F. Postorino, Croce e l’ansia di un’altra città, Mimesis 2017.

 

Francesco Postorino

Croce e l’ansia di un’altra città 

Mimesis, Milano 2017, pp. 212, € 17.

 

 

 

 

 

Il presente volume Croce e l’ansia di un’altra città, di Francesco Postorino, risponde al tentativo di ricostruire il pensiero politico crociano, in considerazione dell’«incoerenza» che ne caratterizza le diverse fasi dello sviluppo. Tale punto di vista è comprensibile soltanto a condizione che si rinunci ad una visione unitaria dello stesso, a vantaggio di una lettura maggiormente onnicomprensiva del suo pensiero. A partire dall’attenta ricostruzione delle fonti e della struttura del pensiero politico crociano compiuta da Postorino, diviene possibile ricostruire il terreno storico e politico su cui si è innestato un ampio dibattito teso a ridiscutere i presupposti e le contraddizioni interne al pensiero liberal italiano. L’autore precisa come il Croce maturo, impegnato nella lotta contro il Fascismo, non possa essere in alcun modo confuso con il filosofo Croce alle prime armi, ma nemmeno con il Croce che, alla fine dell’Ottocento, introdotto da Antonio Labriola al Marxismo ne ricercava pregi e difetti. Egli non elaborò immediatamente la sua visione religiosa della libertà sin dalle prime fasi della propria riflessione, anzi Postorino addirittura ci ricorda come Croce, nell’opera Riduzione della filosofia del diritto a filosofia dell’economia, si definisse addirittura un anti-storicista. Un’importante svolta nel pensiero crociano si ebbe nel 1930, e nella fondamentale opera La storia come pensiero e azione (1938) in cui è possibile rintracciare la famosa affermazione: la vita e la realtà è la storia e nient’altro che storia. Tale momento segna il definitivo passaggio a una compiuta affermazione dello “storicismo assoluto”. Nella prima parte del volume, Postorino ci offre un ampio sguardo preliminare sul pensiero politico crociano, e in particolar modo sulla sua concezione religiosa della libertà che, come osserveremo in seguito, costituisce un importante assunto ai fini della comprensione della struttura dialettica del suo pensiero. L’autore sottolinea come tutti i differenti momenti che animano il meccanismo dialettico di Croce debbano essere intesi entro un orizzonte aprioristico, poiché essi scaturiscono da un atto di fede che costituisce l’inizio assoluto del suo dispositivo dialettico, il momento religioso. Tutto ciò si gioca lungo il filo sottile che separa la religione dalla filosofia. All’inizio v’è appunto un sentimento religioso, così come Croce lo definisce: «una libertà senz’altra determinazione», che deve essere necessariamente superato dalla filosofia: «la prospettiva religiosa è uno stadio da sconfiggere in nome della filosofia reale». Ed è questo punto che segna l’inestricabile contraddizione tutta interna alla dialettica crociana, tra il suo Sollen (atto di fede) e la libertà come determinazione, che rappresenta in quanto tale il progredire dello spirito della storia (p. 26). Se nelle intenzioni di Croce v’era il tentativo di leggere l’intera realtà, così come la storia, come una storia di libertà, ricomprendendo in sé tutti gli estremismi (marxismo, fascismo, giacobinismo etc.) in quanto considerati elementi imprescindibili alla determinazione di quella stessa libertà, non si può tuttavia non denotare un punto di rottura all’interno di questa visione. Ogni tentativo compiuto dal filosofo napoletano di eliminare qualunque impulso trascendentale, ogni residuo metafisico, pone in essere la propria incompiutezza. Cosicché, l’atto di fede (Sollen) non viene a essere eliminato dalla sua filosofia neoidealistica, rendendo in tal modo impossibile il passaggio a una più perfetta determinazione dello spirito della libertà. Ciò che permane, in quanto momento religioso, è un sentire privo di ogni altra determinazione. Una libertà senz’altra determinazione, scrive Postorino, trionfa in partenza e svilisce ogni altro genere di coinvolgimento religioso. La storia crociana, secondo l’autore, finisce dunque per determinare sempre il medesimo esito: il trionfo della libertà. L’autore chiarisce che nonostante Croce, attraverso il suo circolo dei distinti, abbia trasformato l’iniziale immanentismo in chiave gnoseologica, deve fare pur sempre i conti con un’ulteriore determinazione aprioristica; ciò poiché le componenti negative non hanno alcuna cittadinanza all’interno del suo sistema sintetico degli opposti. Nella dialettica crociana, così come per il sentimento religioso, il brutto viene ad essere immediatamente vinto e superato; in questo senso, si può dire che non vi sia alcuno spazio per l’informe, per il male, per le opere anti-spirituali della storia. V’è un’unica storia, la quale non può che fare riferimento ai quattro elementi categoriali: il bello, il vero, l’utile e il bene. Anche se il filosofo sembra riconoscere il negativo, il cattivo, all’interno della sua dialettica degli opposti, in realtà Postorino spiega, il vincitore è già deciso in partenza: è la tesi, l’essere, quindi il valore positivo della storia. Dall’analisi di Postorino emerge dunque uno scoglio aprioristico incapace di afferrare l’accadimento imprevedibile della storia. L’eccessiva aurea metafisica