Logoanalisi e Biblioterapia

1. La Filosofia o è pratica oppure non è

La filosofia nasce pratica. Chiariamoci subito su questo. È vero tutto quello che vi pare, è vero che Gerd Achenbach ha avuto per primo l’idea di aprire uno studio di Consulenza filosofica, è vero che Lou Marinoff sull’idea che Platone sia meglio del Prozac ha venduto milioni di copie, è vero che Ran Lahav per citare il più conosciuto, si sta dando da fare da tempo per cercare strade originali all’interno del counseling. Ed è vero, come spesso provocatoriamente sottolineo, che la Consulenza filosofica nasce in realtà in Italia. Non con Umberto Galimberti, ma con Edoardo De Filippo che ne L’Oro di Napoli interpreta negli anni cinquanta un consulente filosofico ante litteram, don Ersilio Miccio, da cui si reca tutto il quartiere per consigli di ogni genere.

Dobbiamo subito sottolineare però che la Filosofia non è astratta e teorica. Non lo è mai stata e continua a non esserlo. Aristotele nella Metafisica ci dice che la filosofia nasce dallo ‘zauma’, termine spesso tradotto in senso debole con ‘meraviglia’, ma che Emanuele Severino invita a tradurre piuttosto con ‘paura’. La Filosofia da subito è chiamata a dare risposte, universali e di ragione, a una esigenza naturale dell’uomo, che è quella del senso. Tutto quell’ambito disciplinare che oggi chiamiamo Filosofia teoretica, ma anche l’Ontologia, la Filosofia della Religione non è altro che questo: come la saggezza dell’umanità ha risposto a quei problemi, da Platone a Heidegger. Non solo. La Filosofia politica è una filosofia pratica, il suo scopo è quello di fornire modelli di interpretazione, di critica del reale. Nelle sue forme più forti e complesse come è noto questo reale non lo si doveva solo pensare o capire, ma addirittura trasformare. Ancora, la filosofia morale. Anche qui la Filosofia è ben lontana dall’essere una disciplina difficile e algida, avvolta nelle torri d’avorio del sapere. Ultimo esempio: la Logica. Ora, la Logica ha probabilmente fallito il suo compito più titanico, quello di descrivere la realtà, il modo di pensarla, come i dati si organizzano nella nostra memoria, come vengono trattati dalla nostra coscienza. Ma il suo contributo, da Aristotele, alla Logica Formale, a Godel, è tutt’altro che estrinseco dalla quotidianità, perché si è evoluta nei linguaggi di programmazione. Oggi le App dei nostri iPhone e iPad vengono programmate in C++; ma la parentela è ancora più stretta nei linguaggi di programmazione per così dire più didattici, come il Basic o il Pascal. C’è addirittura un linguaggio di programmazione che si chiama ProLog (dal francese ‘Programmation en Logique’), che tenta di formulare il problema (e quindi la sua soluzione) in forma logica, e non sotto la forma tradizionale di un algoritmo. La piantiamo qui, anche se potremmo continuare con la Filosofia della Scienza, l’epistemologia, e così quasi all’infinito.

La Filosofia non è quella disciplina “con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale”. In 2500 anni di storia è riuscita a dare contributi concreti. Quali sono i suoi limiti oggi? Probabilmente la specializzazione, la Filosofia tramonta nel momento in cui perde di vista il tutto. “Con il Dio che muore, scomparendo dall’orizzonte ultimo della pensabilità, la verità s’inabissa nell’immanenza e si frantuma nel puro scenario della temporalità e dalla finitezza, privando così la filosofia del suo compito originario: la ricerca del fondamento primigenio e del senso ultimo di tutte le cose” (Giannatiempo Quinzio A., 1999, p. I). Questo impoverimento del pensare può però predisporre l’uomo all’attesa e alla ricerca. Magra consolazione.

C’è un’altra questione invece, che è la Torre d’Avorio. L’Università, l’Accademia. Che ha il grande merito di non aver mai banalizzato la Filosofia, di averla preservata da “contaminazioni”. E l’altrettanto grande merito di averci formati. Ma spesso si è pensato, e lo si pensa ancora, che la Filosofia la si possa fare solo lì, o nei Licei. Il Filosofo è come un contabile, e lo diceva già Hegel, che mette ordine al pensiero altrui. È un ragioniere dello Spirito. Le Pratiche filosofiche vanno contro questa idea. Il Filosofo si confronta con la società, e non con l’Accademia. La Consulenza filosofica va a portare ai suoi clienti, agli “ospiti” per dirla con Achenbach, 2500 anni di sapienzialità, con i suoi temi, i suoi sgambetti, le sue discese vertiginose verso l’abisso e la follia, le sue risalite verso quelle vette che gli altri non riusciranno nemmeno a seguire con lo sguardo.

2. La Filosofia può curare?

Fatte queste (doverose) premesse possiamo rispondere alla domanda: la filosofia può curare? La filosofia non interviene in ambiti patologici, per cui se per cura si intende: diagnosi e terapia, la risposta è sicuramente no. Ma la filosofia può intervenire con la sua autorevolezza per percorsi di chiarificazione e sostegno nel disagio diffuso e quotidiano, cioè nei tanti problemi che un uomo può incontrare nella sua vita. Perché la Filosofia è sempre stato questo: un raffinato ragionare intorno ai problemi, a partire dal principale che è quello esistenziale.

Si tratta di confrontarci su come la Filosofia possa intervenire in una Consulenza filosofica. La bibliografia è molto lacunosa e tocca darci da fare, sia nell’elaborazione di metodi, per esempio. Quello che dobbiamo fare secondo me è evitare che la Consulenza filosofica sia figlia minore come professione d’aiuto delle psicoterapie. La Filosofia deve scendere in campo senza crisi di identità né (ingiustificabili) complessi di inferiorità. Ci sono cose che mi piacciono poco, e che secondo me poco hanno a che fare con l’aggettivo filosofico che qualcuno pone accanto al sostantivo counseling.

Cosa mi piace? C’è uno strumento dell’epoché – il Consulente nei processi di ricondizionamento autonomo non interviene con giudizi – che a me sembra molto convincente. Ed è la Logoanalisi Coscienziale, uno strumento dell’Antropologia esistenziale, il cui papà non è don Ersilio Miccio, ma è un altro napoletano, uno psicologo, laureato anche in Filosofia, Ferdinando Brancaleone. Ce ne fossero. Con Gianfranco Buffardi, che è uno psichiatra, hanno preso spunto dal modello esistenziale della logoterapia di Viktor Frankl e dal pensiero antropologico di Jaspers e quindi creato una scuola Antropologica esistenziale che è quella dell’Isue, l’Istituto di Scienze Umane ed Esistenziali. Aiutare un uomo a ritornare alla propria esistenza, significa aiutarlo a percepire il campo vasto delle possibilità che gli si offrono da realizzare e che costituiscono in effetti una sfida. Dal momento che ogni esistenza è sempre specifica, unica e irripetibile anche la Consulenza non è qualcosa di generale, di valido per tutti e per ognuno, di permanente in ogni tempo, non inquadra in una patologia, o in disturbo del DSM, il Manuale Diagnostico degli psicologi, perché si modella all’unicità e all’individualità di ciascuno. L’uomo di Frankl è unione ed interazione di tre parti: quella somatica, le cui patologie sono di pertinenza della psichiatria, quella psicologica e quella noetica. Brancaleone è riuscito a ritagliare uno spazio tutto filosofico. Innanzitutto lo sfondo filosofico è l’esistenzialismo, la traduzione filosofica di quanto abbiamo accennato è la progettualità dell’esserci-nel-mondo, con un pantheon di filosofi che va almeno da Kierkegaard ad Heidegger passando per Nietzsche, ma che include anche Sartre, Unamuno, Camus. Ma anche la Logoanalisi ha una genesi tutta filosofica, essendo il lessico mutuato dalla Grammatica Generativo -Trasformazionale di Noam Chomsky. E la Logoanalisi Coscienziale è una metodica comunicativa volta a rendere sempre maggiormente chiara ed esplicita la “struttura profonda” di una comunicazione, sottesa ad una struttura superficiale attraverso cui ha luogo la comunicazione tra il consulente e il cliente.

Apriamo una parentesi sul rapporto con le psicoterapie. La Consulenza filosofica, è chiaro da quanto abbiamo detto, non si pone in contrapposizione né teorica (è altro il campo di intervento), né pratico. Va detto che quella del DSM è una situazione davvero paradossale: nel 1952 indicava complessivamente 112 turbe, nel 1968 il DSM II ne elencava 163. Nel 1980 il DSM III riportava 224 turbe e l’ultima edizione ne elenca 374. Negli anni Ottanta si riteneva che un cittadino americano su dieci fosse ammalato. Negli anni Novanta lo era uno su due. Non si può non condividere l’opinione di Marinoff e cioè che tra un po’, psicologi e psichiatri a parte, saremo tutti malati. Oppure funziona alla rovescia, e cioè che la malattia sta in chi vede malattie. Psicoterapeuti e psichiatri hanno interesse a patologizzare l’esistente per questioni di bottega e di mercato e per questo, in assenza di mercato, possono tendere a crearselo ad hoc. Un po’ per calcolo un po’ anche in buona fede perché come ha giustamente fatto notare Abraham Masslow se l’unico arnese nella tua cassetta è un martello, molte cose cominceranno ad apparire simili ai chiodi. La Consulenza filosofica parte da questo bisogno: che nella nostra società c’è bisogno di dialogo e non solo di diagnosi. E che la Filosofia può offrire sia un percorso di Bildung, di formazione, di crescita critica, di consapevolezza che non è né sterile citazionismo, né salotto. Altrimenti finiremo tutti per credere che la massima forma di manifestazione del nostro pensiero sia quella di mettere Mi Piace su uno stato altrui su Facebook.

3. La Biblioterapia a sostegno della Logoanalisi esistenziale

Può la Logoanalisi, da sola, sostanziare un intero ciclo di consulenze? Probabilmente no. Ed ecco il motivo per cui studio da qualche tempo la possibilità di affiancare la Logoanalisi con la Biblioterapia, cioè l’utilizzo nei processi di chiarificazione di alcuni testi (di alcuni brani in realtà) tratti dalla letteratura filosofica. Non è questa la sede per una articolata analisi dei testi in relazione ai problemi portati. Basta solo accennare a quanto utili possono essere riflessioni condotte attorno al De Anima di Aristotele o al Fedone di Platone in problemi di ambito esistenziale. O in ambito morale alcune pagine di Kant, o di Hegel, o di Nietzsche in problemi generati tra l’identità tra colpa e pena. Ma molta letteratura stoica è funzionale al tipo di lavoro che dovremmo fare. Molto interessante il lavoro che sta proponendo da tempo Ferdinando Testa, sull’utilizzo dei Miti. O il lavoro di Giancarlo Marinelli su Dostojevksij, o di Arcangela Miceli su Cartesio e Pascal. C’è un saggio che non si può non citare ed è quello di Pierre Hadot, tutto dedicato all’utilità pratica della filosofia antica: Epicuro, Seneca, Epitteto, Marco Aurelio. Insomma, secondo me siamo chiamati a fare filosofia così. Il filosofo non è soltanto chi è dotato di un’anima bella che il volgo non avrà mai, ma deve mettere in gioco il proprio sapere. Parafrasando Nietzsche oggi sono i poveri che fraintendono la loro povertà. Non hanno perso tutto. Hanno gettato tutto. La Consulenza filosofica possiamo leggerla alla voce del verbo trovare.

