La costituzione dell’uomo moderno, o dell’Illuminismo incompiuto

Ogni sforzo di comprensione del proprio tempo, così come ogni tentativo di analisi delle dinamiche insite nello spazio vitale che condividiamo con i nostri simili, necessita di un’indagine sulla struttura mentale e culturale dell’uomo nel proprio contesto storico.

In effetti, l’essere umano evoluto, quello che comunemente definiamo Homo sapiens sapiens, conduce la sua esistenza secondo una relazione stretta, costante e continua tra la parte invisibile della mente, interiorità ambientale, e quella visibile, esteriorità ambientale. In tutte e due le prospettive, si tratta comunque di funzionalità mentali, secondo le quali la classica divisione ecologica che concepisce l’ambiente come qualcosa di esterno alla mente umana risulta fittizia, perché per il nostro cervello ogni azione rimane, sempre e comunque, situata nell’ambiente che esso stesso crea come riferimento.

L’uomo pre-moderno era un soggetto confinato nell’intimo della propria esistenza personale, estraneo alla propria storia. L’individuo non era altro che uno spettatore, ai bordi dei sentieri attraversati da quei pochi protagonisti che segnavano le epoche esercitando poteri politici, culturali e spirituali, basando la propria posizione di predominio su giustificazioni divine e discendenze nobili.

La discendenza di sangue, la trasmissione di antichi codici linguistici, il possesso di conoscenze ristrette a pochi eletti, fornivano gli strumenti per un dominio assoluto sul resto dell’umanità, plasmando storie e tradizioni, fornendo all’identità di interi popoli l’imprimatur di poche famiglie. D’altra parte, era questo l’unico modo per conservare atteggiamenti comportamentali e mentali che producessero una superficiale idea di mutamento, nella conservazione di una tradizione che non si doveva né si poteva scalfire.

L’assolutismo politico dell’ancien regime si affermò come necessità politica all’indomani della fine delle guerre di religione [ref] Per un approfondimento su assolutismo e guerre di religione cfr. Koselleck R., 1994, Critica illuminista e crisi della società borghese, Il Mulino Editore, Bologna, 17-68. [/ref] . Con la pace di Augusta (1555), si arrivò a stabilire che l’identità degli uomini, appartenenti a una data comunità, non dipendeva più dalle tradizioni, dai costumi o dalla cultura (intesa come insieme di atteggiamenti condivisi) bensì solo dall’autorità del proprio principe. Secondo quanto stabilito dagli attori della pace di Augusta, il nuovo paradigma giustificativo del potere in uno Stato si basava sull’assunto cuius regius, eius religio. In pratica la religione, il credo, la spiritualità di ogni suddito dovevano essere gli stessi del Principe che governava. Si tenga inoltre presente, in questo contesto culturale, che ci stiamo riferendo alla dimensione palese della spiritualità, ossia a quella necessità, espressa dal potere temporale della Chiesa, di visibilità comportamentale grazie alla quale le forme di controllo esercitate trovano una loro ragione di essere. Non ci stiamo riferendo al concetto di “comunità cattolico-cristiana essenziale”, ossia al concetto di ecclesia, ma a quello più generale di Chiesa.

Proprio in nome di questa differenziazione, fra ecclesia e Chiesa, un cambio al potere, un successore convertito, un principe straniero in arrivo per l’esaurimento di una linea dinastica, costringeva il popolo ad un cambio visibile e comportamentale di fede religiosa. Questa esperienza storica non rappresentava, a nostro avviso, un’improvvisa e bizzarra decisione dei potenti di quell’epoca. Per molti secoli le gerarchie religiose avevano posto il Credo nelle Scritture al servizio esclusivo del potere temporale di Principi e Signori. In questo modo la spiritualità e la fede dell’uomo comune vennero ridotte ad un accessorio rispetto all’uso politico della Verità manifesta della religione in quanto giustificazione della sovranità. Questa riduzione della religione a strumento di potere alterò la mentalità degli uomini che non trovarono più una diretta corrispondenza tra la ricerca naturale di ognuno della trascendenza attraverso la propria esperienza religiosa, condivisa culturalmente nell’ambito di una serie di pratiche confessionali.