del pensiero crociano ci restituisce un sistema di pensiero ingessato, interamente ripiegato su sè stesso. Esso oscilla tra un momento religioso, che ripropone l’accadimento storico nel suo reale compiersi, e un altro filosofico che, nel fare i conti con il procedimento logico del sistema dei distinti, rinnega gli eventi imprevedibili della storia mediante la realizzazione di opere sempre belle, vere, utili e morali (p. 36). È importante mostrare anche la critica, riportata dall’autore nel presente volume, di Croce verso la prospettiva positivistica della storia, la quale è rea di relegare l’estetica, la poesia e il sentimento al di fuori del tracciato della storia; ma soprattutto, egli rivela quanto la storia non aneli all’assoluta generalità e astrattezza tipica dell’oggettività delle scienze fisiche. La storia non è un racconto di eventi generici e astratti, ma sempre di questo evento o di quella persona. In tal senso, Croce avverte l’esigenza di separare l’empiria dal valore speculativo, cioè di rivendicare la filosofia contro gli abusi del metodo classificatorio degli empiristi; se la prima s’indentifica con il concetto puro e le quattro dimensioni fondamentali dello spirito, invece il concetto delle scienze naturali è un finto concetto, e in quanto tale inadatto a sincretizzarsi con il particolare della storia; sulla base della presente distinzione è qui definito lo “pseudoconcetto”, proprio delle risultanze positiviste. Ossia un concetto inteso come un involucro astratto, vuoto e inutile. (p.50). Il concetto puro crociano, in parte mutuato dal pensiero hegeliano è, per certi versi, immobile nella sua dimensione ideale ma, nel medesimo tempo, in grado di divenire concreto e storico, pertanto mutevole: «la sfera categoriale è un universale che si rinnova grazie alle infinite realizzazioni delle opere storiche inscritte nel suo scenario». Il concetto deve, quindi, determinarsi come un universale che deve intrecciarsi in termini sintetici con la dimensione particolaristica della storia, affinché possa distinguersi dal guscio vuoto dello pseudoconcetto. La seconda parte del volume illustra la complessa concezione crociana della democrazia, nella fattispecie lo scontro sul piano religioso tra due fedi opposte: la fede della libertà e la fede della democrazia. La specifica adesione del filosofo alla democrazia diviene comprensibile a partire da due assunti: da una parte, il rifiuto ideologico nei confronti di una certa eredità democratica illuministica e dall’altra il tentativo di introdurre una separazione della “libertà da” dalla “libertà di”. L’autore ci aiuta a comprendere la prospettiva crociana: se il liberalismo classico promuoveva “un’eguaglianza legale” , riconosciuta all’interno di un determinato ordinamento giuridico, la quale garantiva pari dignità legale a tutti, al contrario Croce si arresta dinanzi a un’idea della comune umanità. La sua idea di democrazia viene a definirsi a partire da una coscienza della comune umanità che si sposa ad una fede di tipo liberale; tale idea non coincide con prospettive cosmopolite dal vago accento kantiano, bensì si determina a partire da una rivalorizzazione del valore umano (p. 70). Il filosofo si oppone a un certo tipo di democrazia livellatrice di chiara derivazione illuministica, che finisce per sottrarre alla libertà il suo primato per collocarla accanto ad altri principi ritenuti di pari importanza: la famosa triade liberté, egalitè, fraternitè. Postorino chiarisce come Croce non rifiuti l’ideale democratico, chiaramente a patto che questo sia incorniciato all’interno di una struttura di carattere liberale. Dell’individuo, inteso come un soggetto finito e pensato all’interno di un popolo concepito come somma algebrica entro cui smarrisce la propria soggettività, la concezione religiosa della democrazia presenta un’idea di personalità estremamente determinata e eguale alle altre, sulla base di ciò che Croce definisce un’idea minima di umanità. Ciò che Croce abborrisce è certamente il livellamento indifferenziato degli individui, dunque l’impossibilità di considerarli individualmente all’interno della forza collettiva complessiva. Per tale motivo, la libertà si rivela assolutamente incompatibile con l’ideale di democrazia: «nel silenziare i bisogni della qualità e allargare le illusioni del volgo mediante un’onda livellatrice diretta a colpire il cuore della libertà». Egli introduce una fondamentale distinzione tra la “democrazia degli ingenui” e il “liberalismo degli adulti”, tale passaggio storico si rinviene nel travaglio morale di ogni uomo, il quale prima crede di poter aggiustare il mondo (Sollen), per poi proporsi finalmente di comprenderlo e di indirizzarlo (liberalismo). In tal misura, è possibile giungere a una coscienza etica soltanto coll’irrompere della realtà e dell’universale concreto che non ammette alcun scarto differenziale tra il Sollen e lo Sein (di chiaro stampo illuminista). Il passaggio dall’ingenuità a quello del compimento del pensiero individuale segna la vittoria hegeliana di un ”reale razionalizzato”, dunque di un Sein di chi sostiene che il legno storto di derivazione kantiana non può essere raddrizzato e che il mondo va migliorato attraverso le opere di libertà. (p. 74).

