaine proclamée comme telle le 26 février 1848, puis intégrée à la constitution du 4 novembre suivant, a en effet dès les Trois glorieuses une fonction conciliatrice entre les partisans de la liberté et les partisans de l’égalité, deux notions dont Tocqueville, parmi d’autres, avait montré l’incompatibilité absolue. Cela devient en effet un topos du XIXe siècle que d’opposer les idéaux de liberté et d’égalité, topos périodiquement réactivé par les secousses insurrectionnelles et révolutionnaires qui scandent l’époque. Face à l’avènement, redouté ou souhaité, de la démocratie, le discours fraternitaire se veut, dans les deux camps, rassurant. Une société de frères ne peut être une société de classes : les libéraux y puisent donc l’espoir du maintien d’un ordre social fondé sur la distinction sociale. Mais, du côté des républicains et même pour une majorité de ‘socialistes’, jusqu’en 1848 compris, la fraternité permet d’accompagner un projet politique et social dont l’aspect (plus ou moins) révolutionnaire est gommé par la référence à la fraternité : ainsi fera-t-on l’économie d’une nouvelle Terreur, ainsi l’avènement d’une république plus ou moins sociale se fera-t-elle de manière pacifique. Cette instrumentalisation de l’idéal fraternitaire atteint son apogée avec la célébration de la fête de la Fraternité, le 20 avril 1848».
[22] Ivi, p. 146 sgg. Particolare interesse riveste la figura dell’inventore (o quasi) della parola «socialismo», il sansimoniano Pierre Henri Léroux (1797-1871), autore di un Projet d’une constitution démocratique et sociale (1848), amico di George Sand, come osserva Caron: «Leroux demeure fermement attaché à une pensée évolutionniste, réformatrice, conciliatrice, permettant d’éviter le bain de sang. Dans cette optique, plus que jamais la fraternité est présentée comme la médiatrice capable de résoudre l’antagonisme entre la liberté et l’égalité : ‘Je mets la fraternité au centre de la formule, parce qu’elle est le lien entre la liberté de chacun et la liberté de tous ou l’égalité’».
Il senso dell’etico-religioso. Intorno all’Enciclica “Fratelli Tutti”
1) Mi pare che nell’Enciclica «Fratelli tutti» di papa Francesco vi sia una sorta di sottile sfasatura interna, o, meglio, una residua e paradossale indeterminazione nel rapporto tra l’esplicita «dimensione universale» di laicità entro cui il discorso intende svolgersi, cui tutti sono chiamati, e la natura propria, ancora impregiudicata, dello stesso messaggio circa la fratellanza. L’Enciclica, nei suoi aspetti formali e nella disposizione richiesta ai partecipanti, vuole muoversi nell’ambito di un’auspicata condizione di comune laicità, richiesta a tutti i lettori e fruitori del testo; ma questa premessa trova poi adeguato svolgimento nel nucleo stesso del messaggio circa l’universale fratellanza? Ossia, l’intrinseca natura del «Fratelli tutti» riesce laica come l’ambiente in cui è dibattuta, o invece ha carattere propriamente religioso, generando così appunto un qualche décalage tra esterno e interno, tra la premessa e la cosa stessa? Mi soffermerò in questo scritto solo intorno a tale quesito, e tutti vedono come il corpo e la sostanza dell’Enciclica restino fuori da una simile considerazione; ma, del resto sono i testi importanti che richiedono una sosta fin dal primo passo, una riflessione non appena entrati nel vestibolo della casa. Una parola anzitutto sulla laicità. Fin dall’inizio, il testo dichiara la sua intenzione «laica», il desiderio di aprire un discorso capace di coinvolgere tutti, giudei e greci, ossia credenti, non credenti e atei. Pur muovendo da un preciso punto di vista cristiano, ché sempre si parte da una qualche posizione, l’Enciclica vuole allargare il suo discorso a una «dimensione universale», ponendosi come esortazione rivolta, come si dice, a «tutti gli uomini di buona volontà». Non è chi non veda l’opportunità, l’utilità, e anzi la necessità di una siffatta premessa, forse troppo tardi giunta, nel cammino della Chiesa, alla sua più matura consapevolezza, nel tempo a partire da Giovanni XXIII e dal Concilio Vaticano Secondo. Parlare a tutti, al di là di ogni più complessa motivazione, è necessario non fosse altro perché i molti e gravi problemi di cui l’Enciclica si occupa, con urgente premura, riguardano tutti, né avrebbe senso trattarli in riferimento a una sola confessione, e nemmeno all’insieme delle professioni religiose e dei credenti, senza tener conto – ed è questione anche qualitativa, non di semplice estensione degli ascoltatori – dei non credenti e degli atei, di quelli che Barth chiamava gli abitanti dell’altra riva del fiume. Ma proprio l’importanza dell’esordio invita allora a cercare se vi sia congruenza tra questa preziosa consapevolezza, l’auspicata condizione richiesta a lettori e fruitori del testo, e la natura propria del messaggio in discussione; e, qualora corrispondenza non vi sia, si rende allora necessario esaminare le conseguenze di ciò.
2) Di che natura è dunque il messaggio – l’universale fratellanza – di cui si parla e che tutti sono invitati a condividere? Partecipa esso stesso di quella laicità che ci si attende dagli ascoltatori, o esprime una posizione già internamente caratterizzata in senso religioso, disponibile perciò solo per alcuni, per i credenti? Si deve permanere nei suoi confronti in una dimensione di comune e comunicabile razionalità, mondana e naturale, qual è quella stessa che si richiede ai dialoganti, o ci si deve confrontare, attraverso «Fratelli tutti», con un testo di alta sostanza religiosa? Nel primo caso, il discorso sulla fratellanza dovrebbe aprirsi e permanere sul terreno laico, il presupposto di fede, che certo non si nasconde, risolvendosi per intero, almeno quanto alla forma, nella sola «buona volontà» dell’interlocutore, che del resto è caratteristica di ogni dialogo non strumentale e, come direbbe Habermas, volto all’intesa. Nel secondo caso – per non far naufragare l’intero discorso – dovremmo chiederci se la forma religiosa, intesa in senso stretto, comporta necessariamente solo divisione tra credenti e non credenti, o non abbia piuttosto molteplici forme e più larghi significati, tali da consentire una qualche paradossale forma di commensurabilità tra posizioni difformi, se non addirittura qualcosa di quell’universalità che non riesce a costituirsi sul piano laico, logico-razionale.
3) Ma vediamo dapprima perché il primo caso sia da escludere, perché non possiamo considerarci «fratelli» secondo natura, esperienza e ragione. La fratellanza è un’estensione, una generalizzazione, che si costituisce a partire da fatti naturali, dicibili in quanto concreti e determinati: gli affetti, le gelosie o gli odi fraterni, le opposte determinazioni, sono tutti interni alla circoscrizione dell’evento. Il ciclo della Storia di Giuseppe (Gen., 37,1-50,2) prende vita solo da speciali e irripetibili condizioni – che Giuseppe era il più piccolo dei figli, che Giacobbe lo aveva avuto in tarda età e che lo amava più i tutti i fratelli, che gli aveva fatto una speciale tunica talare. Se proviamo a render comune, nel segno della fraternità, questa straordinaria storia che ne rimane? L’astrazione vuota di eventi naturali, schematicamente assunti, che tutt’al più possono essere generalizzati nei concetti, anch’essi astratti, di natura, di uomo (che tutti sono di fatto o potenzialmente fratelli), di specie umana. Il preteso assunto è, invece, che tra fratelli viga un senso d’incontrastata solidarietà, di affetto indefettibile per l’altro e per gli altri, di una relazione esemplare e tangibile, ogni volta che venga evocata. Né serve ora richiamare le guerre e le relazioni che si dovrebbero chiamare dell’antifratellanza. Si pensi ora solo a quelli che oggi si chiamano gli afroamericani degli Usa. Non nell’antichità, dove si è soliti addossare tutti i mali della schiavitù, ma in piena età moderna e nell’epoca della dispiegata affermazione del cristianesimo si determinava una situazione così abnorme che agli occhi di Tocqueville appariva irrimediabilmente tragica (Dém. en Am., II, X). Il problema venne in realtà persino aggravato dai tentativi, militarmente e legalmente riusciti, di abolire la schiavitù. Tra legge e costume restava un divario incolmabile, né bastò la vittoria dei nordisti, abolizionisti degli schiavi, perché si desse vita a un’eguaglianza almeno formale tra le races. Nel secolo che va dalla fine della guerra di secessione a Lyndon Johnson, nonostante la partecipazione dei neri a due guerre mondiali, nemmeno il diritto elementare e formale del voto è parso riscuotibile, e ancora nella situazione attuale tutti sono in grado di valutare ciò che ne è di questa sorta di «male assoluto», quasi inestirpabile nelle sue conseguenze. Nel ‘700 si usava il termine «natura» in tutti i possibili significati, positivi e negativi, e da parte di qualsivoglia uomo (i predicatori dal pulpito, Rousseau, Sade, ecc.); alla fine, per l’indistinzione in esso di bene e male, di giustificazione d’ogni evento, fu presso che necessario abbandonarlo. Temo che la stessa cosa possa succedere anche al termine «fratellanza» quando si sia del tutto consumata la retorica che ancora lo sostiene. Da un lato, la fratellanza perde ogni determinazione e persino senso, se siamo tutti fratelli; dall’altro non si capisce più quale possa essere l’ambito entro cui l’universale fratellanza si costituisca.
4) Ma vediamo ora anche su un terreno diverso, storico-politico, la difficolta a esprimere in forme laiche, logico-naturali, col normale linguaggio, la nozione di «Fratelli tutti». Si consideri la nota difficoltà a dire, col linguaggio ordinario, logico-naturale (o scientifico) la fraternité. E’ stato spesso osservato come delle tre bandiere ideali della Rivoluzione francese, la fraternité, rispetto alla libertà e all’eguaglianza, se proprio non è stata lasciata cadere, ha costituito il vessillo più povero e trascurato. Ciò è comprensibile, credo, perché, mentre le due prime insegne, libertà ed eguaglianza, possono essere tradotte, com’è avvenuto, in positive forme giuridiche e politiche, la fratellanza va ben al di là di questa «strutturabilità» sociale, va persino contro di essa, eccede i piani di regolare, positiva organizzazione della convivenza, oltrepassa il principio «borghese» della reciprocità, di modo che non si riesce a trovarle né una forma né un luogo definito, che non siano esterne, marginali e circoscritte sfere «compassionevoli». In realtà si tratta di una categoria e una forza che piuttosto ci interpellano intorno al cuore di molti problemi, riguardo a una tensione, a un punto indefinito che, riempiendoci di stupore, stabilisce come e fin dove possiamo spingerci nel perseguimento di una sollecitazione in parte oscura a noi stessi, che evoca ben altre forze, allettanti e singolari, rispetto a ogni «norma», che tende talvolta persino ad annientarci, come fossimo dinanzi a un sublime e intollerabile peso. Ma cosa dovrà intendersi qui per fraternité? Se diciamo che coincide con una forma più intensa di socialità, dobbiamo subito aggiungere, d’altra parte, che tutto ciò che riguarda gli uomini associati sta nella forma di una più o meno intensa socialità. Anche la libertà e l’eguaglianza sono intessute di socialità, ché anzi essa costituisce come il loro costante presupposto e punto di riferimento; democrazia, diritto, economia, le grandi forme sistemiche, sono tutte dispiegate nella socialità. Che vuol dire allora ricercare una sfera di ulteriore e speciale socialità che diciamo fraternità, da quale bisogno è originata? Che la socialità nasca dalla fragilità delle altre e assestate forme di socialità è probabile, possibile che tenda a colmare, con una surenchère, il vuoto dell’irrisolto problema di individualità e comunità. Ma il punto che ora ci interessa è la discriminante per cui solo nella «fraternità» sembra incontrarsi una relazione sociale così intensa da superare ogni socialità determinata, ogni assetto sociale che sia finalizzato ad altro da sé, vincolato a un medium o a un catalizzatore, per esempio economico o politico, senza cui sarebbe impensabile.
5) Dobbiamo concludere dunque che l’asserto, constatativo ed esortativo «Fratelli tutti» non ha carattere razionale e naturale, quanto piuttosto ideale e, per così dire, «spirituale» e «assoluto». L’appartenenza di esso alla sfera etico-religiosa è mostrato dalla sua natura del tutto antifattuale, tale cioè che non ha univoci riscontri nella realtà: forse quel che solo si può dire di essa è che riesce alla fine sul piano naturale e scientifico espressione «ambigua», poiché vi convergono tanto pulsioni affettive e solidali, quanto spinte conflittuali e persino reciprocamente distruttive. Non vediamo intorno a noi né pratichiamo uomini che si comportano solo sulla base di una positiva fratellanza universale, per quanto forti siano gli inviti a seguire un simile precetto; e tra gli stessi uomini raccolti e ristretti intorno a particolari «corpi misti» e bandiere, per esempio intorno a confessioni religiose, il conflitto arde con ancor maggior vigore. Hobbes diceva nel De cive (I 5) che i conflitti, le «guerre» più gravi, più «feroci», avvengono tra le «sètte» di una medesima religione, tra le fazioni di uno stesso Stato, su punti dottrinali o di prudenza politica. Si sarebbe ora veramente imbarazzati a fornire esempi letterari e storici, di ricerca psicologica e antropologica di questa ambigua esperienza. Forse, senza scomodare Freud, rispetto al padre-despota i «fratelli» compaiono dapprima in veste egualitaria e solidale, ma, appena «ucciso» il padre, gli odi, i tranelli e le gelosie esplodono senza remore. Oltre al senso comune, a ciò che sta sotto i nostri occhi, trapassato in forme proverbiali, conviene, per la natura di questo scritto, ricordare solo alcuni esempi tratti dalla Genesi: Caino e Abele, Esaù e Giacobbe, Giuseppe e i suoi fratelli; quando Agostino nel de civ. Dei, esamina, con acutezza e qualche perfidia, l’«archetipo», ritenuto gravissimo, di Roma, della grande città terrena, le cui origini sono iscritte nell’omicidio o nel parricidio «fraterno» di Romolo, aveva molti esempi sottomano.
6) L’asserto della fratellanza universale, «Fratelli tutti», sembra essere dunque, senza che nessuno forse si stupirà di ciò, di natura religiosa, non laico-razionale, così come i Vangeli si mostrano molto attenti alla differenza tra fratellanza naturale e la fratellanza dei figli di Dio, la sola rilevante. Ma il problema è allora quello di cercar di dire, per non regredire alle premesse della discussione, cosa sia l’«etico-religioso» (unisco per comodità i due termini) o più, modestamente, in che senso parlo di «religione», in che modo intendo qui questa parola. La domanda è se si possa paradossalmente ritrovare su questo terreno una commensurabilità tra i diversi, un incontro e una convergenza e addirittura qualcosa di quell’universalità che non riesce a costituirsi sul piano logico-razionale. Se non si riuscirà certo a universalizzare razionalmente, estendendola anche ai «saggi di Atene», una forma specificamente cristiana come la «follia della croce» o come i mirabilia cartesiani della creatio ex nihilo e dell’incarnazione, vi possono essere altri modi in cui le diverse e difformi posizioni possono utilmente convivere e confrontarsi. E’ questo un discorso con evidenza difficile, e ora solo accennabile, da cui cercherò di trarmi d’impaccio appena col dire che l’esperienza in senso stretto «religiosa», è, forse addirittura per comune esperienza, solo uno dei modi di «indiamento», di peculiare rapporto dell’uomo con il «divino», con tutto ciò che in ognuno intimamente trascende i limiti della propria «natura», pervadendo l’intero rapporto di sé con sé, di sé con gli altri e di sé con il mondo. In questo senso la «religione» si costituisce nella possibilità di trascendere la propria finitezza, o meglio di mantenere un rapporto aperto tra il finito e le sue eccedenze, là dove lo stesso tempo e spazio sembrano aver mutato la loro natura. L’esperienza che si dice «mistica», l’immediata adesione alla natura e agli altri, come in un «gruppo in fusione», forse potrebbe darci, nei suoi molti significati, un’idea di ciò che «religioso» in generale possa voler dire. La «conoscenza» estetica (ed estatica), poniamo di natura musicale, può essere un buon esempio per questa sorta di esperienze «trascendenti» e «trascendentali». Ma s’immagini anche il primo innamoramento, quando ci si preclude ogni giudizio logico e ogni sentimento del tempo; o, anche, un’intensa esperienza sessuale, in cui il mondo viene completamente trasceso e dimenticato. Sullo stesso piano scientifico, si pensi a quel che dicono gli scienziati sulle folgorazioni che li colpiscono nei luoghi più impensati, facendo la fila alle casse del mercato, come si è sentito dire di recente, circa la soluzione di un problema fisico-matematico che a lungo e vanamente s’era fin ad allora cercato. Nemmeno il piano politico potrebbe riuscire estraneo a quest’esperienza d’illuminante irruzione di novità, di apertura agli altri come «fratelli», quando il cammino della democrazia appare come fermo e stagnante circa le sue possibilità; quando un orizzonte di tipo socialdemocratico si mostra, anche nei suoi momenti migliori, capace di conservare, in qualche modo e sia pur con progressivi compromessi e cedimenti, le conquiste già ottenute, contro gli attacchi ad esso che giungono fino alla barbarie – ma stancamente ripetitivo e incapace, d’altra parte, di produrre significativi salti di qualità rispetto a soluzioni pensate moltissimo tempo prima e oramai non poco irrigidite, incapaci di progettare cammini non «triti», mobilitando più larghe speranze, originali idee e consistenti forze.
7) Possiamo rappresentarci l’etico-religioso come una sorta di «eccedenza», un di più che c’è quando c’è, che non può, senza deformarsi, esser ridotto a «regola», a «normalità». Appena ci proviamo a dire cosa sia un’eccedenza, un andar oltre o un sorpassare, vediamo, come uno svanire dell’ordinarietà, che è investita, sconvolta e dissolta, dalla forza di valori assoluti. La comparsa dell’eccedenza annienta ogni altra cosa, ci apre alla «meraviglia» e allo stupore, al non atteso. Se la fratellanza deve darsi, sarà non perché sta da sempre, attuale e attiva, nel fondo del nostro animo e deve essere solo passivamente custodita, ma perché riesce a irrompere, a nostra insaputa, nella più ordinaria quotidianità, più che criticandola, annientandola: rischio senza garanzia, festa non dovuta né annunciata. Il silenzio è forse la condizione più propizia a quest’esperienza, il più riguardoso dello stupore, il più necessario ai suoni della musica, la forma di rapporto più comunitario, il più adatto presupposto dell’azione. Ammesse dunque queste accensioni d’eccedenza come costitutive dell’uomo, ne deriva che il «religioso» deve esser sottratto al suo significato si dica pure «proprio», ristretto, e deve esser allargato a un senso che coinvolga di principio tutti gli uomini, in quanto ognuno, finito-infinito, può sperimentare in sé il bisogno, la realtà e la soddisfazione di un’esperienza di valore «assoluto», avente natura aliquo modo religiosa. C’è nella natura stessa come uno scambio (e un reciproco controllo), che non può essere interrotto, tra la dimensione universale, razionale, o, come anche si dice, «razionabile», appartenente di principio a tutti gli uomini, e la specifica emergenza individuale, l’idion, a volte incomunicabile, di situazioni «mistiche»; e quindi una costante relazione tra l’irrompere dell’«assoluto» e la costitutiva finitezza di ognuno, che ne viene ogni volta come riposizionata.