4. L’Idraulico e la consulenza filosofica

Ci sono quelle giornate un po’ così, in cui un po’ ti gira e un po’ no. Magari ti arriva un assegno della casa editrice, pochi spiccioli, e ti sembra che spunti il sole. A me capita di essere meteopatico alla rovescia. Poi arrivi a casa, vai per lavarti le mani, e una vitina scema del telefonino che tieni nella tasca della camicia ti cade dentro il lavandino. In queste giornate un po’ così ti senti un cartone animato, mentre, maldestro, tenti di recuperarla prima che ti cada giù nello scarico. Lei ti prende in giro, e per prenderti in giro non trova meglio da fare che girare, girare, girare. E poi ploff, quel buco se lo infila svelta. E ti sembra persino che prima di andarsene ti faccia marameo. In queste giornate un po’ così ti viene l’intuizione del genio. Sviti il sifone e recuperi la preziosissima vite dal raccordo sotto lo scarico. Sulla carta l’idea non è male. La teoria ha un suo aspetto nobile che poi la pratica smentisce. Infatti svitare il dado non è tra le operazioni più agevoli per chi scrive libri e fa il filosofo. Intanto non riesci a fare un giro completo con la pinza, perché ci sono le piastrelle. E se ti scivola, nel mezzo giro di cui ti devi accontentare, tra la pinza e la piastrella ci resta il tuo dito. Un colpo secco. Tac. E fa un po’ male. Appena hai finito ti resta in mano la guarnizione e tre anelli, che metti via non immaginando che non sarai più in grado di ricomporli insieme nell’esatta sequenza. Tu pensi solo alla vite. È la vite che fissa l’antenna al telefonino, mica una vite qualsiasi. Ti pare sia facile trovarla? Inclini il tubo e viene giù? Ma beato te! Te la devi guadagnare, mentre sei lì in ginocchio, sudaticcio, a rovistare con le dita tra fango, capelli, grasso, sapone. Quando la trovi sei pure contento. Non sai che il peggio deve ancora arrivare. Perché smontare è stato facile. Montare mica tanto. Oltretutto il tubo era pure un po’ arrugginito e se ne è spezzata una parte. Gli anelli e la guarnizione sono l’enigma del giorno, il rompicapo che non ti aspetti. Manco il cubo di Rubik. Morale della giornata un po’ così: hai fatto l’eroe per una vite, roba che a momenti la Nintendo ti scrittura per la versione sfigata di Super Mario, e per risparmiare 10 centesimi hai combinato una catastrofe da 200 euro. Di viti te ne compravi 2000. Non ti resta che chiamare l’idraulico, quello vero. Dei dieci minuti che se ne sta nel tuo bagno, due lavora, gli altri otto ti prende per il culo. Per due minuti ti chiede, per l’appunto, 200 euro. Più Iva. Sei fortunato che almeno per il culo ti ci ha preso gratis. Per pagarlo l’assegno del giorno manco ti basta. Devi pure aggiungerci dei contanti.

È in questi giorni un po’ così che pensi: nella vita dovevo fare l’idraulico. Infatti adesso non so, quando mio figlio prende un bel voto a scuola, se devo premiarlo o punirlo. Prendi ottimo a storia? E io ti tolgo la paghetta settimanale. La professoressa mi dice che sei bravissimo ad Epica? Ti riempio di botte, così impari. Sei impreparato a spagnolo? Ti porto un fine settimana a Disneyland.

Pier Aldo Rovatti ha un’idea diversa. Lui è di quelli che si spende per un esercizio pratico ed una concretezza della filosofia e della cultura umanistica in genere. La Consulenza filosofica, appunto, che per lui ha due compiti fondamentali: uno, istituzionale, che è quello di affiancarsi alle terapie del disagio diffuso, anzi di sostituirle con un rapporto non medicalizzato e dunque non terapeutico della filosofia, facendo pesare il suo prestigio anche nella casa di Psiche; l’altro quello di dotare i giovani laureati di una possibilità lavorativa ed economica in più. Almeno per guardare dritto in faccia un idraulico, con dignità, senza abbassare lo sguardo. «L’ibridazione nelle Università dissimula una lotta di modelli culturali, assai più di quanto contribuisca a una sintesi sensata. Il modello tecnico (apparentato a quello aziendale) vi gioca la sua partita, con pretese di leadership, nei confronti di quello umanistico, il quale non sembra oggi capace di un rilancio o di una positiva metamorfosi delle sue motivazioni di fondo». Il rischio è quello di una banalizzazione della filosofia stessa. Ma è un rischio che darà all’uomo di cultura in genere la piena padronanza del suo lavandino.

 

*Rielaborazione degli interventi tenuti all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofi per il convegno «Esistere per essere. L’antropologia clinica esistenziale: sviluppo futuri nelle professioni d’aiuto»» a cura dell’Isue il 19 aprile del 2013 e al Palazzo Pretorio di Certaldo in occasione del convegno «La filosofia può curare?» organizzato dall’Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche.

 

Bibliografia

Achenbach G. (2009), La consulenza filosofica, Feltrinelli, Milano

Brancaleone F. (2004), Existentia, Ofb Editing, Curti (Caserta)

Brancaleone F. (2004), Logodinamica generativo-trasformazionale, Ofb Editing, Curti (Caserta)

Brancaleone F. Buffardi R., Traversa G (2008), Helping, La Melagrana, San Felice a Cancello

Cascio M. (2013), Al divino dall’umano, Bastogi, Foggia

Cascio M. (2007), L’Autocoscienza, Bastogi, Foggia

Frankl V. (2004), Alla ricerca di un significato della vita, Mursia, Milano

Hadot P. (2005), Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi

Galimberti U. (2005), La casa di Psiche, Feltrinelli, Milano

Lahav R. (2010), Oltre la filosofia, Apogeo, Milano

Marinelli G, Miceli A. (2010), Le polifonie dell’anima, Bonanno, Catania

Marinoff L. (2007), Platone è meglio del Prozac, Piemme, Milano

Rovatti P.A. (2006), La filosofia può curare?, Cortina Raffaello, Milano

Testa F. (2012), Le idee dell’anima. Jung e la visione del mondo, Bonanno, Catania

de Unamuno M. (2007), Inquietudini e meditazioni, Rubbettino, Soveria Mannelli

La volontà generale

Un saggio che analizza la volontà generale nella sua genesi, fornendo analisi e prospettive accurate partendo da una ricca letteratura aggiornata. Un ricerca sul fondamento teorico del Contratto sociale di Jean Jacques Rousseau.

I mass-media, Gramsci e la costruzione dell’uomo eterodiretto

L’articolo si propone di recuperare alcune categorie fondamentali del pensiero gramsciano,
e nel metterne in evidenza la portata innovativa rispetto al marxismo ortodosso, utilizzarle per
comprendere adeguatamente un fenomeno che accomuna gli anni fra le due guerre mondiali
e il nostro tempo. Ossia la costruzione dell’uomo eterodiretto.

La (nuova) «grande trasformazione»: Badiou e il risveglio della Storia

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]C[/drop_cap]on il 1989 il mondo occidentale e liberale ha subito una seconda grande trasformazione, dopo quella degli anni fra le due guerre mondiali, che ne ha messo in discussione l’identità e le prospettive. Secondo Alain Badiou si sono riaperte le porte per l’affermazione dell’Idea comunista. La crisi del sistema capitalistico è oggettiva, con buona pace di chi aveva decretato la «fine della storia», ma a leggere l’autore francese, più che di una «rinascita della Storia», sembra di trovarsi di fronte all’ennesima, sterile utopia. Il mondo contemporaneo è protagonista di rivolgimenti straordinari che ne stando mutando assetti e configurazioni. Tanto che, ai più vari livelli, ci si può tranquillamente esprimere in termini di «cambiamento epocale». I giornalisti e poi gli storici, dovendo rispondere alla necessità di individuare delle date simboliche, solitamente si rivolgono all’11 settembre del 2001 e ai terribili accadimenti di New York e Washington. Ma se non c’è dubbio sul valore tragicamente simbolico di questa data, ce ne sono molti, invece, sulla sua capacità di spiegare cause ed origini della nuova e grande trasformazione in atto. Coloro che vogliono comprendere servendosi della ragione storica, infatti, e non (solo) emozionarsi ricorrendo a quello strumento senza tempo (e spesso privo di nessi causali che agevolino l’intelligenza dei fatti) che è il sentimento del dramma immediato, devono piuttosto ricorrere a una data anteriore a quella del 2001, che semmai è uno dei frutti avvelenati del 1989. E’ con il 1989, insomma, con la fine del mondo diviso in blocchi e, soprattutto, con la caduta della presenza fattiva dell’Idea comunista nei paesi del blocco sovietico (latente in quelli occidentali), che abbiamo assistito all’inizio del passaggio epocale, della seconda grande trasformazione del XX secolo dopo quella descritta da Karl Polanyi, che si riferiva agli anni fra le due guerre mondiali.

 

1 La prima grande trasformazione

La prima grande trasformazione del Novecento, era quella seguita alla pace dei cento anni (1814- 1914), ossia a quel vero e proprio accordo internazionale che impedì l’esplodere di conflitti tra le grandi potenze, fondato su un sostanziale «equilibrio di potere» (a spese dei paesi poveri e colonizzati), sulla «base aurea internazionale» che simboleggiava un’organizzazione unica dell’economia mondiale, nonché sul «mercato autoregolantesi», che produceva un benessere economico senza precedenti. Il tutto, tenuto insieme dallo «stato liberale», vero e proprio collante di un mondo occidentale costituito su queste basi (Polanyi 1974: 3). La grande trasformazione, titolo dell’opera omonima di Polanyi, trovò la sua sostanza nel crollo radicale di tutte queste caratteristiche che avevano permeato le nazioni liberali fino a quel momento, trasformando il mondo occidentale prima attraverso la «soluzione fascista (secondo la controversa tesi dell’autore), poi attraverso un rivolgimento più generale, che vide da una parte la Russia approdare al «socialismo dittatoriale», dall’altra i campioni del liberalismo economico (Usa e Gran Bretagna) costretti a ricorrere al New Deal e alle soluzioni keynesiane (stataliste) per riuscire a sopravvivere alla terribile crisi economica del 1929. Comun denominatore di tutti questi stravolgimenti, annotava Polanyi, era l’abbandono del dogma liberale del laissez-faire (Polanyi 1974: 245, 250-2). Il mondo occidentale uscito da questa imponente trasformazione aveva assunto dei connotati straordinariamente nuovi, tanto che uno storico come Hobsbawm, nella sua fortunatissima sintesi del «secolo breve», riferisce del «capitalismo post-bellico» come di un sistema partorito da «una sorta di matrimonio fra il liberalismo economico e la democrazia sociale […] con aspetti non secondari presi a prestito dalla politica economica dell’Urss, che per prima aveva praticato la pianificazione economica» (Hobsbawm 1994: 212). Tutto ciò malgrado la fervida opposizione da parte dei teologi del libero mercato (su tutti il von Hayek di The Road to Serfdom, del 1944), i quali ritenevano che questa grande trasformazione dell’economia (e in genere delle politiche e delle società) dell’Occidente avrebbe condotto direttamente a una nuova servitù della gleba: «Essi – ricorda ancora Hobsbawm – si erano schierati per l’intoccabile purezza del mercato anche durante la Grande Crisi. Continuarono poi a condannare le politiche che fecero aurea l’Età dell’oro, quando il mondo divenne più ricco e il capitalismo (insieme col liberalismo politico) rifiorirono grazie alla mescolanza di mercato e di stato nell’economia. Ma fra gli anni ’40 e gli anni ’70 nessuno prestò orecchio a questi vecchi credenti» (Hobsbawm 1994: 318-9).