Successivamente l’autore analizza la natura dello pseudoconcetto in relazione all’ideale democratico, così come è rappresentata del pensiero di Croce. L’eguaglianza non è nulla più che una finzione: l’eguaglianza serve, non è. Essa non deve essere nulla più che un finto scenario di sostegno alle opere dello spirito, quindi essa non possiede alcun valore e ne costituisce alcuna filosofia. Ciò che Postorino intende far comprendere è che, se in ambito religioso l’eguaglianza era assolutamente respinta, al contrario, in sede filosofica diviene il riscontro sintetico dell’ ”io voglio”, dell’accettazione del reale così com’è e dell’affermazione delle opere dello spirito, giacché solo in questa dimensione astratta tale concetto diviene fondamentale. La democrazia è, pertanto, tutt’uno con lo pseudoconcetto; e, in questa misura, essa contribuisce indirettamente alla legge della storia. La libertà nella sua concretezza (sintetica) non potrebbe in alcun modo sorgere sul terreno dello pseudoconcetto, tuttavia essa è sempre “auto-teleologica”, ossia ritrova il suo fine nella sua stessa libertà. Persino l’eguaglianza è soltanto un’utile astrazione e una finta molla al raggiungimento di ideali eudamonistici, tra i quali troviamo in primo luogo la democrazia (p. 77).

