Le promesse della Costituzione

di Luigi Pannarale

Le costituzioni sono la soluzione del grande paradosso che caratterizza il diritto dell’età moderna, che consiste nel rendere possibile l’esercizio della libertà come delimitazione che continuamente riapre possibilità di azione. Attraverso la costruzione dell’asimmetria tra legge costituzionale e legge ordinaria il diritto può fondarsi su se stesso e trovare una giustificazione plausibile al fatto che il diritto non può violare i diritti. La nostra Costituzione sembra, tuttavia, afflitta da uno strano destino: per molto tempo è stata considerata troppo proiettata verso il futuro e di difficile attuazione, per essere poi troppo presto considerata invecchiata a differenza di altre costituzioni che, invece, sembrano sopportare con disinvoltura il trascorrere dei secoli.

1. Ambivalenza delle costituzioni

Il concetto di costituzione contiene in sé un’ambivalenza, in quanto appartiene contemporaneamente al linguaggio della politica ed a quello del diritto.

La nascita delle moderne costituzioni è strettamente connesso con il processo di positivizzazione e di secolarizzazione del diritto e, in tale processo, trova la sua principale giustificazione. Il diritto deve, infatti, cercare nuovi fondamenti alla propria legittimazione, che d’ora innanzi si caratterizzerà come auto- legittimazione.

Attraverso il concetto di costituzione sistema politico e sistema giuridico cercano risposte adeguate a problemi equivalenti. Per la politica l’affermazione che lo Stato è il creatore del diritto e che il diritto trova il suo fondamento nello Stato, implica inevitabilmente la necessità di spiegare perché le decisioni dello Stato abbiano il carattere della vincolatività, in che cosa consista questa vincolatività, quali siano i suoi destinatari e se, fra essi, sia ricompreso lo Stato medesimo. Per il diritto, che segue una via opposta ma simmetrica, il problema è quello di spiegare perché lo Stato abbia la potestà di comandare ed i sudditi abbiano il dovere di obbedire, ovvero perché e come possa esistere una norma che attribuisce allo Stato una simile potestà e fa gravare sui sudditi un siffatto dovere [ref] Luhmann N., Il diritto della società, Giappichelli, Torino 2012. [/ref]

La costituzione non è, dunque, un meccanismo che esaurisce nella sfera politica il proprio ambito d’azione. Attraverso la costituzione diviene pensabile un controllo giuridico della politica: il giudizio di costituzionalità sulle leggi trasferisce dalla sfera politica alla sfera giuridica il potere di controllo del sistema politico e risolve il problema di un tale controllo attraverso il diritto. Il riferimento alla costituzione consente di comunicare giuridicamente sull’attività politica, distinguendo tra lecito e illecito, tra diritto e non-diritto.Non basta più assicurarsi un più o meno largo consenso nei confronti delle decisioni, perché vi sono dei limiti esterni alla potestà politica di decidere ed essa può essere illegittima, ancorché suffragata da un ampio consenso popolare. Vero è che anche la costituzione può essere cambiata, ma soprattutto le costituzioni rigide prevedono delle procedure di revisione tali da non consentire che i cambiamenti avvengano in modo troppo disinvolto e sulla base di emozioni momentanee; inoltre tra gli stessi costituzionalisti si discute molto circa l’individuabilità di un nucleo ristretto di norme, che si sottraggano ad ogni procedura di revisione, perché il loro cambiamento modificherebbe così radicalmente la natura stessa dello Stato, da dover essere considerato un atto rivoluzionario più che di semplice modifica della costituzione.

Considerazioni analoghe valgono anche in riferimento alla funzione che la costituzione ha per lo stesso sistema giuridico.

La positivizzazione consente di mettere in dubbio il potere vincolante del diritto o, quanto meno, di porsi il problema del fondamento di legittimazione di quel potere e dell’uso della forza che lo sostiene. Nella tradizione liberale lo Stato di diritto ha il compito di filtrare le azioni precarie della politica (relative agli interessi) attraverso il diritto. Lo Stato di diritto costituisce la formula attraverso la quale il sistema giuridico osserva il sistema politico e cerca di controllare le modalità secondo cui quest’ultimo costruisce una relazione con il suo ambiente sociale. Da tale prospettiva il carattere distintivo dell’ordinamento statuale, rispetto ad ogni altra forma di ordinamento, consisterebbe nella sua positività.

