Ius sanguinis o ius soli? Riflessioni sulla storia politica della cittadinanza in Italia

di Vito Francesco Gironda

Quali sono le ragioni che hanno sempre condotto in Italia a privilegiare lo ius sanguinis allo ius soli? Per rispondere a questa domanda bisogna risalire alle origini dello Stato unitario. In questa fase lo ius sanguinis è servito a procurare agli italiani un senso di appartenenza “nazionale”, capace di superare le varie frammentazioni territoriali e di guadagnare il consenso e l’inclusione delle élites economiche e sociali dei vecchi Stati territoriali. Ma il venir meno di queste esigenze dovrebbe condurre oggi a elaborare una nuova concezione della cittadinanza.

L’attuale dibattito politico sulla riforma della cittadinanza risente di una forte impostazione emotiva e di un principio di presunzione d’appartenenza, una concezione particolaristica dell’individuo e delle sue relazioni sociali quale risorsa culturale da spendere sul terreno della comunicazione politica. [ref] Per una discussione sul dibattito politico italiano mi permetto di rimandare ai miei interventi Vito Francesco Gironda, La cittadinanza controversa, ovvero il problema di un paese al bivio (appunti sulla democrazia), in: Critica Liberale 13.05.2013; Riforma della cittadinanza per gli immigrati. E poi?, in: Politica e Società 17.02.2012; Caro Ministro Riccardi, cos’è lo ius culturae?, in: sbilanciamoci.info 30.03.2012. [/ref] Eppure, guardare alla storia politica dell’istituto giuridico della cittadinanza significa, storicamente, interrogarsi sulle trasformazioni della moderna statualità otto e novecentesca. [ref] Su tali questioni rimando al mio lavoro Vito Francesco Gironda, Die Politik der Staatsbürgerschaft. Italien und Deutschland im Vergleich 1800-1914, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2010; Andreas Fahrmeir: Citizenship. The Rise and Fall of a Modern Concept, New Haven / London, Yale University Press, 2007; Thomas Faist/ Peter Kivisto, Citizenship: Discourse, Theory and Transnational Prospects, Oxford, Blackwell, 2007. [/ref] In primo luogo, sul terreno della cittadinanza formale si è giocata una partita fondamentale dei processi di nation-bulding: chi e attraverso quali criteri identificativi può considerarsi membro di diritto della comunità politica e, poste determinate condizioni di status economico e di capitale culturale, esercitare i diritti connessi alla qualità di cittadino? In questo caso, la nazione più che essere “immaginata” (Benedict Anderson) diventa un fatto reale che ha immediate ripercussioni sulla vita di ogni singolo individuo e gruppo sociale. [ref] B. Anderson, Comunità immaginate: origine e diffusione dei nazionalismi, Roma, Manifestolibri, 1996 (ed. orig. Imagined Communities, London-New York, Verso, 1982). [/ref] In secondo luogo, la cittadinanza rappresenta una spia importante per analizzare le forme, i contenuti e i limiti della credenza utopica della modernità attorno all’idea di una società di cittadini. Infine, riflettere sulle modalità di sviluppo e di codificazione del diritto di cittadinanza permette, più in generale, di ragionare in ordine alle culture politiche di volta in volta dominanti. Certo, non si può prescindere da un’attenta valutazione del significato culturale dello ius sanguinis e dello ius soli nel quadro della moderna statualità nazionale. [ref] A insistere su questa questione è stato soprattutto Rogers Brubaker, Cittadinanza e nazionalità in Francia e Germania, Bologna, Il Mulino, 1997 (ed. orig. Citizenship and Nationhood in France and Germany, Cambridge, Harvard University Press, 1992) [/ref]

Un tale approccio culturalista rischia, però, di semplificare la complessità storica dei modelli idealtipici di costruzione della cittadinanza moderna come risultato di un processo discorsivo di natura prettamente simbolica che investirebbe immagini e concezioni della politica dell’identità. Al contrario, ritengo che ogni formazione discorsiva sottostia a delle condizioni strutturali e processuali. Per questa ragione, la continuità secolare del primato dello ius sanguinis nella legislazione italiana, ossia una concezione etnoculturale della cittadinanza in base alla quale per essere membro di una comunità politica bisogna essere membri di fatto di una comunità prepolitica determinata da fattori culturali, linguistici e antropologici, piuttosto che un indicatore di un diffuso discorso biologistico nella storia italiana – eccezione il ventennio fascista – dovrebbe essere interpretato nella sua plurifunzionalità politica. Lo ius sanguinis è passato dalla tradizione ancora confessionalista del Regno di Sardegna allo Stato liberale a quello fascista per giungere indisturbato anche allo Stato democratico repubblicano. La questione fondamentale è chiedersi il perché? Perché nel lungo periodo le varie legislazioni statali connesse a diversi sistemi politici hanno fatto riferimento al primato dello ius sangunis? La risposta sta nella singolare funzione del diritto di cittadinanza quale forma di political governance rispetto alle trasformazioni istituzionali, sociali ed economiche che hanno investito il paese nel corso degli ultimi due secoli. Da qui anche il carattere prettamente politico dell’istituto giuridico della cittadinanza. Andiamo per ordine.