 

2 La seconda grande trasformazione

L’occidente liberale, uscito dalla prima trasformazione del Novecento con le caratteristiche che abbiamo sommariamente ricordato, è durato effettivamente fino agli anni Settanta, quando qualcosa cominciò a incrinarsi, fino all’esplosione raffigurata simbolicamente dal crollo del Muro di Berlino e, con esso, di un blocco ideologico e politico che aveva rappresentato, e difeso, a livello mondiale le istanze comuniste. Tutto ciò, sarebbe scorretto negarlo, in un contesto che vedeva comunque le potenze occidentali continuare ad «esternalizzare» (nei confronti dei paesi più deboli, del Medioriente, dell’Africa, dell’America latina) quelle forme di sfruttamento che si sono rivelate consustanziali al sistema capitalistico nel corso della sua travagliata storia, e che hanno spinto l’Occidente a dipingersi ogni volta come l’«araldo di una modernità trionfante», mosso dalla «vocazione a costituire il modello della modernizzazione del mondo» (Bessis 2001: 56-7). Né le cose sono cambiate ai nostri giorni, tanto da spingere un autorevole studioso a definire gli stati occidentali come «cattivi samaritani», pronti cioè a proteggere anche militarmente le proprie economie e i propri interessi salvo imporre ai paesi più deboli i dogmi del liberismo più rigido e assurdo, fino a fare della competizione economica globale «un gioco di giocatori ineguali» (Chang 2008: 218-9). Ma certamente l’esistenza del forte blocco comunista, e con esso di influenti partiti di ispirazione marxista all’interno degli stati occidentali, aveva spinto gli stati liberali da una parte a mollare (seppur limitatamente e con palesi contraddizioni) gli istinti colonizzatori nei confronti dell’esterno, dall’altra a rafforzare al proprio interno quel matrimonio fra libero mercato e giustizia sociale destinato a garantire crescita economica e benessere per più ampi strati della popolazione. Questa è almeno la convinzione, nonché la premessa, contenuta nel libro di Alan Badiou Il risveglio della storia. Filosofia delle nuove rivolte mondiali, uscito in Francia nel 2011 e tradotto in Italia l’anno dopo per i tipi di Ponte alle Grazie. Badiou che, certamente, non manifesta simpatia per la forma di «democrazia» elaborata dagli stati occidentali, frutto dell’inconfessabile alleanza (con tanto di finta opposizione reciproca) fra il capitalismo di mercato dei liberali e il capitalismo di stato dei traditori di Marx (che pure a lui hanno continuato a richiamarsi per molto tempo). In questo ricordando oltremodo le tesi dell’ultimo Debord, quando nei Commentari sulla società dello spettacolo escogitava la formula dello «spettacolare integrato» per descrivere la forma di dominio di un potere, quello del capitalismo di stato (così chiamato anche da Badiou), che si era costruito sull’alleanza tra vecchi (e finti) oppositori, marxismo e liberalismo, su quel connubio inossidabile fra stato e mercato in grado, come nessun potere prima, di esercitare un dominio assoluto sulla totalità della dimensione umana (Debord 1988: § 4). Ma a differenza di Debord, Badiou è convinto che oggigiorno ci troviamo di fronte a una possibilità di riscatto radicale, resa possibile da quella seconda grande trasformazione del Novecento che si connota per due aspetti fondanti: da una parte, a partire proprio dal 1989, stiamo assistendo alla «reazione» del capitale contro le conquiste sociali faticosamente ottenute in decenni di lotte dai movimenti comunisti e socialisti, fino ad arrivare al compromesso storico e sociale del welfare state; dall’altra si assiste a un «risveglio della storia» (con buona pace di chi ne aveva proclamato la fine, proprio nel 1989, come nel caso di Fukuyama) caratterizzato dall’esplodere di movimenti di massa, più immediati e latenti in Occidente, più storici e quindi capaci di una rivoluzione fattiva in Oriente (Primavera araba).

 

3 Il ritorno dei morti viventi

Risveglio della storia a cui mancherebbe, per completare il progetto rivoluzionario, l’incontro di questi movimenti con l’Idea in grado di fornirli di senso, entusiasmo, unità e, quindi, di un progetto unitario volto alla distruzione di quell’ordine capitalista oggi finalmente colpito da una crisi strutturale e irrimediabile (le previsioni di Marx si sono avverate con un secolo e mezzo di distanza, secondo la tesi di Badiou). L’Idea di cui parla l’autore francese, ed è lui stesso a usare la maiuscola, è quella «comunista», finalmente rispettosa del disegno marxiano e non disposta a corrompersi e degradarsi come nel caso della dittatura di stato sfociata in Urss e nella Cina maoista. L’armamentario a cui Badiou decide di ricorrere è quello classico, seppure rivisitato in chiave moderna e alla luce delle sconfitte storiche: parliamo di «ritorno dei morti viventi» non in senso spregiativo o dileggiante, quanto piuttosto nel senso tecnico di riportare alla luce, e al ruolo di protagoniste, delle «entità» che troppo semplicisticamente si erano date per sconfitte e defunte, quando invece si erano ritirate a uno stato di latenza (non privo di una qualche oggettiva capacità di influenza). Si parte dalla spinta anarchica (propria delle pulsioni messianiche del giovane Marx, da lui stesso poi ampiamente corrette) per cui inserire lo stato fra i nemici da combattere e quindi superare (esso è produttore di stragi, di divisioni umane, di finzioni inesistenti ma funzionali al potere, oltre ad essere naturalmente il rappresentante legale degli interessi capitalistici). Si condanna la democrazia occidentale (sì, anche quella rappresentativa) come una forma capziosa di dominio su masse deleganti e, quindi, auto-relegantesi al ruolo di strumenti passivi della macchina del potere. Si biasima l’ingenuità, oltre che la disonestà intrinseca, di quel relativismo culturale per cui abbiamo imparato a non riporre fiducia (meno ancora fede), in «verità assolute», portatrici di un progetto totalizzante, e salvifico al tempo stesso, di riconfigurazione totale della società umana: Badiou rivendica per l’Idea comunista il valore di Verità cui aderire con «entusiasmo» (da notare il termine di marcata origine religiosa, visto che alla lettera vuol dire «avere dio dentro»). L’autore francese si pone anche il problema del «soggetto rivoluzionario», in grado di dirigere il processo di organizzazione delle masse rivoluzionarie (che abbisognano di «rettitudine e vera fedeltà alla lotta»), che egli riconosce, alla luce delle esperienze storiche, non poter essere rappresentato dalla forma-partito, ormai diventata obsoleta: «E’ il problema principale che ci è stato lasciato in eredità dal comunismo di Stato del secolo passato» (p. 83). Ma ecco che, dopo tanti decenni di sconfitte, «sta arrivando (tornando?) il nostro turno. E per noi il problema centrale sarà quello di un’organizzazione politica in cui il “fuori tempo” sia anche il “fuori-partito”, se è vero che l’epoca dei partiti, inaugurata dal club dei giacobini durante la Rivoluzione francese, alla fine del XVIII secolo, scandita dai “comunisti” nel senso dell’Internazionale fondata da Marx a metà del XIX secolo, istituzionalizzata dal partito socialdemocratico tedesco negli anni intorno al 1880, rivoluzionata dal Lenin di Che fare? all’inizio del XX secolo, si è chiusa negli anni Sessanta e Settanta, quando la Rivoluzione culturale cinese non è riuscita a realizzare il desiderio di Mao e degli studenti e operai rivoluzionari di trasformare il Partito della dittatura socialista in Partito del movimento comunista» (p. 84). La differenza più forte rispetto al marxismo tradizionale (e ancor di più rispetto a Marx), è quella per cui Badiou, diremmo paradossalmente, vede il terreno più fertile di realizzazione di questa rivoluzione comunista ben «fuori dall’Occidente» del capitalismo avanzato (e in agonia), riponendo una fiducia incredibilmente esagerata e persino ingenua nei movimenti della Primavera araba (contemporanei al momento di composizione del libro).

 

4. Risveglio della Storia o ritorno dell’Utopia?

Ma è proprio a partire dalla questione del soggetto rivoluzionario, di cui lo stesso Badiou ammette tanto la centralità quanto le difficoltà connesse, a portare alla luce un limite intrinseco al suo progetto di risveglio della storia (e della rivoluzione comunista). Certamente egli ha il pregio di chiamarsi fuori dalle fragili e curiose proposte (ad esser buoni) di individuare un soggetto politico avanzate da alcuni dei più illustri autori di ispirazione marxista della contemporaneità. E’ sufficiente aprire alcuni di questi volumi per rendersi conto della fragilità teorica che lo ha preceduto rispetto a tale questione: il Marco Revelli di Oltre il Novecento riteneva di individuare il nuovo soggetto rivoluzionario nel «passaggio dall’estenuata figura del militante a quella, ancora incerta e vacillante, del Volontario (scritto, anche qui, con la maiuscola); Hardt e Negri, nel loro celebre Impero, dopo una raffinata e fascinosa analisi delle nuove contraddizioni insite nel capitalismo globalizzato, riponevano le speranze di riscossa nientemeno che nel «militante creativo», ispirato da un «progetto di amore» che deve trarre spunto dalla figura di S. Francesco. Né le cose vanno meglio se ci rivolgiamo al testo, più recente, di Žižek, che individuando nelle «baraccopoli» il fenomeno geopolitico quantitativamente più rilevante del capitalismo globale, suggerisce che da questi abitanti, e dalle vittime dell’apartheid e del «terzo mondo» in genere possano emergere i nuovi soggetti rivoluzionari: si tratta, per Žižek, nientemeno che di «politicizzare, organizzare e disciplinare le “masse destrutturate” degli abitanti delle baraccopoli» (Revelli 2001: 286; Hardt-Negri 2000: 381; Žižek 2008: 424-7; Ercolani 2011: 444-8). Grande è la confusione sotto al cielo, e a questa confusione ci sembra fornire un apporto non indifferente anche Badiou, soprattutto laddove decide di ritirare fuori (ed è l’ennesimo ferrovecchio) la proposta della «dittatura», una «dittatura popolare» rappresentata da «un’autorità che si legittima da sola proprio a partire dall’autolegittimazione della propria verità» (p. 62). Al rifiuto della democrazia rappresentativa, insomma, Badiou fa seguire la proposta di una «democrazia di massa» in grado di imporre la dittatura delle proprie decisioni, in virtù del fatto che è costituzionalmente portatrice di una verità in grado di affermarsi come «volontà generale». Il pensiero corre a Rousseau, certamente, ma occorre ricordare che persino il ginevrino giungeva ad ammettere, alla fine dei conti, la necessità di una «figura mitica» come Mosé o Licurgo, insomma un legislatore in grado di elaborare e codificare la volontà generale, che è sì sempre retta, ma non sempre guidata da un giudizio illuminato, poiché «il popolo vuole sempre il bene, ma non sempre è capace di vederlo» (Rousseau 1959-69, tomo III: pp. 380-2). La storia non finisce, e quindi non si risveglia. Essa, piuttosto, segue un percorso che è bene conoscere per trarne delle lezioni che possono tornare utili nel momento presente. Il limite di fondo di Badiou, invece, consiste proprio in questa sua riproposizione, per quanto aggiornata, di schemi che non tengono per nulla conto delle lezioni della storia. Non sono le masse a poter guidare la storia, e qualunque dittatura popolare è sempre sfociata nel potere dispotico di un grande Capo o, tutt’al più, di un’oligarchia privilegiata. Non sorprende affatto che questa soluzione populistica provenga da un autore che ha trascurato, nella sua analisi del mondo contemporaneo, due fenomeni invece centrali per evitare il pericolo di nuove forme di anarchia e di teologia senza dio (apparentemente): la religione e la Rete (nuova forma di religione panteistica). Si tratta, in fondo, di un meccanismo ben compreso dal filosofo spagnolo Ortega Y Gasset, quello per cui l’uomo si ammanta di «credenze» cui aderire totalmente, fino a sostituirle alla realtà, perché a differenza delle «idee» esse non presentano aspetti problematici. Se è vero, insomma, che uno storico che voglia comprendere un uomo o un’epoca deve prima investigare il «sistema di credenze» (Ortega Y Gasset 1946-68, tomo IX: 500) che li caratterizza, l’errore principale di Badiou risiede proprio nell’incapacità di innalzarsi su un piano scientifico e razionale, finendo per rimanere lui per primo coinvolto da una nuova forma di teologia politica che egli chiama «risveglio della storia», ma che in realtà somiglia assai di più a quel «sonno della ragione» generatore di mostri che non vorremmo vedere più.