La democrazia, in tal senso, non è, cioè “è” soltanto in quanto produce degli effetti, tuttavia non è reale. La realtà, secondo Croce se si tiene fede al suo circolo dei distinti, è caratterizzata da quattro libertà spirituali nelle quali non v’è alcuno spazio per la finzione concettuale (lo pseudoconcetto); laddove l’opera del politico si realizza nel trovare un punto di congiungimento tra l’ideale e la realtà. In definitiva, quando Croce definisce la democrazia, non pensa affatto alla giustizia pura e né tenta di farla rientrare nel suo circolo dei distinti, ma fa riferimento alla scienza e al nodo problematico dello pseudoconcetto. Il pensatore napoletano non esclude tout court la giustizia ma intende, in altro modo, separarla dall’ideale egualitario. A dispetto dell’istanza fortemente egualitaria diffusasi nell’Ottocento, nel tentativo di istituire condizioni eguali di natura economica ed eliminare qualsiasi genere di gerarchia sociale, Croce invita a considerare il rapporto tra giustizia e egualitarismo alla luce dello pseudoconcetto. Egli crede che la giustizia non dovrebbe in alcun modo ridursi ad un’esigenza di eguaglianza materiale, perché vorrebbe dire sottoporre la realtà a uno schematismo di tipo matematico, nondimeno avrebbe l’effetto di distruggere l’individualità e la vita. La giustizia, in quanto espressione del reale, deve pertanto essere separata dall’egualità appartenente ad uno schema aritmetico e finto. Ma Croce non si limita a separare la giustizia dall’eguaglianza, bensì opera tale discernimento anche tra questa e la democrazia: essere giusti non vuol dire essere democratici. La democrazia egualitaria è definita all’interno di una prospettiva utopica, della quale gli azionisti hanno abbracciato deliberatamente la finzione. Essa, nella sua finzione, è relegata alla dimensione dello pseudoconcetto nel connotare la sua estraneità a ciò che appartiene alla vita, a ciò che è vitale. Se l’eguaglianza appartiene all’ufficio scientifico degli pseudoconcetti, al contrario la giustizia può coincidere con la categoria dell’Etica, alla libertà nella sua determinazione morale, cioè l’essere moralmente giusti vuol dire riferire un “Sì incondizionato” al progressivo “farsi” dello spirito nella storia. Da un punto di vista meramente politico, Croce non palesa alcuna ostilità nei confronti della democrazia, ma solo nei confronti di coloro che la praticano per professione. Mentre il liberalismo è un ideale morale meramente regolativo, la democrazia finisce per divenire un ideale pratico e una realtà empirica (p. 81); ed è questo che egli rimprovera alla sinistra e agli azionisti, nonché il tentativo di equiparare la libertà a una nozione di giustizia illuministica. Resta il nodo centrale della questione che riguarda la proposizione di una “democrazia liberale”, cioè il tentativo di stabilire i modi e procedure ipoteticamente utili al coniugarsi di liberalismo e democrazia.