Lo Stato unitario eredita per lunghi tratti il modello di appartenenza formale allo stato del Codice Albertino del 1837 in base al quale la sudditanza subalpina era stata codificata attorno al principio della patrilinearità. [ref] Carlo Bersani, Modelli di appartenenza e diritto di cittadinanza in Italia dai codici preunitari all’Unità, in Rivista di Storia del diritto italiano, LXX, 1997, pp. 277-344. [/ref] Lo status di suddito, che oramai coincideva con l’esercizio di alcuni diritti civili, era una diretta emanazione della discendenza da un suddito subalpino. Le capacità giuridiche dei singoli venivano, però, legate all’appartenenza alla confessione cattolica (art. 18). La cittadinanza-sudditanza subalpina diventava uno strumento di chiusura sociale nei confronti delle minoranze religiose dei valdesi e degli ebrei. In questo modo si voleva testimoniare che il modello di riferimento comunitario subalpino consisteva, dopo la breve parentesi napoleonica, nel riaffermare il sano sodalizio tra altare e trono. [ref] Daniele Menozzi, Tra riforma e restaurazione. Dalla crisi della società cristiana al mito della cristianità medievale (1758-1848), in: Chittolini, G./Miccoli, G. (a cura di), Storia d’Italia, Annale IX, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, Torino, G. Enaudi, 1986, pp. 753- 789. [/ref] Il Codice civile italiano del 1865 fa suo il principio della patrilinearità, si svincola dal confessionalismo sabaudo e riafferma con forza il modello classico di disuguaglianza di genere partorito dal Codice napoleonico del 1804, secondo la quale la donna sposata seguiva la condizione giuridica del marito. Nella normativa sulla cittadinanza italiana entrava di prepotenza il canone tardo-illuministico dell’unità organica della famiglia. [ref] In generale si veda Geneviève Fraisse, Les deux gouvernements: la famille et la cité, Gallimard, Paris, 2001; Jennifer Ngaire Heuer, The Family and the Nation: Gender and Citizenship in Revolutionary France, 1789-18 30, Ithaca, Cornell University Press, 2005. Sul caso italiano si vedano le lucidissime osservazioni di Chiara Saraceno, Le donne nella famiglia: una complessa costruzione giuridica, in: Barbagli, M./ Kartzer, D.I. (a cura di), Storia della famiglia italiana 1750-1950, Bologna, Il Mulino, 1992, pp.103-127; Raffaele Romanelli, Individuo, famiglia e collettività nel codice civile della borghesia italiana, in: Gherardi, R./Gozzi, G. (a cura di), Saperi della borghesia e storia dei concetti fra Otto e Novecento, Bologna, IL Mulino, 1995, pp. 351-399. [/ref] Vittorio Polacco aveva poi giustificato sulle pagine dell’Archivio giuridico i principi ispiratori del Codice civile italiano del 1865 in rapporto ad una presunta legge naturale della “associazione domestica”, secondo la quale “un individuo prima di appartenere a una nazione è membro di una famiglia (…) e per questa ragione è cittadino di uno Stato nel quale la famiglia e non l’individuo costituisce la cellula elementare”. [ref] Vittorio Polacco, La famiglia del naturalizzato secondo il codice civile, in: Archivio Giuridico, 1882, 29, pp. 366-388, citazione p. 379. [/ref] Come dire, la donna sposata e i suoi figli possedevano secondo la giuspubblicistica italiana una sorta di cittadinanza necessaria, tanto che un altro giurista del tempo, Antonio Ricci, affermò che esiste una nazionalità della famiglia il cui “destino” dipende dalla condizione del pater familias nel senso che ogni modificazione del suo status comporta una modificazione dello status familiare. [ref] Antonio Ricci, Il principio dell’unità della famiglia nell’acquisto della cittadinanza, in: Rivista italiana di scienze giuridiche, 1891, XIII, pp. 24-53. [/ref] Tradotto poi in termini di disposizione di diritto, per il Codice civile significava che la donna straniera acquisiva attraverso il matrimonio con un “nazionale” automaticamente la cittadinanza del marito, mentre una donna italiana perdeva la cittadinanza nazionale attraverso il matrimonio con uno straniero. Fin qui i tratti del dettato normativo, ma la questione resta sempre aperta: perché lo ius sanguinis reggeva l’impalcatura codicistica italiana del 1865? La risposta in questa prima fase della storia unitaria italiana deve essere ricondotta, molto probabilmente, alla valenza comunicativa dello ius sanguinis nel rendere fruibile di comprensione un processo di associazione di tipo comunitario, l’“accomunamento politico” (politische Vergemeinschaftung) di weberiana memoria, il quale trova una sua ragione d’essere in un senso di appartenenza dei partecipanti in senso affettivo e tradizionale. Rispetto a che cosa? Sicuramente rispetto alle varie frammentazioni territoriali, alle crisi di legittimità, alla ricerca del consenso e inclusione delle élites economiche e sociali dei vecchi Stati territoriali. Il Risorgimento italiano più che essere interpretato attraverso il primato dell’idea di nazione dovrebbe essere riletto come dissenso e in alcuni casi “ribellione” politica delle élites notabilari locali nei confronti delle procedure burocratico-esecutive delle diverse monarchie amministrative degli Stati territoriali preunitari. [ref] Per una panoramica d’insieme si rimanda a Marco Meriggi, Gli Stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Bologna, Il Mulino, 2002; Luca Mannori, La crisi dell’ordine plurale. Nazione e costituzione in Italia tra Sette e Ottocento, in: Giornale di storia costituzionale”, 6, 2003, pp. 243-271. [/ref]  Il municipalismo e il localismo rappresentano i due assi centrali per comprendere la storia politica italiana della prima metà del XIX secolo. Il successo del costituirsi del paese Italia in nazione dipendeva dalla ricerca di un equilibrio contrattuale tra gli interessi delle rappresentanze (possidenti, proprietari, burocrazie locali) delle società locali, tradizionalmente refrattarie nei confronti delle prassi di centralizzazione del potere politico e lo Stato. Tutto questo fondamentalmente voleva dire rispettare il dominante canone risorgimentale del municipio quale associazione privatistica e patrimoniale, lasciare un’ampia autonomia finanziaria alle élites locali nella gestione degli “affari” comunali così come istituire dei meccanismi di rappresentanza in grado di allargare la visibilità istituzionale alle formazioni sociali dei possidenti e dei proprietari e, in alcuni casi, alla nascente borghesia acculturata. [ref] Fondamentale resta il lavoro di Raffaele Romanelli, Il comando impossibile. Stato e società nell’Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1988. [/ref] Come è noto, in relazione a quest’ultima questione essa sarà, poi, egregiamente svolta dal Parlamento nazionale quale garante del raccordo al centro degli interessi particolaristici delle società locali. In un tale contesto, marcato da una debolissima identificazione nazionale, il liberalismo governamentale si premurò fin da subito di presentare alle periferie nazionali l’unificazione giuridica ed amministrativa non solo nella sua dimensione tecnica di essere neutrale ed oggettiva, ma nella costruzione di un nuovo spazio di diritto nazionale cercò di riformulare la relazione tra stato e società sulla base di un’idea di comunità nazionale i cui membri erano tenuti insieme da legami culturali e da valori ascrittivi, da una appartenenza naturale, organica e olistica alla nazione. In altre parole, si assiste a una fondamentale traslazione concettuale dal sostantivo “ordine” all’aggettivo nazionale. Nei primi anni sessanta del XIX secolo si trattava, dunque, di rappresentare la nazione nella sua dimensione normativa e su questo terreno lo ius sanguinis era diventato uno strumento comunicativo spendibile. [ref] Sulla tradizione di una narravita risorgimentale attorno all’idea dell’Italia come comunità geoparentale e naturale si rimanda a Alberto. B. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Enaudi, 2000. [/ref]

La prima legge organica sulla cittadinanza italiana si ha agli inizi del XX secolo con la riforma del 1912. Codesta riforma dovrebbe essere letta nel quadro più generale dell’intensa attività riformistica d’inizio Novecento, i cui intenti modernizzatori sono stati “frenati” da specifiche cautele conservatrici volte ad adeguare l’assento istituzionale alle trasformazioni in atto nella società italiana senza procedere a radicali modifiche. L’industrializzazione, l’inserimento dell’Italia in un mercato del lavoro già tendenzialmente globale, la regolamentazione statale in materia di acquisto e perdita della cittadinanza tra paesi di immigrazione e quelli di emigrazione e non, non da ultimo, l’emergere di una specifica concezione di politica espansionistica verso l’America meridionale, furono tutti fattori che condussero ad una politicizzazione della cittadinanza nazionale. All’interno della modernizzazione difensiva d’inizio XX secolo, la riforma del 1912 rappresenta una legal regulation (Verrechtlichung) rispetto ai temi sopra citati.

Toccata solo marginalmente dai flussi di migrazione continentale – secondo il censimento italiano del 1910 gli stranieri residenti erano meno di ottantamila – la politicizzazione della cittadinanza ruotava attorno all’emigrazione di massa verso il Brasile e l’Argentina, paesi dove vigeva un principio territoriale puro (ius soli). Oltre che essere motivo di scontro tra lo Stato italiano e i governi argentini e brasiliani in materia di acquisto e perdita della cittadinanza, lo status giuridico degli emigranti transoceanici fu al centro del coagularsi di un’ampia convergenza d’interessi in relazione all’idea di una politica espansionistica nazionale costruita attorno alla metafora della colonia libera. In diversi ambienti economici, governativi e culturali l’emigrazione era considerata uno strumento di espansione economica, una specifica via di colonizzazione e al tempo stesso, come scrisse Francesco Saverio Nitti sulla pagine della “Riforma sociale”, “una potente valvola di sicurezza sociale contro gli odi di classe e l’unica salvezza di un paese privo di risorse e pieno di uomini”. [ref] Francesco Saverio Nitti, La nuova fase dell’emigrazione italiana, in: Riforma sociale, 1896, 3, pp.13-28, citazione a p. 21. [/ref] Al trauma di Adua, al fallimento del colonialismo diretto, si rispondeva attraverso un’idea di espansionismo “pacifico” a cui sottostava l’idea di una “italianizzazione” dei territori di emigrazione attraverso la salvaguardia della fisionomia nazionale degli emigranti italiani. In altre parole, la locuzione di colonia libera era diventata nell’Italia di fine XIX secolo sinonimo d’italianità organizzata all’estero. Se si voleva tramutare l’emigrazione in un fattore di potenza era necessario, così gli umori politici del tempo, adoperarsi a far diventare gli emigranti in Sud America più “italiani” e, contemporaneamente, bisognava incoraggiare l’emigrante italiano a partecipare alla vita politica ed amministrativa nei paesi dell’America meridionale e dunque ottenere il diritto di cittadinanza in questi paesi:

Dobbiamo facilitare ai nostri emigranti l’acquisto della cittadinanza locale. Solo così si potrà ottenere di rialzare laggiù la dignità dei nostri emigranti. Essi non si sentiranno più come oggi ripudiati dalla madrepatria e disprezzati dal paese che li alberga. I figli loro, che oggi si vergognano della loro discendenza, sentiranno simpatia per il paese dei loro padri, che continueranno a considerarsi come sangue suo, che tende loro le braccia, e non considerarli come rinnegati e cani renitenti. [ref] Sidney Sonnino, Relazione al Senato, stato dell’emigrazione, Archivio storico della Camera dei Deputati, protocollo n. 13427. [/ref] Sul terreno giuridico istituzionale l’ostacolo principale per questi propositi espansionistici e nazionalistici era rappresentato dalle disposizioni contenute all’articolo 11 del Codice civile del 1865 che prevedevano la perdita automatica della cittadinanza italiana al momento della naturalizzazione in un paese straniero. Fautori e promotori della campagna politica per una revisione della suddetta norma furono le rappresentanti degli interessi economici italiani all’estero legati alle Camere di Commercio e ai vari Comitati degli italiani all’estero. [ref] Si vedano gli Atti del I e II Congresso degli Italiani all’estero, a cura dell’Istituto Coloniale, Roma 1909-11. [/ref] Codeste rappresentanze si fecero interpreti dell’utilità politica ed economica da parte dello Stato italiano di riconoscere una doppia cittadinanza di diritto, ossia di riconoscimento da parte dello stato sia di origine sia di residenza della contemporanea appartenenza politica dell’individuo emigrato a entrambe le entità statuali. Tali richieste trovarono, poi, una forte eco tanto nei gruppi di pressione imprenditoriali vicini al blocco protezionista quando in quelli con una più spiccata visione liberista. Tutte e due i fronti, pur partendo da presupposti differenti, erano interessati a politicizzare la questione della condizione giuridica degli italiani nell’America latina sul fronte di un rinnovato programma di politica economica nazionale. Essi guardavano all’emigrazione transoceanica come opportunità per costruire un mercato nazionale all’estero in risposta ad un mercato interno al limite della saturazione ed in crisi per la concorrenza internazionale e, d’altra parte, intravedevano una possibile compensazione rispetto all’incerta soluzione dei rinnovi dei trattati commerciali con i paesi dell’Europa continentale. In questa prospettiva l’emigrazione risultava complementare all’espansione solo se l’emigrante fosse stato in grado di tenere solidi contatti con la madrepatria. Compito dello Stato era allora quello di agevolare l’acquisizione della cittadinanza nei paesi d’immigrazione senza che ciò comportasse una perdita della cittadinanza d’origine.

La revisione dell’articolo 11 del Codice civile poneva dunque la classe politica liberale di fronte al problema di ricercare una convergenza tra un’autocomprensione etnoculturale dell’appartenenza nazionale e la legittimità di nuove forme di politiche espansionistiche. Tanto per riportare le parole dell’onorevole Grippo in sede del dibattito parlamentare del 1911, “noi ci troviamo in una situazione contradittoria, perché mentre diciamo che bisogna facilitare agli italiani che risiedono negli Stati Uniti e specialmente nell’America del Sud, la partecipazione alla vita politica e amministrativa, dall’altra parte vogliamo mantenere il sentimento d’italianità, vogliamo cercare di non perdere questa grande massa di italiani che vanno nell’America del Sud”. [ref] L’intervento dell’onorevole Grippo si trova in “Atti Parlamentari“, Roma, 1912, p. 2296. [/ref] In definitiva si trattava di risolvere la questione, come scrisse un commentatore politico del tempo, circa la “compatibilità tra la nuova cittadinanza acquistata dall’emigrante all’estero e la durevolezza della sua appartenenza alla nazione, la permanenza di certi vincoli etnologici con l’Italia.” [ref] Giulio Cesare Buzzati, Questioni sulla cittadinanza degli Italiani emigrati in America, in: Rivista di diritto civile, 1909, 2, pp. 445-476, citazione a p. 432. [/ref] Nelle diverse sedi di dibattito politico (Commissione di riforma, Ufficio centrale del Senato, Parlamento) il fronte contro la doppia cittadinanza di diritto fu molto grande. La proposta della doppia cittadinanza fu considerata una sorta di mostro giuridico, un nuovo Giano bifronte perché essa non era assolutamente compatibile con i fondamenti costitutivi della stessa cittadinanza. Tanto per riportare le parole di Vittorio Scialoja relatore in Commissione senatoriale:

Elemento materiale costitutivo dello Stato è il territorio, elemento personale costitutivo dello Stato è il popolo; chi del popolo fa parte è cittadino e come tale appartiene allo Stato; in questo è membro e sta quindi con lo Stato un collegamento organico; dato ciò, è un assurdo giuridico l’ammettere la possibilità che uno stesso membro a due diversi organismi possa appartenere: il collegamento dell’individuo a uno Stato importa necessariamente l’esclusione di un altro uguale collegamento a un altro Stato. [ref] Vittorio Scaloja, Relazione riforma istituto della cittadinanza, Atti del Senato, Roma 1911, p. 432. [/ref]

Ora, l’aspetto fondamentale che emerge da queste affermazioni è la dominanza nella cultura politica del liberalismo del paradigma dello stato-persona, dell’idea dello Stato come organismo. Si ricorre al paradigma organicistico per legittimare il rifiuto della proposta della doppia cittadinanza. Proprio qui sta la fondamentale logica di affermazione politica e non culturale dello ius sangiunis. Lo ius sanguinis va visto come un elemento costitutivo dentro il più ampio paradigma della concezione dello Stato-organico. Per questa ragione bisogna considerare la generale valenza politica di quest’ultimo nella storia politica dello Stato liberale.

La storiografia giuridica italiana ha osservato che per la giuspubblicistica liberale far quadrato attorno alla metafora organicistica aveva significato rappresentare in termini esclusivamente giuridici l’apparato normativo e organizzativo dello stato di diritto liberale. [ref] Su tali questioni si rimanda a Pietro Costa, Lo stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana tra Otto e Novecento, Milano, Giuffrè, 1986; Luigi Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1999; Maurizio Fioravanti, La scienza del diritto pubbblico. Dottrine dello Stato e della costituzione tra Otto e Novecento, Milano, Giuffrè. 2001. [/ref] L’ordine giuridico si identifica con lo Stato e, come giustamente sottolinea Pietro Costa, per questa via si procedeva indicando le fondamenta dello Stato sulla base di un procedimento ad escludendum. La cultura giuridica liberale escludeva a priori un’idea contrattualistica dello Stato, in quanto essa sarebbe viziata dal cosiddetto “atomismo” di derivazione francese che proietterebbe sullo Stato l’ombra della instabilità (Pietro Costa).

Una tale elaborazione concettuale si proponeva come risposta prettamente politica rispetto ai crescenti processi di differenziazione del sociale e di mobilitazione politica tra Ottocento e Novecento; essa era diventata il mantra della modernizzazione difensiva. Infatti, vedendo nello Stato un’unità organica naturale ovviamente la stessa legittimazione statale era posta oltre la sfera di giustificazione politica. Secondariamente, era proprio questo che permetteva di sottrarre la concezione della Stato dai conflitti del sociale, neutralizzando anche per questa via una possibile dimensione politica espressa dalle rappresentanze degli interessi plurali delle diverse formazioni sociali. Ebbene, a me sembra che il paradigma dello Stato-organico abbia rappresentato nei circuiti legislativi il sostrato culturale di quelle politiche di governance nel primo decennio del XX secolo hanno avviato il processo di nazionalizzazione delle masse attraverso una graduale estensione formale dei diritti di cittadinanza. Basti pensare alla strutturazione normativa delle relazioni centro-periferia (legge sulle municipalizzazioni del 1903) tesa a depoliticizzare le politiche di city government di matrice socialista e cattolica; [ref] Sulla valenza politica del concetto di comune come ente autarchico si rimanda a Fabio Rugge, Trasformazioni delle funzioni dell’amministrazione e cultura delle municipalizzazioni, in: L’amministrazione nella storia moderna, Archivio Isap 3, Milano, 1985, pp. 1233-1288. [/ref] oppure, nel modo in cui si affronterà la questione sociale e il tema del suffragio universale. Sia le politiche di welfare liberale che attraverso il canale amministrativo proveranno a istituzionalizzare i conflitti in base a programmi sociali politico-clientelari da una parte, e sia l’avvento del suffragio universale concesso in virtù di una concezione del voto come funzione pubblica rappresentarono due tappe importanti nel processo di integrazione delle masse e in quello di rafforzamento delle istituzioni sociali, senza tuttavia che l’estensione formale dei diritti di cittadinanza fosse accompagnata da un’effettiva cultura egualitaria dei diritti. [ref] Si vedano Giovanni Gozzini, Povertà e stato sociale: una proposta interpretativa in chiave di path dependence, in: Zamagni, V. (a cura di), Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo ad oggi, Bologna, Il Mulino, 2000, pp-578-610; Paolo Pombeni, La rappresentanza politica, in: Romanelli, R. (a cura di), Storia dello Stato italiano dall’Unità ad oggi, Roma, Donzelli, 1995, pp.73- 125. [/ref]

Durante il ventennio fascista lo ius sanguinis assumerà la connotazione di un atto performativo volto a determinare lo spazio di appartenenza e di esclusione del nuovo razzismo di Stato. [ref] Per le considerazioni a seguire si rimanda ai contributi in Nel nome della razza. Il razzismo della storia d’Italia 1870-1945, a cura di Alberto Burgio, Bologna, Il Mulino, 2000; Antisemitismo in Europa negli anni trenta: legislazioni a confronto, a cura di A. Cappelli/R. Broggini, Milano, Franco Angeli, 2001; Giulia Barrera, Mussolini’s colonial race laws and the state-settler relations in Africa Orientale Italiana, in: Journal of Modern Italian Studies, 2003, 8, pp. 425-443. [/ref] In questo processo la dimensione politica, quella di potenza, così come le disposizioni normative discriminatorie costituivano un continuum, sono state il risultato di uno specifico dispositivo ideologico. Si è trattato di un dispositivo che per un verso ha avuto una connotazione di tipo inclusivo perché funzionale alla continuità di una certa idea di politica estera ed espansionistica giocata attorno al ruolo attivo degli emigranti. A partire dal 1927 la politica migratoria fascista sarà tutta tesa a preservare l’italianità all’estero, il principio del cosiddetto carattere indelebilis della cittadinanza. Allo stesso tempo, la nuova stagione del razzismo di Stato poggiava sul principio di “naturalità” negativa dei gruppi sociali che di volta in volta poteva essere definita su basi culturali, religiose, politiche o economiche. Lo sarà in riferimento alla produzione normativa di tipo pervasivo del dominio coloniale fascista, ma anche con le Leggi razziali del 1938 e i vari provvedimenti amministrativi e legislativi in materia. Anzi, la definizione normativa di “persona appartenente alla razza ebraica” sintetizzava tragicamente il trionfo del razzismo biologico fascista.