 

Riferimenti bibliografici

Bessis S. (2001): L’Occident et les autres. Histoire d’une suprématie, La Découverte, Paris Chang H.J. (2008): Bad Samaritans. The Mith of Free Trade and the Secret History of Capitalism, Bloomsbury Press, New York Debord G. (1988): Commentaires sur la société du spectacle, Éditions Gérard Lebovici, Paris Ercolani P. (2011): La storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche, presentazione di Luciano Canfora, La Scuola di Pitagora, Napoli Fukuyama F. (1989): The End of History?, in The National Interest, Summer Gasset O.Y. (1946-1968): Obras Completas, Revista de Occidente, Madrid Hobsbawm E.J. (1994): The Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991, Abacus, London Polanyi K. (1974): The Great Transormation. The Political and Economic Origins of Our Time (1944), Beacon Press, Boston Revelli M. (2001): Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino Rousseau J.J. (1959-69): Oeuvres Complètes, Gallimard, Paris Hardt M. – Negri T. (2000): Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano Žižek S. (2008): In Defense of Lost Causes, Verso, London – New York Paolo Ercolani insegna storia della filosofia e teoria e tecnica dei nuovi media all’Università di Urbino. Collabora all’inserto culturale del Corriere della sera («La Lettura»), è redattore della rivista Critica liberale e membro dell’Osservatorio filosofico. Fra i suoi libri, che più volte hanno suscitato un dibattito acceso sui media nazionali: Il Novecento negato. Hayek filosofo politico (Perugia 2006), Tocqueville: un ateo liberale (Bari 2008), La storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche, presentazione di Luciano Canfora (Napoli 2011) e L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana, prefazione di Umberto Galimberti (Bari 2012).

Searle e la filosofia del Novecento

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]I[/drop_cap]l percorso filosofico di J. Searle rappresenta sicuramente una felice coniugazione tra la tradizione cosiddetta “continentale” e lo stesso terreno di gestazione del suo pensiero, ossia la filosofia analitica americana. Nato a Denver nel 1931, Searle si è formato inizialmente ad Oxford in Gran Bretagna sotto la guida del suo maestro J. Austin per sviluppare nel corso degli anni 60 del secolo scorso la teoria degli Atti Linguistici il cui libro è uscito nel 1969. In questa importante opera Searle evidenziava come il nostro linguaggio non è solo un strumento di rappresentazione della realtà ma un “agente” diretto, un “fare”. In sostanza con le parole o le frasi non ci limitiamo a dare un Significato al mondo, bensì facciano cose. Il linguaggio, dunque, è uno strumento di comunicazione in cui “parlare”, è sempre un impegno in una forma di comportamento. In questo senso Searle distingue 4 atti linguistici diversi , così riassumibili:

1) Atti linguistici che proferiscono;
2) Atti proposizionali;
3) Atti illocutivi;
4) Atti perlocutivi;

Tra questi, di cui Searle in questa opera studia il secondo e terzo tipo, è veramente centrale il terzo, ossia gli atti illocutivi. Solo questi indicano la completezza dell’atto linguistico stesso. In altre parole solo gli atti illocutivi nel dire “fanno”.

Un atto linguistico illocutivo è il solo che ci fornisce una vera e propria cognizione di ciò che significa comunicare. Il caso della promessa che un parlante A fa nei confronti di un parlante B viene utilizzata da Searle come “paradigma” di riferimento della sua teoria degli atti illocutivi. A Searle interessa dunque ciò che si fa mentre parliamo. Come filosofo del linguaggio Searle ha avuto una certa influenza sulla linguistica contemporanea proprio nel dare una priorità concettuale alla completezza di quegli atti linguistici che chiamiamo “illocutivi” (locutivo ed illocutivo è una distinzione di Austin, solo in parte accettata da Searle), come sono dare ordini, fare promesse, affermare, domandare.

Ben presto però la teoria degli atti linguistici sarà ritenuta non sufficiente a spiegare una cognizione fondamentale della filosofia contemporanea, ossia il concetto di intenzionalità, rimesso in auge da Brentano a fine ottocento e ritenuto in seguito dalla stessa fenomenologia un suo asse portante. Proprio perché l’Intenzionalità rappresenta la possibilità di discriminare il mondo fisico dal mondo psichico era necessario individuare una cornice teorica più ampia per giustificare le scoperte della linguistica novecentesca, che avevano denotato la prima fase del lavoro di Searle. Dunque, fin dal 1983 con l’opera dal titolo “Dell’intenzionalità”, e poi in seguito nel 1992 con l’opera “La riscoperta della mente”, Searle estende il suo impegno epistemologico concentrando i suoi interessi filosofici nella critica al cognitivismo e alle scienze cognitive che avevano “ridotto” gli studi sul rapporto mente-cervello ad un modello computazionale.

Con la teoria della Stanza Cinese Searle critica fortemente la possibilità di descrivere il funzionamento della mente come un sistema di calcolo, distinguendo tra le giuste conquiste delle scienze neurobiologiche e il permanere di un’ontologia in prima persona e cioè di una soggettività irriducibile a processi neurocomputazionali. La sua teoria della coscienza rappresenta il modello attuale più originale di confluenza tra gli studi neurobiologici e il mantenimento di una visione “fenomenologica” della mente che dia conto dell’esperienza cosciente soggettiva.

Etica della parola

Partirei dal sintagma stesso “etica della parola” e innescherei subito il doppio senso del genitivo, oggettivo e soggettivo. Etica, cioè, come un qualcosa che è una proprietà della parola e di cui quest’ultima è, a sua volta e al tempo stesso, una declinazione.

Etica, come si sa, viene da ethos: un termine che Heidegger ci ha invitato a intendere nel senso di abitare. Per cui, in via assolutamente iniziale, potrei dire che concepisco la parola come un modo di abitare il mondo, non però poeticamente – come voleva lo stesso Heidegger –, ma prosaicamente. Termine, quest’ultimo, che mi fa pensare a un qualcosa che mette radici in quella “carne” – il riferimento è, ovviamente, a Merleau-Ponty[ref]Su questo punto, cfr. il mio La prosa del senso. La dinamica della significazione in Merleau-Ponty, IF Press, Morolo (Fr) 20122.[/ref] – che è la pasta comune di cui siamo fatti noi stessi e il mondo.

Parto da un’ipotesi poco ortodossa dal punto di vista strettamente linguistico, ossia che la parola sia la cellula e il nucleo germinale del linguaggio. Poco ortodossa, perché nel campo dei miei studi vige, da qualche tempo, incontrastata, una tesi: quella secondo cui la parola, intesa come atto creativo individuale, sarebbe sempre preceduta dalla lingua, intesa come sistema. Facendo mio il principio secondo cui il linguaggio articolato metterebbe radici nel terreno della gesticolazione e della corporeità, do grande importanza alla dimensione cosiddetta “circostanziale”, in quanto sfondo extralinguistico indistinto su cui si staglia l’apparizione della parola. Tale sfondo lo faccio coincidere anche con l’esperienza del “voler dire qualcosa”, inteso con quella riserva permanente di senso che, convertendosi solo parzialmente nel parlare, fa della lingua, in quanto allusione, un continuo processo di metaforizzazione. Al riguardo, parlando di metafora, voglio ricordare che il primo accesso a quest’ordine di problemi lo devo all’autore cui ho dedicato la mia tesi di dottorato: Vico, di cui ho approfondito, appunto, la filosofia implicita nella sua riflessione sulla retorica.

Dicevo che parto da un’ipotesi poco ortodossa dal punto di vista strettamente linguistico. La preciso meglio, appropriandomi della definizione di un filosofo americano, ingiustamente definito comportamentista, George Herbert Mead, il quale afferma quanto segue:

ciò a cui la parola si riferisce è qualcosa che può risiedere nell’esperienza dell’individuo a prescindere dall’uso del linguaggio[ref]G. H. Mead, Mente, sé e società. Dal punto di vista di uno psicologo comportamentista (opera postuma: 1934), tr. it. di R. Tettucci, Barbera, Firenze 1966, p. 44.[/ref].

E se vi prescinde, vuol dire che essa è intesa in qualità di gesto incardinato in un comportamento, ossia, pragmatisticamente, in termini di “abito”.

In un testo che ho in preparazione e che s’intitola: Semiotica dell’espressione, studio il passaggio dal gesto alla parola attraverso la mediazione di una terza figura: il ritmo. Il sottotitolo del libro è infatti: Il gesto che si fa ritmo, parola.Cosa intendo per ritmo? Uno degli autori da me studiati in questo testo, l’antropologo e linguista francese – ahimè poco noto, ma vi garantisco geniale – Marcel Jousse, parla di «gesto proposizionale»[ref]Cfr. M. Jousse, L’antropologia del gesto (opera postuma: 1969), tr. it. di E. De Rosa, Paoline, Roma 1979.[/ref], attribuendo al gesto la propensione naturale a strutturarsi “sintatticamente”, dandosi, appunto, una cadenza strutturale ritmica. Per l’autore da me appena citato, il nostro corpo, dopo aver captato i segnali che provengono a esso dalla realtà circostante e averli raccolti in quelli che lui chiama «mimemi» – e qui starebbe, appunto, l’origine del linguaggio –, li rilancia, infine, sotto forma di pensiero o di azione. I momenti da tener presente sono, dunque, tre: il momento mimetico originario, il momento ritmico, che consiste in una riarticolazione e in un assetto più coeso della fase precedente e, infine, il momento in cui codifichiamo le due fasi orali precedenti nella scrittura.

Ma torniamo al ritmo. Un altro autore che studio nel mio prossimo libro, il linguista francese Henri Meschonnic, invita a intenderlo non, come abbiamo fatto, da tempo immemorabile, fin qui, nel quadro della legge del numero e come sinonimo di ordine e di misura, ma come un qualcosa di connaturato al linguaggio, così che, per questa via, arriveremmo a superare la canonica – e ormai poco produttiva – distinzione, nel segno, fra significato e significante, nonché, in un testo, fra contenuto e forma. Potremmo pensare, cioè, al darsi di un senso extralessicale che, permeando di sé tutto il discorso, si struttura, appunto, in termini di continuità del ritmo[ref]Su questo punto, cfr. il mio Il movimento della parola del linguaggio. Meschonnic e la poetica del ritmo, in «Testo e senso», 2012, n. 13, pp. 117-33.[/ref].

Parlando di gesto come “abito” e prospettandolo come ipotesi naturale circa l’origine del linguaggio, trovo inevitabile risalire a un autore che sta all’origine di molte questioni ancora aperte del nostro tempo: Darwin. Da lui, riprendo l’idea relativa al carattere “modulare” del linguaggio umano, nel senso di un sistema combinatorio che funziona scomponendo e ricomponendo elementi discreti in ordini e combinazioni particolari sempre nuove. Idea di cui egli si serve, in chiave esplicativa, soprattutto, nell’opera: L’espressione delle emozioni nell’uomo e neglianimali (1872).

Un’altra tesi di Mead che mi sta molto a cuore è che «parlare è [innanzi tutto] parlarsi», nel senso che la «comunità della risposta è [a tal punto] essenziale alla insorgenza della parola»[ref]C. Di Martino, Linguaggio e autocoscienza in George Herbert Mead, in Id., Segno, gesto, parola. Da Heidegger a Mead e Merleau-Ponty, ETS, Pisa 2005, pp. 141-2.[/ref] che noi stessi, per primi, ci percepiamo come membri di una tale comunità. L’atto in cui ci udiamo parlare sarebbe, cioè, quello in cui si costituisce la nozione stessa di significato, poiché, nel momento in cui incardiniamo ciò che diciamo in un profilo dal tratto fermo e stabile, mettiamo capo ad un qualcosa che vale, al tempo stesso, per noi e per gli altri.

Un antropologo tedesco del Novecento, Arnold Gehlen, ha definito questo fenomeno come «autoaffettività della voce»[ref]A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), tr. it. di C. Mainoldi, Feltrinelli, Milano 1983.[/ref] e l’ha indicato come quello in cui sarebbe custodita, per lui, la radice principale del linguaggio.Grazie ad un tale fenomeno, noi impariamo a dislocarci, a “trasferirci” nella reazione dell’altro, per cui l’interiorità nascerebbe nel segno di una figura non mentalisticamente autocentrata, ma eteroreferenziale. Che è proprio ciò che, ad esempio, ha consentito a Ricoeur di parlare – è anche titolo di un suo libro – del “sé come un altro”[ref]Cfr. P. Ricoeur, Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993.[/ref]. È questa una scoperta molto importante, perché, gettando luce sul modo di insorgere del linguaggio, siamo arrivati a vedere come sia proprio nel segno di esso che, dischiudendosi la dimensione del sé, si dischiude, al tempo stesso, anche la dimensione dell’alterità.