8) Immaginiamo ora cosa potrebbe essere una socialità senza altri mezzi e scopi che non siano se stessa, o, come si dice a volte, ed è quasi una tautologia, che si risolva indistintamente, come altro nome, nel reciproco «servizio» tra gli uomini, o nella trasformazione umana della stessa libertà in sostanza intrinsecamente sociale (come nei bellissimi scritti del giovane Marx), nell’essere presso di sé, costitutivamente essendo presso gli altri («Je est un autre» diceva Rimbaud»). Ciò è possibile a veder bene solo in ambito «religioso» (ma, appunto, in questo terreno ricadono molte, alte e note, espressioni di pensiero laico e ateistico), là dove alberga un andar oltre ogni scopo definito, ogni istituzione data, poiché la tensione assoluta del libero sentire si rinnova di continuo, a costo di disperdere se stessa, secondo i bisogni e come pura e incondizionata dedizione all’altro, dove il momento «statico» o della forma giuridica non impedisce mai lo scorrimento del momento vivo e «dinamico», e nessuna determinazione è mai esaustiva di un intero processo. In senso assoluto, l’etico-religioso, il fiume della socialità-fratellanza potrebbe non essiccarsi mai, né venir mai così fermamente incanalato da spegnere le correnti fattivamente agitate che ne alimentano il corso. I «santi» fondatori di «ordini» hanno sempre libero campo di opere avanti a sé. Certo il limite dissolutore di queste esperienze resta sempre l’istituzionalizzazione: si pensi anche solo alla mondana difficoltà di mantenere aperta alla socialità i partiti che a vario titolo sono nati da un’esigenza e da una spinta sociale e che appunto si dicono «socialisti» – anche se in essi si è espresso la forma più vicina alla socialità, già dentro la Rivoluzione francese e poi nelle organizzazioni operaie, nell’internazionalismo e nell’essere «compagni». Ma questa dialettica tra espansione e limite è governata essa stessa, entro la dimensione dell’assoluto, da una più forte energia dominante, che travolge i limiti, critica intrinsecamente e ripensa le esperienze passate, tende sempre ad affermare, contro recinti ristretti, la sua urgenza creativa.
9) Ma riportata l’alta intensità della fraternità universale – di cui non si negheranno certo i prodromi naturali nella condivisione della sofferenza, nell’immediata capacità di identificarsi all’altro e nella pietà – all’ambito etico-religioso, all’assoluto valore, entro la speciale dimensione degli uomini considerati tutti come fratelli tra loro, come ci porremo dinanzi a questo singolare e misterioso «miracolo», e come riusciremo a dirlo se il linguaggio ordinario e scientifico di cui disponiamo sembra farsi in questo caso uno strumento vuoto, impedito, fuorviante e alla fine muto? Eppure niente di questa esperienza, appartenente all’uomo, può dirsi, secondo l’antico motto, a noi estraneo. La difficoltà di comunicare ad altri la personale esperienza di trascendimento «religioso» è tuttavia relativa: impenetrabile da un lato, d’inviolabile intimità, è per altro verso e fino a un certo punto dicibile nella forma di una straordinaria narrazione, bella e stupefacente per chi non l’abbia mai provata, capace di gettare, donde che provenga, uno sguardo più profondo sull’uomo e la sua condizione. Ciò non toglie però il fondo della questione secondo cui la fratellanza universale non ha né può avere alcun «fondamento» logico-discorsivo e nulla è predisposto, filosoficamente, per la sua comparsa; si accetta per puro gesto volontaristico e libero, non può essere di per sé «dimostrata», non può essere «smentita», si «fonda» solo su se stesso, sulle sue proprie «ragioni», e anzi sulla sua sola esibizione. Nulla impedisce per altro che la fratellanza universale divenga il cuore di molte volizioni, che intorno a essa sorgano molte speranze e molti atti conseguenti. Ma questo è tutto ciò che si può dire e auspicare, tutto quel che ci si può attendere: non un obbligo razionale-morale, non un dovere religioso tradotto in formule e in precetti, non l’inizio di un discorso razionale e comune, espressione del logos, né di una spiegazione ragionata. La presenza e l’efficacia dell’etico sono ineffabili funzioni della libertà, che niente riuscirebbe veramente a «costringere»: la vera religione, sottratta al sacro, è solo là dove si può scegliere a cosa dedicarsi, un «mistero», fino in fondo e con ogni serietà. Giustamente, l’Enciclica non cerca in alcun modo di appesantire di «bardatura» dottrinale, e nemmeno del calcolo di «prove» e dimostrazioni, la fratellanza universale e, piuttosto, la riconduce alla dimensione del «sogno», o a gesti di «amicizia».
10) Nella Conferenza sull’etica (1929/30), e nei documenti correlati, forse Wittgenstein ci può forse aiutare ad approfondire la forma d’impasse tra ciò che è rilevantissimo per noi, un valore assoluto, e che risulta al tempo stesso inesprimibile in termini logici, comunicabile solo nella forma d’una esterna narrazione (in Lezioni e conversazioni, a c. di Michele Ranchetti, Adelphi, Milano 1995). Si può, e come, cercar di dire l’assoluto etico-religioso? Dopo aver acutamente osservato le aporie che gravano sul nostro linguaggio, quando parliamo di qualcosa che avrebbe «valore assoluto», o «sovrannaturale», contrariamente alle parole che usiamo all’interno della scienza, dove esse sono capaci di trasmettere solo senso e significato naturali, ci troviamo – dice Wittgenstein – in una situazione di ineffabile perplessità. Il problema, o l’aporia, a semplificarlo, può essere detto così: da un lato, se usiamo il linguaggio ordinario e della scienza per cercar di comprendere l’assoluto, incontriamo solo proposizioni di «puro nonsenso», ma, dall’altro lato, poiché questi asserti esprimono nostre esperienze, sono pur sempre «fatti». Ed ecco che, al fondo di un simile problema, «come in un lampo di luce», balugina questa «soluzione»: nessuna esposizione sarebbe mai adatta – e anzi, si aggiunge, la respingerei io stesso – a descrivere quel che intendo per «valore assoluto». Solo che, continua la Conferenza di Wittgenstein, ora vedo anche come queste esperienze dell’assoluto, hanno a loro senso costitutivo proprio il nonsenso: «la loro mancanza di senso era la loro essenza peculiare», e con esse mi proponevo proprio di andar oltre il mondo, al di là del linguaggio significante. La tendenza di quanti hanno cercato di parlare o scrivere di etica e di religione è stata di «avventarsi contro i limiti del linguaggio», come nell’«urto» di cui parla Kierkegaard, contro le pareti invalicabili della nostra «gabbia» linguistica, cercando di farne un uso errato: parole usate in senso allegorico, su Dio come fosse uomo, o nel senso dell’analogia e della similitudine senza riscontro in un originario fatto. Dire così che ci meravigliamo del fatto che qualcosa come il mondo esista (senza che esistano termini di paragone) o, come nella nostra ipotesi e nel nostro esempio, «Fratellanza universale» vuol dire cacciarsi, attraverso un uso errato del linguaggio in un terreno «perfettamente, assolutamente disperato». Ma lo sconforto nasce solo dal cattivo scambio di un linguaggio con l’altro, poiché il «valore assoluto», un asserto sul «significato ultimo della vita», non può mai essere ricondotto alla logica della scienza: ciò si fa chiaro perché queste proposizioni sull’assoluto non aggiungono in verità nulla alla nostra conoscenza. E tuttavia – è la battuta finale – si ha qui il «documento» di una tensione dell’animo umano che non vorrei mettere in ridicolo neanche se ne andasse della mia vita. Il «religioso» si costituisce così sul paradosso della consapevolezza di credere in un’«insensatezza», una «follia», per esempio di riuscire a vedere come fratelli esseri spesso impegnati a dilaniarsi tra loro. Il paradosso sta nel fatto che l’insensato è però, al tempo stesso, quanto di più pieno di senso si trovi al mondo. Non c’è un bene in sé tale, leibnizianamente, ma il bene è bene solo perché, cartesianamente, è voluto, ordinato da Dio; non c’è alcuna ontologica disposizione all’etico. La serietà del considerare lo stesso nonsenso come «essenza peculiare» dell’etico-religioso impone riguardosi silenzi, una condizione che ha maggiori potenzialità di quanto non ne abbiano le stesse parole e che forse agevola la disponibilità al fare, all’opera non gravata di presupposti logici e di parole, di regole uniformanti.
11) Il silenzio che abbiamo trovato in Wittgenstein (notissimo per il finale del Tractatus) come condizione di un paradosso, si ritrova altresì nel racconto evangelico del buon samaritano. In questa bellissima parabola – cuore e sostanza di ogni discorso evangelico sulla fratellanza – l’odiato abitante della nemica Samaria non rincorre il sacerdote né il levita, per spiegar loro come abbiano tradito un vincolo immancabile d’umanità, non predica, non argomenta, ma agisce là dove gli altri erano passati oltre dinanzi all’uomo spogliato, percosso e abbandonato sul ciglio della via. Cristo è testimone, solo col gesto ostensivo, di uno straordinario quanto muto attore, né aggiunge parola alla descrizione delle azioni del samaritano: «Va’ e tu pure fa lo stesso» (Lc. 10. 25-37). Il samaritano è mosso non dalla ragione, dall’obsequium al precetto ineludibile del «Fratelli tutti», ma dall’insorgenza della «pietà», della commossa partecipazione al dolore: un sentimento di identificazione all’altro che lungi dall’essere una sorta di segno comune dell’essere uomini, è frutto di un’eccedenza, per altro illuminata e previdente, poiché, al di là dell’onda dell’immediata condivisione del dolore, il samaritano si preoccupa di ciò che accadrà quando se ne sarà andato e quindi tornerà per saldare il debito contratto con l’albergatore per le cure prestate. Forse il concetto di «eccedenza» e quello di «stupore» ci aiutano a capire cos’è l’assoluto etico-religioso rispetto ai «fatti» comunicabili. L’andar oltre e, in un certo senso, anche il «superfluo», è ciò che è impossibilitato a trattenersi in una dimensione comune, che la eccede di principio, e questo soverchio non può, per ciò stesso, esser mai ricondotto a «regola». L’ultima cosa che si può fare è oggi considerare l’etico-religioso come ciò che presiede ordinatamente a tutta la nostra vita come norma fissata. Anche la grazia divina si dice che proceda in questo modo, «gratis data». L’assoluto etico-religioso è di questa natura, e così il «Fratelli tutti»: il fascino del suo mistero è l’insondabilità, per cui ci può essere o no, annuncio straordinario e individuale che si dà all’interno di una dimensione «normale», aliena e comune. L’esser religioso, è anche il tentativo, vano in realtà, di cercar di ricondurre a «norma» ciò che è tale proprio perché si sottrae a ogni «regola», ciò che non ci si aspetta. Se il sacerdote e il levita potessero tornare indietro, come in un film, e osservare il comportamento «compassionevole» del samaritano rimarrebbero forse, se l’umano ancora alberga in loro, colpiti come da un’esplosione, venendo sfidati proprio in quel che fin lì hanno giudicano un comportamento «normale» (tenersi alla larga). Al centro di questa parabola, stanno le azioni, ciò che si può fare, le opere senza dicibili presupposti e parole, fossero pure di stringente pressione. A ragione l’Enciclica, nei suoi svolgimenti, mette in campo problemi e proposte operative di soluzione. Fare, per una volta, sembra più facile che dire. La sofferenza, e i modi possibili per ridurla, esercitano una pressione cui da troppo tempo ormai si è resistito, cercando rinvii o pannicelli caldi. Qui il problema è non solo quello di muovere gli animi, ma di cominciare a intaccare il male che si è depositato nel mondo, e che richiede sforzi coordinati e illuminati. Il male, dicevano i vecchi credenti, non si cancella con i soli atti di contrizione, perché si cumula e si riproduce, occupando il mondo; il suo peso richiede, per essere almeno limitato, iniziativa e tenacia. Tutti potrebbero e dovrebbero collaborare a questa difficile opera, che però ha un effetto liberante rispetto al tormento di pensieri che l’etico e il religioso portano fatalmente con sé. L’azione buona farà liberi, allevierà le timide aspettative, mostrerà subito ciò che si può fare, i passi avanti. Ma più che mai, anche qui, si può solo sperare che molte, e magari inopinate, forze concorrano, fuor d’ogni regola, all’universale fratellanza.
12) Se l’assoluto ha carattere, come si dice, così «trasversale», relativo a una diversità che rende simili, la prima conseguenza pare quella che, di per sé, non hanno più senso le vecchie dispute e le vere e proprie liti tra atei e «religiosi», né le dispute di questi ultimi intorno ai «veri» caratteri di ciò che costituisce la religione. La tradizionale rigidezza, di qua o al di là del fiume, dovrebbe stemperarsi, se il «religioso», nelle sue forme più varie, è visto, a suo modo, come una possibile esperienza comune. In qualche modo, pascalianamente, «nous sommes tous embarquées» (Cfr. Mario Reale, Laicità, in AA.VV., Le idee della sinistra, Editori riuniti, Roma 1992; Id. Sulla laicità. Considerazioni intorno alle relazioni tra atei e credenti, in «Novecento», II 1992, pp. 3-34). Certo, la perdita di ogni residuo di trionfalismo ha, come si può constatare, un costo ma la sua necessità s’è fatta, già rispetto a qualche decennio fa, del tutto evidente, dinanzi alle più ardue prove di questo tema sul piano internazionale. Il reciproco ascolto è espressione di differenza, ricchezza senza conflittualità: uno strumento di pace sostituito al tempo hobbesiano di guerra, se al centro della discussione si riescono a mettere personalissime esperienze. E più il «nonsenso» etico-religioso, su ciò che appartiene alle importanti cose riguardanti il «significato ultimo della vita», è complesso e peculiare, più forse l’ascolto è una fonte inesauribile di sorprese, a suo modo un attuarsi della bellezza, più l’azione è libera da gravami precettistici, non mai legata a un ovvio procedere. Se non aggiunge nulla alla positività della nostra conoscenza, l’etico-religioso è una tensione, meglio, un desiderio che ci trasporta nel profondo dell’animo umano, in der Tiefe der Seele, come Wittgenstein s’esprime esattamente al modo di Kant, un’esperienza che sarebbe far torto a sé stessi, all’umanità, «porre in ridicolo».
«Dov’è tuo fratello?» note a margine alla terza enciclica di Papa Francesco
di Debora Tonelli
Fratelli tutti è il titolo e l’incipit della terza Enciclica di Papa Francesco. L’espressione è ripresa dalle Ammonizioni di San Francesco, «per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo». Tra i consigli offerti dal santo di Assisi, il Pontefice ne evidenzia subito uno che ritiene essenziale: «l’invito all’amore al di là delle barriere della geografia e dello spazio» (§ 1). Quest’idea, non nuova nella tradizione evangelica, implica un radicale ripensamento nella gestione delle relazioni umane e del loro contributo allo spazio politico. Se è vero che ogni teoria politica si basa su una visione dell’essere umano e delle sue relazioni, il concetto di “prossimo” è essenziale. A partire da una visione radicalmente teologica, secondo la quale l’essere umano esprime il suo amore per Dio attraverso l’amore per gli altri, il Pontefice invita a una profonda riflessione sul concetto di “prossimo”, di “altro” che non può essere circoscritto alla vicinanza culturale, geografica, politica, ma deve radicarsi nella consapevolezza di una più ampia appartenenza alla famiglia umana. Il prossimo è “ciascuno”, cioè “chiunque”. Questa visione impone di tralasciare ogni altra logica basata sull’interesse economico e politico o sulla distanza geografica e culturale. Non esiste “confine” né limite che non possa essere superato a partire dal riconoscimento dell’appartenenza alla comune famiglia umana.
Una visione inclusiva che, seppure ovvia all’interno della tradizione cristiana (anche se non sempre realizzata), ha implicazioni politiche sulle quali vale la pena soffermarsi. Pensiamo – lo anticipo solo – alla traduzione della fratellanza in cittadinanza globale e a come essa potrebbe influenzare la gestione dei flussi migratori, il concetto di appartenenza nazionale, la distribuzione e l’uso delle risorse naturali, solo per citare alcune questioni. Il lessico pastorale dell’enciclica non dovrebbe, quindi, legittimare il suo accantonamento alla cerchia dei credenti né costituire di per sé un limite per l’interpretazione del “prossimo”. Al contrario, tale lessico può contribuire a mettere a tema il linguaggio utilizzato nel dibattito pubblico: il nostro modo di indicare l’”altro” e il mondo di relazioni al quale apparteniamo è essenziale alla nostra consapevolezza circa il modo in cui abitiamo queste relazioni. Il lessico che utilizziamo svela qualcosa di noi prima ancora di dire qualcosa dell’“altro”.
La consapevolezza del nostro modo di abitare lo spazio pubblico è uno dei temi portanti dell’enciclica e di questa sezione, che raccoglie saggi di studiosi, afferenti a ambiti disciplinari diversi, impegnati a riflettere su alcune questioni sollecitate da Fratelli tutti. Ciò indipendentemente dal fatto di riconoscersi o meno come appartenenti alla tradizione cristiana. Del resto, l’enciclica è rivolta a tutti e non solo ai membri della comunità ecclesiale: «pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà.» (§ 7). Non solo. Alla base di questi studi vi è il riconoscimento del fatto che Fratelli tutti solleva questioni che non possono essere ignorate né messe da parte solo perché sollevate da un leader religioso. L’importanza delle questioni trattate è data dalla loro capacità di cogliere le urgenze del nostro tempo e non dall’appartenenza politica o religiosa di chi le pone. Accogliere queste sollecitazioni non significa legittimare l’eventuale ingerenza di una religione nel dibattito pubblico, ma riconoscere l’importanza della posta in gioco. Dovrebbe inoltre far riflettere il fatto che a proporre una riflessione sulle ricadute globali delle problematiche affrontate sia un leader religioso e non politico, interessato a comprendere le dinamiche profonde che sottendono la politica internazionale, i mercati, la politica dello scarto, i nuovi strumenti comunicativi, la realizzazione dei diritti umani. Al di là delle singole “tendenze” che il Pontefice individua, ciò che sembra essere realmente in gioco è l’essenza della politica: la sua capacità di produrre visioni e di essere realmente arte architettonica. Ciò in un mondo in cui la possibilità che le nostre scelte abbiano ricadute spazio-temporali distanti da noi dovrebbe sollecitare un maggiore senso di responsabilità e una più attenta pianificazione.
In questa breve nota intendo soffermarmi su due punti che mi sembrano imprescindibili per ogni successiva considerazione: il primo è il punto di vista a partire dal quale il Pontefice offre le sue riflessioni, cioè il Vangelo; il secondo consiste nel ruolo della spiritualità nella sua visione politica. Entrambi trattano non tanto i contenuti del documento, ma la prospettiva e il modo in cui Papa Francesco li costruisce. Questi punti potrebbero essere superficialmente etichettati come caratteristiche intrinseche al cattolicesimo. Tuttavia, se facessimo così, rinunceremmo a riflettere sul modo in cui essi possano costituire una risorsa per la riflessione politica. Pensiamo, per esempio, agli autori che il Pontefice nomina al termine dell’enciclica come fonti di ispirazione per le sue riflessioni: Martin Luther King, Desmond Tutu, Mahatma Gandhi, Charles De Foucald. In modi e stili diversi costoro hanno rivoluzionato la lotta politica partendo da una riflessione radicale della propria spiritualità. Cambiare sé stessi per cambiare il mondo.