Allora, a questo punto la questione finale alla quale bisognerebbe provare a rispondere è perché l’idea di cittadinanza “nazionale” agganciata, storicamente, a una valenza politica pluriforme dello ius sanguinis si sia conservata anche nell’Italia repubblicana? Credo che la risposta vada trovata nelle modalità del processo di transizione verso una democrazia costituzionale che in Italia si è avvalsa d’immagini storiche e autorappresentazione collettive volte a rendere fruibili di comprensione l’idea secondo la quale è l’appartenenza allo Stato, determinata dalla nascita, che dà fondamento di partecipazione alla grammatica dei diritti democratici. Non diversamente dalla transizione democratica tedesca anche in Italia si afferma una concezione di democrazia omogenea. [ref] Sul caso tedesco si veda Gustavo Gozzi, Democrazia e diritti. Germania: dallo Stato di diritto alla democrazia costituzionale, Roma-Bari, Laterza, 1999. [/ref] Allo stesso tempo, la persistenza dello ius sanguinis nella nostra legislazione dimostra che la territorialità (Charles Maier), intesa come organizzazione spaziale dai confini culturali e politici netti imperniata sullo stato-nazione continui ad essere un progetto onnicomprensivo, un lunghissimo Novecento che non vuole finire. [ref] 24 Charles S. Maier, Secolo corto o epoca lunga? L’unità storica dell’età industriale e le trasformazioni della territorialità, in: Novecento. I tempi della storia, a cura di C. Pavone, Roma, Donzelli, 1997, pp. 45-78. [/ref] Ora, rispetto alle nuove condizioni di un paese di fatto d’immigrazione, la questione politica rimane: con la rottura di un’omogeneità culturale via ius soli, la cittadinanza in pieno senso democratico come strumento d’aspettative di partecipazione ne uscirebbe indebolita o rafforzata? Su questo terreno la politica è chiamata a dare delle risposte, urgenti, però.

 

L’omosessualità come problema politico

Quando ragioniamo circa le questioni che agitano la convivenza civile dovremmo concentrarci innanzitutto sui concetti di base della discussione. Laddove si pensi all’omosessualità come un problema politico della società contemporanea sarebbe necessario avviare un’analisi sui fondamenti stessi della convivenza nella Polis. Continua a leggere

Un profeta del neoliberismo

«Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico», un libro di Domenico Losurdo. Bollati Boringhieri ripubblica il monumentale studio che quando uscì fece molto discutere.

Com­pren­dere Nie­tzsche è come ten­tare di abbrac­ciare il mare. Vale per molti pen­sa­tori, certo, ma a mag­gior ragione per un clas­sico della filo­so­fia come lui, ete­ro­dosso e asi­ste­ma­tico come nes­sun altro (fin dal suo scri­vere afo­ri­stico). Eppure si tratta del filo­sofo più inter­pre­tato del Nove­cento, sostan­zial­mente attra­verso due meto­do­lo­gie distanti (ma in fondo con­nesse) come il giorno e la notte. Quella erme­neu­tica, che si con­cen­tra sul «ritmo musi­cale della sua prosa», sull’eccedenza teo­rica, sul gioco funam­bo­lico (e spesso oscuro) delle inter­pre­ta­zioni in cui il sog­getto inter­pre­tante piega i pre­sunti «auto­frain­ten­di­menti» del filo­sofo inter­pre­tato, spesso con­for­man­dolo al pro­prio pen­siero (un per­corso che si dipana da Hei­deg­ger a Gianni Vat­timo, pas­sando per Foucault).

Oppure quella storico-filologica, ade­rente al testo del pen­sa­tore, in stretta con­nes­sione con il con­te­sto sto­rico, alla ricerca di costanti idee di fondo che pos­sano con­sen­tirne una com­pren­sione meto­dica e coe­rente. Que­sto secondo metodo è inte­res­sato a repe­rire «fatti» storico-ideologici che, comun­que, non garan­ti­scono rispetto al rischio che l’interprete possa for­zare il grande clas­sico, soprat­tutto uno come Nie­tzsche, con­vinto egli per primo che «esi­stono solo inter­pre­ta­zioni, non fatti».

Anche il secondo metodo, quindi, non pro­duce cer­tezze, ma con­sente a chi lo applica di per­ve­nire a inter­pre­ta­zioni fuori dal coro (che vor­rebbe vedere in Nie­tzsche un pro­to­na­zi­sta oppure un pro­feta del post­mo­der­ni­smo), mag­gior­mente suf­fra­gate dalla stretta atti­nenza ai testi e con­te­sti del filo­sofo, e quindi di get­tare luce là dove la notte rischia di far appa­rire tutte le vac­che nere.

È que­sto il caso di Dome­nico Losurdo, di cui Bol­lati Borin­ghieri ripub­blica, in una nuova edi­zione ampliata dalle rispo­ste ai cri­tici, il monu­men­tale Nie­tzsche, il ribelle ari­sto­cra­tico. Bio­gra­fia intel­let­tuale e bilan­cio cri­tico (2 volumi, 608+624 pagine, 58 euro).

Sono pas­sati dodici anni dalla sua uscita, e nel frat­tempo que­sto volume, capace di susci­tare un’incredibile mole di discus­sioni e pole­mi­che, è stato tra­dotto in tutte le prin­ci­pali lin­gue del mondo. La Frank­fur­ter All­ge­meine Zei­tung ha scritto che «non ci sono molti libri su Nie­tzsche dai quali si può impa­rare tanto come da que­sto», men­tre Die Zeit, in un empito enfa­tico, ha par­lato di «un avve­ni­mento intel­let­tuale senza pari», e per­sino il cele­bre sto­rico Ernst Nolte si è spinto a scri­vere che «a mia cono­scenza in que­sto campo non c’è nulla che, per dimen­sione e ambi­zione, possa essere para­go­nato anche solo lon­ta­na­mente a que­sto libro».

Il monu­men­tale lavoro di scavo filo­lo­gico ope­rato da Losurdo parte da una pre­messa teo­rica di fondo: il grande filo­sofo tede­sco è «totus poli­ti­cus». Nel senso che la maniera per com­pren­dere la gran­dezza e l’unitarietà del suo straor­di­na­rio pen­siero, che altri­menti risul­te­rebbe disper­sivo e con­trad­dit­to­rio, con­si­ste pro­prio nel por­tare alla luce il fondo poli­tico che sog­giace a ogni sua spe­cu­la­zione, anche quella più appa­ren­te­mente con­fi­nata nei mean­dri della teo­resi pura. Ciò pre­messo, il libro rie­sce a dimo­strare come il punc­tum cru­cis della spe­cu­la­zione nie­tzscheana sia rin­trac­cia­bile nella sua essenza rea­zio­na­ria: in ogni fase e su ogni nodo cri­tico della sua spe­cu­la­zione, Nie­tzsche com­batte in maniera radi­cale ma geniale tutto ciò che odora di rivo­lu­zione e di demo­cra­zia, di ugua­glianza e di visione mora­li­stica del mondo umano.