Definendo la parola, nella sua essenza, come gesto, penso, ovviamente, al gesto deittico, indicativo. Ora, approfondendo il problema filosofico e linguistico dell’enunciazione[ref]Cfr. il mio L’istanza del soggetto parlante. Il problema linguistico dell’enunciazione, Lithos, Roma 2010.[/ref], ho potuto mettere meglio a fuoco il carattere, fondamentalmente, interlocutivo dell’alterità, prospettando la parola, nel suo profilo ostensivo, come quello spazioetico in cui facciamo originariamente esperienza della comunanza umana, dell’incontro e della prossimità.

Dandosi a noi nel segno dell’indicazione, la parola mostra, inoltre, di avere un vero e proprio volto, nel senso che la percezione e l’identificazione del parlato avvengono sempre secondo modalità di tipo fisiognomico, esattamente come noi riconosciamo una faccia o un oggetto familiare. E proprio questa dimensione che si concretizza nella materialità della voce è quella che, forse, più è stata affossata nel regime, sotto cui da lungo tempo ci troviamo, cosiddetto di «devocalizzazione del logos»: regime che, oltre a «fissare il primato ontologico del pensiero sulla parola», ha provveduto anche a disincarnare quest’ultima, liberandola «dalla corporeità del fiato e della voce»[ref]A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003, p. 74. Sulla voce come ciò che «sgorga prima che qualsiasi carattere semiotico/semantico abbia a formularsi», cfr. C. Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, il Mulino, Bologna 1992, p. 29. Infine, circa «il disincarnarsi della lingua dalla voce», G. Agamben, La parola e il sapere, in «aut aut», 1980, n. 179-180, pp. 155-66, afferma che, da tutto ciò, la prima, in quanto «costruzione del sapere», ne esce guadagnando un’autonomia radicale rispetto alla seconda e «all’atto concreto di parola» (pp. 162-3).[/ref]. Trovo che un motivo da recuperare sarebbe proprio questa unità originaria – e spezzata – fra logos e voce. E ciò a partire dal ripensamento della famosa definizione aristotelica del linguaggio come phoné significativa: come un qualcosa che ci dà prova, cioè, della genesi, naturale e contemporanea, di articolazione vocale e di attività logico-cognitiva[ref]Cfr. F. Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua, Laterza, Roma-Bari 2003.[/ref].

Oltre al titolo “Etica della parola”, l’incontro di oggi presenta anche un sottotitolo: “Politica, comunicazione, responsabilità”. Lascio cadere, senza alcuna esitazione, il primo termine, non rientrando la problematica relativa a esso nella mia sfera di competenza specifica, e mi approprio, invece, degli altri due. Ebbene, “comunicazione” e “responsabilità” posso considerarli come le parole-chiave intorno a cui si raccolgono due miei testi, già citati in precedenza: uno dedicato a Merleau-Ponty e l’altro a Ricoeur.

Merleau-Ponty impianta il processo della comunicazione sulla dialettica fra silenzio ed espressione. Poiché, per lui, vi è un senso prima che vi sia linguaggio, il lasciarsi guidare dalle cose così come esse si danno e si manifestano, è un far sì, letteralmente, che esse “prendano la parola”: parola che, perciò, è da sempre già iscritta nella “carne” viva dell’esperienza prelinguistica e preriflessiva.

Nella sua opera, forse, maggiore: Fenomenologia della percezione, Merleau-Ponty interpreta il motto fenomenologico che prescrive un “ritorno alle cose stesse” come un recupero di quel «mondo anteriore alla conoscenza» di cui essa «parla sempre», come l’«espressione seconda» di quella vita irriflessa della coscienza che opera in modo inavvertito e silenziosamente. Prima del «significato concettuale», che fa leva sulla funzione rappresentativa ed eteroreferenziale del segno verbale, si darebbe, cioè, un «significato gestuale», «esistenziale», «emozionale», che è «immanente alla parola» e che coincide con «uno degli usi possibili del mio corpo». Dietro la parola c’è sì un’operazione categoriale, ma ciò non vuol dire che essa riposa sul concetto come sul suo fondamento: parlare non è accedere ad un oggetto posto da un’intenzione conoscitiva o da una rappresentazione, ma quella dimensione espressiva entro cui il pensiero stesso trova la sua ragion d’essere e il suo compimento. Le parole “abitano” non solo le cose, ma anche il soggetto stesso quando le pronuncia. E ciò che ci consente di affidarci spontaneamente alla parola e di “muoverci” a nostro agio in essa è proprio il fatto che noi ne possediamo l’essenza articolare come una «modulazione» o un certo «stile di condotta» del nostro corpo. In tal senso, proprio come noi non ci rappresentiamo mai lo spazio esterno quando ci muoviamo in esso, ma lo viviamo come quel campo d’azione che ci si apre d’intorno, così non abbiamo bisogno di rappresentarci la parola per capirla e per pronunciarla: essa è un «certo luogo del mio mondo linguistico, fa parte della mia costituzione». Ne discende che la parola non è il modo di designare un pensiero, ma la presenza di questo stesso pensiero nel mondo sensibile: «non il suo vestito, ma […] il suo corpo»[ref]M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, pp. 251 e 253.[/ref]. Una riflessione, quest’ultima, che – quasi identica – possiamo trovare anche nello Zibaldone di Leopardi[ref]G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, 2 voll., a cura di A. M. Moroni, Mondadori, Milano 1972, vol. II, p. 610 (n. 1694).[/ref].

E passiamo al termine “responsabilità”, una parola che – come sapete – ha un profilo linguistico, prima ancora che etico, stando a significare, propriamente, “abilità nel rispondere”. Su questo punto, di Ricoeur, ho sviscerato, soprattutto, la sua riflessione intorno al fenomeno della promessa, nel cui segno egli intende l’identità personale come fedeltà alla parola data. Per il filosofo appena menzionato, tre sono i fattori che ci obbligano a mantenere una promessa. Innanzi tutto, chi promette si vincola all’impegno di fare qualcosa, dando prova, così, di essere fornito di autostima. In tale autostima, trova espressione, poi, il bisogno di essere riconosciuti da altri: è sempre a qualcuno, infatti, che si promette. Ed è qui che il fare di cui si è appena detto si configura, propriamente, come un dare: un dare all’altro qualcosa di ritenuto buono da chi promette. Infine, dietro il mantenimento di una parola data c’è sempre la volontà di «preservare la struttura del linguaggio» e la sua «dimensione fiduciaria»: linguaggio che, nel suo uso normale, «ingloba una tacita clausola di sincerità e, se così si può dire, di carità»[ref]P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento. Tre studi, a cura di F. Polidori, Cortina, Milano 2005, p. 149.[/ref].

Vorrei terminare parlandovi della riflessione di Ricoeur in merito al problema della traduzione, perché è qui che trova la sua formulazione ciò che egli ha definito “etica dell’ospitalità linguistica”[ref]P. Ricoeur, La traduzione. Una sfida etica, a cura di D. Jervolino, Morcelliana, Brescia 2001.[/ref]. Si parte dal fatto che, nell’atto in cui noi ci rivolgiamo ad un’altro, in quest’ultimo c’è sempre un qualcosa dello straniero. Ciò fa sì che lo scambio comunicativo di tipo intralinguistico non sia strutturalmente diverso da quello di tipo infralinguistico. Concedere una spiegazione nella nostra lingua all’interlocutore di turno, presentandogli la cosa da lui non capita in un altro modo, presuppone, infatti, la ricerca di una corrispondenza fra due versioni dello stesso discorso. Che è proprio ciò che facciamo anche quando traduciamo da una lingua ad un’altra. Tanto nel primo quanto nel secondo caso, andiamo alla ricerca, cioè, di un principio di equivalenza, nel cui segno di svolge, perciò, qualsiasi forma di scambio interumano mediato linguisticamente.

In tal senso, rappresentando un modello di integrazione che concilia il proprio e l’estraneo, l’identità e l’alterità, la traduzione si configura come un ethos che è perfettamente funzionale sia alla politica di edificazione della nuova Europa sia alla cultura del dialogo ecumenico interreligioso.

Ecco, prima avevo lasciato cadere il termine “politica”. Ora – come potete vedere – lo riguadagniamo, ma solo dopo aver attraversato i percorsi contrassegnati dai termini “comunicazione” e “responsabilità”.

** Testo letto nell’ambito della rassegna «Le ragioni della politica», organizzato dall’Osservatorio filosofico e dalla Compagnia de’ Galantomeni (Latina, 16 aprile 2013).

Come nasce l’idea della Volontà Generale in Rousseau

 ENcyclopediePur condividendo il giudizio di Judith Shklar che considera Rousseau l’artefice della fortuna dell’espressione ‘volontà generale’ [ref]Judith N.Shklar, General will, in dictionary of the history of ideas a cura di Philip P.Wiener(New York, Charles Scribner’s Sons,1973) vol .2 pag 275.[/ref]ritengo però sia necessario tenere presente i debiti culturali e teoretici che il nostro filosofo contrasse con il dibattito filosofico in atto nel proprio tempo e nel proprio ambiente. Questa necessità mi pare chiara e doverosa proprio in virtù del modo attraverso cui lo stesso filosofo ginevrino mosse la propria riflessione a partire dal sistematico tentativo di confutare l’articolo di Diderot “Droit naturel” del 1755 , pubblicato sull’Enciclopedia, nel secondo capitolo del “ manoscritto di Ginevra”.

In questo capitolo, intitolato ‘della società generale del genere umano’ [ref]Si fa riferimento alla edizione a cura e con note di Maria Garin ed.Laterza 1994 “Rousseau scritti politici” volume 2 .[/ref], Rousseau riporta a scopo di confutarle, ben quattro proposizioni del suddetto articolo di Diderot. Sin dall’episodio di Vincennes, il rapporto di amicizia e il confronto intellettuale fra Rousseau e Diderot, ci dà l’idea del clima che nella Francia dell’enciclopedia si andava respirando.


Cap I: l’Encyclopédie[ref]“ L’Encyclopedie ou dictionnaire raisonnè des sciences , des arts et des metiers » titolo originale che noi rileggiamo nella traduzione e a cura di Paolo Casini ed.Laterza 2003.[/ref] di Diderot e d’Alembert come paradigma della modernità.

L’importanza di quest’opera non si misura nei ventotto volumi con 72000 voci, 2500 tavole redatte dai 160 collaboratori che Diderot scelse per le diverse materie fra gli intellettuali più diversi e ai quali lasciò completa libertà di espressione. Non si misura neanche nei 25000 abbonati e nel pubblico variegato fra cui borghesi di vari paesi europei. L’importanza di questa opera è da misurarsi entro il significato espresso dall’unione di uno studio sulle arti e sui mestieri a riflessioni sulla morale, sulla politica e sulle più alte questioni filosofiche. Tale significato coglieva in un opera a più voci la complessità del passaggio dal modello del filosofo o sapiente appartenente a determinate confessioni o stati a quella del filosofo militante che apparteneva a uno spazio europeo della cultura e della comunicazione letteraria, una sorta di “repubblica delle lettere”.

Laddove, come notò magistralmente Franco Venturi in “utopia e riforme nell’illuminismo”, il repubblicanesimo politico era ormai tramontato nelle istituzioni dei vari stati europei, grazie a questo esperimento culturale, l’etica e la morale repubblicana fondavano il cosmopolitismo e si ponevano come collante ideale per la nascente cultura riformatrice del vecchio continente.

Il ruolo essenziale che questi filosofi attribuiscono alle scienze e alle arti come motore del progresso dell’uomo, la predisposizione che il movimento tutto mostrava per la comunicazione internazionale, l’humus materialistico e razionalistico su cui basavano gran parte delle riflessioni sui disparati temi, rappresentano lo spirito di un tempo, il volto di un epoca.

Per capire quanto questa complessità fosse voluta e ricercata dai nostri autori e redattori, accennerò brevemente al famoso “discorso preliminare” di d’Alembert che proprio nella frase iniziale annuncia che: ”l’Enciclopedia, come suona il titolo, è opera di una società di scrittori”.

Unire le diverse esperienze e competenze per costruire dal basso l’edificio del sapere umano era entrato ormai nel vivo del dibattito culturale e l’enciclopedia doveva sancire la supremazia della filosofia che indagava la natura con i sensi e la ragione.