Francesco Postorino rileva come il liberalismo di Croce sia portatore di alcune anomalie, soprattutto sul versante politico, in confronto ai risultati teorici del liberalismo classico e della tradizione liberale italiana, seppur nelle sue molteplici configurazioni. Ciò partendo dall’analisi che vede in Croce soltanto un critico del pensiero illuminista, tesi che viene smentita successivamente dimostrando quanto Croce, pur condannando l’ideologia illuminista, ne approvasse comunque i risultati storici (p. 84). Il filosofo italiano è in accordo con una certa declinazione del sapere illuministico, tuttavia ritiene che non si possa fare a meno dell’attività logica (un chiaro riferimento alla dialettica di matrice hegeliana): non è tuttavia sufficiente purificare la ragione in nome del Sollen. Occorre storicizzarla. Ciò costituisce un evidente affermazione del valore che il filosofo napoletano assegna alla ragione, a patto che sia collocata all’interno della storia; in virtù di essa lo storicismo viene a rappresentare il perfezionamento di quella stessa ragione illuministica tanto da porsi come la sua affermazione più autentica. Del resto, le parole di ammirazione che Croce dedica all’illuminismo della Repubblica partenopea e ai suoi creatori, che definisce creatori eroici di una prima coscienza civile e patriottica in Italia, dimostra quanto egli sia in parte debitore di una certa tradizione illuministica. La sua profonda adesione alla “libertà della storia” mette in risalto, su un altro versante, la tensione crociana tra lo spirito illuministico giovanile e quello romantico, nel quale è possibile collocare il pensiero liberale di Croce. Osservando le variegate posizioni sorte in seno alla filosofia azionista, si può notare come esse non siano strettamente identificabili con il cosiddetto pensiero liberal, soprattutto se si fa riferimento alla cultura del liberalsocialismo o del socialismo liberale. Il filosofo napoletano si oppone in particolar modo alla sintesi dottrinale tra liberalismo e socialismo inaugurata da Guido Calogero, che viene denunciata come un inutile tentativo progressista di aggiustare il mondo; in questo incontro tra liberalismo e socialismo, Croce oppone un netto rifiuto ad una politica egualitaria, che egli assimila all’interno di uno schema giusnaturalistico e illuministico, persino riconducendo le formazioni democratiche a questi stessi fondamenti. (p. 87). D’altra parte, Croce si muove nel tentativo di operare una netta distinzione tra la sua concezione liberale e quella egualitaria, ma anche da un liberalismo ritenuto più tecnico, in cui si rintraccia un impianto razionalistico e settecentesco orientato a coniugare i propri elementi empirici con un’ipotetica formazione democratica. Va sottolineato anche come Croce cerchi di evitare a tutti i costi una possibile identificazione tra il suo sistema politico-storicistico e quello hegeliano; l’autore evidenzia, a tal proposito, la mancata compatibilità dello stato etico e divino hegeliano con lo stato “attività” di Croce. Postorino ci spiega come molti critici abbiano mosso al pensiero liberale crociano l’accusa di essere poco utile, e quindi di essere un sistema chiuso, così costituito come un insieme di astrazioni e metafisiche che nulla hanno a che vedere con la lotta per le libertà personali e politiche. Alla luce del confronto tra lo storicismo assoluto di Croce e i maggiori interpreti del partito d’azione, è necessario procedere con cautela nel riunire sotto una medesima voce tutti i protagonisti dell’azionismo, ad esempio tra l’area azionista di sinistra guidata da Emilio Lussu e l’ala amendoliana di Ugo La Malfa e Ferruccio Parri, laddove la prima auspicava a creare un terzo partito socialista e l’altra ne prendeva rigorosamente le distanze (p. 90) Oltretutto, Croce nutriva una certa simpatia per il socialismo liberale di Carlo Rosselli, dal momento che ne osservava un certo grado di concretezza e storicità che lo riconduceva, per l’appunto, all’interno di una nuova formazione liberale, mentre d’altra parte sembrava opporsi al liberalsocialismo di Calogero e Capitini. Ciò che il volume in oggetto vuole dimostrare è quanto sia indebita l’assoluta assimilazione della democrazia ad un quadro di riferimento giusnaturalistico: la figura intellettuale di Piero Gobetti ne fornisce una buona giustificazione. Dal momento che, così come Postorino scrive, il giovane Gobetti respingeva qualsiasi affermazione giusnaturalistica per aderire ad una logica del conflitto, che egli sembrava aver pienamente attinto dalla formulazione politica marxiana, al fine della riaffermazione di un ideale della libertà avente carattere morale. Egli non soltanto prendeva le distanze dal liberalismo classico, ma intendeva salvaguardare il proprio ideale etico di libertà, ricorrendo ad uno spirito storicista che sembra allusivamente richiamarsi a quello crociano. Gobetti riconosceva nella classe proletaria un nuovo soggetto storico liberale, dato che la classe borghese aveva ormai perduto la propria vitalità. Il giovane torinese sostiene, dunque, che la vera natura del liberalismo debba essere ricercata in un azione volta al riscatto morale, ossia in un impulso conflittuale volto alla liberazione della classe partigiana. Entrambi, sia Gobetti che Croce, ripudiano qualunque ideale egualitario, tuttavia Gobetti non divinizza la storia, non accetta la realtà storica cosi com’è, questa deve altresì necessariamente esplicitarsi mediante il conflitto (p. 93) . L’autore del volume sottolinea la dura polemica innescata da Croce in direzione del Partito d’Azione, reo di celare ambizioni socialistiche attraverso procedimenti rivoluzionari. Il loro disegno liberal-progressista è, secondo Croce, destinato a fallire nel suo obiettivo riformista a causa della sua incapacità di conciliarsi con il programma socialista. Ciò nonostante, la critica mossa da Croce all’intero partito azionista appare essere priva di fondamento, sebbene la sua concezione religiosa del liberalismo e il suo disegno immanentista siano molto distanti dal liberalsocialismo promosso dagli azionisti (p. 101).