In tal senso, per esem­pio, si può com­pren­dere l’affascinante per­corso pole­mico che il filo­sofo ha intrat­te­nuto con alcuni dei grandi nemici sto­rici. Socrate con la sua visione otti­mi­stica della ragione umana, per cui cia­scuno poteva aspi­rare a miglio­rare la pro­pria con­di­zione di par­tenza sta­bi­lita dal fato. Gesù, la cui mise­ria nichi­li­stica con­si­steva nel rife­rirsi a un dio che non c’è, in nome del quale teo­riz­zare quell’uguaglianza e fra­ter­nità fra gli uomini che rap­pre­sen­tano delle illu­sioni con­tro­na­tura. Mar­tin Lutero, la cui idea fune­sta di far leg­gere il testo sacro a tutti i fedeli, spez­zando il mono­po­lio del clero, con­tra­stava con quell’ideale di gerar­chia tanto caro a Nie­tzsche. Oppure Rous­seau che, col suo Con­tratto sociale, ini­ziò la ter­ri­bile illu­sione per cui il popolo tutto potesse e dovesse con­tri­buire alla for­ma­zione del governo.

Que­sto Nie­tzsche «rea­zio­na­rio» è anche quello che, per Losurdo, acco­muna nella sua con­danna impie­tosa socia­li­smo e cri­stia­ne­simo par­tendo da un topos cele­bre della sua filo­so­fia: l’eterno ritorno dell’identico. Que­sto, infatti, si fonda su una visione cir­co­lare del tempo e della realtà che non con­sente all’uomo e alla sua ragione di ope­rare cam­bia­menti rispetto al mec­ca­nico e ripe­ti­tivo fluire delle cose, sta­bi­lito in maniera insin­da­ca­bile dal fato. Socia­li­smo e cri­stia­ne­simo, invece, come molte delle uto­pie sal­vi­fi­che del con­sesso umano, fon­dan­dosi sulla visione lineare del tempo, riten­gono di poter per­ve­nire, attra­verso un per­corso di reden­zione (o di rivo­lu­zione), a una sal­vezza finale che metta fine al pec­cato ori­gi­nale o alla società dello sfruttamento.

Ogni ten­ta­zione rivo­lu­zio­na­ria oppure di affer­mare una visione mora­li­stica del mondo, rap­pre­senta in realtà l’arma con cui i «mal­riu­sciti» e i «preti» vogliono ribal­tare l’ordine natu­rale delle cose. Risiede qui il nerbo dell’utopia di Kant, illu­so­ria­mente con­vinta che la ragione possa pre­va­lere sul ter­ri­bile gioco della natura e del fato.

Si può cer­ta­mente vedere in lui un «mae­stro del sospetto» (Ricoeur), ma sol­tanto a patto di com­pren­dere che egli intende spaz­zare i fiori ideo­lo­gici con cui il potere vuole abbel­lire la con­di­zione dei subor­di­nati, per affer­mare la piena legit­ti­mità delle catene attra­verso le quali il più forte domina sul più debole. In tal senso Losurdo vede in Nie­tzsche un ante­si­gnano dell’opposizione alla grande ipo­cri­sia delle guerre giu­sti­fi­cate come «uma­ni­ta­rie», ma anche un pro­feta del neo­li­be­ri­smo più sel­vag­gio, feno­meni per­fet­ta­mente con­sen­titi da quell’«innocenza del dive­nire» che impone al mondo umano guerre e con­trap­po­si­zioni costanti che gli uomini non devono cer­care di masche­rare con l’ipocrisia o debel­lare con la morale.

Come non ripen­sare all’aforisma 259 di Al di là del bene e del male, dove Nie­tzsche scrive che «la vita è essen­zial­mente appro­pria­zione, vio­la­zione, sopraf­fa­zione di tutto quanto è estra­neo e più debole», e anche «lo sfrut­ta­mento con­cerne l’essenza del vivente», per­ché «è una con­se­guenza di quella carat­te­ri­stica volontà di potenza che è, appunto, la volontà della vita».

Alla fine si impone una que­stione cru­ciale a cui non risponde nep­pure Losurdo: dob­biamo forse pren­dere mesta­mente atto di una vit­to­ria filo­so­fica di Nie­tzsche? E non tanto per­ché avrebbe distrutto il sog­getto e le grandi nar­ra­zioni, come riten­gono in molti, ma per­ché ha sco­per­chiato come nes­sun altro quel fondo di cru­deltà e volontà di potenza che per­vade il mondo umano, in virtù del quale è irrea­li­stico col­ti­vare pro­getti sal­vi­fici o di reden­zione che pog­gino su una visione morale del mondo. Visione a cui gli stessi pro­ta­go­ni­sti non sono in grado di tener fede. Se non altro per­ché umani, troppo umani.

VIDEO – Bergson e la “visione panoramica dei morenti”

La mente, nella cultura filosofico-scientifica occidentale, è stata per lungo tempo rappresentata come un sistema di specchi installati di fronte a una realtà in progressione dinamica. Come potrebbe uno specchio – costitutivamente estraneo alla realtà che fronteggia – riflettere di questa non solo immagini superficiali, ma anche configurazioni in grado di riprodurre fedelmente i processi interni, non visibili, della sua formazione? Guardando con coraggio nei fondali oceanici del moi profond, Bergson inaugura un originale percorso di riscoperta dell’assoluto nel limite spazio-temporale del moi social, attraverso un nuovo modo di vivere il tempo (mediante il concetto di durata) e il rapporto mente/corpo. Agli occhi di Bergson lettore della Revue philosophique di Ribot il fenomeno cognitivo anomalo della vision panoramique des mourants – discusso sulla Rivista dallo psicologo francese Victor Egger – acquista così la funzione di ricordare al soggetto morale che le proprie azioni devono essere prese sul serio, perché tutto ciò che ciascun moi è stato e che sarà si conserva fatalmente nel ricordo (secondo Bergson, infatti, percepire è un’occasione per ricordare…) fino all’ultimo istante di vita in cui la natura ha decretato la nostra fine.

 

Sull’attualità politica del Principe di Machiavelli

Sull’“attualità” politica del “Principe” di Machiavelli

di Mario Reale

La prima lezione del “Principe” consiste nella decisività della dimensione politica. Ma Machiavelli è anche cosciente che la politica è un’arte difficile, che incontra molti ostacoli, fra cui la durezza delle cose, la variazione dei tempi e la natura degli uomini. È per affrontare questi ostacoli, specie il terzo, che il principe deve far intervenire “estraordinaria” virtù. Il senso della complessa dialettica, svolta nel finale del “Principe”, fra virtù e fortuna.

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]S[/drop_cap]i può parlare dell’“attualità” del Principe di Machiavelli, in occasione dei cinquecento anni dalla sua redazione, ma con molte cautele. Questo piccolo scritto, un “opusculo”, straordinario per i concetti e per la lingua, tra i più letti al mondo, rientra certamente nel novero dei “classici”. Ora le opere classiche, mentre hanno la straordinaria capacità di parlare a tutti, nella lunga durata, sono sempre anche figlie del loro tempo, ne recano tracce ineliminabili, e a volte la loro bellezza nasce proprio dalla commistione di tempo ed “eternità”.

Così, non c’è attualità che non si costituisca entro la consapevolezza della distanza, niente dei classici è trasferibile immediatamente nella realtà di oggi. Il filo di connessione è piuttosto costituito da quella che direi “lezione”, ossia la possibilità di ricavare liberamente dai classici temi e motivi che, in parte, vanno oltre il tempo e possono, più spesso in forma indiretta, farci da guida.

Il primo e centralissimo punto della lezione del Principe consiste nella decisività della dimensione politica. Certo, Machiavelli riteneva che la politica fosse il “tutto”, la priorità assoluta nella vita degli uomini, e tuttavia, col filtro della lezione, resta vero, in ogni caso, che la politica costituisce un essenziale punto di unitaria connessione per ogni comunità, che mai potrebbe farne a meno, per decidere le sue sorti collettive e anche individuali. Ma, al tempo stesso, Machiavelli insegna che la politica è un’arte tremendamente difficile, che incontra, sulla via della sua realizzazione, numerosi e gravi intralci. Il primo ostacolo che la politica trovi avanti a sé, è ciò che Machiavelli chiama “fortuna”. Fuori da ogni raffigurazione mitica, fortuna significa l’insieme delle condizioni, delle circostanze e delle situazioni, che, in un dato momento, costituiscono la realtà del mondo umano; sono i “tempi” della storia. Questa realtà è subito complicata da un secondo ostacolo, cui Machiavelli è particolarmente sensibile: le cose umane non sono mai “salde”, ma sempre in “moto”, i “tempi”, l’insieme delle situazioni date, sono soggetti a perenne “variazione”. Infine, gli uomini stessi costituiscono un decisivo ostacolo alla politica. L’uomo è costituito, per Machiavelli, da un fascio di potenzialità, che si attuano nella storia, non ha una natura fissa e immutabile, né segnata indelebilmente, come talvolta s’è detto, da una colpa originaria, di natura religiosa, o da una struttura metafisica che lo condanni al male; è anche un essere fragile e insicuro, bisognoso di “assicurarsi” delle forze ostili che lo minacciano, specie quando i tempi hanno una dura configurazione; dovrebbe avere la capacità di mutare se stesso, un precetto fondamentale della politica machiavelliana, e tuttavia è spesso attaccato, tenacemente, alle abitudini del suo modo di essere e di vivere, a specifici e determinati comportamenti.