Questi assunti facevano emergere un sapere slegato da ogni dogma religioso, lontano da ogni dipendenza diretta dalle rivelazioni divine, eppure questo aspetto resta in secondo piano rispetto alle sottolineature sempre più marcate circa l’utilità che questo sistema culturale recava allo sviluppo e la crescita del genere umano.

Una filosofia empirista e proto-positivista faceva da sfondo a una riflessione sul metodo sperimentale e contestualmente venivano citati una pluralità di debiti teorici a una serie di padri nobili della filosofia occidentale. Tali riferimenti apparivano però sommari e tradivano da una parte una certa incoerenza nel discorso globale, da un’ altra ci danno la possibilità di gettare uno sguardo sulla complessità della sfida che gli enciclopedisti lanciavano al proprio tempo.

Nel “prospectus” Diderot pone in rilievo la volontà degli editori di porre in essere il grande progetto baconiano di fondere in un sol corpo le scienze, le arti e le tecnologie al fine di mostrare quali fossero gli strumenti della perfettibilità dell’uomo.

Le grandi polemiche e le contestazioni che questo passo di Diderot suscitò ci permettono un’ulteriore misurazione della centralità di questa opera nel dibattito intellettuale della metà del settecento.

Il prospectus uscì appena dopo il primo discorso di Rousseau e noi sappiamo quanto fu lo stesso Diderot a consigliare le linee guida del saggio del filosofo ginevrino.

Il punto in cui noi possiamo muovere un confronto serrato fra i due amici filosofi è nell’articolo “Diritto naturale” di Diderot che troviamo criticato da Rousseau nel manoscritto di Ginevra. In questo articolo Diderot espone i principi di un contrattualismo e giusnaturalismo laico, basandosi su una rilettura di Barberyac del famoso trattato di Pufendorf “De jure naturae et gentium” [ref]Secondo le indicazioni di R.Hubert così come riportato sul testo sopracitato di P.Casini.[/ref]; in questo passo il nostro editore contrappone al modello hobbesiano di uno stato di natura del modello del “bellum omnium contra omnes”, la teoria del diritto naturale di stampo giusnaturalistico con accenti a volte materialistici.

È in questa cornice che Diderot formula il concetto di Volontà Generale.

Nell’articolo che stiamo analizzando Diderot utilizza una proposizione in una forma solo apparentemente ipotetica sulla falsa sensazione di libertà che l’uomo avverte quando crede di essere lui a volere le cose che pensa e che sente.

Il determinismo che qui appare ancora non dichiarato apertamente è strumentale alla tesi che ogni nostra azione sia guidata dalla nostra natura che esula da “alcunché di materiale estraneo alla sua anima, la sua scelta non è l’atto puro di una sostanza incorporea”.

Per spiegare la propria posizione mette in contrasto il “raisonneur violent” di stampo hobbesiano e l’uomo di natura che ascolta il proprio lume razionale. La capacità di analisi razionale è patrimonio sia del buono che del cattivo, e ci fa vedere come in ogni azione umana, il singolo, può anche preferire sempre di seguire il proprio piacere personale a discapito di tutto il resto dell’umanità, ma non può non riflettere sulla propria condizione al contrario di quello che accade alle bestie che agiscono per necessità senza riflessione.

Grazie a questo raffronto il nostro autore afferma che l’uomo ha sempre la possibilità di scoprire in se stesso la verità, ovvero la strada razionale per agire in conformità della ragione nel rispetto dell’agire di ogni altro uomo.

“Non sono tanto ingiusto da esigere da un altro un sacrificio che non voglio fare per lui”.

Il salto teorico avviene proprio qui allorquando Diderot ci fa vedere che un uomo nella propria individualità può essere sia buono che cattivo quando deve compiere una scelta per se stesso, mentre si accorda facilmente con ogni altro quando si tratta di pensare la società generale del genere umano: la volontà del singolo è sempre sospetta, la volontà generale è sempre retta.

Alla volontà generale si deve rivolgere il singolo per comprendere ciò che è giusto o sbagliato per se, per comprendere i propri doveri di uomo, padre figlio e cittadino.

Ogni volta che ci si riferisce alla volontà generale, ogni pensiero che si accorda con essa, partecipa interamente all’interesse generale e comune.

Secondo Diderot l’uomo può trovare entro se stesso quella legge sublime che è la Volontà Generale quando fa tacere quella ferina volontà di opprimere il prossimo e al contrario ricerca l’accordo con una volontà che voglia l’interesse generale.

“Sono un uomo e non possiedo altri diritti naturali realmente inalienabili che quelli dell’umanità “.

Ma dove sta questa Volontà generale? Dove la troviamo?

“Nei principi scritti del diritto di tutte le nazioni civili; negli atti sociali dei popoli selvaggi e barbari” ; nelle tacite convenzioni strette dai nemici del genere umano ed anche nell’indignazione e nel risentimento due passioni che la natura pare aver dato perfino agli animali per sopperire alla mancanza di leggi sociali e di vendetta pubblica”[ref]Tutti i virgolettati di questo passaggio si riferiscono all’articolo Diritto Naturale di Diderot nella già citata edizione a cura di P.Casini.[/ref].

Dopo questa serrata dissertazione, il quadro che Diderot ha composto lo porta a concludere che l’individuo che ascolta solo il proprio interesse personale è un nemico del genere umano; che la Volontà generale, presente in ogni individuo, è un atto puro dell’intelletto che ragiona nel silenzio delle passioni, su ciò che l’uomo può pretendere dal suo simile e su ciò che il suo simile ha diritto a pretendere da lui; che questa considerazione sulla volontà generale è la regola aurea della condotta degli uomini nella società e nel rapporto simmetrico di ognuno con ogni altro.

Tutte le società si fondano sulla Volontà generale, perfino quelle che si basano sul delitto, ma le leggi devono essere fatte per tutti e non per uno, altrimenti torneremmo a basarci sul principio del “raisonneur violent” di hobbesiana memoria. La volontà generale non muta con il mutare delle generazioni in quanto il diritto naturale fa riferimento sempre alla specie umana nella sua generalità, per cui l’equità resterà sempre la causa della giustizia che fonda l’interesse generale.

Sia il discorso preliminare, sia l’articolo di Diderot, ci danno la misura del progetto degli enciclopedisti che si pongono come “summa” del dibattito filosofico di un epoca pronta a costruire dal basso una società che tenga insieme giustizia e utilità, dove il progresso dell’umanità si debba compiere grazie al contributo di tutti attraverso il lavoro e la ragione, l’arte e il pensiero.


Cap II: Rousseau e il processo di socializzazione.

Il nostro intento è quello di portare un contributo all’analisi del concetto di volontà generale, e i concetti non hanno ne una collocazione temporale ne possono essere riferiti come proprietà esclusiva di qualcuno.

Eppure, come già accennato nella brevissima introduzione, non possiamo trascurare gli effetti che l’articolo di Diderot suscitò nella riflessione di Rousseau, visto che a partire da questo confronto il concetto a noi tanto caro prende un significato che ormai non è più possibile trascurare se si vuole raggiungere una comprensione profonda circa l’aspirazione dei moderni nel rintracciare nell’uomo e solo nell’uomo quel principio di giustizia che è fondante la comunità politica.

Dove nasce la necessità delle istituzioni politiche?

Nel manoscritto di Ginevra, lavoro preparatorio a un opera che avrebbe dovuto intitolarsi “istituzioni politiche”, Rousseau comincia con il ribadire le sue considerazioni circa le modalità secondo le quali gli uomini sarebbero passati da un primo stadio di naturale solitudine individuale ad una progressiva socializzazione.

Soprattutto mette in risalto il rapporto fra particolare e universale e la connessione fra cittadino e società universale.

La necessità di condividere il proprio tempo con i propri simili nasce in ognuno allorquando mutano i bisogni; fino a quando l’uomo resta in uno stadio di autosufficienza, irrazionale e pacifica animalità, non avverte altro che il “amour de soi”, ovvero quel naturale amore per se stesso che lo spinge alla ricerca del cibo, riparo, sonno e sesso.

È nel momento in cui incontra gli altri uomini che nascono nuovi bisogni e avviene il mutamento dello stato umano dal “amour de soi” all’amour propre”.

L’analisi Roussoiana nasce proprio dalla capacità del ginevrino di mettere in luce l’importanza dei rapporti simmetrici fra gli individui che stanno alla base della fondazione della comunità politica, di mettere in risalto come questa comunità si formi, a quali regole è soggetta, e questo ci da la misura di come l’uomo è andato trasformandosi ed evolvendosi fino al momento della comprensione della necessità della instaurazione della società politica.

Abbiamo bisogno degli altri, ma le nostre passioni minano la possibilità di un unione spontaneamente pacifica.

“Una marea di rapporti, senza né misura, né regola, né consistenza, alterati e mutati di continuo dagli uomini”.

Se la società generale si fondasse sui bisogni degli uomini non riuscirebbe a corrispondere alla pluralità delle necessità dell’uomo trasformato dal confronto con gli altri;potrebbe solo esaltare e fortificare le nuove differenze fra gli uomini, quelle che si basano sui rapporti di ricchezza/povertà, che avvantaggerebbero di gran lunga i ricchi a scapito dei poveri.

Bisogna tener presente che l’uomo si unisce a gli altri per necessità, dunque è da escludere ogni riferimento a un eventuale principio che unisca in vista di una felicità o fine comune.

Utilizzare espressioni quali “il genere umano” , per Rousseau, vuol dire usare categorie collettive che nulla ci informano sulla reale composizione dei rapporti reciproci fra gli uomini.

L’uomo, inoltre, è un animale perfettibile, dunque in grado di migliorare se stesso e questo dipende in parte dal linguaggio e dalla cultura del tempo.

Laddove l’umanità viene valutata in un rapporto chiaro con la propria storia, è facile affermare che la perfettibilità risiede nel singolo tanto quanto nella specie, e si può misurare nello sviluppo della civiltà.

Ma quando si innesca il processo culturale, non solo grazie al linguaggio ma anche grazie all’evoluzione di categorie sociali quali la famiglia e piccoli gruppi sociali, inizia la preoccupazione dell’uomo non più solo per l’”amour de soi, ma anche dell’opinione degli altri e della propria posizione in seno alle gerarchie della propria comunità.

“L’interesse particolare e il bene generale non vanno affatto d’accordo, al contrario, nell’ordine naturale delle cose si escludono a vicenda”[ref] virgolettati di questo capitolo sono tratti dal cap II del Lib.I del manoscritto di Ginevra, ed Laterza 1994 a cura di Maria Garin, introduzione di Eugenio Garin.[/ref].

A seguito di questa affermazione, Rousseau attacca direttamente l’articolo di Diderot con una critica in quattro punti.

Il contrasto fra il “saggio” e “l’uomo indipendente” per Diderot si misura nel passaggio:” ma devo essere infelice o fare l’infelicità degli altri, e nessuno mi è più caro di me stesso”, mentre per Rousseau non vi è certezza per l’individuo che osserva la legge razionale che tutti gli altri lo rispettino allo stesso modo, inoltre non vi è assicurazione di trovare sempre persone più deboli su cui rifarsi.

In pratica per il Ginevrino “ o mi garantite da ogni ingiusto attacco o non sperate che , a mia volta, io me ne astenga”. Nessuna garanzia dunque da il rispetto della legge naturale mentre un alleanza dei più forti a scapito del debole garantisce una spartizione delle risorse più efficace , dal punto di vista dei vantaggi e di ogni discorso sulla giustizia. Un ritorno poi alle sanzioni divine non farebbe altro che inasprire i contrasti nel “genere umano” visto che ogni credenza nel divino risiede nelle ristrette aree delle diverse comunità, dove ognuno possiede un suo dio, sempre unico e sempre quello giusto. Se anche le religioni hanno fallito sempre nel garantire il “maggior bene di tutti”, chi mai potrà?

Per Diderot:” l’individuo, mi dirà, per sapere fino a che punto il suo dovere è di essere uomo, cittadino, suddito, padre, figlio, quando gli conviene vivere o morire, deve rivolgersi alla volontà generale”, per Rousseau invece anche se la regola è giusta da consultare non risulta adeguata per fornire un motivo di azione conforme in mancanza di una indicazione circa la convenienza ad essere giusti.