La terza e ultima parte del volume è volta ad approfondire il pensiero politico di alcuni dei maggiori esponenti intellettuali dell’azionismo. Chiaramente non li affronteremo tutti, ma piuttosto ci confronteremo in particolar modo con due concezioni, da una parte il pensiero liberal-socialista di Guido Calogero e dall’altra il pensiero liberalista di Noberto Bobbio. Nella sua opera, La conclusione della filosofia del conoscere (1938), Calogero lascia immediatamente trasparire la sua volontà di prendere le distanze dal pensiero crociano, in virtù della sua radicale riproposizione dell’attualismo di Gentile, motivo per cui l’autore lo inscrive interamente nell’orizzonte dell’idealismo italiano. Egli pone al centro del suo pensiero «ciò che per il filosofo laico costituisce la suprema necessità»: l’io, giacché non v’è alcuna realtà che sia al di fuori di esso che si possa definire nella sua specificità ontologica. L’io, secondo tale misura, sfugge a qualunque identificazione o processo dialettico. Esso si costituisce di due momenti, uno determinato in base al quale possiamo dire che una cosa sia come sia e che non sia un’altra cosa e un altro indeterminato che corrisponde a un’alterità, a ciò che non si riconosce nel tutto, «in quanto ha un limite oltre il quale c’è altro», e tutto ciò è reso possibile attraverso il pensiero che li riconosce. La libertà dell’io calogeriana non è affatto dissimile dalla struttura circolare dello spirito di Croce, a eccezione del fatto che per Calogero la libertà non costituisce un valore assoluto. In altri termini, la libertà calogeriana si estrinseca nell’incontro con la morale; v’è infatti un perenne dualismo che attraversa il concetto di libertà, tra una liberta in sé che funge soltanto da presupposto per la realizzazione di un’altra libertà ideale. La base dialettica di tale sistema morale vede l’io in quanto soggetto morale. L’io, in quanto soggetto morale, non si rinchiude nella sua dimensione egoistica bensì è proprio il desiderio di proiettarsi verso l’altro che gli permette di strutturare la base del proprio io. Affinché un’azione possa definirsi morale, è necessario che vi si presenti un richiamo all’altro. Tuttavia, tale dialettica non si limita ad uno scambio tra l’Io e il Tu, piuttosto l’Io deve educare il Tu all’importanza del Lui (p. 110). L’importanza del lui è data esattamente dal suo costituirsi come espressione di un’alterità, nonché dalla necessità del Tu, dalla configurazione determinata, a confronto con un Lui totalmente indeterminato e che attende di essere riconosciuto eticamente. Calogero, spiega Postorino, rimprovera a Croce l’indefinitezza della sua azione morale, pur simpatizzando con la sua visione storicista. La morale universale calogeriana vive in uno stato di sospensione, tra il conosciuto e lo sconosciuto, ossia in quello spazio tra il tu e quel lui che deve diventare tu (p. 111). Mentre l’infinito di Croce si divinizza e si esplica nel provvidenzialismo della storia, quello di Calogero resta sospeso nei ritmi particolaristici dell’umanità. Calogero intende recuperare dal pensiero dialettico crociano soltanto lo strumento materiale e operativo, traducendolo in altro modo, sotto una prospettiva etica. Il pensiero calogeriano, inserendosi all’interno del proprio orizzonte storico-culturale, risponde alla minaccia fascista mediante i principi del rispetto e della fratellanza. Tutto il suo sistema morale si fonda sul dialogo, concepito come la volontà di intendere l’altro, che costituisce alla maniera kantiana l’a-priori trascendentale di qualunque atto reciproco di comunicazione tra l’Io e il Tu; tale volontà d’intendere è, pertanto, un principio etico che si nutre della mia volontà: «la volontà d’intendere è una verità assoluta che neppure il diretto interlocutore potrebbe smentire». A partire da questo punto si dipana la critica calogeriana allo storicismo assoluto crociano, o ancor più specificamente, la critica che egli indirizza al logos storicista di Croce, ovvero alla possibilità che lo storicismo possa impadronirsi anche dell’aspetto etico, del momento decisivo dell’ascolto. Inversamente, il logos calogeriano deve sempre esplicarsi all’interno di una pratica dialogica, data dalla capacità comune d’intendimento dell’altro. Infine, effettuando un parallelo tra Croce e Calogero, si può dire che secondo quest’ultimo persino la comprensione della storia si può tradurre soltanto nel desiderio di comprendere gli altri. Tale struttura morale deve essere collocata dentro la cornice politica del liberalsocialismo, in riferimento alla capacità morale di intendere il “tu” calogeriano nello spazio democratico del linguaggio, esso costituisce lo scopo morale a cui ogni azione politica dovrebbe mirare. È proprio il riferimento morale al “lui”, quindi all’altro, totalmente ignorato dal liberalismo di Croce, a definire l’intero orizzonte storico-politico di Calogero: «il liberalismo è sempre dell’altro, mai di se stesso, e si deve tradurre nella giusta libertà che bisogna attribuire, con i mezzi politici opportuni all’altro.» (p. 118). L’azione politica progressista calogeriana è improntata decisamente su politiche egualitarie in favore dei bisognosi (ad esempio provvedimenti legislativi intenti a distribuire in modo più equo il reddito sociale). Se per Croce tali politiche, in considerazione del proprio contenuto economico, devono essere necessariamente sancite dalle leggi provvidenzialistiche della storia, al contrario per Calogero esse costituiscono nient’altro che un atto di riconoscimento nei riguardi del “tu”. Postorino sostiene che il realismo politico calogeriano non debba essere confuso con l’immanentismo crociano. Calogero afferma, infatti, che un partito non possa riduttivamente rifarsi a un principio pragmatico in quanto tale limitato alla contingenza dei fatti, ma che piuttosto debba ricavarsi una “terza via” di composizione dell’eterna assenza di convergenza di libertà e giustizia.                                                                                                            Osserviamo poi come, tra le file degli azionisti, Noberto Bobbio rivesta una funzione centrale, poiché egli ha il merito di aver operato un vero e proprio capovolgimento della dialettica storica crociana, sostituendo alle opere “buone” della storia il ruolo centrale della persona, in quanto centro assoluto di valori.