La “fortuna” riassume nel suo ambito i primi due ostacoli, e specialmente il secondo, la variazione dei tempi, il quale comprende in sé anche il primo, la complessa durezza delle cose. Non è detto che la fortuna, questa dea capricciosa, sia sempre matrigna: può limitare l’azione umana e l’iniziativa politica, fino a “spegnerle”, ma può anche presentare un volto benevolo, ciò che Machiavelli chiama “occasione”. Se questi due primi ostacoli, compresi nella “fortuna”, costituiscono difficoltà a parte obiecti, riguardano l’oggettiva realtà data, spessa e mutevole, il terzo si colloca a parte subiecti; ed è, comprensibilmente, quello che preoccupa di più Machiavelli: la fortuna varia, le cose seguono il loro oggettivo corso, e solo l’azione umana può intervenire a mutarle. Alla decisività del terzo ostacolo, al pericolo estremo che esso può rappresentare per la politica, Machiavelli risponde con la “virtù”, che è l’insieme delle qualità che connotano l’azione del politico eccellente, capace di incidere sulle cose, per quanto siano resistenti e mutevoli.

Sarebbe ingenuo non riconoscere, nel quadro cui abbiamo accennato, il segno del tempo, in particolare circa la variazione, l’estrema mutevolezza della fortuna, e di quel che ciò ingenera nella vita degli uomini, La situazione storica dell’Italia, in cui il Principe nacque, era segnata da una durissima e miserevole crisi, che l’opera riflette e tenta di superare. Drammaticità delle cose, impazzimento nel girar della fortuna, fragile insicurezza degli uomini. L’Italia era divenuta, dalla fine del quattrocento, dalla discesa di Carlo VIII nel 1494, la “sedia”, dice Machiavelli, della “variazione”, e insomma costituiva il principale terreno di scontro e di conquista. E tuttavia, sarebbe anche difficile dire che gli ostacoli individuati da Machiavelli si chiudano in un cerchio remoto e interamente passato, senza entrare a far parte di una costante natura della politica, perciò anche di quella di oggi. La pesante inerzia delle condizioni date e il mutamento delle cose, non abbiano pure la gravità e l’accelerazione che Machiavelli soffre, costituiscono sempre dati elementari e oggettivi di ogni iniziativa politica. Quanto alla concezione dell’uomo di Machiavelli, cui s’è accennato, sebbene sia qui difficile parlarne distesamente, non è priva affatto d’interesse, per ogni età. Per il punto che ora interessa, la polivocità della natura umana viene espressa da Machiavelli attraverso una serie antinomica di qualità, come essere “impetuoso”, rapido di decisione e anche all’occorrenza violento, o “respettivo”, prudente e “temporeggiatore”; ma anche come essere buono o “non buono”. Il principe deve saper essere impetuoso e rispettivo, riuscendo ad alternare questi diversi comportamenti secondo la necessità; e poiché i tempi, e molti uomini, sono “tristi”, deve anche saper “intrare nel male”. La condizione è che l’atto sia necessitato, inferto senza compiacenza (“crudeltà bene intesa”), e, soprattutto, che, come la sua multiversa natura consente, il principe sappia tornare, subito dopo, alla “bontà”, riscattando, alla fine, le sue azioni “non buone” con la costruzione di uno stato che assicuri il “bene comune”. Ora, il problema è se l’uomo riuscirà a gestire queste potenzialità della sua natura, mutandole secondo quel che comandano la durezza dei tempi e i “venti della fortuna”. Varia e molteplice, la natura umana possiede altresì, come s’è detto, un fondo opaco, refrattario al mutamento di sé, ed è questo il problema che più angustia Machiavelli. In ogni caso, venendo all’oggi, anche a questo proposito ci aspettiamo sempre che un buon politico, dinanzi a una situazione nuova, sappia affrontarla vincendo la sua “natura”, i suoi consueti modi di essere.

Il problema del Principe è quello di costruire razionalmente una figura di principe che sappia sfidare l’inerzia delle cose, affrontare la variazione dei tempi, mutare la propria natura secondo le necessità, e, perciò, sappia realizzare il suo alto scopo, nonostante tutti i condizionamenti e le avversità. Ma sarà in grado il principe di vincere quest’insieme di difficoltà? Machiavelli procede, armato di una splendida lingua e di una mente acutissima, con speranza e timore, con sicurezza razionale e profondi dubbi. Il Principe consiste nella razionale costruzione di questa possibilità, nell’analisi delle condizioni e dei modi, attraverso cui l’azione politica possa affermarsi. La priorità essenziale è che il principe abbia una virtù “estraordinaria”, “eccessiva”; e i consigli di Machiavelli sono tesi a dar forma e contenuti al principio generalissimo della “virtù”, plasmando un esprit fort, un politico veramente capace, tanto nella consapevolezza dell’oggettiva realtà che nella soggettiva capacità di agire, di condurre a segno la sua “intenzione alta”. La politica non deve essere affatto pensata, per Machiavelli, come un’arte distaccata ed eterea. Bisogna sporcarsi le mani, scendere nel profondo della complessa realtà delle cose e dei suoi mutamenti, imparando a conoscere bene chi sono gli avversari della buona politica. Duro mestiere quello del politico, perché, conoscendo i suoi nemici, deve altresì passare attraverso i mezzi di cui essi si servono, i soli che conoscano; e, insomma, è costretto a “intrare nel male”, sebbene non debba mai farsene contagiare, fino a corrompere ’intera sua persona. Il male, ai tempi del Principe, era fatto di armi e violenza, tradimenti, pugnali e veleni. E Machiavelli, con la sua alta e dolorosa coscienza morale, è “necessitato” ad attraversare questa greve materia. Ma anche nei “tempi quieti”, come i nostri, la politica che volesse davvero cambiare le cose, dovrebbe egualmente esercitare giusta durezza, conoscere e cercar di neutralizzare i propri nemici, sporcarsi e trattare, entrando nella palude di complessi e purulenti poteri. La condizione di salvezza, dice Machiavelli, è solo che il politico sappia mantenere una fondamentale onestà di coscienza, e tenga ben fermo lo scopo da raggiungere.

Il principe di Machiavelli deve essere “egemone”. L’egemonia non coincide, semplicemente, con la politica “ordinaria”, perché ne costituisce una qualità aggiuntiva, una versione straordinaria e potenziata. Nell’accezione gramsciana, l’egemonia “politica” – un tema profondamente connesso, nei Quaderni, alle pagine su Machiavelli – si può riassumere (poiché la questione è alquanto complessa) nella formula di una politica che poggi, insieme, su egemonia (direzione, consenso) e dominio (forza, coercizione). Sebbene il dominio sia necessario in ogni stato, l’egemonia può esserci o no, come nel fascismo, dove la forza presumeva di essere nell’atto stesso consenso. Il principe nuovo di Machiavelli s’iscrive con precisione in questo quadro: esercita certamente dominio, ma deve in ogni caso governare con il consenso. Anche per giungere al potere, il principe deve dispiegare un’azione egemonica, nella strategia circa il modo di combattere i nemici, e, soprattutto, di stabilire alleanze. In sintesi, egemonica è una politica che sappia abbracciare più elementi e bisogni nel suo quadro, e riesca a prospettarli, con lunghezza di sguardo, nel futuro, mirando a modi di convivenza nuovi, o più avanzati, così come Machiavelli, dall’Italia, guardava a Francia e Spagna, ai primi due grandi stati moderni in via d’affermazione.