Ma se per il nostro editore “ la volontà generale , in ogni individuo, è un atto puro dell’intelletto che ragiona , nel silenzio delle passioni, su ciò che l’uomo può esigere dal suo simile e su ciò che il suo simile ha diritto di esigere da lui”, per Rousseau invece la regola della reciprocità non si attua al livello di legge che giustifica la comunità bensì come regola che garantisca la possibilità di una vita giusta e pacifica fra i partecipanti. Infatti il pensare leggi generali non garantisce all’individuo la possibilità di non ingannarsi negli innumerevoli casi particolari in cui si imbatte nei suoi simili.

Dove poi andrà rintracciata questa legge? Se per Diderot si trova “ nei principi di diritto di tutte le nazioni, il consenso tacito di tutti i nemici del genere umano”, per il nostro filosofo Ginevrino questa è eventualmente rintracciabile solo dall’ordine sociale che vige e a cui l’individuo è abituato a sottostare e dalla quale forse riesce, generalizzando, a proiettare un modello migliore.

La critica al cosmopolitismo dei “philosophe”, che espandendo il loro amor di patria all’amore per l’intero genere umano, “si vantano di amare tutti per essere in diritto di non amare nessuno”, è un analisi che parte da una nuova visione di quell’amor proprio, che nato dall’unione degli uomini in società, impedisce l’ascolto della legge razionale degli enciclopedisti, ma se bene inteso può offrire una chiave di lettura per correggere i difetti della associazione generale attraverso la creazione di nuove forme di associazione politica.

La critica severa che Rousseau rivolge all’articolo comincia a mostrare le differenze e le sfumature fra la diversa concezione dei due autori circa il concetto di Volontà Generale.

Per Rousseau questo concetto si rinnova continuamente e deriva direttamente dalla coscienza popolare, niente a che vedere con una statica ed imperitura legge giusnaturalistica depositata per sempre nei libri del diritto positivo dei giureconsulti.

Già nell’articolo “economia politica” scritto per l’enciclopedia, in un clima di sostanziale concordia con l’amico francese, Rousseau aveva posto un primo accenno alla distinzione tra sovranità e governo che svilupperà nel “contratto sociale” ma già viene inteso che la sovranità spetta al popolo, in una visione che appare organicista come pure in un accenno nel manoscritto quando parla della società generale come un essere morale diverso e superiore dalle parti che lo compongono.

Il rapporto fra questo corpo unico, questo essere morale e l’individuo sarà uno dei temi centrali della nostra analisi.

Dunque la genesi della volontà generale dipenderà più da un processo di socializzazione, nel senso di individui che si uniscono ad un corpo sociale, che da un diritto rintracciabile nella natura dell’uomo.


Cap III: l’amor proprio come chiave di lettura della socialità.

Se la volontà generale si rivela un paradigma così attraente, come io credo, certamente è dovuto alla promessa che sottende quando si pone come regola che lega i rapporti tra gli uomini in un piano di giustizia, libertà e rispetto reciproco.

Per Diderot abbiamo visto che essa si rivela ad ognuno che ragioni con calma in assenza delle passioni.

Questa visione razionalista ha il suo fascino e la sua presa teorica ma non spiega, a mio avviso, come questo principio possa incidere in presenza di individui irrazionali, mancherebbe, infatti la rassicurazione della reciprocità.

Questa come ricordiamo era pure la critica di Rousseau.

Il filosofo ginevrino aveva sottolineato come invece l’uomo avesse un bisogno naturale, una volta entrato in contatto con un determinato gruppo di altri soggetti, di essere accettato dagli altri come un simile, una sorta di preoccupazione per la propria posizione all’interno del gruppo in cui si inseriva. Questa preoccupazione di relazionarsi alla pari con gli altri è il bisogno che ognuno di noi sente di assicurare a se stesso un uguale livello di partecipazione, non solo alla vita del gruppo, ma anche alla condivisione delle risorse.

Questa condivisione sulla base di bisogni e aspirazioni impone a noi stessi e agli altri obblighi e limiti che saranno rispettati reciprocamente grazie alla possibilità che gli uguali bisogni sono riconoscibili naturalmente da ognuno.

Chiedere che il proprio bisogno venga accettato dagli altri ci predispone ad accettare spontaneamente lo stesso bisogno che è in ogni altro.

Su questo punto non vige una legge umana che bisogna comprendere ed aspettare che altri se ne convincano, qui Rousseau fa leva su una visione ampia dell’amor proprio che ognuno di noi sente in se stesso ed è spontaneamente capace di scorgerlo negli altri.

Dunque l’amor proprio ci spinge a riconoscere all’altro uno status di reciproca esistenza, un piano di reciprocità che più che analizzato razionalmente è sentito naturalmente e fatto proprio nell’agire in società. Se il principio di reciprocità è comunque decodificato dalla ragione, dalla coscienza ci muoviamo verso tale atteggiamento mossi da un sentimento.

Questa visione “ampia” dell’amor proprio non è quella classica seguita dalla letteratura sterminata su Rousseau, segue tuttavia la linea tracciata da John Rawls nella sua lezione all’università di Harvard nel 1994 di filosofia politica[ref]A pag. 210 dell’edizione Feltrinelli “lezioni di filosofia politica” John Rawls del 2009 è riportata un ampia spiegazione della visione ampia dell’amor proprio; Rawls nella nota 9 alla stessa pagina dichiara che questa visione è ripresa dagli studi di N.J.H. Dent, Rousseau, Blackwell ,Oxford 1988; e quello di Frderick Neuhouser in Freedom, dependance and general will, in Philosophical Review” luglio 1993 pp37 e seguenti. Neuhouser è il precursore di questa connessione fra l’amor proprio e la reciprocità.[/ref]. Se seguissimo la visione accettata da tutti dell’amor proprio e non questa di Rawls parleremmo unicamente di quel sentimento molto vicino alla vanità, che Rawls chiama amor proprio “perverso”, il quale come sappiamo è un desiderio di dominare l’altro nel confronto, di essere ammirati e onorati dagli altri.

Rawls per dimostrare la fondatezza di questa interpretazione chiama a testimoniare Kant, il quale nella Religione ( libro I, Sez. I, AK: VI : 27) si esprime così :”le disposizioni all’umanità possono essere collocate sotto il titolo generale dell’amore di sé, sempre fisico, ma tuttavia comparato (per cui si richiede la ragione); in quanto ci si giudica felici o infelici solo in confronto con gli altri. Da questo amore di sé deriva l’inclinazione dell’uomo ad acquistarsi un valore nell’opinione altrui ed originariamente , ad acquistarsi , senza dubbio,solo il valore dell’eguaglianza , per cui a nessuno permettiamo la supremazia su noi stessi, sentendo insieme la costante preoccupazione che altri possano aspirarvi.”

L’operazione che vuole fare Rawls è chiara: mettendo a confronto questo passo di Kant con il secondo discorso di Rousseau, ottiene un principio coerente per collegare il pensiero rousseiano fino al contratto in cui è un desiderio, l’amor proprio, che lega fra coscienza e ragione riflessa i cittadini del contratto sociale a un principio di uguaglianza che diviene prima di tutto un bisogno intimo e reciproco.

Un ulteriore confronto, a mio avviso, è da compiersi tra questa visione ampia di Rawls e il dibattito analizzato nel capitolo precedente tra Rousseau e Diderot.

Come ricordiamo Diderot aveva formulato il concetto di volontà generale come diritto naturale intrinseco alla natura umana, ogni individuo che nel silenzio delle passioni interroga la volontà generale può scoprire dentro se cosa è giusto e cosa è sbagliato nella società nel confronto con gli altri.

Rousseau aveva obiettato che anche qualora la legge fosse stata giusta non ci avrebbe dato certezze ne sulla convenienza a seguirla ne ci avrebbe tranquillizzato che gli altri, altrettanto razionalmente, avrebbero agito allo stesso modo verso di noi.

Dunque per Rousseau l’unico principio che potesse motivarci a cercare la comunità degli uomini sta nel bisogno che l’uomo ha del suo simile, quando non è più bastevole a sé e si sviluppa quel sentimento del confronto reciproco che ci accomuna in un istintivo relazionarsi sulla base di un uguale necessità.

L’uomo diventa qualcuno solo in relazione agli altri, in questa comparazione continua comprende il nesso della reciprocità e dunque dell’uguaglianza delle condizioni e dei bisogni che regolano la società umana.

Questi aspetti ci portano ad affermare che il passaggio dalla aggregazione di uomini al progetto politico, si fonda sulla convinzione che il bene di ciascun appartenente al corpo sociale, e così successivamente il bene di ogni sottoscrittore del contratto sociale, coincida con il bene di ogni altro.

L’interesse per se stessi una volta che è posto su un piano di simmetrica reciprocità e capacità di riconoscersi nell’altro diviene un interesse ben inteso, l’interesse per la vita della comunità.

Questo interesse che è comune a tutti fa divenire la volontà di ognuno, se bene intesa, la volontà generale . Il nostro è un ragionamento su come sia possibile la società, stiamo insomma cercando il movente dell’associazione, quel fondamento psicologico che Rousseau dichiarava nel manoscritto di Ginevra nel capitolo V del libro I: “l’utilità comune è dunque il fondamento della società civile”.

Ora però io sono pronto ad evidenziare anche una linea di continuità fra Rousseau e il contesto culturale della sua epoca, una sottolineatura che mi permette di vedere Rousseau allineato alle aspirazioni e prospettive dei lumi.

Infatti l’aver analizzato le differenze fra Diderot e Rousseau ci permette di condividere con quest’ultimo la preoccupazione e lo studio di una volontà generale che sia coerente con le passioni e i bisogni degli uomini veri, “così come essi sono”, ma nello stesso tempo ci mostra ancora una volta che Rousseau è perfettamente inserito nel progetto culturale della modernità posta in essere dagli enciclopedisti: porre l’uomo come unità irriducibile della deliberazione, dell’azione e della responsabilità di tutto ciò che è sociale, per cui i fini umani sono i motivi della nascita, dello sviluppo e del futuro dell’agire politico.

L’individuo umano è il principio della comunità pre-politica, il cittadino è il fine della società politica.


Social_contract_rousseau_pageCap IV: la Volontà Generale la genesi.

La distinzione più importante che concerne quanto detto fino ad ora è che Rousseau tiene sempre forte una divisione fra un popolo e un aggregazione di uomini.

La società politica che è espressione di un popolo, avrà possibilità di esistere solo qualora gli interessi particolari che spingono l’uomo ad aggregarsi ad un gruppo, possano essere superati o si possano evolvere nella direzione di interessi generali.

La prima definizione di Volontà Generale la troviamo nel libro primo, capitolo sei del contratto sociale:”ciascuno di noi mette in comune la propria persona, e ogni proprio potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi in quanto corpo politico riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto”.

Ora ci porremo due domande a mio avviso essenziali, cosa significa volontà generale e qual è il suo ruolo, se ne ha uno, nella giustificazione dell’associazione politica.

Per capire come nasce la volontà generale abbiamo bisogno di muovere dei passi dall’analisi del momento aggregativo al momento dell’entrata di un individuo nel gruppo costituito.

Bisogna insomma fare dei passi all’interno della riflessione intorno al contratto sociale, in modo che se riusciremo a trovare delle risposte alle nostre due domande, certamente le avremo grazie alla nostra premessa circa il processo di socializzazione che in qualche modo prelude o già comprende il nesso con la possibilità della volontà generale.

Infatti la famosissima premessa capolavoro politico di Rousseau, uno degli incipit tra i più conosciuti nella storia della filosofia occidentale, se letto con attenzione già contiene in se tutte le domande e gran parte delle importanti questioni che attengono alla nostra riflessione:

“ voglio cercare se nell’ordine civile può esservi qualche regola di amministrazione legittima e sicura, prendendo gli uomini come sono e le leggi come possono essere. Tenterò di associare sempre in questa ricerca ciò che il diritto permette con ciò che l’interesse prescrive perché la giustizia e l’utilità non si trovino ad essere separate.”

Partire dalla reale natura dell’uomo, dai suoi bisogni e dalle sue passioni, per costruire una società che conughi giustizia e libertà è un progetto moderno, e illuminista, centrale nel dibattito dell’epoca in cui si trova il nostro autore, ma è anche un operazione che ha bisogno di un principio che funga da collante sicuro per non ricadere nell’utopia razionalistica dei philosophe che Rousseau aveva contestato.