Un altro episodio storico di fondamentale portata esplicativa fu l’ascesa al trono di Francia di Luigi XIV. Questo giovane sovrano definiva se stesso il Re Sole, stabilendo che tutta la vita del Paese doveva dipendere unicamente dallo splendore della propria persona [ref] Non è peraltro una novità, visto che sin dal 334 a.C. la Luce, il Sole erano da Costantino rappresentati nel giorno del Natale, facendo coincidere la maschera dell’essere una persona con quella dell’essere un maschio. Un modo decisamente raffinato per convincere il “popolo che guarda ed imita” a percepire la parte come valida e legittima l’associazione tra il Sole e l’Imperatore, rendendo il secondo visibile e naturale quanto il primo. [/ref] .Grazie all’accentramento politico e simbolico, il sovrano mostrò che non c’era più bisogno della mediazione delle gerarchie ecclesiastiche per stabilire un rapporto fra politica e sudditi. Con l’avvento dell’assolutismo regio, il re era l’unto del Signore che incarnando l’idea stessa di Sovranità, stabiliva un rapporto di dominio su tutta la società umana. Non poteva che essere in questo modo, altrimenti l’associazione fra il Sole e il potere regio non avrebbe avuto senso politico-governativo, ossia non avrebbe potuto creare la necessaria diffusione di quel timore grazie al quale i comportamenti umani possono essere sanzionati secondo principi umani, propinati come divini.

Il potere politico, sciolto da ogni vincolo, avviò il processo di secolarizzazione della società umana e allo stesso tempo, livellando tutti a sudditi, generò in questi una coscienza nuova circa i rapporti con lo Stato. Da un punto di vista politico, il suddito era spinto a rinchiudersi in una sfera privata in cambio di pace e tranquillità, alienandosi così dall’interessamento alla vita pubblica, che avrebbe assunto, di lì in avanti, quelle caratteristiche professionali secondo cui la dimensione statuale è un “affare per gli addetti ai lavori”. È proprio in questo modo che il potere politico assumeva dunque una razionalità e uno scopo che in passato non aveva mai avuto. Allo stesso modo, il suddito, ricacciato nel privato, assumeva un’identità che si andava plasmando intorno alle dinamiche della nascente burocratizzazione dello Stato e della divisione del lavoro. La funzione antropologico-mentale della burocratizzazione, oltre alla implicita realizzazione di rapporti clientelari basati sulla conoscenza personale di individui di cui potersi fidare, è quella di creare un rapporto con lo Stato che sia difficile da realizzare nella sua concretezza, nella sua praticità. Quanto meno i rapporti tra le persone e le istituzioni sono semplici, realizzabili e fattivi, tanto più i singoli attori sociali si sentono estranei alla vita della propria comunità politica. Si tratta, in sostanza, della creazione simbolica, all’interno delle protosocietà contemporanee Occidentali, di quella idea di alienazione e straniamento tanto utile all’esercizio della rappresentanza politica, secondo la quale la delega politica vive e prospera sulle spalle dei cittadini.

Si sviluppa così, nemmeno troppo lentamente, una politicizzazione del sacro, che era già stato contaminato con l’idea del Re Sole, ossia del Re Luce, grazie ad una burocratizzazione che confina ogni espressione religiosa e confessionale nell’ambito della propria interiorità. Nasce, in sostanza, il religioso implicito, quello nascosto e di cui in futuro ci si potrà persino vergognare.