Il punto di osservazione del sistema giuridico non è, tuttavia, l’unico dal quale sia possibile osservare il processo di positivizzazione del diritto. Se si assume la prospettiva del sistema politico, la giuridificazione costituisce allo stesso tempo una restrizione ed un potenziamento delle decisioni politiche: il diritto si presta ad essere strumentalizzato dalla politica, ma allo stesso tempo restringe l’ambito delle possibilità e degli strumenti che la politica può utilizzare di volta in volta per il raggiungimento dei propri scopi. Inoltre, come è stato teorizzato dalle teorie dell’implementazione, il sistema giuridico si assume il rischio di scegliere strumenti giuridici non idonei al raggiungimento dei propri scopi. Non è un caso, quindi, che la semantica della decisione abbia avuto bisogno di una giustificazione per legittimare un atto di volontà troppo semplificato rispetto alla complessità del codice politico (soggetti, interessi, obbedienza-resistenza- comando).

La costituzione può, dunque, essere considerata la forma più diffusa e abituale di reazione del sistema giuridico alla propria autonomia, attraverso la quale esso cerca di rimpiazzare quei sostegni esterni che erano stati postulati dal giusnaturalismo. La costituzione è in grado di stabilire una gerarchia delle norme giuridiche, di sancire le condizioni della sua mutabilità e persino della sua immutabilità, ma soprattutto consente un’applicazione riflessiva della differenza tra legittimo e illegittimo al diritto stesso, poiché anche le norme giuridiche possono essere (costituzionalmente) legittime o illegittime.

Attraverso la costruzione dell’asimmetria tra legge costituzionale e legge ordinaria è possibile interrompere la regressio ad infinitum per la ricerca di un fondamento esterno, il diritto può fondarsi su se stesso e trovare una giustificazione plausibile al fatto che il diritto non può violare i diritti. Tuttavia tale asimmetria può reggersi a condizione che ne sia occultato il carattere autologico: “il codice diritto – non diritto genera la costituzione, perché la costituzione generi il codice diritto – non diritto” [ref] Ivi, p. 474. [/ref]. La soluzione del problema ha un carattere meramente operativo e le sue giustificazioni teoriche non possono che costituire il tentativo di descrivere come necessario (o naturale), ciò che è contingente (o artificiale).

2. Il futuro passato della Costituzione italiana

Rispetto a questo quadro generale, la nostra Costituzione presenta alcune specificità, sia perché essa è una costituzione scritta alla metà del XX secolo, sia e soprattutto perché essa pone fine alla tragica esperienza del fascismo e sancisce il ripristino della democrazia.

Subito dopo la sua promulgazione si pose, infatti, il problema di quali conseguenze essa avrebbe dovuto avere sulla normativa previgente, soprattutto su quella del periodo fascista. A tale riguardo un ruolo determinante fu svolto dalla Corte di cassazione, che da un lato ribadì l’antico principio secondo cui il giudice non ha la potestà di disapplicare la legge sotto pretesto della sua incostituzionalità, dall’altro operò la nota distinzione tra norme “precettizie” (a loro volta complete o incomplete) e norme “programmatiche”, attraverso la quale poteva rinviare sine die l’effettività di una buona parte delle norme costituzionali [ref] Una critica di questa distinzione si trova in S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in “Rivista del diritto commerciale”, LXV (1967), pp. 83-125. [/ref] .

Questa scelta interpretativa, però, non fu soltanto il frutto di un’ideologia di stampo conservatore, ma anche la conseguenza della novità costituita dall’introduzione dei “diritti sociali” accanto ai più tradizionali diritti di libertà. La Costituzione, infatti, non si è limitata a restaurare i diritti liberali, ma si è spinta a realizzare un’idea di cittadinanza, in cui il cittadino è visto in rapporto ai suoi legami sociali, in cui si fa strada il dovere di solidarietà: i diritti sono stati liberati dal sospetto del privilegio. La Costituzione non rappresenta più la garanzia di un ordine dato, ma il punto di partenza di un processo continuo, di un programma da realizzare, che è immerso esso stesso nelle contraddizioni della società e corre continuamente il rischio del fallimento.