Il punto di vista
«Senza la pretesa di compiere un’analisi esaustiva né di prendere in considerazione tutti gli aspetti della realtà che viviamo, propongo soltanto di porre attenzione ad alcune tendenze del mondo attuale che ostacolano lo sviluppo della fraternità universale» (cap. I, & 9). Con queste parole Papa Francesco apre il primo capitolo dell’enciclica che, pur mantenendo una struttura classica, si distingue per il tono colloquiale e interlocutorio. Del resto, già nell’Introduzione il Pontefice aveva lodato l’atteggiamento di san Francesco che «non faceva la guerra dialettica imponendo dottrine, ma comunicava l’amore di Dio». Questa enciclica, infatti, non vuole imporre una verità dottrinale, né inaugurare una disquisizione dialettica su qualche teoria teologica o filosofica. Essa, piuttosto, vuole ricordare la comune appartenenza alla comunità umana e l’importanza di darne testimonianza nella quotidianità delle nostre azioni. Questo atteggiamento è del tutto coerente con quello degli autori biblici, i quali non producono trattati né disquisizioni teologiche ma mettono in scena la propria esperienza di fede attraverso racconti, canti e poesie: dare l’esempio per ispirare e formare le coscienze. Nella varietà e unicità degli esseri umani, l’auspicio è che ciascuno trovi il proprio modo di incarnare l’appartenenza alla famiglia umana.
Certamente questa posizione di partenza è espressione di una precisa visione dell’essere umano e, come tale, suscettibile a essere messa in discussione. Parlare di “fratellanza” è cosa diversa che parlare di “specie umana”. Radicalizzando la questione, la parola “fratellanza” rimanda a relazioni di familiarità e intimità, mentre la parola “specie”, con i suoi echi darwiniani, può rimandare (anche, ma non solo) alla competitività della sopravvivenza. In realtà, quanto il Pontefice pone come presupposto delle riflessioni successive ha solo apparentemente una pretesa di oggettività e ovvietà: se è vero che ciascun individuo appartiene alla specie umana, non è altrettanto vero che tale specie sia una comunità fraterna né che ciascun individuo si senta parte di una simile comunità. Se così fosse, del resto, non avrebbe sentito la necessità di scrivere questa enciclica in cui la prospettiva di partenza costituisce anche il fine, ovvero la necessità di realizzare tale fratellanza. Del resto, lo stesso Pontefice più avanti ricorda la domanda scabrosa che Dio pone a Caino (Gn 4, 9): “Dov’è tuo fratello?” dalla quale Caino tenta di schermarsi rispondendo con un’altra domanda “Sono forse io il custode di mio fratello?”. La fratellanza che l’enciclica pone come oggetto di riflessione non è determinata dalla consanguineità e non costituisce qualcosa di automatico, ma è l’esito di un impegno continuo per il bene dell’altro. Del resto, anche gli autori biblici non si fanno illusioni e la prima coppia di fratelli consanguinei narrata nel Genesi tradisce l’essenza del loro legame. Nel Vangelo poi Gesù indica come fratelli e sorelle quanti compiono la volontà del Padre (Mc 3, 31-34; Mt 12, 46-50; Lc 8, 19-20).
La fratellanza è, quindi, una scelta che, nella visione francescana assunta dal Pontefice, si realizza riconoscendosi parte di un mondo di creature che include la natura così come gli altri membri della nostra specie. In continuità con la tradizione ignaziana, essa è il tentativo di guardare il mondo e chi lo abita con gli occhi di Dio. Questo è il fondamento teologico a partire dal quale Papa Francesco riflette sulle relazioni sociali «affinché, di fronte a diversi modi attuali di eliminare o ignorare gli altri, siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole.» (§ 7). Quattro elementi emergono con chiarezza: il primo è il considerare le proprie convinzioni cristiane come un punto di vista in mezzo a altri possibili. Il secondo è l’apertura al dialogo con quanti abbiano il desiderio di affrontare i temi proposti nell’enciclica. Il terzo è la visione circa le ricadute globali delle questioni. Il quarto è il decentramento dello sguardo: in primo piano ci sono i problemi delle periferie e non gli interessi del “centro”.
I primi due elementi sono tra loro strettamente connessi: il fatto di riconoscersi in una tradizione religiosa non dovrebbe costituire un limite ma un punto di partenza per il dialogo tra identità diverse. Ciò non solo perché chiunque, nel parlare, lo fa a partire da un certo punto di vista (sia esso esplicito o implicito), ma anche perché chiarirlo è un’assunzione di responsabilità e di rinuncia alla retorica. Il dialogo può realizzarsi solo se in gioco ci sono identità diverse e, paradossalmente, nella misura in cui è possibile che si instaurino contrapposizioni e tensioni. Il senso ultimo non è la vittoria su un avversario ma la promozione del bene comune, cioè qualcosa che travalica le identità a confronto. Di fronte alla ricerca della verità è necessario abbandonare le barriere difensive e superare ogni forma di individualismo. La dimensione spirituale si traduce così in una presa di posizione sociale e politica: «dov’è mio fratello?» è la domanda che dovrebbe guidare la scelta del bene comune.
Per quanto concerne il terzo elemento, ovvero l’attenzione alla ricaduta globale delle questioni, possiamo interpretarlo come la rottura con tutte quelle forme di globalizzazione che, di fatto, si sono realizzate come nuove forme di colonialismo. Gli obiettivi polemici sono l’economia e la finanza globalizzate, che provocano conseguenze, spesso dannose, in luoghi lontani da quelli in cui si gioca la vera partita degli interessi. L’iperconnessione garantita da internet, poi, non ha migliorato la qualità delle relazioni e non ci ha resi più vicini a coloro che sono diversi da noi: le nuove possibilità di comunicazione non ci hanno resi meno razzisti né più disposti a conoscere gli altri. Tuttavia, il problema non sono né l’economia, né la finanza né internet, in quanto strumenti utili a migliorare la qualità delle nostre vite. Il vero problema “siamo noi”, cioè i criteri e gli obiettivi che guidano le nostre azioni, la consapevolezza del fatto che “chi più può, più a responsabilità”.
Il quarto elemento, direttamente collegato al terzo, è il decentramento dello sguardo: in primo piano ci sono i problemi delle periferie e non gli interessi del “centro”. La tradizione coloniale ha legittimato per lunghi secoli il fatto che Paesi militarmente e tecnologicamente forti imponessero la loro supremazia anche in ambito culturale, stabilendo criteri in base ai quali alcune culture sono superiori rispetto a altre giudicate sottosviluppate. Ciò che era diverso dalla cultura dominante, diveniva automaticamente inferiore e non necessario. Questa mentalità ha legittimato la distruzione di interi popoli e culture, la cui dignità e bisogni non sono stati mai riconosciuti. Spostando lo sguardo dal centro alle periferie, Papa Francesco opera una vera rivoluzione culturale che, se accolta, non può non avere profonde implicazioni politiche e sociali. Il Vescovo di Roma viene “dai confini del mondo”, come lui stesso ha dichiarato salutando la folla che lo acclamava appena dopo l’elezione al soglio pontificio [ref] Francesco, Primo saluto del Santo Padre, 13 marzo 2013. [/ref ]. L’origine periferica è diventata fin dall’inizio la fonte per ripensare l’agire della Chiesa e la politica mondiale: trasformare le periferie nel “centro”, nel cuore della missione di quanti hanno responsabilità politiche. Mettere al centro “gli ultimi” non è solo un atto di carità né solo un atto di coerenza evangelica: significa rivoluzionare il “sistema –mondo”, mettere in discussione il fatto che l’essere umano non abbia alternative alla dominazione degli altri, ripensare priorità, paradigmi, finalità e aprirsi a un futuro inedito. Non solo: trasformare le periferie in “centro” significa mettere in pratica quanto affermato dai diritti umani, ovvero la dignità di ogni persona che abita questo mondo, indipendentemente dalla sua possibilità di entrare in relazioni di forza e dalla sua capacità argomentativa. L’esigenza sottesa a questa rivoluzione non consiste solo di nuove pratiche, ma di un nuovo pensiero politico che abbia come presupposto e fine l’essere umano, non nella sua deriva individualista ma nella sua fecondità relazionale che, sola, favorisce il bene comune e la piena realizzazione di una politica che non sia mera negoziazione di interessi.
La spiritualità come progetto politico
A leggerla con attenzione, Fratelli tutti non è solo la presa di posizione e l’offerta al dialogo di un Pontefice, ma la richiesta di una profonda revisione del programma politico mondiale. Colpisce che nel panorama internazionale non sia un leader politico a mettere sul tavolo della discussione una visione globale del sistema – mondo, ma un leader religioso. Forse la risposta è contenuta proprio in una delle critiche che il Pontefice muove alla politica contemporanea, ovvero la mancanza di una visione, la sua incapacità di essere arte architettonica e di essersi trasformata in un mercato di interessi. Se è così, la spiritualità di cui si nutre il Pontefice deve tradursi in pratica politica, perché per cambiare la politica dobbiamo prima cambiare l’essere umano.
Questa enciclica, come le precedenti, è l’esito di un lungo cammino spirituale che ha intrinsecamente a che fare con l’appartenenza alla Compagnia di Gesù. Il Pontefice si pone come uomo di Dio, ma non al posto di Dio. Nel percorso di formazione spirituale, l’accento sull’umanità di Cristo fa scoprire a ciascuno il progetto di realizzazione della propria umanità alla luce di Gesù, ma nella propria irripetibile unicità. È nella riscoperta del proprio valore – non come deriva narcisista ma come atto di amore di Dio – che l’essere umano si riscopre come progetto di Dio per l’umanità. A partire da questa visione antropologica nessun essere umano può esserci estraneo. L’ “altro” è il mistero che rende possibile il realizzarsi del nostro progetto in modi che non abbiamo previsto e ci insegna che non tutto è in nostro potere.
In continuità con la lettera sulla fratellanza firmata a Abu Dhabi con il Gran Imam Ahmad Al-Tayyeb il 4 febbraio 2019, ma pubblicata nel pieno della pandemia del covid-19, Fratelli tutti offre una panoramica di alcune tendenze contemporanee. Difficile contestare l’importanza delle macro aree che il Pontefice propone sul tavolo della riflessione comune: 1) la politica priva di visioni a lungo termine e capace di fornire solo ricette di marketing; 2) la cultura dello scarto, che estende la visione economica a quella sociale e interpreta i più deboli e meno produttivi come un peso di cui disfarsi; 3) i diritti umani, che dovrebbero essere riconosciuti a ciascuno, indipendentemente dal ceto, dalla razza, dalla religione etc.; 4) le migrazioni, che dovrebbero promuovere l’accoglienza, la protezione, l’integrazione, lo sviluppo umano integrale; 5) la comunicazione, che nella sua iperconnessione contemporanea non ha però migliorato la qualità delle relazioni sociali e, a volte, ha acuito gli atteggiamenti difensivi. In estrema sintesi, l’epidemia ha dimostrato in modo inequivocabile sia i limiti del progresso umano sia la necessità di azioni coese.
Cercando un filo rosso comune, potremmo dire che in ciascuna di queste macro aree l’ostacolo sia non la cosa in sé ma l’assenza di responsabilità con cui viene gestita e la necessità di un cambio di paradigma. Nel momento in cui un fatto o uno strumento si trasforma in ostacolo e non in opportunità, significa che è venuto meno quel senso di cura che fa dell’altro un fine e non un mezzo. È così che trasformando l’altro in oggetto, priviamo anzitutto noi stessi della realizzazione della nostra umanità e del nostro essere attori dello spazio pubblico. Rinunciare alla logica strumentale significa riconoscere che il progetto comune ci realizza di più e meglio rispetto a qualsiasi progetto individuale. La questione politica non è, allora, soltanto “cosa posso fare io?” ma “cosa possiamo fare insieme?” La risposta proviene dalla qualità delle relazioni che instauriamo, dalla capacità di abitare e promuovere dinamiche di riconoscimento reciproco, che non sono prive di ostacoli ma aprono alla speranza.
Un’ultima considerazione vorrei farla tornando alle figure che hanno ispirato il Pontefice. Oltre all’imam, al quale lo lega una salda amicizia spirituale, Papa Francesco ricorda M. L. King, D. Tutu, Gandhi, C. de Foucauld e “tanti altri”. Figure molto varie tra loro per temperamento, cultura, religione, ma che hanno in comune l’amore per l’umanità, insieme alla consapevolezza che ciò che lede la dignità di uno, offende quella di tutti. Per realizzare la fratellanza non occorre essere dèi, supereroi, santi, ma semplicemente saper accogliere l’umano che è in noi e in ciascun altro.
Le rotte della fratellanza mediterranea nel pensiero di Papa Francesco. Brevi riflessioni di teoria giuridica
di Gianfranco Macrì
Premessa
«Esistono momenti che sono dei crocevia della storia, nei quali l’umanità si trova di fronte a un bivio: l’involuzione o il progresso, la barbarie o la civiltà, la catastrofe o la rifondazione»[ref]L. FERRAJOLI, Perché una Costituzione della Terra? Giappichelli, Torino, 2021, p. 9.[/ref].
Sembra questa la fotografia esatta del momento che l’umanità vive nelle more della pandemia, dove la condizione di “attesa”, o di “sospensione”, prevale su tutte le certezze, anche quelle scientifiche (giuridiche incluse), anch’esse in balia di una ricerca di senso, di un “fondamento” capace di ricondurre alla normalità[ref]I. NICOTRA, Pandemia costituzionale, ES, Napoli, 2021.[/ref].
Certamente il Covid-19 ha avuto il “merito” di fungere da collante tra un prima e un dopo, o di mettere in sintonia questioni più o meno complesse che la globalizzazione aveva fino ad ora relegato ai margini dell’Occidente, oppure tenuto a debita distanza dai nostri (di noi occidentali) più stringenti interessi, declinati secondo un approccio di “prevalenza-precedenza” rispetto a quelli degli altri; il tutto fintanto che l’intruso pestilenziale non ha provveduto a democratizzare la sofferenza, rendendola “patrimonio universale”. Da qui, l’amara scoperta che senza istituzioni globali – formalmente esistenti (es. l’Organizzazione Mondiale della Sanità), ma concretamente prive di risorse e mezzi all’altezza delle sfide in atto – l’umanità rischia di ripiombare nell’incertezza e nella disorganizzazione, riconsegnando agli stati non il compito di ri-attivare il motore della cooperazione (artt. 11 Cost., 168 e 222 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea) – che ha consentito, per esempio in Europa, di garantire la pace, accrescere lo stato di benessere, migliorare le relazioni sociali e politiche di persone, formazioni sociali e Stati per più di sessant’anni – ma di spingere sull’acceleratore dell’autoritarismo, che trova, nel combinato disposto tra populismo e sovranismo la via più semplice per il superamento (rectius: travolgimento) della «funzione costituzionale»[ref]A. STERPA, Il teorema di Pitagora: come si rapportano Costituzione, populismo e sovranismo? in G. ALLEGRI, A. STERPA, N. VICECONTE (a cura di), Questioni costituzionali al tempo del populismo e del sovranismo, ES, Napoli, 2019, pp. 19 ss. Per un inquadramento delle «multiformi espressioni del populismo», si rinvia ad A. LUCARELLI, Populismi e rappresentanza democratica, ES, Napoli, 2020, pp. 27 ss. [31].[/ref]. Si tratta, allora, di imboccare una strada nuova e migliore che dal locale (nazionale) porta al sovranazionale attraverso una logica ri-costituente, capace di travasare il «costituzionalismo di diritto pubblico, ancorato alla forma dello Stato nazionale», in un costituzionalismo sovranazionale in grado di allargare le tutele verso cui è formalmente ordinato[ref]L. FERRAJOLI, op. cit., pp. 54-56, le sintetizza così: «dai diritti di libertà nelle prime dichiarazioni e nelle costituzioni ottocentesche, al diritto di sciopero e ai diritti sociali nelle costituzioni del secolo scorso, fino ai nuovi diritti alla pace, all’ambiente, all’informazione, all’acqua, all’alimentazione e ai beni comuni, la cui tutela internazionale si rivela oggi assolutamente vitale e fondamentale ma non ancora costituzionalizzata».[/ref].
- Tra le pieghe della società globale, fortemente interconnessa e mai come ora capace di assecondare in tempo reale dinamiche ostili verso soggettività di varia estrazione, è possibile individuare, nella questione religiosa, uno dei canali privilegiati per capire che tipo di sfera pubblica ci stiamo adoperando a costruire[ref]Non è più il tempo della società civile sottomessa al potere temporale della Chiesa (e viceversa), bensì quello della edificazione di una sfera pubblica all’interno della quale la dimensione religiosa partecipa del progetto politico in fieri, aggiungendo, in funzione sussidiaria, elementi di consapevolezza e di ragionevolezza utili a migliore la condizione umana. Da qui anche la necessità, per le religioni, di trovare e implementare momenti di confronto e di dialogo (v. infra).[/ref]. È chiaramente facile constatare come il tema della religiosità (fattore sociale tra i più rilevanti, tant’è che non sfugge al binocolo delle costituzioni democratiche) non è soltanto questione che riguarda la coscienza delle persone, ma anche argomento che investe la sfera del diritto e degli ordinamenti giuridici (interni ed esterni allo Stato), laddove assume le sembianze dell’abito che l’individuo indossa per marcare la sua appartenenza ad una istituzione, intesa quale modello funzionale a «rendere i cittadini soggetti di una prassi confacente ai loro bisogni»[ref]R. ESPOSITO, Istituzione, il Mulino, Bologna, 2021, p. 81. Non è oggetto della presente analisi quello di indagare e spiegare i modelli di relazione tra lo Stato e le organizzazioni religiose (per restare all’interno del circuito storicamente più noto dei rapporti tra società e fattore religioso), sebbene di indubbia rilevanza nelle sue nuove modalità esplicative. Sul tema si rinvia, tra i contributi più recenti, a P. CONSORTI, Diritto e religione. Basi e prospettive, Laterza, Roma-Bari, 2020, pp. 118 ss.[/ref]. A ciò si aggiunge, per completezza di informazioni, la dimensione geopolitica del fattore religioso[ref]P. NASO, Le religioni nell’età post-secolare, in Coscienza e Libertà, n. 55 del 2018, pp. 78-81.[/ref], all’interno della quale l’appartenenza religiosa – a seconda del punto di osservazione (persone, stati, gruppi) e del contesto politico dove il tema viene preso in carica – diventa componente accessoria tra le più rilevanti del rapporto tra «identità e alterità»[ref]F. REMOTTI, L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 16.[/ref] in quanto propedeutica alla costruzione di un “noi” che per essere produttivo di senso, esige positivamente un «vincolo reciproco»[ref]G.E. RUSCONI, Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia, Einaudi, Torino, 2000, p. 56.[/ref] orientato all’interdipendenza, dove alle istanze da custodire (il precipitato del costituzionalismo) si aggiunge tutto quanto merita promozione e tutela (il surplus messo in circolo dai movimenti delle persone) per la costruzione di una società aperta e democratica (cosmopolita)[ref]G. ANELLO, Teologia linguistica e diritto laico, Mimesis, Milano-Udine, 2015, pp. 117 ss., dove svolge riflessioni importanti sul significato giuridico e simbolico della lingua usata in senso “rituale” e sulle sue ripercussioni nella costruzione di una soggettività giuridica interculturale. Per un approfondimento sulle barriere costituite dalle culture e sui modi come ci si relaziona con persone provenienti da diversi contesti all’interno di spazi di socializzazione, si rinvia ad un recente lavoro particolarmente stimolante, per taglio metodologico e suggerimenti “strategici”, E. MEYER, La mappa delle culture. Come le persone pensano, lavorano e comunicano nei vari paesi, ROI Edizioni, Macerata, 2021, passim.[/ref].