La trasformazione della mentalità degli uomini riguardo il proprio rapporto con il Sacro è efficacemente espressa da queste parole di Charles Taylor il quale scrive: ”in effetti, come è stato spesso osservato, un aspetto sorprendente della marcia dell’Occidente verso la secolarizzazione è che essa si è intrecciata con questa spinta verso una religione di tipo personale” [ref] Taylor C., 2004, La modernità della religione, Meltemi Editore, Roma, pg. 17. [/ref] . Grazie a questa autorevole conferma, circa la nostra riflessione, possiamo affermare che, prima ancora dell’avvento della modernità, l’uomo era preparato psicologicamente a guardare a se stesso come individuo separato dalla propria comunità e svincolato da una spiritualità condivisa.

In pratica, la nascita dell’assolutismo è stata una risposta necessaria al disordine delle guerre di religione, ma proprio nel Paese in cui questa forma di potere ha conosciuto la massima attuazione è cresciuta la consapevolezza dei sudditi di essere un soggetto politico autonomo. Questa consapevolezza sarà la base su cui si accenderanno i fuochi della rivoluzione democratica del 1789.

Nello stesso tempo, la formazione di una sacralità esistenziale implicita, crea una sorta di nuova religione, grazie alla quale diventa sempre più importante creare quella solidarietà orizzontale che prima era invece di tipo verticale. In altre parole, la progressiva esautorazione del potere sacro sacerdotale, in nome del quale il rapporto con Dio diventava sempre più personale, privato e relegato ad una valutazione della propria coscienza, ha indotto a spostare la direzione dei propri legami affettivi. Se prima erano di tipo verticale, dall’Uomo verso Dio e da Dio verso l’Uomo, ora sono da Uomo a Uomo, da sacerdote a sacerdote, ossia di tipo orizzontale, creando comunità chiuse di individui in grado di difendersi gli uni dagli altri a colpi di autoritarismi e solipsismi. Da una parte, continuava ad esistere la casta sacerdotale che comandava oramai a se stessa, e dall’altra si stava formando la casta burocratica in grado di governare la vita quotidiana dei nascenti cittadini.

L’unico spazio lasciato libero dall’assolutismo regio è stato quello della coscienza privata. Ogni uomo nello spazio pubblico era assoggettato, ma nel proprio ambito privato cominciava a coltivare una propria morale ed una propria spiritualità. In questo ambito, si è radicato e sviluppato con pazienza il movimento culturale e intellettuale che noi conosciamo come illuminismo. La politica e i suoi riti, avendo accentrato tutta l’attenzione degli uomini sul corpo mistico del sovrano, amplificarono il senso di disincanto dei sudditi. La politica e il Sacro si separarono e si distanziarono dalla vita reale degli uomini. Il pensatore che meglio di altri ha saputo interpretare questa nuova disposizione degli uomini rispetto al proprio mondo è stato John Locke. Il filosofo inglese ha descritto tre ambiti in cui gli uomini potevano misurare il proprio agire in conformità con leggi generali e universalmente valide.

Nell’ambito del rapporto dell’uomo con il sacro, Locke collocava la regola di condotta di ogni individuo secondo la legge divina che si manifestava nella natura o nella Rivelazione. Il rapporto uomo/polis era determinato, secondo il pensatore inglese, dalle leggi civili le quali, al fine di offrire protezione contro la violenza privata, stabilivano cosa fosse un crimine o quale potesse essere considerato un comportamento civilmente accettabile. Nel terzo ambito, quello dell’uomo privato, Locke collocava la conoscenza di quelle regole sociali che stabilivano, attraverso la dicotomia vizio/virtù, il peso dell’identità di ogni soggetto attivo nella Polis. La legge dell’identità era stabilita dai rapporti reciproci degli uomini, ossia quella pariteticità orizzontale di cui si è più sopra trattato; questa legge era la più forte di ogni autorità perché costringeva gli uomini a partire dall’intimo di ogni coscienza.