Tanto più che tra i classici diritti di libertà e i diritti sociali vi è pure una differenza non trascurabile sotto il profilo economico: mentre la soddisfazione dei primi normalmente non costa nulla allo Stato, la soddisfazione dei secondi non è soltanto una questione politica, ma anche una questione finanziaria. Lo stesso Calamandrei evidenziò questa differenza, già alla vigilia della Costituente: “quando avremo consacrato in lapidari articoli, come programma minimo di civile convivenza democratica, quei ‘diritti sociali’ senza i quali tutti siamo convinti che non può esistere per il cittadino vera ed effettiva libertà politica, avremo il dovere di domandarci sinceramente quale potrà essere il significato pratico di quella proclamazione; quali mezzi avrà la nuova democrazia per tradurla in realtà; quali speranze non illusorie potrà il povero fondare su quelle solenni promesse di redenzione sociale […]. Quando ci accingeremo a risolvere il problema della giustizia sociale, forse dovremo mestamente accorgerci che ci sarà consentito soltanto di porgere alcune premesse: formulare in articoli promesse consolatrici, segnare mete che servano di faro al cammino dei figli e dei nipoti; e intanto limitarci ai primi passi, a chiedere a chi soffre di continuare, chissà per quanto, a soffrire” [ref] P. Calamandrei, Costruire la democrazia. Premesse alla Costituente, Vallecchi, Firenze 1995, pp. 108-111. [/ref].

Incominciare a prendere sul serio i principi costituzionali fu, perciò, lo strumento attraverso il quale, a partire dalla seconda metà degli anni ’60, parte della magistratura e del ceto dei giuristi incominciarono a porsi il problema di un uso alternativo del diritto, che mettesse in discussione il vecchio formalismo e individuasse nuovi modelli interpretativi più attenti all’evoluzione della realtà sociale ed ai conflitti in atto nella stessa.

La riformulazione del principio di legalità attraverso l’individuazione di una norma gerarchicamente sovraordinata introduce, però, anche la possibilità di operazioni di tipo riflessivo: la distinzione tra diritto e non diritto può essere applicata al diritto stesso. Si pensi, ad esempio, al caso in cui la clausola che regola gli emendamenti costituzionali venga usata per emendare se stessa, ovvero al dibattito sulle possibili modifiche alla Costituzione e al tentativo di immunizzare almeno una parte delle norme costituzionali dalla possibilità di venire modificate, introducendo un ulteriore gerarchizzazione tra norme costituzionali pure e semplici e principi fondamentali o “diritti supercostituzionali”, i quali come tali devono essere rispettati dallo stesso potere costituente e salvaguardati anche contro gli attentati provenienti da esso.

La crisi dello Stato di diritto di stampo ottocentesco e il passaggio allo Stato costituzionale segna contemporaneamente il passaggio dal principio di legalità al principio di legalità costituzionale, che pone al di sopra della legge, appunto, la Costituzione, destinata ad essere rigida, alla quale viene attribuito il compito di sottrarre alla decisione politica e all’onnipotenza dei soggetti rappresentativi aspetti quali la configurazione del potere pubblico, la sua organizzazione interna, la struttura dei suoi organi e ogni tipo di rapporto tra governanti e governati. Sulla base di questa distinzione di compiti le leggi ordinarie sono quelle che servono a regolare i rapporti tra i cittadini nella loro quotidianità: quelle che servono a governare secondo legalità la concreta vita sociale. Ma queste leggi ordinarie presuppongono l’esistenza e il funzionamento di organi di governo, che non solo le applichino, ma via via le modifichino e le rinnovino secondo il continuo rinnovarsi delle esigenze pubbliche; a loro volta questi organi di governo presuppongono l’esistenza di leggi, che abbiano fissato in anticipo la loro struttura e il loro modo di funzionare e abbiano distribuito tra essi l’esercizio della sovranità: queste ultime leggi si dicono appunto “costituzionali”.

3. La Costituzione tra stabilità e mutamento

Solo che anche questo modello si è presto mostrato insufficiente, poiché l’agognata unità del sistema è continuamente rimessa in discussione dal carattere positivo delle stesse norme costituzionali. Se la Costituzione deve servire a garantire l’unità del sistema [ref] G. Zagrebelski, Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992, pp. 2 sgg. [/ref], essa non può ignorare e, anzi, deve presupporre le sue divisioni e le sue incoerenze. Proprio per questo le costituzioni moderne non si presentano più semplicemente come l’insieme delle regole sui poteri o la definizione dei diritti fondamentali, ma sono utilizzate e comunicate come simboli: la Costituzione italiana, ad esempio, è il simbolo del patto antifascista, però – come tutti i simboli – rischia continuamente di diventare fragile ed invisibile.