In questa sede lo spazio geopolitico di riferimento è il Mediterraneo, nato come spazio comune e oggi sempre più condizionato da quello che un autorevole osservatore ha chiamato “ensemblism indentitario” per identificare un coacervo di sentimenti divisivi e intolleranti verso la «diversità e l’alterità»[ref]F. TRIKI, Dignità e umanità: una possibile convivenza mediterranea, in A. CORATTI, A. CECERE (a cura di), Lumi su Mediterraneo. Politica, diritto e religione tra le due sponde del Mediterraneo, Jouvence, Milano, 2019, p. 23.[/ref]. A distanza di dieci anni dallo scoppio delle “Primavere arabe”[ref]M. EMILIANI, Purgatorio arabo. Il tradimento delle rivoluzioni in Medio Oriente, Laterza, Roma-Bari, 2020, p. 26, il cui giudizio è quanto mai netto, specie quando scrive che: «(…) anche se gli attori che le hanno animate le hanno definite “rivoluzioni”, purtroppo le Primavere arabe di rivoluzionario hanno avuto ben poco. Per ora sono servite a traghettare gli Stati che le hanno viste nascere da sistemi autocratici a sistemi ancora in bilico tra la dittatura e il caos». Meno pessimista M. GIRO che, in un articolo pubblicato su Domani del 7 febbraio 2021, p. 9, evidenzia che: «Il mondo arabo sta cambiando sotto i nostri occhi. Le speranze delle primavere non sono spente ma aspettano la prossima occasione. Malgrado le difficili condizioni economiche e la pandemia si tratta di società resilienti che restano nella tenaglia rovente tra jihadismo e autoritarismo arabo. Sarebbe saggio ascoltarle di più per aiutare nel modo giusto una lenta ma ostinata evoluzione verso la democrazia». Di tempi lunghi circa le «concrete prospettive di piena democratizzazione e pacificazione dell’area dei Pesi nordafricani e mediorientali», parla L. MEZZETTI, Tradizioni giuridiche e fonti del diritto, Giappichelli, Torino, 2020, p. 424.[/ref] – «poco comprese o, nella migliore delle ipotesi, male interpretate»[ref]F. PETRONELLA, You Must Believe in Spring. Le Primavere arabe 10 anni dopo, in Confronti, febbraio 2021, p. 12.[/ref] – «l’equazione irrisolta rappresentata dalla dimensione religiosa»[ref]M. BRIGNONE, I termini mancanti dell’equazione, in Oasis, n. 31, dicembre 2020, p. 9.[/ref] rimane lo spartiacque principale in grado di condizionare, sia il cambiamento all’interno del Mediterraneo sudorientale – attraversato, oppure soltanto lambito, da questo lungo processo di transizione[ref]L. MEZZETTI, La libertà decapitata. Dalle Primavere arabe al Califfato, ES, Napoli, 2016, pp. 26 ss.[/ref] – sia l’approccio occidentale alla politica mediterranea, che ha bisogno di essere ridisegnata in ragione dei nuovi equilibri e dei nuovi interessi messi in moto dopo i rivolgimenti dell’ultimo ventennio da attori come Russia, Cina, Turchia e alcune potenze sunnite del Golfo[ref]L’Unione europea, fatica a costruire una “sua” «autonomia strategica. La parola d’ordine ha numerosi significati. Anzitutto quello di costruire un’autentica politica estera, di sicurezza e di difesa comuni». In questi termini, C. RISI, L’Unione Europea e le Primavere arabe dieci anni dopo, in Apertamente, 21 marzo 2021 (www.associazione-apertamente.org). [/ref]. Ed è sulla scorta di questa evidenza che Papa Francesco ha sottolineato che: il
«Mare nostrum è il luogo fisico e spirituale in cui ha preso forma la nostra civiltà, come risultato dell’incontro di popoli diversi [e che] Proprio in virtù della sua conformazione questo mare obbliga i popoli e le culture che ci si affacciano a una costante prossimità (…). In questo epicentro di profonde linee di rottura e di conflitti economici, religiosi, confessionali e politici siamo chiamati a offrire la nostra testimonianza di unità e di pace»[ref]Il brano è tratto dal messaggio rivolto da Papa Francesco in occasione dell’incontro di riflessione e spiritualità promosso dalla CEI, “Mediterraneo, frontiera di pace”, svoltosi a Bari dal 19 al 23 febbraio 2020. Il discorso integrale è reperibile su: www.vatican.va.[/ref].
- Nella visione di Papa Francesco, la religione riacquista, all’interno delle relazioni internazionali, diversa centralità rispetto ai suoi predecessori. A suo modo di vedere e interpretare i fatti che agitano le differenti aree di crisi nel mondo, la dimensione complessa del fattore religioso diventa strumento di soft power, dispositivo di mitigazione delle dinamiche transnazionali. Anziché agire come capo della Chiesa cattolica, egli preferisce ricercare partner da includere nella sua strategia relazionale, il cui fine necessario è il dialogo con la società e con le altre religioni[ref]M. VENTURA, Nelle mani di Dio, il Mulino, Bologna, 2021, pp. 150-151, rimarca che: «Appartengono al nucleo più profondo della missione di Francesco il dialogo ecumenico con le altre Chiese e il dialogo interreligioso (mio il corsivo). [E aggiunge] L’incontro a Cuba con il patriarca di Mosca nel 2016, l’incontro a Lesbo con il patriarca di Costantinopoli lo stesso anno e l’incontro ad Abu Dhabi con il grande imam di al-Azhar nel 2018 sono pietre miliari del suo pontificato».[/ref], la messa al bando di ogni forma di fondamentalismo, l’avvento di una «nuova Primavera per la Chiesa cattolica»[ref]L. ROSSI, La geopolitica di Francesco. Missione per l’ecumene cristiano, Francesco D’Amato Editore, Sant’Egidio del Monte Albino (SA), 2019, p. 151.[/ref]. La sua è, dunque, una leadership in piena sintonia col Vangelo, che si rivolge all’uomo del XXI secolo affidandogli un compito riconciliativo con la società e con l’interno creato[ref]C’è un passaggio dell’Enciclica Fratelli tutti in cui il Pontefice scrive: «Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna» (277). Analoghe suggestioni in DALAI LAMA, con S. STRIL-REVER, Salviamo il mondo. Manifesto per una rivoluzione verde, Garzanti, Milano, 2019, passim.[/ref]. La dottrina più attenta ha rimarcato questo profilo cosmopolita del Papa argentino che cerca ammorsature tra le emergenze del mondo e suggerisce vie d’uscita non ideologiche bensì attinte dal «lascito della solidarietà euro-mediterranea»[ref]S. BERLINGÒ, Dialogo interculturale e minoranze religiose in Europa al tempo del Covid-19. L’apporto degli ecclesiasticisti, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 7 del 2021, p. 17.[/ref].
Da qui l’approccio sociale di Papa Francesco verso le modalità attraverso le quali includere gli “altri credenti” (per dirla con Benedetto XVI) all’interno di un nuovo spazio, che è anche politico, di “fratellanza”. Questo termine – fratellanza – è di chiara marca gesuitica (oltre che di impronta francescana, s’intende), nel senso che egli vede nello strumento del dialogo lo stimolo migliore al discernimento, alla scoperta del noi attraverso la scoperta dell’altro. La stessa decisione di volgere lo sguardo verso il Sud e l’Oriente – trascurando, secondo alcuni critici fin troppo, l’Europa[ref]La “teologia mediterranea” di Francesco è attentissima a tutto quanto accade in Europa e in Occidente (USA in testa). Lo stato di salute delle diocesi nel Vecchio continente costituisce un capitolo importante dell’agenda del Pontefice; basti pensare alla questione della pedofilia, allo svuotamento dei luoghi di culto, al tema della crisi del sacerdozio, al dibattito nell’episcopato tedesco e, da ultimo, alla nuova politica francese sulla lotta al separatismo religioso. Tutti argomenti che non possono, razionalmente, immaginarsi eludibili o rinviabili. C’è di mezzo l’unità della chiesa cattolica.[/ref] – partecipa di quella visione politica a concentrare l’attenzione della Chiesa nello scenario dove si deciderà molto del futuro dell’umanità[ref] In realtà si potrebbe trattare soltanto di ciò che L. ROSSI, op. cit., pp. 242, 246-247, ha definito la «fine della cattolicità eurocentrica», che non significa “perdere di vista” l’Europa, bensì lavorare per una nuova geopolitica all’interno della quale il vecchio continente diventa complementare rispetto a tutto il resto, e questo può voler dire anche riconsiderare e rimodulare i rapporti di forza all’interno delle gerarchie ecclesiastiche, favorendo il «dinamismo pastorale», specie quello dei «vescovi di sperdute isole o anonimi sobborghi (…) dando maggiore risalto alle conferenze episcopali per far sentire veramente cattolica l’ecumene della chiesa romana ponendo particolare attenzione alle minoranze cristiane». S. BERLINGÒ, L’esercizio episcopale dell’economia/dispensa e Querida Amazonia, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 2 del 2021, p. 6, sottolinea «(…) l’intento [di Francesco] di proporre come paradigma universalizzabile il nuovo più comprensivo modello di sinodalità emergente dalle esperienze ecclesiali panamazzoniche, anche per la ricchezza dell’intercultura in esse insita».[/ref], dove “cercare e trovare Dio in tutte le cose” (sant’Ignazio di Loyola).
- La fratellanza di Francesco passa anche attraverso un nuovo stile di rapporti con L’Islam. Anche qui il gesuita Bergoglio marca la differenza rispetto ai suoi predecessori, indossando il saio di Francesco d’Assisi – anziché la toga dell’accademico – e incardinando il suo discorso all’interno di una nuova ermeneutica della storia al cui centro c’è la costruzione di una città in cui siamo tutti fratelli (Evangelium gaudium, n. 183), che ripudia la «falsificazione idolatrica di Dio» ed esalta la «sacralità di ogni vita umana»[ref]L. ROSSI, op. cit., pp. 249-250.[/ref].
Proverò, pertanto, a descrivere questo profilo del pontificato di Bergoglio, attraverso tre brevi tappe, ciascuna segnata da altrettanti documenti di notevole rilevanza politica e giuridica, l’ultimo dei quali non può che essere l’enciclica Fratelli tutti (FT) del 2020. Questo approccio si giustifica, dal punto di vista di chi scrive, in ragione del fatto che per avere una visione chiara del “metodo interlocutorio” e multilaterale dell’attuale pontefice, occorre prendere le mosse anche da quanto si sta muovendo all’interno della civiltà islamica mediterranea, nostra dirimpettaia, attraversata da imponenti rivolgimenti sociali, economici, politico-istituzionali, giuridici e teologici, senza di che si rischia di avere una percezione parziale e fuorviante di tutto quanto caratterizza la vita musulmana contemporanea e le sue relazioni con le altre religioni e culture[ref]Da giurista positivo, proverò a restare fedele ad una lettura del messaggio di fratellanza proposto da papa Francesco sintonica con l’approccio del costituzionalismo occidentale, provando a mettere in armonia la fecondità di questo “sforzo” col progetto di Costituzione cosmopolita e di cittadinanza mediterranea avanzata da molti studiosi e uomini politici, anche di cultura islamica, alla cui base sta la proposta di conciliare le proprietà (pure normative) delle tradizioni messe a confronto. Sul tema, come fonte autorevole di ispirazione, H.P. GLENN, Tradizioni giuridiche nel mondo. La sostenibilità delle differenze, il Mulino, 2011, p. 587, laddove scrive: «Sostenere la diversità significa accettare (non semplicemente tollerare) le principali tradizioni giuridiche complesse del mondo (tutte). Significa comprendere che esse sono reciprocamente interdipendenti, cosicché la perdita di una qualunque di esse sarebbe una perdita per tutte le altre, alle quali verrebbe meno una notevole fonte di sostegno o, almeno, di autocritica. Significa guardare a tutte le tradizioni in un certo senso come alla propria, dato che ciascuna di esse dipende dalle altre». Credo che il lavoro di Papa Francesco e di quanti altri lo condividono, vada chiaramente in questa direzione.[/ref].
3.1. Senza andare troppo a ritroso nel tempo, anche per ragioni di spazio espositivo, comincerei col citare la Dichiarazione di Marrakesch sui diritti delle minoranze religiose nel mondo islamico stilata il 26 gennaio 2016, a valle di una conferenza internazionale capace di chiamare a raccolta qualcosa come circa trecento importanti sapienti e intellettuali musulmani, sotto gli auspici del Re del Marocco Mohammed VI, ma pure provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti.
Questo Documento si rivolge «agli studiosi musulmani e agli intellettuali di tutto il mondo per sviluppare una giurisprudenza del concetto di cittadinanza, che sia comprensiva dei diversi gruppi». Una giurisprudenza, si legge, che «deve essere (…) consapevole dei cambiamenti globali», dunque vivificata in ragione di ciò che è bene per la comunità[ref]N. FIORITA, L’Islam spiegato ai miei studenti. Undici lezioni sul diritto islamico, Firenze University Press, Firenze, 2010, p. 10.[/ref], avendo, l’intellettuale (Muthaqqaf e Mufakkr) il dovere «di essere attento alle questioni più rilevanti che investono la società»[ref]Y. BEN ACHOUR, La tentazione democratica. Politica, religione e diritto nel mondo arabo, prefazione e cura di O. Giolo, ombre corte, Verona, 2010, p. 36.[/ref]. Di rilievo è la citazione, contenuta nel testo, alla Carta di Medina[ref]Documento a base compromissoria, redatto dallo stesso Profeta Muhammad dopo l’Egira (622) per trovare un accordo formale tra lui stesso, le altre tribù maggioritarie e i clan più significativi, compresi musulmani, ebrei e pagani. Cfr. G. FILORAMO (a cura di), Storia delle religioni. Islam, La biblioteca di Repubblica, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 89-100.[/ref], fonte di ispirazione delle costituzioni di molti paesi musulmani, ma soprattutto, base di legittimazione del concetto di cittadinanza. Una «cittadinanza contrattuale»[ref]A. CUCINIELLO, Il lungo percorso dell’incontro e del dialogo, in P. BRANCA – A. CUCINIELLO, Per una fratellanza umana. Cristiani e musulmani uniti nella diversità, Paoline ed., Milano, 2021, p. 47.[/ref] che ricomprende certamente la libertà religiosa quale «via migliore per edificare insieme il futuro [e] per essere costruttori di civiltà»[ref]Discorso del Santo Padre ai partecipanti alla Conferenza Internazionale per la Pace, Viaggio Apostolico del Santo Padre Francesco in Egitto (28-29 aprile 2017), consultabile su: www.vatican.va[/ref].
Quello del diritto fondamentale di libertà religiosa rappresenta un passaggio indispensabile per arrivare a comprendere la portata universale del progetto di Papa Francesco, e che si inserisce nel più ampio discorso della sua regolamentazione e giustiziabilità su scala sovranazionale e internazionale. Se, a livello europeo – dopo secoli di travaglio dovuti al dispotismo delle «fedi ecclesiastiche»[ref]A. FERRARI, Introduzione. Una libertà per due? Oltre l’incommensurabilità, per un diritto di libertà religiosa mediterraneo, in ID. (a cura di), Diritto e religione nell’Islam mediterraneo. Rapporti nazionali sulla salvaguardia della libertà religiosa: un paradigma alternativo? il Mulino, Bologna, 2012, p. 9.[/ref] e alle guerre – la libertà religiosa ha trovato una sua specifica disciplina grazie al lavoro messo in piedi dalla politica e dal diritto (pattizio e giurisdizionale), nonché alle carte internazionali che tutelano i diritti della persona (per esempio il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966), nei paesi di cultura islamica l’assenza di uno statuto laico della persona ha incontrato barriere ostative di più o meno ampia natura a seconda dei contesti di riferimento, ma comunque tutte ricomprendibili sotto la comune asserzione del «principio che il bene della comunità si riflette sul singolo»[ref]B. DE POLI, I musulmani nel terzo millennio. Laicità e secolarizzazione nel mondo islamico, Carocci, Roma, 2007, p. 139.[/ref] e, dunque, il retroterra sociale prevale rispetto alla dimensione giuridica statale. Ecco perché, allora, la via giuridica rappresenta quella meglio implementabile con azioni di ampia caratura politica e interculturale; ragion per cui, la Dichiarazione di Marrakesch, «dall’alto dei suoi riferimenti a fonti storiche del diritto islamico, contiene l’esortazione ad una migliore salvaguardia»[ref]A. FUCCILLO, The Marrakesch Declaration between Formal Religious Freedom and Personal Establishment: A Juridical Connection between Islam and Others, in ID. (ed.), The Marrakesch Declaration. A Bridge to Religious Freedom in Muslim Countries? ES, Napoli, 2016, p. 22.[/ref] dei diritti di tutte le persone (e della libertà religiosa come libertà sociale[ref]F. KÖRNER S.I., La libertà religiosa di fronte a nuove sfide. 55 anni dopo la «Dignitatis humanae», in La Civiltà Cattolica, 21 nov./5 dic. 2020, pp. 328-329, dove l’Autore analizza il concetto di libertà religiosa «come libertà personale e sociale [nel senso che, citando le parole di Giovanni Paolo II] con la sua feconda tensione tra libertà e responsabilità, apre all’uomo il vero spazio della libertà» (mio il corsivo).[/ref] oltre che giuridica) senza esclusione di gruppi e territori.
3.2. Il passaggio intermedio di questo percorso della fratellanza è costituito da un documento breve ma di grande respiro solidaristico. Si tratta del Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune che Papa Francesco ha scritto e firmato insieme al grande Imam di Al-Azhar, Ahmed al-Tayyeb ad Abu Dhabi, il 4 febbraio 2019. Qui siamo di fronte ad un testo “essenziale” dal punto di vista del messaggio, senza fronzoli dottrinari, né riferimenti espliciti ai rispettivi “testi sacri”. È come se «l’autorità della Rivelazione [venisse] “sospesa”, per consentire a ciascuno di provare altrimenti la ragionevolezza della sua fede»[ref]P. BRANCA, Il Documento di Abu Dhabi: una rilettura, op. cit., p. 51.[/ref]. Al fedele, i due leader religiosi chiedono qualcosa di più che un’attestazione di “lealtà ecclesiastica”, si rivolgono a lui chiamandolo a ««esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere». Ritorna la sfida solidaristica, secondo quel modello interventista che troviamo per esempio scolpito a chiare lettere nel comma 2 dell’art. 3 della nostra Costituzione, dove cittadini e istituzioni (la Repubblica) hanno il «compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza (…) impediscono il pieno sviluppo della persona umana»; e difatti, i due autori del Documento riescono bene nell’intento di provare a parlare lo stesso linguaggio, consci della comune origine “abramitica” e, dunque, della volontà a riconoscersi come fratelli. Non a caso uno dei concetti che più sta a cuore al Pontefice è proprio quello di “relazione” che non esclude la tensione dialettica ma “costringe” i soggetti del dialogo a ripensarsi secondo una dinamica del confronto generoso verso gli altri (P. Branca). Questo spinge gli autori a scrivere che avere fede nella fratellanza umana significa innanzitutto comprendere le ragioni dell’altro consapevoli che “kulla yawum Huwa fi sha’n” (“Ogni giorno Egli è all’opera”, Corano 55,29).