Il desiderio di ogni uomo di essere accettato in società è il principio grazie al quale la legge dell’opinione pubblica riesce a costringere tutti alle regole comuni. Ed ora, che si è definitivamente scoperto che Dio è pensabile oltre le forme confessionali della liturgia, e anche grazie all’avvento delle nuove forme liturgiche introdotte dal protestantesimo, la questione religiosa è relegata sempre più a quella della propria coscienza. In sostanza, Dio si è tramutato nella coscienza civile di tutti gli uomini, perdendo però quel carattere di assolutezza per cui ogni individuo crede e vuole essere apparentemente libero di avere la propria coscienza. È proprio in questo passaggio che risiede la prototipazione del relativismo intraculturale, grazie al quale ogni persona possiede il proprio dio, la propria religione e le proprie convinzioni sui vizi e le virtù. Nasce è vero il privato, ma muore il sociale, il pubblico, inteso come partecipazione sostanziale, per fare posto ad una forma di partecipazione superficiale al mondo politico e della città.

Con Locke, per la prima volta nel pensiero occidentale, un principio generale e valido per tutti nasce dal basso e non deriva da un’autorità divina o politica, con tutte le conseguenze positive e negative che tale nuova situazione intellettuale prevede. La nascente epoca moderna si apre alla consapevolezza che i significati, di ciò che è comunemente considerato un vizio o una virtù, vengano stabiliti dalla coscienza degli uomini. Una coscienza che rimane comunque e purtroppo legata alla maggioranza, altrimenti non avremmo ancora oggi bisogno di sostenerla facendo uso di corporazioni, sindacati, partiti e lobbies. È vero, Locke inaugura una nuova prospettiva pedagogica, che risulta in linea con la trasformazione che l’umanità stava conoscendo all’alba della modernità, ma è altrettanto vero che si inaugura l’avvento di quel relativismo privato e culturale che rende l’umanità sempre più sola con la propria coscienza, sempre più lontana da un Dio cui si possa assieme fare riferimento, praticamente e sostanzialmente, nella vita di tutti i giorni [ref] Per un approfondimento su questo tema cfr. Viano C. A, 1960, John Locke, Einaudi Editore, Torino, 538-544. [/ref].

In un mondo costruito razionalmente, per la difesa degli interessi e le aspirazioni dei membri della società, non era più pensabile un’educazione volta alla semplice conoscenza del linguaggio forbito e alle forme del sapere stabilito dalle autorità e dalla tradizione. Viceversa, la nuova pedagogia doveva prevedere gli insegnamenti utili per un uomo che dovesse prendere su di sé la responsabilità di governare la natura e presto la stessa società politica. Ecco perché Locke si inserisce nel novero dei pensatori che spingono per un superamento della cultura di stampo semplicemente letterario.

I contenuti di questa educazione dell’uomo moderno non si dovevano ricercare solo nei libri delle accademie, bensì era necessario che ogni individuo fosse spinto a ricercare, nel proprio mondo e nell’esistenza reale, le fonti della nuova conoscenza. Grazie a questa svolta pedagogica, l’uomo nuovo diventa un soggetto capace di interpretare il proprio tempo e comprendere il proprio ruolo nella comunità di appartenenza, pagando però il prezzo di una solitudine sempre più evidente e costitutiva. Si forma, è vero, una maggiore consapevolezza sul proprio ruolo di Uomo che decide grazie alla propria coscienza, anche liberata da soprusi umani prima gabellati come teocratici, ma nasce anche la consapevolezza della difficoltà che esiste nell’amare i propri simili, per quello che sono e non per quello che vorremmo fossero. La formazione di questa difficoltà porta, allo stesso tempo, conseguenze positive e negative. Se guardiano al positivo, questa prospettiva educa il singolo alla comprensione delle dinamiche del mondo umano, rendendolo edotto in tutti quei settori in cui la vita associata si esplica. Questo individuo, consapevole di sé e del proprio mondo, sarà anche in grado di assumersi la responsabilità di trasformare e migliorare la comunità di cui è parte attiva. Se guardiamo al negativo, questa libertà, riferibile solo alla propria coscienza, oramai privatizzata, può essere messa in discussione in tutti i modi e, di fatto, lo è anche oggi. Quando il sacro diventa sinonimo di propria coscienza, la presenza di molteplici e diverse sacralità, che oltretutto vivono nello stesso territorio geografico, possono trovare pretesti più favorevoli per alimentare conflitti e dimostrare intolleranze. Diventare figli della propria coscienza è come rinascere un po’ bastardi, perché non esiste un Padre per tutti e i Fratelli di una volta sono ora diventati uomini soli.