L’improbabile unità dei sistemi giuridici, nonostante il ricorso alla differenziazione tra norme ordinarie e norme costituzionali, trova una plausibile spiegazione nel fatto che, nelle società pluralistiche, non è dato riscontrare la preventiva coagulazione di un ampio consenso sui cosiddetti “valori fondamentali”. Le moderne costituzioni non sono più il frutto di un processo deliberativo aperto, pienamente dispiegato, che coinvolga i principali gruppi, corpi costituiti e rappresentanti e che implichi la disponibilità di ognuno a modificare la propria opinione iniziale alla luce degli argomenti addotti dagli altri partecipanti e delle nuove informazioni raccolte; il caso più frequente è, invece, quello della semplice accettazione del dissenso, senza alcun tentativo di mediare le opinioni contrapposte [ref] A. O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza. Perversità, futilità, messa a repentaglio, Il Mulino, Bologna 1991, p. 171. [/ref]; non importa, infatti, che esse siano tra loro incompatibili, l’importante che siano almeno ragionevoli [ref] J. Rawls, Liberalismo politico, Comunità, Milano 1994. [/ref]. Stanti l’incapacità di ciascun partecipante di imporre il proprio punto di vista come egemonico e l’indisponibilità ad accettare come tale quello degli altri, appaiono più probabili incontri di tipo tattico, che non strategico. È noto il giudizio di Calamandrei sull’assetto di valori consacrato nella nostra Carta costituzionale: “per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa” [ref] P. Calamandrei, Questa nostra Costituzione, Bompiani, Milano 1995, p. 8. [/ref].

Il risultato compromissorio, che se ne deduce, evidenzia che l’ambiguità è un carattere essenziale della democrazia del nostro tempo; esso accresce, anziché limitare gli spazi di creatività della legge ordinaria, dal momento che sono sempre possibili combinazioni diverse dei principi costituzionali e l’accordo sulla priorità di un determinato valore, raggiunto secondo il principio di maggioranza per l’approvazione di una determinata legge, non è detto che valga anche per le leggi successive [ref] G. Zagrebelski, Diritto costituzionale. I. Il sistema costituzionale delle fonti del diritto, Utet, Torino 1997, p. 61. [/ref]. La Costituzione, nonostante sia stata impostata come costituzione rigida, è allo stesso tempo una costituzione dinamica, nella quale vi sono norme che, pur carenti di precettività, hanno “un’efficacia educativa e quasi si direbbe pedagogica”, “un carattere puramente tendenziale”; si tratta di una “costituzione che, se il popolo saprà civilmente volere, potrà accompagnarlo, senza rinunciare a libertà, verso la giustizia sociale” [ref] P. Calamandrei, Costruire la democrazia, cit., p. 7 sgg. [/ref].

Forse anche per questo accanto alla distinzione tra legge e costituzione, la dottrina costituzionalistica ne individua operativamente un’altra, almeno in parte sovrapponibile, tra regole e principi [ref] V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Giuffrè, Milano 1952. [/ref]. Mediante il riferimento ad una pluralità di principi, privi di una gerarchia formalmente determinata, si cerca, allo stesso tempo, di concepire un diritto che sia più idoneo a garantire la sopravvivenza di una società pluralista, la cui condizione è il continuo riequilibrio attraverso transazioni di valore. Solo la virtù etica, infatti, è assoluta; tra i valori, invece, che sono semplicemente ciò che è desiderabile, si può venire a patti. Il diritto per principi di valore consente una relativizzazione dell’etica; e relativizzare un’etica non significa rinunziare ad avere una propria visione del mondo, significa piuttosto avere la consapevolezza che la sopravvivenza del mondo è la prima indispensabile condizione per realizzare qualsiasi progetto etico [ref] G. Zagrebelski, Il diritto mite, cit., p. 171. [/ref].