Pur avendo compiuto i suoi primi studi sul terreno della fenomenologia husserliana, Bobbio abbraccia presto il filone culturale del personnalisme, che lo condurrà in direzione di una concezione liberal-democratica dagli ampi accenti sociali. Egli mostrò immediatamente la sua ritrosia nei confronti del filone esistenzialista, pur giungendo, tuttavia, ad accettare un distinguo tra un esistenzialismo passivo ed un altro positivo. E quest’ultimo vuol far riferimento a una corrente filosofica nata in Italia, il cui iniziatore è Nicola Abbagnano, la quale è sì alla ricerca del limite umano esistenziale, ossia della finitudine dell’uomo, ma senza precipitare nelle tele del nulla e del nichilismo. In una prospettiva più generale, l’esistenzialismo scompagina lo storicismo assoluto crociano, mettendo al centro l’uomo, ovvero un soggetto determinato (con il suo nome e cognome e la sua fisicità), che costituirebbe il vero punto di partenza ai fini della comprensione del reale (p. 147). Ciò nonostante, Bobbio teme quella deriva “decadentistica” dell’esistenzialismo, quella di un uomo che ormai con sguardo disincantato ha annunciato la morte di dio, che ripiegato su stesso non intende più interloquire con le sofferenze dell’altro. Quindi l’uomo esistenzialista è, per Bobbio, un uomo che ha smarrito ogni ragione sociale. Ora non v’è più il “tu” calogeriano, ma un uomo nichilista, posto in difesa di sè stesso e immerso nel proprio nulla. Diversamente, l’uomo dei personalisti è chiaro, empatico e vicino al tema della solidarietà sociale, dunque pensare la persona vuol dire porre l’accento sulla questione della giustizia sociale. Sebbene Bobbio sia propugnatore di ideali neo-illuministici, egli sostiene comunque che non si possa completamente voltare le spalle all’esperienza storicista ottocentesca: il suo è, però, uno storicismo relativo, cioè liberato dalla gabbia metafisica di Croce. La persona, secondo Bobbio, deve infatti muoversi in una sfera di tensione tra il concreto e l’astratto, allorché l’astratto è quel di più, quella peculiare eccedenza custodita in ogni individuo innalzato a valore. Il neo-illuminismo di Bobbio è sorretto dalla storia, ma tuttavia senza ridursi a un’accettazione dei meri fatti della storia. Persino Croce si oppone alle teorie nichiliste, ma ciò che accomuna neoidealismo crociano ed esistenzialismo, è la medesima svalutazione dell’individuo; da una parte v’è un individuo esistenzialistico totalmente proiettato verso il nulla, dall’altra un individuo totalmente assimilato, e ridotto in pezzi, in una realtà-spirito che trova il proprio compimento nelle singole e perfette opere immanenti della storia. Ciò che emerge dall’impegno personalistico di Bobbio è l’affermarsi del Sollen, del fascino speculativo del dover essere, secondo cui la persona deve essere il centro assoluto dei valori (p. 150): «una filosofia dei valori (Sollen) che scavalca le ragioni, pur apprezzate, della storia effettuale (sein)».