In definitiva, la nuova pedagogia si presenta come un’educazione alla ragione, non intesa come un’entità metafisica da cui trarre insegnamenti universali, e alla solitudine psichica: uno strumento capace di guidare il singolo alla chiarificazione dei propri desideri entro i limiti delle proprie capacità, gli equilibri della convivenza civile, alimentando allo stesso tempo difetti comportamentali e sostanziali nelle relazioni affettive.

La nascente società borghese liberale, desiderosa di cambiare le dinamiche interne al potere politico, aveva compreso che bisognava cambiare prima la coscienza degli uomini, pur pagandone un prezzo che forse, in alcune precise circostanze, oggi appare spesso alto. La leva culturale era la via maestra per la rivoluzione mentale e morale dell’umanità. È stato l’illuminismo a porre la diffusione della cultura come programma essenziale per la crescita dell’umanità; (fu) lo stesso illuminismo che ha allontanato l’Uomo da uno stesso Cielo, per porlo sotto un cielo individuale e dunque solitario.

L’obiettivo della battaglia illuminista è stato quello di creare uomini colti, abituati ad un uso critico della propria ragione, indipendenti dai pregiudizi e capaci di costruirsi un proprio ambito di analisi del reale. E ci è riuscito, ma non ha compreso quanto fosse altrettanto necessario ricreare un rapporto verticale con il significato dello stare al mondo con un senso che fosse fuori dal mondo. Affidare tutta la responsabilità delle proprie scelte alla propria coscienza, significa, alla fine, cercare di trovare altre responsabilità, perché il peso è insopportabile dalla mente del singolo. E, in effetti, è stata trovata questa responsabilità: si chiama evoluzionismo darwiniano, un nuovo modo, del tutto sacro, di attribuire alla cecità evolutiva la responsabilità delle nostre origini, in terra invece che in Cielo.

Questa battaglia non è stata una semplice schermaglia fra intellettuali. Per la prima volta si sono attivate delle iniziative reali che hanno interessato a più livelli l’intera società civile. Non solo filosofi ma anche commercianti, giornalisti e parte della nobiltà progressista si sono dedicati a diffondere la cultura in molti ambiti. L’esempio più eclatante di questo nuovo movimento di pensiero è individuabile dall’esperienza dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Quest’opera portava come sottotitolo, una dicitura che è in se stessa rivelatrice di tutta la mentalità moderna, la quale, superando la cultura umanista, dilatava il concetto di cultura a tutti gli ambiti dell’agire umano a cominciare dal lavoro [ref] Su questo argomento cfr. Cecere C., 2013, Quando il lavoro divenne un valore, in Critica Liberale, Dedalo Editore, Vol XX, n.209. [/ref]. L’Enciclopedia o dizionario ragionato delle arti e dei mestieri è un manifesto intellettuale volto alla ricomprensione dell’esperienza umana come fonte privilegiata per l’avanzamento dei singoli nella conoscenza. Lo stesso Diderot si esprime inequivocabilmente in un suo intervento sulla stessa opera affermando che: “Scopo di un’enciclopedia è infatti raccogliere le conoscenze sparse sulla faccia della terra, esporne ai nostri contemporanei il sistema generale, trasmetterle ai posteri, affinché l’opera dei secoli passati non sia stata inutile per i secoli avvenire; affinché i nostri nipoti, diventando più istruiti, diventino nello stesso tempo più virtuosi, e più felici” [ref] Diderot D., in Casini P. (a cura di) 2003, Enciclopedia, in Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, Editori Laterza, Roma-Bari, pag. 314. [/ref]. Questa affermazione ci conferma che la diffusione della cultura fra gli uomini, una cultura che sorga dal basso della varietà delle esperienze umane, è la strada maestra per sviluppare la virtù nei singoli e di conseguenza un miglioramento di tutta la comunità. Nello stesso tempo, sembra opportuno chiedersi perché non si siano trovate soluzione realmente perseguibili perché, per esempio, la conoscenza non mantenga in vita coloro che ancora oggi muoiono di fame. È forse probabile che, oltre all’indubbio valore insito nelle considerazioni di Diderot, sia necessario ragionare ulteriormente sul ruolo non tanto della conoscenza quanto della Sapienza, al fine di produrre cambiamenti comportamentali evidenti e concreti, superando il limite dei buoni proponimenti intellettuali.