Il Documento è poi anche un piccolo “manifesto politico”, laddove non ignora l’importanza di come il mondo abbia saputo risollevarsi da tante cadute, migliorare le condizioni di vita di molte persone, garantire sostegno a larga parte del mondo più povero, ma nello stesso tempo, però, non sia stato in grado, per responsabilità istituzionali sia a livello nazionale che internazionale, di correggere tante situazioni scandalose, palesemente in contraddizione con le finalità di umanità, socialità e benessere consacrate nelle Carte dei diritti approvate in sede ONU. Qui, le responsabilità riverberano anche sulle tante forme di fondamentalismo religioso che le grandi organizzazioni religiose hanno il dovere di denunciare per depurare il messaggio di Dio da forme di manipolazione strumentali a fini politici. Il messaggio è chiaro:
«Noi, credenti in Dio (…) chiediamo a noi stessi (…) di impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza (…) di intervenire (…) per fermare lo spargimento di sangue innocente (…) e sottolineiamo [il pericolo dell’] integralismo religioso [dell’] estremismo e [del] fondamentalismo cieco (…)».
Il testo si offre anche a quanti vivono la loro condizione di credenti al di fuori dei loro contesti di origine. Il rimando è, soprattutto, a quell’Islam che viaggia lungo le rotte migratorie. Nelle patrie di accoglienza, dove non sempre lo spazio della cittadinanza è talmente inclusivo da garantire, contemporaneamente, diritti sociali e diritti civili e politici – dunque anche la libertà religiosa – la fede può diventare, oltre che “spazio di rifugio”, strumento di esaltazione e di contrapposizione, finendo col creare fratture tra gruppi e contesti politici di accoglienza, ma pure all’interno degli stessi gruppi, dove la “tradizione” religiosa e culturale difesa dagli anziani si contrappone all’impegno delle nuove generazioni in progetti di cittadinanza attiva e interculturale che, spesso nel silenzio generale, stanno dando frutti importanti[ref]I. ACOCELLA, Giovani musulmani figli delle migrazioni: «cittadini di più patrie» in cerca di riconoscimento, in I. ACOCELLA, RENATA PEPICELLI (a cura di), Transnazionalismo cittadinanza pensiero islamico. Forme di attivismo dei giovani musulmani in Italia, il Mulino, Bologna, 2018, p. 59, dove l’Autrice spiega bene cosa significa il lavoro di rivisitazione della tradizione musulmana da parte delle nuove generazioni in contesti non autoctoni: «A tale scopo, i giovani di GMI [che sta per Giovani Musulmani d’Italia] realizzano strategie di azione che valorizzano alcuni segni di riconoscibilità della propria alterità musulmana nella sfera pubblica allo scopo di sfidare l’omogeneità del “noi” costituito. Si pensi, ad esempio, alla scelta di indossare il velo da parte di molte attiviste di GMI. Si tratta, peraltro, di un uso più contestualizzato di tale indumento, lasciando che esso si mischi con tratti della società occidentale, ma – allo stesso tempo – affermi la propria specificità di italiane musulmane; quindi, un uso non diasporico del velo in termini di evocazione di riferimenti identitari che rimandano ai “paesi di origine”, quanto piuttosto connotante proprio la loro doppia appartenenza». L’esempio del velo islamico rappresenta uno di quei casi in cui la dimensione simbolica prevarica rispetto al coacervo degli interessi (e dei diritti) sociali degli appartenenti a comunità musulmane, spesso ignorati dal potere pubblico. Da qui, la materializzazione, come ben messo in evidenza dall’A. citata, di un profilo secondario (il porto del velo) rispetto ad una di diritto sostanziale (i diritti sociali). Questo scardinamento del patto di cittadinanza può rappresentare, nelle ipotesi più estreme, forme di legittimazione di comportamenti illegali, ammantati dal consenso di qualche sedicente studioso di questioni islamiche. Il caso, per esempio, delle fatwe emanate da soggetti autoproclamatisi esperti in materia di diritti islamico o guide spirituali (imam), conferma la necessità di attivare politiche inclusive a partire dalle garanzie sociali fondamentali della cittadinanza. Riprendo alcune importanti considerazioni di S. ALLIEVI, Islam italiano e società nazionale, in A. FERRARI (a cura di), Islam in Europa/Islam in Italia tra diritto e società, il Mulino, Bologna, 2008, pp. 43-75. Il Documento sulla Fratellanza rimarca che: «Il primo e più importante obiettivo delle religioni è quello di credere in Dio [e vare consapevolezza che la causa di tante sciagure nel modo risiede nella] deviazione dagli insegnamenti religiosi, [nell’] uso politico delle religioni e [nelle] interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell’influenza dei sentimento religioso sui cuori degli uomini per portarli a compiere ciò che non ha nulla a che vedere con la verità della religione (…)».[/ref].
Infine, un tratto interessante del Documento, è l’emersione implicita di una idea di laicità costituzionale (e mediterranea), intesa come precipitato di una serie di diritti e libertà considerati fondamentali all’interno di una qualsiasi Costituzione moderna: la libertà personale, la dignità umana, il pluralismo religioso, la giustizia “riconciliativa” (il Cardinale Martini avrebbe detto “salvifica”), il dialogo interculturale e interreligioso, la protezione dei luoghi di culto, la cittadinanza, la cooperazione, la tutela dei diritti fondamentali dei minori, la protezione delle categorie fragili, la libertà religiosa[ref]In occasione del viaggio apostolico di Papa Francesco in Iraq (5-8 marzo 2019), il primo per Bergoglio in un paese a maggioranza sciita, è stata posta massima attenzione sul valore del dialogo interreligioso, sottolineando la gravità della situazione inerente la condizione delle minoranze religiose in Iraq e nell’intera regione. Per un resoconto di tutto il programma della missione in Iraq, si rinvia al sito: www.vatican.va. Per quanto riguarda, invece, il tema scottante della persecuzione dei cristiani e delle minoranze, il rimando è all’ultimo rapporto (2021) sulla Libertà religiosa nel mondo, curato dall’associazione “Aiuto alla Chiesa che Soffre” (ACN – https://acs-italia.org).[/ref], etc. Tutto questo viene consegnato dalla Chiesa cattolica e da Al-Azhar alle istituzioni di ricerca «(…) al fine di contribuire a creare nuove generazioni che portino il bene e la pace» e nella speranza che «questo “catalogo dei sogni” possa non rimanere lettera morta proprio perché attinge alle fonti spirituali di tradizioni millenarie ancora vitali e unisce due delle maggiori confessioni mondiali con miliardi di fedeli sparsi su tutta la superficie del globo»[ref]P. BRANCA, Il Documento di Abu Dhabi: una rilettura, op. cit., p. 75.[/ref].
3.3. Tappa finale del nostro itinerario-breve è l’Enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti del 3 ottobre 2020. Chi ha una visione della Chiesa arroccata su un’idea di purezza tutta eurocentrica, farà fatica a immaginare quanto a Bergoglio stiano a cuore le sorti dell’ecumene cristiano. Perché si tratta di una strada impegnativa quella che dal soglio di Pietro viene suggerita di intraprendere, fedele a stretto giro col monito di Francesco d’Assisi, secondo cui essere fratelli con tutti significa “attraversare il mondo”, raccogliere a piene mani i suoi lamenti, costruire ponti di speranza, accogliere l’alterità, esprimere la propria identità. Qualcuno immagina tutto ciò come “universalismo vuoto”[ref]Come fa notare il Cardinale M.M. ZUPPI, Fratelli tutti. Presentazione della Lettera Enciclica di Papa Francesco, Ed. San Lorenzo, Reggio Emilia, 2020, p. 28, dove aggiunge che chi immagina ciò non coglie la portata universale del testo, la cui «insistente chiarezza [può servire serve] per farci vivere da cristiani nel mondo».[/ref]; chi scrive, al contrario, ritiene – da laico – che ci sia materiale buono per dare corso a quel costituzionalismo cosmopolita citato in apertura che mette al centro i diritti e le libertà della persona umana e ne affida la custodia a organi di giustizia di pari grandezza. Così la religione diventa “compagna di viaggio” di un nuovo corso della storia, e di un nuovo modo di concepire il diritto quale scienza al servizio della società.
La sfida che il Pontefice lancia al mondo, a partire dalla “sua” Chiesa, è quella di intendere il concetto di universalità in modo performativo. Per fare questo occorre non sentirsi mai “estranei” lungo la strada che si percorre (il rimando è alla parabola del buon samaritano contenuta nell’enciclica), costruendo relazioni di sana cooperazione a vantaggio non solo delle parti direttamente coinvolte, ma anche di quanti sono distanti per diverse ragioni. Quello che possiamo immediatamente raccogliere dall’invito di Bergoglio è la richiesta a costruire insieme la cittadinanza, partendo dalla persona e dalle formazioni sociali, senza ordini “calati dall’alto” in ragione di gerarchie sociali che non siano quelle delle istituzioni civili. Le organizzazioni religiose vanno perciò intese “al servizio del mondo”; ovunque ci sia una persona che ha bisogno d’aiuto queste sono tenute a mobilitarsi, lasciando ai margini del discorso la stretta appartenenza di fede, la disputa teologica e occupandosi solo dell’individuo in quanto tale. Il concetto di cittadinanza (secondo Francesco e l’imam Al-Tayyeb) presume la rinuncia «all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità».
La stesura di una enciclica è sempre un’operazione complessa. È il Papa che parla perchè vuole lasciare un segno che spera possa incoraggiare al cambiamento, qualunque sia l’oggetto del pronunciamento. Ovviamente è pure un lavoro di squadra, come farebbe un qualsiasi leader politico insieme ai suoi collaboratori, perché la materia che si va a comporre presuppone la raccolta di fonti specialistiche e di competenze oggettive. Ma l’indirizzo lo segna sempre e solo lui, il Sommo Pontefice, perché questo rinvia al suo status e al messaggio che intende lanciare alla cristianità cattolica e al resto del mondo. In Fratelli tutti Francesco si muove da sociologo – cerca il rumore dello sfondo – e ne analizza i contorni di natura politica ed economica. A questo aggiunge la «contemplazione delle Scritture (…) come forma di percezione individuale, ma poi contestualizzata, e di percezione critica sociale e orientata politicamente»[ref]F. KÖRNER S.I., La libertà religiosa di fronte a nuove sfide, op. cit., p. 487.[/ref]. Ed è da quest’approccio che Bergoglio prova a dare la sua lettura del progetto di fratellanza, rimarcando il pericolo del «fondamentalismo dei valori» a cui contrappone il «poliedro» delle culture (FT 215), che «integrandosi, arricchendosi e illuminandosi a vicenda» (FT 215) determinano processi virtuosi, inclusivi delle differenze anche complesse e delle «persone che possono essere criticate per i loro errori» (FT 217).
Ma cosa sarebbe la ricerca del consenso senza la convergenza attorno al quel super-valore costituito dalla dignità umana, definita non a caso «inalienabile» (FT 213) al pari dell’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che la qualifica come involabile. Dal mio punto di osservazione, possiamo certamente intendere questa affermazione contenuta nell’enciclica come una disposizione integratrice sul piano culturale e giuridico fattuale, perché arricchisce la semantica ermeneutica delle disposizioni di diritto positivo e del diritto (rectius: dei diritti) a base religiosa su scala globale, producendo una sua/loro tensione evolutiva[ref]Si rinvia a S. FERRARI, Lo spirito dei diritti religiosi. Ebraismo, cristianesimo e islam a confronto, il Mulino, Bologna, 2002, p. 153, dove scrive: «È dunque giocoforza ammettere che qualche forma di mutamento e di dinamicità non sia estranea a questi ordinamenti [giuridici religiosi, n.d.r.]. Tanto il diritto ebraico come il diritto canonico ed il diritto islamico debbono affrontare un problema analogo: quello di una legge fondamentale immutabile, perché di origine divina, che deve però essere completata ed adeguata al mutare delle circostanze ad opera di un’autorità umana».[/ref]. Dal punto di vista, invece, di Papa Francesco, questo riferimento potrebbe significare che la dignità (o la sacralità della persona) sta a cuore alle religioni (e agli apparati istituzionali che li rappresentano nello spazio della politica) e che pertanto, quando c’è di mezzo questo “valore”, il discorso dell’appartenenza di fede diventa secondario, perché sennò le religioni rischiano di degradare a sistemi di puro potere, non sono più una delle fonti a cui potersi accostare per placare la sete di verità.
Conclusioni
Per chi studia diritto interculturale e delle religioni il termine fratellanza assume un carattere decisivo all’interno del proprio lavoro di indagine. Perché, a prescindere da come risulti possibile declinarlo dal punto di vista del diritto positivo, esso presuppone la messa in discussione del paradigma suprematista (religioso, culturale, etnico, razziale, economico, etc.) e delle sue varianti applicative in termini di razzismo, xenofobia, separatismo, etc. Da questo deriva che nella sfera pubblica la convergenza sulle “categorie di fondo” non autorizza nessuno ad appropriarsene attivando logiche di egemonia, sia nel campo delle fedi che della politica. Tutti (persone e istituzioni) sono chiamati a dare un contributo alla costruzione di una fraternità universale, al riconoscimento di un frère universel, ma senza eludere quello che potremmo definire il “test di laicità” applicato, in questo caso, alla fratellanza (come riconoscimento della pluralità delle morali e delle culture). Ritengo che l’idea di fratellanza di papa Francesco vada nella direzione di una laicità che non neutralizza il piano della religiosità; anzi, siamo di fronte alla possibilità concreta che una convergenza si venga a determinare (nel rispetto della distinzione degli ordini) sulla valorizzazione degli apporti che la sfera religiosa e quella politica possono dare al fine di edificare una società più giusta e rispettosa dei diritti di tutti.
Come spesso accade quando ci si cimenta nella lettura di qualcosa ritenuta (spesso solo aprioristicamente) “distante” dai propri ambiti di lavoro o dalla propria visione del mondo, ad emergere sono le cose viste e interpretate come assolutamente irriducibili. Lo sforzo, invece, che si richiede all’intellettuale non dogmatico è proprio quello di leggere tra le pieghe del pensiero – essere «aperto al dubbio»[ref]«(…) sempre in cammino», riferendosi al compito del filosofo. Così scrive N. BOBBIO, Elogio della mitezza e altri scritti morali, il Saggiatore, Milano, 2006, p. 146.[/ref] – così da espletare il proprio ruolo «come alimento della vita sociale e politica, come interrogazione fondamentale sul senso della convivenza degli esseri umani, come capacità di rivoltare il senso comune delle cose e di scuotere la routine che ci avvolge»[ref]G. ZAGREBELSKY, Mai più senza maestri, il Mulino, Bologna, 2019, p. 37.[/ref].
La fratellanza: perimetri ideologici, vincoli biologici, principi giuridici
di Domenico Bilotti
1-Prequel: le coordinate geografiche e semantiche di un discorso sulla fratellanza
Sembra ora operazione comoda quanto un esercizio di stile contestare lo spirito e i contenuti della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948), ritenendola espressiva del sentire dei vincitori di guerra (peraltro, vincitori, sullo scacchiere globale, non sempre con comportamenti specchiati) o, al più, alla stregua di un atto a malapena costitutivo di una nuova rappresentazione istituzionale della comunità internazionale[ref]Sulla natura sistemica di questa critica, B. Fassbender, K. Traisbach, Introduction, in Aa. Vv., The Limits of Human Rights, Oxford University Press, Oxford-New York, 2019, pp. 2-3.[/ref]. Né l’una né l’altra ipotesi ci pare aiutino granché nella ricerca: nell’umanità al tempo schiacciata da due conflitti mondiali e da una epidemia, in meno di trent’anni, mettere la parola fine all’atrocità più che una vanagloria sembrava una speranza. Proprio l’articolo 1 di quella Dichiarazione introduceva un inciso importante: [gli esseri umani] devono agire l’un l’altro in spirito di fraternità. Cosa si intendeva? La fraternitas latina di matrice familiare – ora consuetudinaria, ora legale, ora meramente biologica? La fraternité della Francia rivoluzionaria, che, unita alla liberté e alla égalité, prometteva politiche antimagnatizie, partecipazione, rovesciamento di soprusi e intollerabili disparità sociali? O, magari, la fratellanza del lessico biblico, che nel Vecchio Testamento può essere ancora fonte d’odio e di gelosie sotto lo stesso tetto e che, invece, nel Nuovo acquisisce un carattere più evidentemente universalistico, tale che per alcuni, in special modo dopo il Concilio Vaticano II, essere popolo di Dio ed essere genere umano finì per significare che la Chiesa non avrebbe più condannato nessuno e avrebbe accettato i diversi culti, stili di vita, approcci alla coscienza[ref]Sul tentativo di far convergere la nozione di popolo di Dio, verso l’intera considerazione del genere umano, in ragione del tipico universalismo del diritto canonico, per quanto avversando ipotesi di atecnica ed eccessiva elasticizzazione della richiamata dicitura, G. Routhier, Il Concilio Vaticano II. Recezione ed ermeneutica, Vita e Pensiero, 2007, Milano, pp. 108-109.[/ref]? E quanta ipocrisia ha poi trasformato questa impostazione, talvolta riducendola al piano dei programmi senza costrutto e talvolta precisandola fino all’ossesso, in modo da renderla nei fatti ugualmente inesistente e priva di ogni legittimazione!
Prima di ragionare sull’enciclica Fratelli Tutti di papa Francesco è bene contemporaneamente far giusta pulizia terminologica e metodologica sul lemma della fratellanza e sui significati concretamente assunti, per poi verificare in che punti e in che modi questa nozione di fratellanza emergente dal Magistero non sia un’incursione in re aliena, ma un principio già presente nell’apporto teologico-politico, giuridico-culturale, storico-canonistico.
La tesi da cui si procede è che, anche grazie all’impulso offerto dal diritto e dalla cooperazione internazionale, la nozione di fratellanza, che le fonti convenzionali del Dopoguerra indicavano come ambiente applicativo della loro effettiva implementazione, fosse significativamente diversa dalle accezioni che la avevano preceduta.