Il principe nuovo e “civile”, la figura più alta e “sicura” di principato, è fortunato nella sua genesi: non ha, propriamente, bisogno né di fortuna né di virtù, non deve compiere atti efferati, perché è chiamato al potere di uno stato da una delle due “classi” che lo compongono, dai “grandi” o dal “populo”: i due fondamentali soggetti collettivi, che sempre costituiscono, nella loro lotta o nella conflittuale collaborazione, il fondo ultimo della teoria politica di Machiavelli. Nel caso del principato “civile”, le forze sociali e politiche sono giunte a un’impasse nel loro conflitto, nessuna delle due può vincere sull’altra, e perciò devono ricorrere a un principe, a una figura “terza”. Assurto al potere, il principe deve in ogni caso mettere in atto una strategia egemonica: se ha già il favore del popolo, deve “mantenerselo amico” e assicurargli “protezione”. Ma poiché l’autorità, quale che sia la genesi del potere, deve essere in ogni caso esercitata nel segno dell’alleanza con il popolo, anche il principe che, da “privato cittadino”, sia divenuto tale con il “favore de’ grandi”, deve, “innanzi a ogni altra cosa, cercare di guadagnarsi el populo”. I grandi, cui il popolo non vuole assolutamente sottostare, devono in ogni caso essere repressi o “spenti” dal principe. Rispetto ai grandi, del resto, quando siano trattabili (“quelli che si obligano, e non sieno rapaci”), Machiavelli suggerisce anche una sottile strategia, un po’ al modo della nobiltà francese, rinserrata da Luigi XIV nella regia di Versailles. Del resto, il principe, di “grandi”, può “farne e disfarne ogni dì”.

Nel corso di un’azione egemonica, come si capisce, il principe deve innanzitutto pensare a se stesso e al suo potere, alla propria “gloria”; l’egemonia deve agire, contemporaneamente, a parte subiecti e a parte obiecti. L’appoggio al popolo non è “caritatevole”, ma risponde a una profonda logica politica. Machiavelli ha definito, in premessa, i due “umori”, la caratteristica natura e la passionalità più radicale delle due “classi”: “li grandi desiderano comandare e opprimere il populo”, il quale, a sua volta, “desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi”. Da ciò discende la necessità per il principe di “fuggire” in ogni modo i grandi, che si riterrebbero “equali” a lui, e, non ubbidienti ai suoi comandi, si servirebbero di lui come di un fantoccio, “per potere, sotto la sua ombra, sfogare il loro appetito”; dotati di “più vedere e più astuzia”, i grandi costituirebbero insomma una minaccia interna, e anche esterna, quando, abbandonando il principe, tentassero di muovergli contro con le armi. Se dei “pochi” grandi, come nemici, il principe si può “assicurare”, il contrario avviene quando si “inimica” il popolo, che costituisce la stragrande maggioranza della popolazione, i polloi, che sono “troppi”. Poiché il popolo chiede, fondamentalmente, di non essere oppresso, è più “facile” mantenerselo amico, ove il principe “pigli la protezione sua”. E anche quando il principe provenga da un originario “favore de’ grandi”, voltosi alla protezione del popolo, ne riceve “amicizia”, perché gli uomini, “quando hanno bene da chi credevano avere male, si “obligano” al benificatore loro”, ancor più che se il principe fosse stato in origine chiamato dal popolo. Sebbene il ragionamento di Machiavelli sia retto da una ferma logica politica, in un punto dell’argomentazione compare anche un senso più largo di egemonia: non si può dare soddisfazione ai grandi “sanza iniuria d’altri”, sì invece al popolo, perché quello del popolo “è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso”.

Il principe nuovo, se non vuol farsi assoluto e crudele tiranno, uscendo così dalla stessa dimensione politica, può mantenere l’amicizia, il consenso del popolo, quando agisca con “grandezza e nobiltà d’animo”. Ciò vuol dire che ogni suddito deve essere sicuro di poter conservare il rispetto di sé e l’integrità della propria persona (l’”onore”); star tranquillo circa la protezione delle proprie donne, dei figli, e della sua “roba” (che è il terreno dove un principe “rapace” è più spesso tentato di opprimere); fiducioso che la giustizia sarà esercitata secondo le forme e le garanzie dovute (punire solo quando vi sia “iustificazione conveniente e causa manifesta”); certo che non sarà oppresso, vessatoriamente, dalle tasse di un principe “fiscale”, che, dilapidate le ricchezze dell’erario, venendo meno alla rigorosa distinzione machiavelliana di “publico” e privato, si volga di continuo a spremere il popolo per le guerre e le altre imprese. Scrive Gramsci, a proposito del principe di Machiavelli, che “le masse popolari dimenticano i mezzi impiegati per raggiungere un fine, se questo è storicamente progressivo e risolve i problemi essenziali dell’epoca”; il principe, difatti, “stabilisce un ordine in cui sia possibile muoversi, operare, lavorare tranquillamente”. Insomma, un popolo “sicuro”, “soddisfatto” e, come Machiavelli ripete spesso, “contento”. Si tratta, insomma, di un potere sempre accompagnato da egemonico consenso. Nei tempi che viviamo, in una situazione in cui la democrazia si riduce, non di rado, a garantire, in ultima istanza, un certo stato di diritto e i mercati, nemmeno ci si dovrebbe stupire troppo del quadro delineato da Machiavelli, di questa protezione personale, familiare, e, in senso largo, “sociale”.

Da ciò che si è detto, emerge, certo, una sostanziale passività del popolo; un qualche ruolo “attivo” si potrebbe tutt’al più scorgere solo nel fatto che il popolo, dopotutto, deve riconoscere e accettare l’offerta amicale del principe. Per la contraddizione che non lo consente, il principe non potrebbe mai “soddisfare” il popolo dal lato politico, rinunciando al suo potere monocratico, di modo che la soddisfazione sarà da ritrovare tutta sul piano dei bisogni essenziali e primari, di ciò che sta al di qua, o al di là, della politica. Si tratta, insomma, di una prima ed elementare forma di egemonia, riposante sulle necessità della vita. Ma la grandezza di Machiavelli sta nel fatto che egli conosce, insieme, una diversa e più alta forma di egemonia: quella esemplificata dalla repubblica romana, che è al centro dei Discorsi. Qui tutto il popolo, la “plebe”, è chiamato a un importantissimo, e, in un certo senso, decisivo ruolo politico: tutti i cittadini sono diventati “principi”. E si ha egemonia sia nella forma di una costituzione “mista”, di carattere “duale”, contro la monotonia degli stati “monoclasse”; sia nel determinante conflitto che oppone la plebe o popolo ai nobili o grandi, per la conquista di egemonia, sempre nel quadro delle istituzioni democratico-repubblicane, allo scopo di promuovere leggi “in favore della libertà”; sia infine negli effetti prodotti dal corpo politico così costituito, libertà interna e potenza esterna, con lo strepitoso esempio dell’”imperio” romano, che esercitò hegemonia, diceva Polibio, sull’intero mondo conosciuto, o almeno su una sua parte significativa. I Discorsi non dimenticano mai il Principe, e uno dei punti di forza di Machiavelli, è che, rifiutando ogni pensiero unico e definitivo, lavora su più “modelli”, principato e repubblica, incrociandoli tra loro, e facendo reagire l’uno sull’altro.

La politica, e specie quella d’egemonia, non è mai figlia di allegro ottimismo volontaristico, di spensierata sicurezza. Si nutre sì di ragione e passione, di fermo calcolo e di brucianti emozioni, ma li costituisce sul fondo, e con la perenne compagnia, dell’incertezza e del dubbio, dell’esperienza di passate e forse future delusioni. Il fatto è che non esiste una generale “scienza politica” capace di dare certezze, né Machiavelli ha mai cercato, contrariamente a quanto si continua pigramente a ripetere, di dar corpo a una simile scienza. Nulla è garantito, nulla è certo, in merito alla costruzione e all’effettiva riuscita di una buona politica. Ora, quasi alla fine di Principe XXV, in prossimità della sua conclusione, esplode in Machiavelli un dubbio radicale, “iperbolico e, per dir così, metafisico”, come avrebbe detto Cartesio. Non è più l’esitazione perplessa che aveva accompagnato tutta la stesura dell’opera, ma un dubbio devastante, capace di mettere in crisi, di “ruinare”, l’intera costruzione del Principe. No, forse non è vero che un principe, quand’anche fosse straordinariamente virtuoso, riesca a compiere l’impresa che ho preparato per lui. Lo smarrimento nasce nel punto più delicato: la fortuna è in perenne “variazione”, e questo è il dato della realtà, ma sarà l’uomo in grado di mutare se stesso, restando in sintonia con le cose, anche quando queste mutino rapidamente, ciò che Machiavelli dice “riscontro coi tempi”? Gli uomini, come hanno “diverso volto”, così posseggono pure diverso “ingegno et fantasia”, e, come esempio, Machiavelli riconduce questa disparità a due diversi tipi (prejunghiani), quello dell’”impetuoso” decisionista e quello del prudente “respettivo”. Gli esseri umani sono abituati a condursi in una certa maniera, secondo il loro temperamento, e magari sono stati fortunati nel comportarsi così; si capisce allora come siano riluttanti ad abbandonare il loro modo d’essere. Ma qui siamo ancora al dubbio “metodico”, non a quello “iperbolico”, che si ha quando si osserva che simili attitudini degli uomini non sono né scelte né revocabili, ma costituiscono un immutabile dato naturale. Così accade che, mentre i tempi variano impetuosamente, l’uomo non è in grado di mutare se stesso, non “potendo deviare da quello a che la natura lo inclina”. Si “felìcita” quando c’è un positivo “riscontro” con i tempi, una conformità tra il proprio carattere e quello di uno specifico momento storico, ma si “infelicita” quando il proprio “umore” è disforme dai tempi, sia esso impetuoso o rispettivo, ma nemmeno un uomo virtuoso come il principe nuovo può, uscendo dalla sua natura, secondare tutti i tempi. Può aver prosperato finché c’era un tempo congeniale alla sua natura, ma di necessità “rovina” quando, variando la fortuna, se ne sta “ostinato” nei suoi “modi”. Non c’è “uomo sì prudente” che sappia vincere questa sfida, un “savio” che sappia comandare “alle stelle et a’ fati”.