La particolarità di quest’opera risiede anche in un altro aspetto che rispecchia perfettamente il nuovo modo di avanzamento della società moderna. L’enciclopedia non è stato un lavoro ristretto ad un autore soltanto ma, al contrario, ha preso forma con il contributo di parecchi intellettuali. Questa esperienza collettiva si inseriva in un nuovo modo di intendere la trasmissione non accademica della conoscenza. Non più un rapporto tra maestro e allievo, bensì si andava sempre più profilando l’importanza del confronto e della collaborazione fra pensatori, scienziati, artisti alla ricerca di una conoscenza condivisa [ref] In effetti, persino questo scritto segue lo stesso intento, essendo il frutto della sintesi intellettuale dei suoi due autori che si pongono su piani di analisi assai diversi fra loro, eppure conciliabili. [/ref]. Nello stesso tempo, nella società civile, sorgevano i caffè, i circoli culturali e i salotti dove i borghesi condividevano le conoscenze ed imparavano, discutendo sui vari argomenti, a creare comunanza di opinioni. Attraverso questo nuovo atteggiamento si è sviluppata una società in grado di alimentare una coscienza collettiva formatasi attraverso il libero confronto delle idee. Proprio così, come aveva teorizzato John Locke, una volta che l’opinione pubblica aveva stabilito cosa fosse la virtù, questo concetto diventava il principio capace di rifondare l’identità della comunità politica.

La cultura, intesa nel senso illuministico di una condivisione delle conoscenze fra gli uomini, supporta lo sviluppo di un nuovo tipo di uomo e di cittadino. Questo nuovo individuo è colui che è in grado di comprendere gli elementi della complessità del reale e possiede gli strumenti sufficienti per far sì che la propria vita possa evolvere in autonomia e si renda utile alla costruzione dello spazio collettivo. È anche vero che tale idea fondamentale del mondo illuministico non sembra presente ancora pienamente nella prassi dell’Uomo moderno Occidentale, che pare ancora fermo alla fase individuale senza essere effettivamente passato alla collettivizzazione della coscienza. Così come Jung parlava di inconscio collettivo, sarebbe forse il caso di dedicarsi con maggiore forza politica a preparare l’avvento definitivo di una coscienza collettiva visibile dei comportamenti concreti delle persone. E questo vale per l’Occidente quanto per quell’Oriente che si sta sempre più occidentalizzando…

In definitiva questo uomo moderno, capace di uno sguardo complessivo sulle scienze e sulle tecniche utili all’umanità, in grado di apprezzare l’arte e la filosofia per la loro portata di trasmissione di conoscenze, attento alla ricerca storica come fonte di riconoscimento della propria appartenenza di specie, è un soggetto incline all’amore per la ricerca, ma ancora lontano dall’amore per l’altro se stesso. Il desiderio di sempre maggiori conoscenze porta ognuno ad aprire la propria mente verso una consapevole accoglienza del nuovo, anche se non lo ha ancora reso più disponibile a riconoscere se stesso nei propri simili.

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