Non è qui il caso di ripercorrere la valenza giuridica della fratellanza, per come introiettata dal diritto ebraico, dalla tradizione romanistica e da quella particolare forma di inter-relazione tra i due che fu il diritto romano-giudaico (e gli usi) al tempo della nascita del cristianesimo e delle sue prime forme di proselitismo. E ciò si sceglie di fare per ragioni ben precise, che in realtà non dipendono soltanto dalla maggiore brevità suggerita dalla sede espositiva. Quel significato di fratellanza aveva evidente valore legale. Nella tradizione euro-cristiana, fino a ben oltre la lenta scomparsa del diritto feudale[ref]Una scomparsa che i giuristi fanno fatica a collocare lungo coordinate cronologiche precise. V., in proposito, W. Kudrycz, The Historical Present. Medievalism and Modernity, Continuum, London-New York, 2011, pp. 171-173; L. K. Little, Mainstream and Margins of Medieval History in the United States, in M. Rubin (ed.), The Work of Jacques Le Goff and the Challenges of Medieval History, The Boydell Press, Woodbridge, 1997, pp. 85-97.[/ref], la fratellanza istituiva, in base all’età o al rapporto intercorrente tra i genitori (se riprovato o meno nel diritto), vincoli gerarchici e patrimoniali. Nell’ebraismo la riflessione rabbinica non mancava di rimarcare con singolare appropriatezza quanto spesso l’appartenenza alla stessa famiglia – nozione anch’essa culturalmente orientata – potesse essere ben più conflittuale delle altre forme di relazione sociale[ref]Tentativi di giungere a una significazione maggiormente universalistica in R. Mackintosh, Christ and the Jewish Law, Hodder and Stoughton, London, 1886, pp. 96-97. Un preliminare lavoro sull’esegesi delle fonti in M. Davidsohn, Moral and Religious Guide Based on the Principle of Universal Brotherhood, Houlston and Stoneman, London, 1855, pp. 115-117.[/ref]. Non erano le uniche nozioni di “fratellanza” o “fraternità” del mondo antico. Per restare a Occidente, un’evidente asimmetria assisteva i rapporti tra fratelli e sorelle, legata certo al differente riconoscimento della soggettività femminile, epoca per epoca anche intenso e dirompente, ma sostanzialmente asservito nelle culture patriarcali al dominio maschile di genere.
Nel Medio Oriente, la fratellanza si disperdeva, come vincolo tendenzialmente esclusivistico, in forme di organizzazione familiare a un tempo più larghe e a un altro più strette del paradigma monogamico canonistico: nel mondo arabo pre-islamico i clan tribali descrivevano una rete intricata e complessa di rapporti, dove non mancava il primato della convenienza su quello dell’affettività. Anche per questo il Corano rappresentò l’emblematica svolta epocale che ci è dato di cogliere tutt’oggi, cercando di bandire le regole dei sodalizi clanici e gli affarismi interessati[ref]La svolta impressa dall’islamizzazione si nota in una pluralità di fonti; per quanto riguarda aspetti specifici, sulla condizione di genere nelle relazioni di famiglia cfr. R. El Khayat, La donna nel mondo arabo, Jaca Book, Milano, 2002, p. 42 ss.; sull’opera di unificazione linguistica realizzata dal messaggio coranico, D. Mascitelli, L’arabo in epoca preislamica. Formazione di una lingua, l’Erma di Bretschneider, Roma, 2006, pp. 54-56. [/ref]. Gli storpi generati all’interno della stessa famiglia potevano finalmente consumare i pasti insieme ai normotipi. La contrattazione con gli infedeli, ammessa in limiti rigorosissimi, non poteva più includere pratiche predatorie, truffe, ruberie, quali che fossero le loro manifestazioni concrete. Una disputa di carattere familiare (successorio, non subito direttamente cultuale o politico) riguarda pure la frattura tra gli sciiti e i sunniti: secondo quali regole doveva essere garantita la successione del Profeta[ref]J. Armajani, Shia Islam and Politics. Iraq, Iran and Lebanon, Rowman & Littlefield, Lanham-London, 2020, pp. 5-6.[/ref]? Avrebbe guidato la comunità un suo consanguineo o un suo amico? Chi aveva, in altre parole, più titolo a fregiarsi della sua fratellanza nella umma, la quale è peraltro per definizione non disgregabile, non revocabile, mentre gli attentati alla sua integrità costituiscono il più grave dei peccati[ref]N. A. Shah, Islamic Law and the Law of Armed Conflict, Routledge, London-New York, 2011, pp. 33-34.[/ref]? Negli usi delle confraternite dell’esoterismo islamico, ancora, il vincolo affiliativo tra i partecipi degli stessi riti sembra adombrare, o addirittura abiurare, la stessa fratellanza: come se la scelta intenzionale da cui promana l’imprevedibile e ingovernabile carattere misterico fosse in sé riassuntiva del più forte legame che si possa instaurare tra gli appartenenti al genere umano.
Nella tradizione cristiano-orientale, d’altra parte, andava affermandosi, tanto alla nascita della cultura monastica quanto negli usi linguistici liturgici, una pratica semantica del dirsi fratelli che riguardava la fratellanza nella vita e nella condivisione della fatica e del tempo, non i vincoli dettati dai meccanismi normativi della filiazione[ref]Sull’occorrenza di questo fenomeno, anche al di fuori di uno spazio geografico orientale prettamente europeo, G. Filoramo, Monachesimo orientale. Un’introduzione, Morcelliana, Brescia, 2010, pp. 161-179.[/ref].
All’Estremo Oriente, per quello che ci trasmettono le fonti, nozioni di fratellanza e fraternità, distinte dal nostro tracciato semiologico consueto, si affermavano in modo discontinuo, ma percepibile. Vi è, per qualcuno sorprendentemente, un processo di separazione progressiva tra le condizioni parentali precisate dal vincolo di sangue (una fratellanza in senso stretto) e i modi comportamentali attribuiti al dovere o alla convinzione di agire come fratelli (una fratellanza che la Grecia antica aveva in parte riassunto nell’ospitalità xenofiliaca). I sistemi giuridico-politici asiatici non prendono sempre nettamente partito a favore dell’uno o dell’altro senso. Il confucianesimo, ad esempio, nascendo come ragion pratica illuminata dai vincoli di lealtà, avrebbe potuto dischiudere una accezione più universalistica di fratellanza, ma l’attenzione alle norme deontologiche dell’uso familiare, verso gli anziani e non solo, ha poi spinto molti teorici confuciani a rivendicare quell’atteggiamento nell’ambito domestico, più che nelle relazioni esterne[ref]Dando conto di questo processo, D. Bilotti, Rischi e dinamiche di riassorbimento del privato nel pubblico. Ricerche recenti sull’etica normativa confuciana, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (Rivista telematica, http://www.statoechiese.it), n. 2/2021.[/ref]. Senza voler poi smentire le invece enormi possibilità di studio e ricerca insite nel discorso sui sistemi di pensiero orientali (l’hinduismo, lo shintoismo, il buddhismo, per ricordar solo i più noti), pare che essi abbiano avuto, nonostante le profondissime articolazioni cosmologiche, delle oscillazioni materiali legate al genius loci e alle diverse forme di radicamento. E ciò rende poco plausibile un approccio omologante e riducibile a categorie statiche di ragionamento.
2-Vista da Ovest: malintesi nella politica del diritto
Avendo provato a presentare i primissimi usi, religiosi e giuridici, del lemma fratellanza, ci è ora necessario cercare di verificare se e come quella molteplicità di declinazione abbia del pari influenzato l’ambito pubblico, politico, partecipativo. Ed è abbastanza chiaro che ciò sia avvenuto anche attraverso il processo di secolarizzazione, che ha trasferito principi teologici in categorie ordinanti di contenuto ideologico etimologicamente profano. Questo fenomeno ha coinvolto, ben prima dell’attuale e diffusa rivalutazione ecclesiastica, la stessa esegesi scritturale.
La questione, come ricordato, ha il suo primo fondamento epistemico nel mutamento che si realizza tra il Vecchio e il Nuovo Testamento. Non si aderisce qui a nessuna di quelle letture – invero poco attente – che esasperano la divaricazione tra le due parti della Scrittura, ora per affermare una immediata cogenza del testo evangelico, anche all’interno della sfera pubblica, ora per invocare un primato letteralista, cronologico e tradizionalistico dei libri più antichi, al fine di arginare le concessioni che la religiosità individuale e collettiva avrebbe avuto nei confronti della mentalità secolare. Ci pare che non sia tempo per piegare le appartenenze di fede a conseguenze di natura elettoralistica o di presa sull’opinione pubblica. Chiaro è invece che, nella continuità trinitaria del monoteismo rivelato cristiano, Vecchio e Nuovo Testamento impostino diversamente il divenire della religione abramitica nelle relazioni umane mondane. Nella Genesi, ad esempio, prevale una visione marcatamente biologica della fraternità, che rende ancor più gravi i comportamenti illeciti tenuti tra soggetti che siano in rapporto di fratellanza. La damnatio di Caino sorge inevitabilmente tanto dal tentativo di eludere l’onniscienza (che già sa del crimine commesso), quanto dall’infamia del gesto omicidiario che ha colpito un fratello, Abele[ref]D. Assael, La fratellanza nella tradizione biblica, Centro Studi Campostrini, Verona, 2017, pp. 13-18; A. Wenin, Giuseppe o l’invenzione della fratellanza. Lettura narrativa e antropologica della Genesi, EDB, Bologna, 2007, p. 4 ss. [/ref]. Nel Discorso della Montagna, la fratellanza differentemente appare come proiezione esponenziale alla riconciliazione: non ci si può che trovare fratelli nel perdono, perché fratelli, data la fallibilità umana, lo si è nella colpa. L’irrazionalismo giuridico russo, alimentato dalla narrativa di Dostoevskij in poi[ref]Uno dei più rilevanti studiosi italiani della letteratura e dell’estetica russa tende, tuttavia, a ridimensionare le pretese dottrinali della scienza giuridica giuspubblicistica, preferendo non collocare il grande romanziere nella concezione dualistica che contrappone razionalismo e irrazionalismo. V., in proposito, S. Givone, Dostoevskij e la filosofia, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 63 ss.[/ref], portava il tema fino alle estreme conseguenze: se tutti sono colpevoli e già la colpa è una forma di relazione umana, tutti sono responsabili di tutto, nei confronti di tutti. Questo universalismo ha dato vita a numerosi filoni: il pacifismo radicale e universalistico di Tolstoj, nonché il messianismo apocalittico e millenaristico del misticismo nichilista, che ha inteso la fratellanza innanzitutto in quanto fratellanza nella estrema e peritura fragilità. Anche il nazionalismo russo, vuoi se declinato come specifica istanza patriottica, vuoi se inteso quale ancor più ampia chiamata aperta a tutti i popoli slavi, faceva larghissimo uso della fratellanza. Era però una fratellanza carismatica, che mobilitava una posizione e un’opposizione: noi e loro, i nostri interessi e quelli degli altri. Si trattava di una fratellanza per divisione, quasi si potesse tracciare tramite essa il confine univoco del giusto e dell’ingiusto. Non era già più la fratellanza scritturale: né quella della pena inflitta ai fratricidi, né quella della penitenza che si attua fraternamente nel reciproco perdono.
Non si creda d’altra parte che le ambiguità applicative del termine fratellanza dipendano esclusivamente dal tentativo di fornirne la significazione religiosa più appropriata alla Scrittura. A Occidente, molti rilevanti crinali civili sono stati condotti cercando di fornire della fraternità l’accezione più puntuale rispetto alla propria visione escatologica, ideologica, persino etologica e politologica.
Nello stesso secolo, il XIX, viepiù a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro, il poeta maledetto Lucien Ducasse e il pensatore e agitatore risorgimentale Giuseppe Garibaldi adottano ancora della fratellanza il prodotto di quel procedimento ermeneutico fondato sulla separazione tra chi è fratello e chi mai potrà esser riconosciuto come tale. Anzi, il propagandista repubblicano anticlericale è, oltre la patina delle ricostruzioni postume, ancora più oltranzista del lirico dannato e insofferente. Per Garibaldi non si dà fratellanza coi preti: la fortissima religiosità del ceto politico rivoluzionario risorgimentale gli impedisce di accogliere la mediazione dei ministri di culto[ref]Questa postura marcatamente anticlericale tende tuttavia ad emarginare ancora oggi il pensiero risorgimentale garibaldino da un discorso collettivo sulla spiritualità e sulle forme della sua regolazione giuridica. Si veda il nettissimo giudizio di D. Arru, La legislazione ecclesiastica della dittatura garibaldina, La Sapienza, Roma, 2004, p. 67. I grandi contemporanei impressero letture forse più accomodanti (v., per tutti, A. Dumas, The Garibaldians in Sicily, Routledge, London, 1861, pp. 46-47).[/ref]. Non è più una questione teologica, come poteva esserlo al tempo dello scisma luterano, anche se molti autori risorgimentali sentono fortemente l’influenza della cultura protestante. È un giudizio tranchant di tipo eminentemente politico: non ci si chiede più se il volgo abbia diritto a capire la Scrittura (è un diritto affermato dalla Riforma, mentre ancora sul fronte canonico-occidentale di riforma liturgica non si parla), è semmai il clero a esser ricondotto a un’intermediazione parassitaria non dei contenuti veritativi, ma dei beni, delle scelte politiche, della partecipazione, dei precetti morali che riverberano impietosamente sull’accesso ai sacramenti, sulla sessualità, sullo stato civile.
Contro la scelta positivistica del suo secolo, all’opposto, il Conte di Lautréamont va avanti, guardando indietro, insistendo ad affermare che la fratellanza non abbia nulla a che fare con la mitizzazione escludente che ha ricevuto nella propaganda politica[ref]Un inquadramento etico sui contenuti della fratellanza, riscoperta in funzione di abolizione dei legami politici convenzionali, in A. Carotenuto, Senso e contenuto della psicologia analitica, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, pp. 53-54.[/ref]. Ma è davvero così? O meglio: davvero la fratellanza rivoluzionaria della fine del secolo precedente non era un dispositivo così lucido e potente da poter ergersi a valore etico universale, a nucleo esclusivo, finitimo, ma indisponibile, del riconoscersi liberi e eguali nell’operare per il bene proprio e per quello comune?
Si è osservato che dalle parole d’ordine della Francia borghese rivoluzionaria discenderebbero le diverse appartenenze dei movimenti collettivi, che hanno messo in questione lo stato di cose presente. La libertà sarebbe divenuta il campo d’azione, la rivendicazione per eccellenza, del pensiero liberale, socialista, radicale. Avrebbe messo a tacere per sempre l’autoritarismo, la presenza invasiva del potere nella vita[ref]La pretesa di contrapporre queste istanze generative della propaganda rivoluzionaria tende troppe volte a proiettarsi su situazioni di molto successive, o addirittura contingenti, forse piegando a letture preconcette anche analisi che sarebbero di pregevole valore. V., per tutti, M. Teodori, Storia dei laici nell’Italia clericale e comunista, Marsilio, Padova, 2008.[/ref]. L’eguaglianza sarebbe stata colta dall’egualitarismo marxista, che per tale via avrebbe permesso di rovesciare l’ordine capitalistico borghese, riducendo a unità gli statuti soggettivi e collettivizzando i mezzi di produzione[ref]Parte della dottrina marxista ha in effetti rivendicato questo vincolo di causazione. Cfr. A. Bordiga, Russia e rivoluzione nella teoria marxista, il Formichiere, Foligno, 1975, p. 29 ss.[/ref]. La fraternità sarebbe stata la cifra distintiva del riformismo cristiano, redistributivo nella politica economica, ma fondamentalmente prudente nel campo delle libertà politiche e civili. La ricostruzione ci convince poco, perché immaginare i lemmi della rivoluzione come fiumi che hanno in comune solo la sorgente, e che nel mezzo della loro esistenza non hanno diritto a toccarsi, è molto limitante. E bisogna sottolineare quanto se ne sia accorto il Pontefice, che se riconduce la libertà alla legge divina (e non a quella umana) certo non la nega, che se non intende abolire in radice le differenze socioeconomiche perora, comunque sia, il loro possibile livellamento. A dividere le strade di libertà, fratellanza ed eguaglianza han perso tutti e più di tutti ne han perso il diritto e le religioni: l’uno costretto a riconoscere che né la codificazione né il costituzionalismo erano sufficienti a implementare ex se i principi fondamentali[ref]Secondo le note considerazioni di E. W. Böckenförde, Stato, Costituzione, Democrazia. Scritti di teoria della costituzione e di diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 2006.[/ref]; le altre ancora troppo protese a pensarsi divise, separate in casa. Separate nella stessa casa comune. Il diritto ha viepiù comminato alla fratellanza un’ulteriore condanna: la ha espropriata della sua potenzialità normativa pubblica e la ha ricondotta al suo sempre meno afferrabile darsi biologico-familiare. Come ha scritto il giurista laico Stefano Rodotà, essendo la fratellanza difficilmente giustiziabile in giudizio e ancor più apparentemente pericolosa da estendere univocamente oltre la sfera del vincolo di sangue, essa è stata mestamente adombrata nel diritto vigente quanto in quello vivente. Non ci sembra sempre convincente la pista di ricerca di chi insiste acriticamente sui beni comuni, senza mai precisarne il contenuto o limitandosi a sottolineare la rilevanza dal basso di forme di vita in comune che prescindono dalla condizione normativa dell’essere fratelli, mantenendo o addirittura accrescendo, d’altra parte, la forte carica solidaristica della fratellanza, intesa in senso simbolico[ref]Letteratura di senso parzialmente difforme: G. Allegri, Il reddito di base nell’era digitale. Libertà, solidarietà, condivisione, Fefé, Roma, 2018; A. Negri, Il comune in rivolta. Sul potere costituente delle lotte, Ombre Corte, Verona, 2012; V. Raparelli, Rivolta o barbarie. La democrazia del 99 percento contro i signori della moneta, Ponte alle Grazie, Milano, 2012.[/ref]. Che esperienze del genere esistano e mettano sotto stress, le uniche!, l’egoismo e l’alienazione alla quale i tempi della produzione e della divisione sociale del lavoro vorrebbero abituarci è fuor di dubbio. Arrestarsi a riconoscere questa linea, senza interrogarsi sul suo possibile sviluppo etico, è come tirar fuori le chiavi per restare a guardare l’uscio di casa.