Per comprendere il punto di crisi, che rovinerebbe l’intero Principe, deprimendo ogni azione umana, è necessario guardare sommariamente la struttura del capitolo XXV, il più difficile, senza dubbio, dell’opera, che ospita quest’amara riflessione. Il titolo si chiede “quantum fortuna in rebus humanis possit”; è un tema del tutto nuovo rispetto al Principe, quale era stato fin qui svolto e presso che ultimato. Finora Machiavelli, pur fin troppo consapevole del peso della fortuna, aveva delineato l’eccezionale figura di un principe che sapesse duramente affermarsi sulla variazione dei tempi. Qui invece la riflessione assume un andamento filosofico, e, insomma, ci si interroga su quale sia “in universali” il potere della fortuna nelle cose umane. La premessa è molto significativa. Machiavelli riporta l’”opinione” di quanti sostengono che la “fortuna e Dio” abbiano così in mano il governo delle cose del mondo, che gli uomini, “con la “prudenzia loro, non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno”. Una simile opinione è, certo, più facilmente credibile “ne’ nostri tempi”, quando si è vista e si vede una “variazione grande delle cose”, eventi “fuora di ogni umana coniettura”. Segue una confessione autobiografica: “a che pensando, io, qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro”. Ma (“nondimanco”) l’idea fatalistica è subito rigettata, “perché il nostro arbitrio non sia spento”. Il problema è quale sia, nella storia, il rispettivo peso della fortuna e delle azioni umane. Machiavelli giudica che, all’incirca (“o presso”), la “fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre”, e che l’altra metà spetti al governo umano. E’ una partizione di necessità approssimativa, quella che aveva guidato, più o meno, la costruzione del Principe. E, del resto, chi potrebbe mai rigorosamente risolvere, con astratta ricerca intellettuale, un simile problema? Importante è sapere, come accade nel Principe, che c’è un pesante condizionamento delle cose, una durezza volta a volta data, e una possibilità d’azione, sebbene ardua anch’essa. La metafora del fiume, notissima e stilisticamente stupenda, illustra questa situazione: il fiume straripa impetuoso perché, nei “tempi quieti”, non si sono fatti “argini” e “ripari”; e così, parimenti, la fortuna “dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle”. Nessuno potrebbe dire che per questa via siamo giunti a una rigorosa soluzione del problema del peso della fortuna nelle cose umane. Machiavelli stesso oscilla, ora inclinando più verso la fortuna, ora più verso la virtù. Ma, come s’è detto, è il problema stesso che è insolubile, né si lascia razionalmente sciogliere.

Nel breve finale del capitolo, Machiavelli si riprende dall’estremo dubbio, e avanza una dichiarazione del tutto contraddittoria, in apparenza, con l’analisi subito prima svolta: “io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che respettivo”. Può sembrare solo una passionale battuta, di fronte all’ oscura complessità del problema affrontato. Ma sarei portato a darle più ampio valore. Dalla depressione si esce con umori euforici, e tanto più la prima è stata acuta, tanto più i secondi sono eccitati e “veloci”. Con la preferenza accordata agli impetuosi, i più “decisionisti”, Machiavelli riprende, nella maniera più intensa, il tema, costante nel Principe, della volontà che agisce, della virtù che sa imprimere il suo segno sulle cose. E, implicitamente almeno, affiora qui un altro problema. La domanda sul peso rispettivo di fortuna e virtù, indecidibile sul terreno razionale, può essere affrontato e illuminato solo nell’ambito della praxis. Non si tratta in alcun modo di ergere bandiere di prometeico volontarismo, di azioni senza oggetto, contravvenendo a ogni lezione machiavelliana, ma è pur vero che il duro peso della fortuna si può sperimentare e misurare solo nel lavoro dell’azione, nel tentativo non di annullarlo, quanto di operarvi dentro per mutarlo, e lasciare nella “materia” delle cose la propria soggettiva “forma”. E’ qui che si vede quanto possa la fortuna nelle cose umane.

Se, prima del dubbio, sta l’intero Principe, e se nel finale del capitolo XXV Machiavelli si riallaccia ai suoi temi più caratteristici su virtù e fortuna, nel capitolo seguente e ultimo dell’opera, nella celebre Exhortatio a liberare l’Italia dai “barbari”, si ha una vistosa ripresa di tono circa la possibilità dell’azione politica, un timbro da grande orchestra, in qualche punto persino troppo sonora. Il superamento della profonda crisi intellettuale è segnato con nettezza: “Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci torre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi”. La virtù deve riprendere il suo alto e difficile corso. La politica di Machiavelli è imprescindibile dal nesso con la storia; non teoriche e un po’ eteree dottrine devono guidare il politico, ma l’acuta consapevolezza e il senso della storia, di quella passata e, soprattutto, di quella in cui deve agire. Il Principe è “vissuto” di storia, come si conviene all’”antiteorico” Machiavelli, e nel nostro capitolo è di nuovo al centro la situazione italiana. Nel punto del dubbio radicale, era la virtù, la capacità di agire, la questione centrale, e, anzi, il solo vero problema. Ora, tornata la fiducia nella virtù, che certo deve essere sempre grande, “estraordinaria”, la prospettiva si sposta dalla parte della fortuna, del tempo della storia e della situazione delle cose. La condizione italiana, s’è detto, era pessima, è ciò è ribadito anche nell’ultimo capitolo del Principe: l’Italia è “battuta, spogliata, lacera, corsa”. Centrale è in Machiavelli, tra fortuna e virtù, l’”occasione”, un modo di presentarsi dei tempi e delle cose, che, se non trova virtù adeguata, trascorre vanamente, così come la virtù, grande quanto si voglia, deperisce e si spegne, se non trova l’opportunità di esercitarsi. Nel nostro capitolo, l’occasione sta proprio nella disperazione delle cose, quando si è toccato il fondo dell’abisso. C’è, certo, un tratto di biblico provvidenzialismo nel prospettare come “occasione” quella situazione italiana tenuta ferma, nella sua drammaticità, per tutto il corso del Principe: “el mare si è aperto; una nube vi ha scorto el cammino; la pietra ha versato acqua; qui è piovuta la manna”. Come dirà, in una sua “degnità”, Vico: “parevano traversie ed erano opportunità”. Ma. del resto, secondo il costante convincimento di Machiavelli, “tutte le cose degli uomini” sono sempre “in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino”; giunte al punto più basso, le cose non possono che risalire. E si ha qui un’altra lezione di Machiavelli. Per quanto miserevole e sconsolata sia la situazione data, conviene sempre tentare una via d’uscita politica. Molte volte, e in vari modi, Machiavelli si sofferma sul fatto che, in condizioni disperate, quando non si ha più nulla da perdere, è sempre meglio affrontare la lotta, tentando, con decisione “impetuosa”, di rimontare la china. Ma per far ciò. le sole armi della ragione non bastano. Occorre saper mobilitare con tutti gli strumenti possibili, accendere gli animi, pur predisposti dalla loro condizione al mutamento, formulare un “manifesto politico” che esprima “fanatismo d’azione”, come diceva Gramsci. Machiavelli ricorre, tra altri esempi e motivi, alla biblica lezione di Mosè, di cui s’è già vista la presenza. L’occasione nasceva dal fatto che gli ebrei erano disperati e “stiavi”, e s’incontrò con la “virtù di Moisè”, il grande condottiero che mobilitò il suo popolo, traendolo fuori dalla schiavitù.

occamQuesto testo, originariamente pubblicato sul Rasoio di Occam, ha fatto da base all’intervento sullo stesso tema realizzato da Mario Reale per l’Osservatorio filosofico.