Parafrasando Elster, si può dire che, se i delegati della Convenzione federale di Filadelfia avevano avuto come principale preoccupazione quella dell’avidità e dell’egoismo dei legislatori futuri e i delegati dell’Assemblea costituente di Parigi si erano preoccupati soprattutto della loro vanità e superbia, la Costituente italiana individuò nel dogmatismo arrogante e nello scetticismo opportunista il motivo prevalente delle proprie scelte [ref] J. Elster, Argomentare e negoziare, Anabasi, Milano 1993, p. 8 e 66 sgg. [/ref].

La soluzione di questo problema si è configurata come una continua oscillazione tra sostanzialismo e proceduralizzazione (sia pure nella sua forma più moderna della legalità costituzionale), già visibile nella concezione giuridico-politica della democrazia di Kelsen. È vero che, al contrario dello Stato etico, lo Stato di diritto non impone alcun consenso ed anzi legittima il dissenso; ma anch’esso non può non prevedere almeno un’eccezione, costituita dai diritti fondamentali, i quali sono sottratti alla legalità procedurale e alla decisione del politico. Il problema è che anche lo Stato di diritto è così costretto a presupporre condizioni forse possibili, ma altamente improbabili: prime fra tutte la revocabilità e la prevedibilità di ogni decisione.

Sembra, perciò, tornare di attualità l’insegnamento di Constant e quella che è stata definita la “teoria delusa” della costituzione: una carta costituzionale non è un patto progettuale per il futuro in una società che ha deciso di emendarsi dalle oscurità del proprio passato, ma è una secolarizzazione in termini giuridici dei meccanismi sociali dell’obbligazione politica; una secolarizzazione giuridicamente pregnante ma politicamente debole, che contraddice clamorosamente la pretesa dell’ordinamento giuridico alla stabilità, alla continuità o, comunque, ad un mutamento entro limiti e secondo procedure prestabiliti. A partire da questa consapevolezza, i principi di diritto costituzionale non possono più essere considerati principi di giustizia eterni ed immutabili, che si affermano in forza della loro intrinseca eccellenza. “Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e cambiare la propria costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future” (art. 28 della Dichiarazione dei diritti del 1793).

Unico principio, al quale è possibile riconoscere una priorità in virtù del suo carattere più universalistico, è il principio democratico: è questo principio, per i moderni Stati costituzionali, il valore dei valori; l’unico valore assoluto che essi riconoscono e che rende, quindi, tutti gli altri valori sempre contingenti e potenzialmente disponibili da parte della comunità democratica.

“La certezza ricade nella speranza; la legge che aveva la pretesa di decidere ‘il caso’ si scopre ‘caso’, a sua volta di un’altra legge”[ref] E. Resta, La certezza e la speranza, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 92-93. [/ref]

Solo che una tale consapevolezza, a mio avviso, è tutt’altro che “deludente”, perché ci conferma che la lotta per i diritti non termina con la proclamazione di una costituzione, ma ha bisogno di un impegno costante e quotidiano, perché quei diritti, una volta conquistati, siano anche difesi dai continui attacchi di quanti vorrebbero imporre altre regole ed altre logiche alla nostra convivenza. La presenza della Costituzione, per quanto rigida essa sia, non può rassicurarci una volta per tutte, ma è piuttosto un punto costante di riferimento per un impegno sociale e politico che deve rinnovarsi e arricchirsi di nuovi contenuti e di nuove motivazioni e che ci sprona ad essere parte attiva nella attuazione di quei diritti, piuttosto che semplici eredi di quel patrimonio. Si tratta di una sfida difficile, ma anche molto esaltante.

Luigi Pannarale è avvocato e professore ordinario di Sociologia del diritto nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari “A. Moro”. È componente del Consiglio Scientifico della Società Italiana di Filosofia del Diritto, vicepresidente della Associazione di Studi “Diritto e Società”, componente del direttivo dell’Italian Society for Law and Literature, direttore scientifico del Centro Studi dell’Apulia Film Commission. Fa parte della Direzione scientifica della Rivista “Sociologia del diritto” e del comitato scientifico di riviste nazionali e internazionali. Autore di saggi e monografie, tra cui Il diritto che guarda (Franco Angeli 2012), Lezioni sui diritti (Multipensa, 2010), Giustiziabilità dei diritti (Franco Angeli 2007). Ha tradotto e curato l’edizione italiana di N. Luhmann, Diritti fondamentali come istituzione (Dedalo, 2002).

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