3-La (ri)scoperta del Magistero: traduzione e diritti umani
Il percorso evolutivo tracciato da Francesco sembra poter prestarsi a letture di maggiore profondità. Si tratta del resto ormai di un’esperienza pontificia che assomma in sé anni, documenti, atti, posizionamenti, non più, se mai poteva esser sembrata, una novità votata all’estemporaneo degli strumenti di comunicazione sociale. Lo testimonia l’andamento delle encicliche, oltre che la scelta contenutistica in esse intrapresa. La prima di queste, Lumen Fidei, recava ancora molto significativamente lo spirito elaborativo iniziato da Benedetto XVI[ref]Si veda l’impalcatura di Francesco, Lettera Enciclica Lumen Fidei, 29 Giugno 2013 (reperibile in http://www.vatican.va). [/ref], come coronamento della trilogia teologale, che comprendeva anche Spe Salvi e Deus Caritas Est[ref]Benedetto XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas Est, 25 Dicembre 2005; Id, Lettera Enciclica Lettera Enciclica Spe Salvi, 30 Novembre 2007 (testi rinvenibili in http://www.vatican.va).[/ref]. L’importante lavoro di Caritas in Veritate va ritenuto non solo un’integrazione tematica della riflessione sulla carità, ma una sua non banale proiezione a quel tramite specifico di comunicazione verso le realtà mondane che è sempre stata la dottrina sociale della Chiesa – e, in essa, è impossibile estromettere chirurgicamente la questione della fratellanza. Francesco ha proseguito nel lavoro del predecessore, ma lo ha arricchito di punti qualificanti, ancor più orientati alle dinamiche secolari, al punto che taluno ha obiettato sul protagonismo assertivo di questa politica magisteriale, invero cogliendo forse nel segno solo sull’aspetto di una palese vastità contenutistica che, giocoforza, non sempre riesce a tradursi in una pari accuratezza filologica. Francesco stesso, soprattutto nelle esortazioni apostoliche (in primis, Evangelii Gaudium e Amoris Laetitia)[ref]Il riferimento è a Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, 24 Novembre 2013; Id, Esortazione Apostolica Post-sinodale Amoris Laetitia sull’amore nella famiglia, 19 Marzo 2016 (entrambi i testi consultabili in http://www.vatican.va).[/ref], quando interveniva su temi aperti a un più diffuso confronto interno alla società e alla Chiesa, perorando un metodo dialogico molto largo e una pratica consultiva della sinodalità canonica, precisava sempre come ciò inevitabilmente potesse scoraggiare qualcuno sul fronte della rigorosità dogmatica e dottrinale. Pare però che ai fini della presente analisi il rischio non sussista, perché l’approccio qui veicolato – una ricerca sui significati della fratellanza, in una prospettiva di tutela interculturale delle libertà fondamentali – non si occupa di sondare alla radice le costruzioni teologiche, che sono sempre perfettibili nel contatto tra la Scrittura e il mondo in cui il fedele è chiamato ad inverarla.
La seconda enciclica, Laudato Si’, ormai del 2015[ref]Francesco, Lettera Enciclica Laudato Si’, 24 Maggio 2015, in http://www.vatican.va.[/ref], dava conto di almeno tre questioni di grande significato, dietro la tematica ambientale, lasciando forse presagire che un successivo momento di riflessione non sarebbe potuto che giungere in materia di fraternità e relazioni umane. Innanzitutto, quell’enciclica aveva una genuina predisposizione ecumenica, nonostante l’impianto redazionale non sempre palesasse questo preliminare background. Forti erano, da quel punto di vista, l’influenza della recente teologia cristiano-ortodossa e la collaborazione col patriarca Bartolomeo, da tempo impegnato sui temi ecologici[ref]D. Keramidas, Evangelizzazione della creazione. Ecologia eucaristica vs. de-sacralizzazione del creato, in E. Garlaschelli, G. Salmeri, P. Trianni (a cura di), Ma di’ soltanto una parola … Economia, ecologia, speranza per i nostri giorni, Educatt, Milano, 2013, p. 93; G. Scalmana, Teologia e biologia, Morcelliana, Brescia, 2010, p. 251.[/ref]. L’ecologia è certo una scienza o un reticolato di nozioni scientifiche apprese da discipline diverse; è uno strumento rivendicativo (che diede vita all’ampia e forse dispersa costellazione di movimenti ambientalisti); è senz’altro questione che può e deve essere affrontata, anche con l’ausilio del diritto, della filosofia e della teologia. Un’ecologia che non sa dotarsi di norme, affinché prevalga la salvaguardia ambientale nel bilanciamento con gli altri principi costituzionali, si candida a essere più debole, costantemente tacciata di indeterminatezza sulle situazioni normative puntuali. L’ecologia abbisogna ancora di una costruzione preventiva di senso, di una direzione del proprio pensiero, che investe l’antropologia, la biologia, la filosofia morale e quella politica. Viepiù, per le diverse ascendenze religiose, una concezione ecologica non può che procedere da una concezione della vita e della creazione. Inoltre, Laudato Si’ ripercorreva le ragioni della scelta francescana, che è una scelta canonisticamente interessante tanto per motivazioni ecumeniche quanto per ulteriori ricadute interreligiose. Francesco d’Assisi è stato ritenuto tra gli ispiratori di quel rinnovamento etico-spirituale che, dal XIII secolo in poi, ha avviato e perfezionato le pagine più durevoli e benefiche nella storia del pensiero politico europeo[ref]Tra le opere più importanti, che segnalano il succitato vincolo di sostanziale derivazione del nuovo umanesimo giuridico cristiano anche dal francescanesimo, M. Cacciari, Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto, Adelphi, Milano, 2012; F. Cardini, Francesco d’Assisi (1989), Mondadori, Milano, 2020. [/ref]. Non solo: della sua opera e del suo operato hanno sentito ed espresso lodi contemporanei di altre fedi religiose (sultani, giureconsulti islamici, scismatici dei movimenti protestanti radicali pre-riformati). La nettezza di scelte insita nel francescanesimo paradossalmente diviene la cartina di tornasole di un nuovo universalismo, orientato all’invenzione (in senso etimologico: rinvenimento in praxim) di pratiche nuove del vivere comune: un presupposto di fratellanza. E, in ultima analisi, Laudato Si’ procedeva nel solco del tener giunta la ricerca teologica alla questione sociale, rivitalizzando per tale via l’apporto del diritto canonico particolare, quello cioè che sub exemplo della legge e della tradizione tuttavia articola le esperienze concrete del vissuto ecclesiale, se del caso fornendo avvedute dinamiche di inclusione, innovazione e partecipazione. Una Chiesa che pensa solo al proprio centro decisionale, dimenticando la periferia della determinazione effettiva e sostanziale, rischia di non essere più una ecclesia Corpus Christi, ma un gigante la cui testa prominente schiaccia le membra gracili[ref]Denunciava il problema sul piano ecclesiologico, pur non ricorrendo alla medesima immagine avversativa, L. Boff, Chiesa: carisma e potere, Borla, Roma, 1984.[/ref]. Come si vede, seguendo gli assi dell’enciclica sulla salvaguardia della casa comune, si giunge con coerenza al tema della fratellanza, anzi determinando non occasionali motivi di perplessità quando la fratellanza, da creazione paritetica dell’affettività inter-umana, si ordina comunque secondo i criteri gerarchici consuetudinari. In proposito, è a molti parso un tentativo di non scontentare fronti normalmente abituati a rappresentarsi contrapposti (progressisti e conservatori) l’andamento di tre esortazioni apostoliche successive alla controversa Amoris Laetitia: Gaudete et Exsultate, che ribadiva il principio della chiamata alla santità, Christus Vivit, sul dibattuto tema teologico del discernimento vocazionale, Querida Amazonia, che metteva al centro del Magistero i diritti dei popoli indigeni, pur poco concedendo a chi avrebbe atteso sul punto una riflessione integralmente innovativa, anche in ottica liturgica e sacramentale[ref]Francesco, Esortazione Apostolica Gaudete et Exsultate sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, 19 Marzo 2018; Id, Esortazione Apostolica Post-sinodale Christus Vivit ai giovani e a tutto il popolo di Dio, 25 Marzo 2019; Id, Esortazione Apostolica Post-sinodale Querida Amazonia al popolo di Dio e a tutte le persone di buona volontà, 2 Febbraio 2020 (anche i detti documenti risultano integralmente reperibili in http://www.vatican.va).[/ref].
Non v’è dubbio che i principali vettori dell’approccio dialogico bergogliano – l’umanesimo e la cultura ateistico-secolare; il mondo islamico, prevalentemente, ma non esclusivamente, sunnita; le realtà indigene latino-americane; il cristianesimo orientale – indichino in re ipsa, se ancor meglio veicolati, le coordinate di un discorso di tipo nuovo sulla fraternità. Sulla scia dell’insegnamento conciliare, non ci si nega il confronto con le sensibilità autentiche della cultura civile che non hanno trovato la fede, ma che con la fede sentono l’esigenza di caricare rinnovatamente l’eccedenza assiologica dell’umano, contro il dominio tecnico-finanziario. Si discute, proprio come nell’incipit di Fratelli Tutti, con le realtà organizzate della religiosità collettiva, che contemporaneamente subiscono il fondamentalismo dei propri seguaci come dei propri oppositori. Si osservano le identità originarie nelle culture popolari, che spesso precedono le forme specifiche dell’appartenenza religiosa. Si torna a confrontarsi con schiettezza e rispetto, meditazione e tolleranza, nei confronti di quelle forme divise del cristianesimo che, invece, collaborativamente molto possono offrire l’una all’altra e probabilmente all’associazionismo solidale e di promozione sociale e culturale, complessivamente inteso. Fratelli Tutti non è un documento irenico; non omette le fatiche del mondo pandemico, non nega l’esistenza di problemi sociali di bruciante attualità, ora raccontati frammentariamente (le guerre globali), ora taciuti (le condizioni della pena e le privazioni di libertà), ora e peggio lasciati allo scandalismo delle accuse, della paura e del populismo (le sperequazioni sociali, le forme irregolari e predatorie delle migrazioni, il senso collettivo, dopo decenni di opposta narrazione, di un comune, grave, pesante arretramento socio-economico).
Torniamo così, ci pare, nella involontaria ringkomposition di un diritto che deve essere contemporaneamente autonomia e cura[ref]Sul punto sempre attuali le considerazioni di E. Dieni, Il diritto come “cura”. Suggestioni dall’esperienza canonistica, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (Rivista telematica, http://www.statoechiese.it), Giugno 2007.[/ref], sfera d’azione e attribuzione di senso[ref]Di sfere di giustizia, come ambiti dell’agire plurale, parla M. Walzer, Sfere di giustizia, Laterza, Roma-Bari, 2008; interessante, sulle implicazioni etiche stavolta personali e non collettive, R. Nozick, La vita pensata. Meditazioni filosofiche, BUR, Milano, 2004. [/ref], a una declinazione non meramente biologica della fratellanza: fratellanza non come corredo di geni, né come presunzione di legge. Fratellanza, all’opposto, come precondizione essenziale per rendere il linguaggio delle libertà fruibile a un incessante lavoro di traduzione[ref]Sul metodo della traduzione interculturale, tra i più efficaci lavori giuridici in lingua italiana si segnalano M. Ricca, Oltre Babele. Codici per una democrazia interculturale, Dedalo, Bari, 2008; Id, Culture interdette. Modernità, migrazioni, diritto interculturale, Bollati Boringhieri, Torino, 2013. [/ref], a beneficio degli ultimi. Il solco ha preso forma. Non era facile, ma è troppo più facile che renderlo a seguire campo e raccolto. Da quel punto di vista, il lavoro non è nemmeno iniziato.
Da Mosè ad Abraham Maimonide. L’innovazione che articola la tradizione nel passaggio da padre a figlio
di Giovanni Luchetti
1.
Abraham Maimonide è una figura certamente meno nota rispetto a quella di suo padre Mosè, personalità di costante attualità nonostante il trascorrere dei secoli. Eppure proprio l’analisi di questo passaggio di testimone tra padre e figlio, a metà fra tradizione e rottura, può offrire un significativo punto di orientamento nel caotico e spesso indecifrabile mondo contemporaneo. Il Nagid Abraham, in continuità con la celebre e spesso ingombrante figura paterna, fu un esempio di apertura, dialogo, sincretismo – nel senso più alto di questa parola – fra culture e tradizioni diverse. Ebreo nella vita, nel pensiero e nell’opera, ereditò dal padre anzitutto l’apertura della filosofia all’ebraismo e dell’ebraismo alla filosofia.
Dall’osservazione della società ebraica egiziana del XIII secolo e dall’influenza filosofica e religiosa lasciata da Mosè Maimonide a suo figlio Abraham emerge uno scenario di grandi sconvolgimenti in Egitto: una serie di devastanti terremoti, carestie, e la peste, il cui impatto economico e demografico fu avvertito negli anni a venire.
Questo periodo, tuttavia, segnò anche la fioritura di un movimento pietista tra gli ebrei d’Egitto, i cui rituali e ideali riflettevano il profondo impatto del Sufismo di matrice islamica. Abraham Maimonide emerse come il portavoce più ardente del nascente movimento, utilizzando la sua influenza e il suo prestigio come guida della comunità ebraica al fine di riconoscere la necessaria legittimità ai cosiddetti “pietisti”, che spesso si trovarono sulla difensiva con i loro compagni ebrei e le autorità musulmane. Alcune di queste misure controverse possono aprire una finestra sulla gestione della leadership religiosa per opera del Nagid Abraham, e offrire una chiave per analizzare i profondi cambiamenti nella vita spirituale della comunità ebraica egiziana e le possibilità di fratellanza tra diverse comunità religiose nel mediterraneo. Possibilità che sono emerse con autorevolezza e speranza nello storico incontro del 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi, tra Francesco, il Papa, e Aḥmad al-Tayyeb, il Grande Imam di al-Azhar. I due leader si sono riconosciuti Fratelli, hanno firmato uno storico documento sulla fratellanza e hanno provato a offrire insieme uno sguardo sul mondo d’oggi. Raggiungendo quale consapevolezza? Che l’unica vera alternativa che sfida e argina lo scontro di civiltà è la fratellanza.
2.
Abraham Maimonide nacque quando suo padre Mosé era all’apice della sua fama. Il leader di una generazione, il Nagid della sua gente, fisico presso la corte del sultano, punto di riferimento indiscusso tanto a est quanto a ovest. Il pensiero filosofico di Maimonide, infatti, veniva applicato a sostegno di diversi orientamenti: per esempio, nell’area del Vicino Oriente, e in particolare in Egitto e nello Yemen, sembra essere stato letto in una chiave prevalentemente neoplatonica, talvolta come se trasmettesse un messaggio mistico. Nell’Europa occidentale, soprattutto in Provenza e in Italia, la sua opera sembrava invece essere stata interpretata alla luce dell’aristotelismo averroista. Infine non si può dimenticare l’influenza che la “Guida dei perplessi” ha esercitato nei confronti di alcuni autori della filosofia scolastica cristiana. In effetti, la fortuna dell’opera filosofica di Maimonide fu legata anche alla polemica che essa inevitabilmente suscitò, probabilmente in virtù del suo fondamentale razionalismo, all’interno di almeno due delle tre religioni monoteistiche allora presenti nel mondo europeo e mediterraneo: l’ebraismo e il cristianesimo. Una polemica che si sviluppò soprattutto nel corso del XIII secolo, quando la sua opera si diffuse in Europa, sia in ebraico sia (e forse prima ancora) in latino, e che stimolò l’interesse nei suoi confronti anche al di fuori della cultura religiosa da cui proveniva.
Abraham, da parte sua, fu un uomo impegnato anche in studi filosofici e compose un lavoro in cui intendeva riconciliare l’Aggadah[ref] Haggadah o Aggadah (in ebraico הגדה, lett. racconto) è una forma di narrazione usata nel Talmud e in alcune parti della liturgia ebraica.[/ref] con le idee filosofiche del suo tempo. Studiò con il padre le tradizioni bibliche e rabbiniche così come la filosofia e la medicina, e quasi immediatamente dopo la morte di Mosè nel 1204, venne designato in qualità di guida suprema (Nagid) degli ebrei d’Egitto nonostante la sua giovane età. Rispetto ai temi escatologici e di senso legati all’esistenza umana, Abraham aveva marcato una differenza con le posizioni paterne. Mosè Maimonide considerava la conoscenza di Dio come la più alta delle virtù. Suo figlio Abraham invece, avendo un’inclinazione più mistica, considerava l’unione mistica dell’anima con Dio come il bene più alto. Guardando al corpo dell’uomo come alla fonte del peccato, egli sosteneva e promuoveva una vita ascetica nella quale le attenzioni umane ai beni materiali dovessero essere ridotte al minimo.
Egli vedeva nei Sufi i discepoli spirituali dei profeti di Israele e prescriveva il metodo Sufi come metodo di formazione per il raggiungimento della perfezione umana[ref]Rosenblatt, S. “Abraham ben Moses ben Maimon, in Encyclopedia Judaica”, 1972, Jerusalem, Keter, vol 2, p.152.[/ref].
Possiamo dire che l’imprinting mentale e religioso di Abraham fu quindi grandemente determinato da suo padre al quale egli riconobbe sempre una grande stima, combattendo risolutamente anche contro gli attacchi diretti contro di lui. Quando venne a conoscenza che alcuni libri di suo padre erano stati bruciati a Montpellier, scrisse un “rimprovero” dal titolo “Michamot Hashem” rivolto agli studiosi provenzali e si impegnò in modo più deciso nella stesura di un’opera nella quale affrontava sia tematiche di matrice filosofica che domande sull’etica: il “Kifayat al‐Abidin” (“Guida completa per i servitori di Dio”). Un lavoro enciclopedico incentrato sulla religione ebraica e pensato come supporto al generale approccio ascetico che il Nagid intendeva esercitare.
3.
Nonostante i punti di continuità, Abraham Maimonide è andato molto più in là di suo padre, orientando esplicitamente le pratiche del culto ebraico verso quello dei Sufi. Ha goduto di una enorme quantità di potere politico e spirituale in Egitto e nell’ambito delle comunità ebraiche di tutto il mondo musulmano dell’epoca. A Fustat, Abraham si trovò circondato da uno tale spirito di apertura della comunità che gli permise di apprezzare l’Islam in un ambiente relativamente accogliente, che influenzò le sue opere e il suo pensiero grazie anche alla conoscenza profonda dell’arabo. Il Sufismo e lo sfondo di credenze islamiche che lo circondavano spinsero Abraham a reinterpretare numerosi termini e concetti ebraici. La sua attività, dunque, non si inserisce semplicemente nel segno del continuum della storia ebraica e del lavoro del padre, ma rappresenta un vero e proprio punto di svolta nella fede ebraica.
Abraham usa termini filosofici islamici e concezioni mistiche Sufi come: ghibta (beatitudine), ‘Ittihad (unione), ‘Ishq (amore passionale), al-‘inqita’ ilayhi (devozione totale) e al-Qurb minhu (vicinanza a Lui). Cita anche frasi tratte dalla letteratura Sufi. L’impiego di questi termini sufi ha permesso ad Abraham di collocare certe ispirazioni islamiche all’interno della riflessione spirituale e filosofica ebraica. Egli avvicinò gradualmente anche certe modalità di preghiera tipiche della tradizione ebraica, a pratiche Sufi. Ad esempio attribuì maggiore importanza al silenzio, una concezione in contrasto con l’insegnamento ebraico, ma in linea – per così dire – con i musulmani a lui contemporanei. La concezione del “silenzio” come un metodo preferibile di meditazione faceva direttamente il paio con il ritirarsi in solitudine come forma di preghiera. Il ritiro spirituale Sufi (khalwa), incentrato sul silenzio, rappresentò una novità degna di nota per gli ebrei praticanti del tempo. Tale pratica, infatti, entrava in contrasto non solo con le consuetudini degli ebrei egiziani del XII secolo, ma anche con la più generale tradizione rituale della comunità ebraica. Possiamo affermare che l’attrazione di Abraham per i mistici islamici nasce dalla sua convinzione che gli ebrei di ispirazione sufi rappresentassero un’autentica dottrina ebraica di derivazione islamica. Secondo Abraham, i sufi che vestivano di stracci, vivevano di elemosina ed erano organizzati in gruppi con leader e seguaci erano come tutti i profeti ebraici della Bibbia. Con il loro stile di vita, i sufi vinsero il sonno e la paura attraverso veglie notturne; trascorrendo e pregando per tanto tempo in luoghi bui finirono per danneggiare la loro facoltà visiva[ref]Maimonides, A. “The High Ways to Perfection of Abraham Maimonides” (Samuel Rosenblatt, trans.), p. 49[/ref], ma il danno consentì lo sviluppo di una potente luce interiore (mistica) in grado di sostituire l’esperienza sensoriale della luce sulla retina. Abraham collegava tutte queste pratiche e idee agli antenati ebrei[ref]Ibid. p. 29.[/ref]. Non solo Abraham era certo che la “Via Sufi” rappresentasse una sorta di misticismo ebraico perduto, ma era anche convinto che la pratica ebraica-sufi, fosse in qualche misura requisito necessario per una nuova epoca spirituale, sulla soglia della quale lui e i suoi contemporanei erano convinti di trovarsi.