Il punto resta che secondo Rousseau non avrebbe avuto senso parlare di leggi razionali per motivare l’uomo a lasciare lo stato di natura di relativa indipendenza e libertà per entrare in società senza mostrargli un vantaggio per questa scelta;invece c’ è la possibilità che il bisogno che nasce da una inadeguatezza delle possibilità dell’uomo , a un certo punto della sua storia, rispetto alle proprie necessità, fornisca il naturale stimolo alla accettazione della sottomissione alla volontà generale.

Tutti vogliono la società, è nell’interesse di ognuno ; comprendere questo sarà un equilibrio tra sentimento e ragione.

Il rispetto della comunità, nelle deliberazioni della società politica, sarà dunque un criterio normativo per fornire un fondamento alla società partendo appunto dalla comprensione che ogni singolo ha scelto liberamente di entrarvi in conformità al proprio bisogno di servirsi della forza comune in relazione alla propria condizione di uomo non più autosufficiente.

Ma è questa autosufficienza che va ricercando e la società dovrà dargliela e lui dovrà corrispondere altrettanto ai suoi simili, non perché una legge gli appare in se stesso, ma perché nel confronto l’uomo ha imparato a rivedere se stesso.

A questo punto posso azzardare un primo chiarimento su questo concetto a partire dal presupposto che per trovare il contenuto della volontà generale bisogna attendersi che l’individuo debba fare una distinzione precisa fra i suoi interessi al fine di poter individuare l’interesse ben inteso[ref]Per l’approfondimento di questa tesi faccio riferimento a:” eguaglianza interesse, unanimità” di Alberto Burgio ed bibliopolis 1989 napoli cap 6 “Volontè gènèrale e raison publique.[/ref].

Questa possibilità, io dico, è pensabile al momento che l’individuo che si trovi con una serie di necessità vitali non più soddisfabili nella sua ferina solitudine, compresa l’importanza che l’aggregazione con altri gli consente di superare questo handicap, sviluppi, prima ancora che una oziosa competizione con il proprio sodale, la capacità di leggere correttamente entro la propria coscienza l’uguale condizione di ogni altro che è la base di questa forza con cui l’aggregazione sopperisce alla propria condizione di inadeguatezza a restare indipendente.

La volontà generale è dunque una categoria trascendentale che nasce dalla riflessione che ogni uomo deve compiere per comprendere come l’interesse bene inteso al rispetto per la società è l’assicurazione al soddisfacimento dei propri bisogni; il riconoscimento che il proprio desiderio di essere accettati a pari condizioni in questa associazione passa per l’accettazione dello stesso diritto del proprio sodale, questa è la garanzia al successo dell’intera struttura.

È la convergenza degli interessi comuni che rende possibile la società politica, e l’interesse bene inteso produce quel legame sociale che fa nascere la volontà generale.

Ma fino a qui abbiamo analizzato l’entrata in società degli “uomini come sono”, proviamo ora a verificare se da questo presupposto si può passare alla comunità politica con le leggi come “dovrebbero essere”.

Il passaggio da una moltitudine a un popolo, e cioè da una aggregazione di uomini alla società politica, può avvenire allorquando il principio della volontà generale può essere innalzato a categoria generale e preso come contento valoriale per l’edificazione della società giusta ed uguale.

La mia ricerca è nata successivamente alla lettura del famoso saggio del prof. Mario Reale, “le ragioni della politica” che ancora oggi risulta essere una pietra di paragone per lo studio della teoria Rousseaiana , in considerazione che nel settimo capitolo, parlando del nucleo teorico del contratto sociale , il prof. Reale spiega che il punto più alto della teoria di Rousseau è : “quello che fa consistere la politica non già nella garanzia della coesistenza di interessi contrastanti, bensì in ciò che in questi stessi interessi è immediatamente comune, nel punto di unione dove essi si accordano e si fanno solidali”. Trovo questo passaggio essenziale per impegnarmi a comprendere a fondo come dal punto di vista della volontà generale, la politica, la società e tutto ciò che ne deriva possa essere inquadrata come un unione in vista del bene comune.

Ma questo bene comune non ha una accezione utilitarista, non è cioè un unione di uomini che agiscono per la massimizzazione dei loro interessi particolari anche se coincidenti; qui la convergenza degli interessi comuni rende possibile la società politica, la fonda e non crea uno strumento per la soddisfazione degli stessi, anzi questa convergenza, dovuta alla necessità che l’amor proprio genera, rende possibile la volontà generale che nell’atto di istituire la società politica, diviene il principio guida per formulare la regola su cui modellare quelle leggi “come possono”. Cosa vuole dunque la volontà generale se non che le leggi della società siano pensate esclusivamente su interessi comuni, e questi possono essere individuati solo in termini di interessi fondamentali quali la sicurezza della persona, la difesa della proprietà privata.

Questo è un punto evidente visto che l’uomo di natura indipendente ricerca il proprio simile, laddove nella propria originaria solitudine non riesce più a garantirsi quel cibo, quel riparo, quella difesa dagli altri predatori che invece l’unione con altri può garantire.

Dunque la sicurezza della persona è un interesse fondamentale coincidente e preesistente all’unione, che spinge verso essa e ci aiuta a comprendere che la volontà generale muove da questa ricerca e produce leggi che devono rispondere a questi presupposti.

L’uomo vuol restare libero come prima, ma ha bisogno di una forza che da solo non possiede, per ottenere un equilibrio fra queste due necessità bisogna almeno verificare che la società che scaturisce da questa unione sia legittima, ovvero mostri una coerenza tra la natura della volontà generale e la sua espressione, cioè le leggi che ad essa si ispirano.


Cap V La legge come espressione della volontà generale

Nel paragrafo precedente ho sottolineato come il bene comune, che se ben inteso possiamo indifferentemente chiamare anche” la convergenza degli interessi”, non ha una natura utilitarista, anzi, questa convergenza nega ogni massimizzazione della felicità intesa come somma della soddisfazione di tutti gli interessi dei singoli. La società che si fonda sulla volontà generale non può che esprimere l’interesse di tutti nel senso di ottemperare alle aspettative di ognuno.

Già nell’articolo “economia politica” Rousseau bollava come la più esecrabile tra le tirannie quella società pronta a sacrificare un singolo in vista del bene comune. L’ interesse fondamentale comune a tutti gli uomini è dunque il bene comune. Questa società retta dalla volontà generale è resa possibile qualora la cooperazione sociale sia tesa alla realizzazione dei presupposti per una corretta attuazione degli interessi fondamentali di ogni membro. La cooperazione sociale deve produrre una sistema che mantenga inalterate le possibilità di ognuno di soddisfare i propri bisogni fondamentali, questo significa che ognuno cooperando allo sviluppo degli strumenti che innescano i processi deliberativi deve agire con il fine di armonizzarsi all’interesse comune.

Tanto che il singolo sia deputato alla formulazione di una regola generale, tanto che il singolo sia chiamato alla scelta tra diverse opzioni deliberative in relazione alle regole della società, ciò che è sempre richiesto dalla volontà generale è che il singolo agisca e scelga sempre in conformità a ragioni dipendenti solo dagli interessi fondamentali che condivide con ogni altro membro della società politica.

Qui l’interesse generale prevale su qualunque interesse particolare. Questa osservazione è comprensibile alla luce di quanto da me sostenuto nei capitoli precedenti, infatti gli appartenenti a questa società politica sono uomini consapevoli della necessità della società politica come rimedio alla propria inadeguatezza rispetto alle necessità vitali. Questi uomini agiscono dunque in una consapevolezza simmetrica rispetto ad ogni altro individuo, che attraverso il sentimento dell’amor proprio hanno imparato a riconoscere al fine di essere essi stessi riconosciuti come uguali.

Solo quelle scelte che hanno un senso entro la realizzazione degli interessi comuni saranno da considerarsi espressione della volontà generale.

Ognuno deve riconoscere all’altro un posto legittimo nella comunità, ognuno lavorando per gli altri lavora in realtà già per se stesso.

I doveri nella società politica sono vincolanti solo se sono reciproci, questo è il punto focale su cui Rousseau fa perno per pretendere che la società costruita dalla volontà generale è legittima.

La volontà generale nasce in ognuno disposto ad unirsi a tutti gli altri in una reciproca cooperazione per un fine comune, allo stesso tempo essa si riferisce a tutti quando ognuno è disposto a vedere in ciascuno gli stessi fini che si ricerca per se stesso.

Se la nostra lettura non ci inganna la certezza di ciò che ho affermato poggia sulla naturale predilezione che ognuno conserva per se stesso.

La società politica ci garantisce quella forza che ci manca per l’autoconservazione, ognuno di noi è qui per attingere a questa forza comune, l’interesse comune è l’interesse di ognuno.

Tuttavia potremmo concordare con David Hume che non è irrazionale preferire la distruzione di tutto il genere umano piuttosto di soffrire per un taglio al dito di una mano, eppure laddove il singolo riesca a leggere l’interesse ben inteso e sappia riconoscere gli interessi fondamentali che lo legano alla cooperazione sociale, allora la deliberazione avverrà su un piano di uguaglianza e le scelte che ne seguiranno garantiranno la giustizia.

La volontà generale garantisce un fondamento all’idea che la sovranità coincida con la totalità dei cittadini; essa ci dice che le deliberazioni di questa totalità, vanno dal popolo intero su e per il popolo intero. Il popolo fa atto sovrano solo quando emana regole generali che riguardano la società nel suo insieme. Queste regole, chiamate leggi, saranno espressione della volontà generale per origine e per contenuto. La volontà generale come giustificazione del potere legittimo, la regola di amministrazione legittima prendendo gli uomini come sono e le leggi come possono essere. Alla fine di questa analisi possiamo affermare che la volontà generale nasce come risposta all’obiezione dell’uomo razionale che chiedeva, a fronte di un comportamento giusto, di essere protetto da un’eventuale comportamento ingiusto da parte degli altri. La volontà generale nasce quindi come risposta alla ricerca di una razionalità che giustifichi la forza dello Stato; gli individui si sottomettono non a un potere qualsiasi, ma solo a quello che garantisca ognuno dalle ingiustizie dell’altro.

L’uomo indipendente “pre-sociale” è disposto a entrare nella società politica a patto che le deliberazioni del potere costituito si applichino a tutti in egual misura nella direzione di moderarne le passioni negative. Questo ordine sociale è solo quello fondato sulla volontà generale. Ne troviamo una dimostrazione nel passo di Rousseau: “Ciascuno di noi mette in comune la propria persona e ogni proprio potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi in quanto corpo politico riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto”[ref]Contratto sociale,cap III …[/ref]. Questo passo ci dice che la volontà generale guida le forze dello Stato nella direzione per cui gli individui lo hanno creato e cioè nella direzione del bene comune. L’istituzione del patto sociale è fatta da individui che si sottomettono attraverso un patto a un corpo sovrano che essi stessi istituiscono e di cui essi stessi fanno parte. Ogni individuo diventa così sia cittadino che suddito, questa è la scelta razionale che obbliga ognuno ad obbedire ai comandi di un’autorità sovrana formata da loro stessi e che è pensata per deliberare nel senso del bene comune. Come diceva lo steso Rousseau è impensabile che “il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri”[ref]Contratto sociale 1 Cap.7[/ref], ciò andrebbe in contraddizione con i motivi della fondazione; la garanzia della reciprocità degli obblighi è data inoltre dal fatto che tutti i membri si trovano in una stessa e simmetrica obbligazione rispetto al sovrano. La volontà generale garantisce l’equilibrio fra l’interesse privato del singolo, che per questo accetta di entrare in società, e l’interesse pubblico che per tutti è la salute della società politica ben ordinata. Per capire meglio come sia possibile questo equilibrio fra l’eguaglianza dei diritti individuali e la reciprocità degli obblighi basta pensare ancora una volta alla teoria della legge: la legge per Rousseau è il fondamento della giustizia e della libertà. Essa è una deliberazione del Sovrano che si applica a tutti ed è universale nel senso che il suo oggetto è indirizzato a regole generali e mai a qualcuno in particolare.