4.
In questo clima di rinnovamento epocale si profila all’orizzonte un periodo di profondo cambiamento nella vita della comunità ebraica egiziana. La prima parte del XIII secolo, infatti, ha visto due distinti tipi di sconvolgimenti socio‐economici in Egitto: catastrofici disastri naturali che colpirono la popolazione e, in particolar modo per la comunità ebraica, l’arrivo di diverse ondate di immigranti ebrei che avevano bisogno di occupazione e di aiuti per il reinsediamento. La devastazione provocata dalle calamità naturali agli albori del XIII secolo causò per l’Egitto un lungo e difficile periodo di declino dal quale non fu facile ripartire se non in una prospettiva di medio-lungo periodo.
L’attività di Abraham durante questa crisi va analizzata anzitutto come l’intenso lavoro di un leader impegnato nella gestione di una comunità in tempi di stato di eccezione, con risorse limitate a disposizione e pressoché impossibilitato a delegare certi ruoli di responsabilità di altri funzionari. In due modi, però, la risposta di Abraham Maimonide alla crisi economica è andata al di là delle misure di emergenza ad hoc dettate dai tempi. Da una lettera datata ca. 1220, apprendiamo che il Nagid condusse ispezioni periodiche alle operazioni e ai servizi comunali di beneficenza nelle città di tutto il regno, attraverso un emissario della corte[ref]Cf. S. D. Goitein, “A Mediterranean Society” p.122.[/ref]. Ancora più importante, in una lettera datata intorno al 1230 che dà una vivida impressione del peggioramento delle condizioni e dei disordini sociali in Alessandria, sono rivelati maggiori dettagli sull’esercizio di leadership del Nagid: imparare dalle carestie del passato, questo presupposto sembrava guidare più di ogni altro l’operato del Nagid preoccupato di preparare e difendere la comunità ebraica egiziana in vista di tempi di disagio e nella speranza di evitare un aggravarsi delle condizioni.
Proprio in questo periodo si assistette a una forte domanda di beneficenza aggravata dalle necessità delle ondate migratorie ebraiche nel Paese provenienti dalle due estremità del mondo cristiano, da Bisanzio e dal nord Europa, che misero decisamente alla prova la resistenza di una popolazione già impoverita e problematica. In molti casi, questi immigrati mantenevano le proprie reti sociali separate, compresa l’assistenza sociale e la rappresentanza politica indipendente. La frattura tra queste due comunità in Egitto, una araba e l’altra europea continuò almeno fino al 1230, quando l’arrivo dell’ultima ondata di emigrati francesi è documentata. Molti stranieri arrivati in questo periodo, inoltre, arrivavano come prigionieri della pirateria mediterranea, e avevano bisogno non solo di riscatto sociale ma anche di case, cibo, vestiti, e del denaro per pagare un’imposta fiscale a cui erano immediatamente sottoposti al loro arrivo.
Come S. D. Goitein ha dimostrato da uno studio attento delle liste di elemosine di entrambe le ondate migratorie, gli immigrati e gli stranieri costituivano la più alta percentuale dei beneficiari degli aiuti in Egitto, nonostante il generale e diffuso aumento della domanda di risorse e aiuti da parte di una comunità sempre più impoverita nel suo complesso[ref]S. D. Goitein, “A Mediterranean Society”, 1:56-57, p.85.[/ref]. Nonostante i comportamenti virtuosi, la situazione di relativo squilibrio contribuì ad acuire quelle tensioni latenti tra comunità indipendenti, di diversa provenienza e dotate di una propria cultura ebraica di riferimento.
5.
In base alle mutate condizioni socio-economiche si chiarisce meglio il contesto materiale in cui si è sviluppata una certa sensibilità mistica nella vita e nel pensiero di Abraham Maimonide: se il pietismo ebraico riuscì a guadagnare un livello di maturità tale da assumere le caratteristiche di un fenomeno religioso comunitario, fu soprattutto grazie alla sua personalità. I punti principali della sua “via pietista” – così come sono mutuati da suo libro “Kifayat al-Abidinʺ (“Una Guida completa dei servitori di Dio”) – delineano anche le linee guida di Abrahm stesso come Nagid:
- Creare una nuova ondata di fervore religioso, offrendo una sintesi di mistica e ragione in seno all’ebraismo, così come al‐Ghazali aveva fatto per l’Islam.
- Ottenere il riconoscimento del “derek ha‐hasidut” (via pietistica), chiarendo e specificando i suoi precetti.
- Ripristinare, attraverso l’ideale pietistico, le pratiche religiose un tempo comuni tra gli ebrei di Israele.
- Proporre, attraverso gli insegnamenti sufi un modello di misticismo altamente spirituale.
È sicuramente con l’emergere di un movimento pietista ebraico, infatti, che si è avuto l’incontro più intimo tra gli ideali spirituali e religiosi dell’ebraismo e dell’Islam.
Come ha affermato Haym Soloveitchik: «In linea generale con pietismo si intende un atteggiamento che è caratterizzato da interiorità e introspezione religiosa, da responsabilità etica e per cui si pone l’accento più sulla dimensione esperienziale che non su quella intellettuale. Possedere una profonda comprensione del peccato dell’individuo e della fragilità della volontà di fronte all’istinto, sono le caratteristiche che il fenomeno pietista sostiene per la formazione morale e con cui intende fornire un programma completo per il discepolo vigile sulla propria anima»[ref]Patrick Benjamin Koch, “Misticism, pietisim, Morality: An introduction” in European Journal of Jewesh Study 14 (2020) 169-176, p. 170.[/ref].
Ed è proprio questa dimensione sociale che ha impostato le manifestazioni del pietismo ebraico nel contesto egiziano. Nell’aspetto sociale non meno che in quello religioso, i pietisti ebrei hanno seguito le tendenze locali di una crescente istituzionalizzazione degli ordini sufi a cui si è assistito in Egitto a partire dal XII secolo, grazie anche ad un significativo sostegno finanziario che tali istituzioni hanno ricevuto dal nascente governo ayyubide[ref] Col termine Ayyubidi viene chiamata la dinastia curdo–musulmana che fu costituita a partire dal 1174 da Saladino, dopo la morte di Norandino, e che finì con la morte dell’ultimo Sultano al-Sālih Ayyūb e l’assassinio di suo figlio al-Muʿaẓẓam Tūrānshāh nel 1249–50 da parte dei Mamelucchi del corpo dei Bahriyya.[/ref] del Cairo.
Il senso di una “comunanza spirituale”, al di là della familiarità o di rapporti personali, si prestava poi ad ulteriori legami sociali e rifletteva la misura con cui i pietisti vedevano il proprio status sociale; paragonabile, ai loro occhi, a quello dei “talmide hakamin”[ref]Talmid ḥakham (in ebraico, ‘discepolo del saggio’), indica la figura di uno studioso ebreo nel solco della tradizione rabbinica. Secondo il Talmud, un ḥakham Talmid è il tipo ideale di ebreo.[/ref] della tradizione rabbinica.
Di fondamentale importanza nel determinare le caratteristiche precise del movimento pietista egiziano è poi sicuramente la questione della realizzazione profetica e dell’ispirazione divina in generale. Al centro delle convinzioni pietiste c’era la sicurezza di seguire le orme degli antichi “discepoli dei profeti”, non solo per quanto riguarda il modello del rapporto maestro-discepolo, ma per il ruolo della profezia nel sentiero spirituale verso il raggiungimento della perfezione finale. In modo senz’altro caratteristico e originale, il Nagid immaginava di dar vita ad una rete di pietisti, riuniti in ogni città e villaggio, che avrebbero preso la residenza nella sinagoga locale e questo avrebbe rappresentato una sorta di meccanismo permanente di leadership spirituale.
Era visto come essenziale quindi, per gestire la leadership delle comunità ebraiche, che un gruppo di persone virtuose garantisse un supporto costante alle attività cultuali rinunciando sostanzialmente alle attività di questo mondo e in vista del “mondo a venire” (‘Olam ha-Ba). Nel pensiero ebraico pietista (così come nel Sufismo), il “mondo a venire” è il mondo spirituale di pura contemplazione e di comunione divina di cui è possibile avere un assaggio già in questo mondo. Promuovere la formazione di un numero di persone pie, radunate nella sinagoga e sostenute dalla comunità nel suo complesso, è – forse – quanto di più vicino possiamo immaginare a un ideale monastico.
L’ideale di Abraham, in breve, era quello di rivitalizzare la vita spirituale del popolo creando una sorta di elitaria “casta sacerdotale” di pietisti d’ispirazione sufi, impegnati in una profonda vita spirituale sia internamente, nella comunità stessa dei religiosi, che esternamente nella gestione della vita spirituale della comunità.
6.
Il movimento pietista egiziano del XIII secolo si manifestò in due modi distinti e complementari. Per un verso con un atteggiamento spirituale, impegnato, esigente e di devozione supererogatoria, per altro invece con la privazione ascetica. Il ruolo di Abraham Maimonide come guida spirituale dei “compagni” (ashab) pietisti a Fustat, si caratterizzò anzitutto per la promozione di un insieme di pratiche comunitarie, come il digiuno e la preghiera serale; oltre alla formazione dei singoli devoti per mezzo di ritiri solitari e di pratiche di meditazione. Questo “percorso speciale” dell’uomo era visto come un’avanguardia spirituale e un modello per gli altri; in qualche modo veniva percepito come una sorta di “ritorno alle origini”.
Il movimento, infatti, prendeva ispirazione dalla tradizione degli antichi profeti, cercando di far rivivere costumi religiosi di derivazione biblica e talmudica; tutto ciò in un contesto sociale dove era forte l’impatto della religiosità islamica.
Le prime ricerche più complete per tracciare le riforme nell’ambito della preghiera dei pietisti egiziani, furono avviate più di sessant’anni fa da Naftali Wieder nel suo studio pionieristico incentrato sull’influenza del culto islamico nelle pratiche della sinagoga[ref]Vedi Naftali Wieder, N. “Haspa’ot’ Islamiyot”, pp. 31-82. Per recensioni su Wieder N., vedere Vajda, “Wieder Naftali, Hashpa’ot Islamiyot ‘a Pulhan ha-ha-Yehudi, Influenze islamiche sul culto ebraico”, pp.107-108.[/ref]. Wieder ha osservato cinque innovazioni chiave nella preghiera pietista, a cui attribuiva una chiara influenza islamica: 1) prostrazione, 2) posizione in ginocchio, 3) rivolgendosi all’arca tutto il tempo, 4) posizione in piedi in file ordinate, 5) l’apertura delle mani[ref]È interessante notare che Maimonide fece riferimento allo stare seduti in file (Sura lifne sura) in M.T. H. Tefilah, 11:04. Siamo anche in possesso di un affascinante tradizione islamica che associa l’apertura e allungamento delle mani con culto ebraico. Vedi Kister, ‘”Non vi Assimilate …’ La tashabbahii … “, p. 332.[/ref].
Egli aggiunge inoltre l’abluzione rituale dei piedi (in aggiunta a quella delle mani) prima della preghiera e immersione in acqua dopo un’emissione seminale; costumi questi che si possono osservare tra gli ebrei delle terre arabe prima del XIII secolo[ref]Vedi Naftali Wieder, ibid, pp.10-25.[/ref].
L’enfasi sulla postura fisica, dal punto di vista di Abraham, mirava a sincronizzare “il culto interiore del cuore con il culto esterno degli arti” in accordo con le parole dei Salmi: «Il mio cuore e la mia carne cantano per il Dio vivente»[ref] Citazione da: Ps. 84:3.[/ref]. Certe posture erano viste sia come mezzi per il raggiungimento di determinati stati interiori, che come l’incarnazione esterna del raggiungimento di quegli stati interiori.
È interessante notare inoltre che Abraham considerava le proprie modifiche del rituale nella sinagoga come più in sintonia con la Legge ebraica e più in generale con la tradizione precedente a quella del padre. Mentre il padre aveva eliminato un costume con una solida base nel Talmud, lui aveva solo cercato di reintrodurre riti ormai trascurati ma che avevano una chiara base biblica e talmudica.
Nonostante questo tentativo, egli si lamentava, che la comunità in generale era più disposta a seguire le ordinanze emesse dal padre, piuttosto che la proposta delle proprie modifiche e questo è facile immaginare che costituisse una fonte di amarezza per Abraham anche perché l’aspirazione delle sue proposte – mai imposte – era di segnare un cambiamento importante nella gestione delle questioni comunitarie e nel rinnovo di pratiche considerate da lui ormai obsolete.
La sua strategia, coerente per ciascuna riforma, era quella di seguire e rispettare un criterio tripartito secondo l’ordine: Scrittura, Tradizione e Ragione. Un ordine logico che, tuttavia, andava visto come schema di lavoro applicato da Abraham nel complesso delle sue attività di guida della comunità. Per Abraham era necessario e obbligatorio seguire questo “schema di lavoro” a seconda delle circostanze, con lo scopo di glorificare il nome di Dio, ringraziarlo per la sua bontà e supplicarlo per la sua misericordia.
È utile specificare che il termine “obbligo” (al-wujub) rinvia a un imperativo (al-luzum) o a una necessità (al-darurah). “Obbligo”, a volte, può avere un significato meno assoluto quindi, e indicare in generale qualcosa di lodevole e auspicabile ma non imposto (al-mandub ‘ilaihi al-gair darurt), come quando si dice che una persona dovrebbe (yajibu) essere generosa e coraggiosa. Il termine “obbligatorio” (al-wajib), dunque, va usato in questo contesto più come sinonimo di necessario (al-darurt) ed encomiabile (al-mandub ‘ilaihi). Nell’ambito della terminologia islamica, con “obbligatorio” (wajib) si intende l’azione che viene raccomandata (mandub ilaihi), mentre la Legge ebraica considera due diversi gradi di impegno e fornisce due significati distinti per la nozione di obbligo religioso.
Proprio a questo proposito, Abraham ha mostrato di avere una certa moderazione in materia di obbligo religioso: riteneva lo zelo per i costumi e le pratiche religiose importante ma non fondamentale per il benessere della vita religiosa della comunità. Nella sua visione e nel suo impegno per rivitalizzare la vita religiosa comunitaria, cercò di evitare un confronto diretto con il pubblico dei fedeli, promuovendo le sue modifiche senza prendere una posizione esplicita contro la resistenza locale.
Questo, tuttavia, non gli impedì di promuovere pubblicamente e al grande pubblico, dei cambiamenti che lo portarono inevitabilmente in conflitto con gli studiosi a lui rivali nell’Egitto dell’epoca. Alle accuse dei suoi avversari, il Nagid, tuttavia, non esitò a rispondere argomentando e difendendo le sue riforme.
7.
Il mondo degli ebrei egiziani agli albori del XIII secolo, i cui contorni storici sono stati appena esplorati in queste pagine, è stato caratterizzato da una profonda incertezza economica e da una rapida trasformazione spirituale a causa di agitazioni politiche e periodiche ondate di immigrazione. La figura del Nagid Abraham, senza dubbio, può essere ricordata come quella di chi ha dedicato la sua esistenza alle profonde trasformazioni della vita ebraica egiziana, che ha servito la sua comunità nella sua veste ufficiale più alta per oltre trent’anni e che è stato coinvolto sotto molteplici aspetti nelle dinamiche della sua generazione.
Tuttavia, Abraham ha svolto il suo ruolo primario in quanto custode della vita religiosa per le comunità ebraiche perseguendo con determinazione le riforme più importanti nella pratica liturgica e nella devozione sinagogale. Sulla scia degli insegnamenti del padre, Abraham sembra aver tentato, nella sua opera etica, la via avviata un millennio prima dai rabbini palestinesi, riprendendo metodi e idee della filosofia non ebraica a lui contemporanea (in particolare le interpretazioni arabo-islamiche dell’etica di Galeno e di Aristotele) e cercando di adattarli e applicarli alla sua religione e alle dottrine morali fissate da quest’ultima: un compito difficile che probabilmente non riuscì né a completare né a far accettare dai suoi correligionari come avrebbe voluto, ma che gli avrebbe dato un ruolo chiave nella storia del pensiero. La difficoltà del compito assunto da Abraham si trova naturalmente nel fatto che la religione ebraica del suo tempo era ormai, essa stessa, una forma di “etica” rigida e fondamentalmente immutabile, non dissimile in questo dall’Islam, sicché il tentativo di razionalizzarne la morale adeguandola alle esigenze dei suoi contemporanei cozzava contro la tradizione, sulla quale quella religione si fondava. La religione ebraica medievale era sentita dai suoi membri come una forma di fedele e rigorosa obbedienza ad una “Legge”: una legge superiore e fondamentalmente immutabile, che era stata trasmessa da Dio attraverso i suoi profeti, a cominciare da Mosè, e che era stata successivamente interpretata nei minimi dettagli attraverso le discussioni compiute su di essa dai rabbini, considerati i suoi interpreti ufficiali. Abraham Maimonide non voleva essere un semplice interprete della Legge religiosa ebraica, ma un filosofo e “teologo” ebreo che cerca di fondare il suo pensiero sulla metafisica di Aristotele, alla luce delle interpretazioni di quel pensiero offerte dalla filosofia arabo-islamica medievale, e sforzandosi di concordarla con i seppur pochi elementi teoretici di base della sua religione. Una sintesi tra il misticismo islamico e il pietismo rabbinico. Attraverso il suo ruolo di Nagid, egli ha cercato di ricostruire uno specifico “universo spirituale”, prendendo in prestito elementi della teologia islamica, del Sufismo, del razionalismo (ispirandosi a tal proposito alla figura paterna) e del rabbinat o tradizionale. Con i suoi scritti ha legittimato le sue tesi impegnando il lettore in una sorta di “percorso iniziatico”, per mezzo del quale (e dopo un intenso cammino spirituale) era possibile giungere all’incontro mistico con Dio; non senza un passaggio attraverso l’annullamento di sé per accedere allo stato spirituale di servizio di Dio.
È per questo che nel paesaggio medievale ebraico, seppur nel solco della tradizione, Abraham Maimonide detiene una posizione di unicità e innovazione in qualità di promotore di un vero dialogo e di una più autentica cultura dell’incontro. L’incontro e il dialogo, infatti, si fanno «cultura dell’incontro», quando si vuole progettare qualcosa che coinvolga tutti; e che non è un bene in sé, ma è un modo per fare il bene comune nella convinzione che le religioni, come si evince nel documento firmato dal Papa e dal Grande Imam Aḥmad al-Tayyeb ad Abu Dhabi, non incitino mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità o estremismo.