È necessario notare il fondamentale passaggio di Bobbio dall’idea di una filosofia prescrittiva a un approccio di tipo metodologico, che lo avvicina all’impegno avalutativo della scienza. Ciò sembrerebbe contrapporre l’atteggiamento speculativo che caratterizza la scuola neoidealista e il metodo analitico bobbiano, nel quale sembra prevalere la componente empirica; in realtà, Bobbio non intende in alcun modo estirpare la radice del suo Sollen in nome dell’osservazione empirica e della sperimentazione positivista. La sua eterna tensione tra l’ideale e il reale dimostra quanto il suo Sollen sia inestirpabile. Egli sostiene sia necessario «essere un po’ utopisti e un po’ realisti», ossia quanto sia necessario adottare un approccio di tipo scientifico nel metodo, per poi riflettere con un approccio tendenzialmente ontologico, giacché non è possibile eliminare la tendenza naturale a crescere insita nel destino di ogni persona. In tal modo Bobbio, pur non essendo per definizione un naturaliste, giustifica sul piano storico la prospettiva del diritto naturale come uno degli elementi fondativi della costruzione di uno Stato liberale moderno. Così, se da una parte egli accoglie parzialmente il giusnaturalismo, da un’altra parte aderisce alle prospettive classiche del positivismo (l’istituto della certezza del diritto, il principio della legalità etc).

In conclusione, volendo fornire un quadro sinottico parziale del saggio, si può evidenziare come l’analisi elaborata da Postorino porti alla luce la posizione fondamentale rivestita dalla legge del Sollen, che Croce tenta inutilmente di assorbire, e di superare, all’interno del suo storicismo assoluto; poiché è proprio la dimensione trascendentale, il momento religioso, a condizionare l’operato politico del suo Partito Liberale. Nell’immanentismo crociano è presente il tentativo di oscurare qualunque prospettiva trascendentale; e mi riferisco alla critica che egli muove all’azionismo e alla sua tensione continua verso il reale che nasce dal rifiuto di un storicismo assoluto considerato privo di sostanza pratica. Il messaggio azionista nasce, infatti, dal riscontro effettuale con la realtà e con l’esperienza. Il tu devi (Sollen) calogeriano e bobbiano, e degli altri azionisti, nasce e si erge nell’agone della lotta politica e culturale contro le molteplici manifestazioni del male, dunque contro il Fascismo e il razzismo. Mentre la libertà religiosa di Croce rifugge la funzione livellatrice dell’uguaglianza, d’altro canto gli azionisti inseguono l’ideale di una libertà autentica interamente rivolta all’altro, al “tu” calogeriano, nel sentiero dialogico di un’infinita comprensione (p. 203). Sebbene gli azionisti si muovano all’interno di prospettive appartenenti alla tradizione esistenzialistica, essi non riabilitano l’immagine dell’ “uomo decadente” che, disancorato dall’impalcatura divina che ne reggeva l’esistenza e posto in una condizione di gettatezza al di fuori di ogni orizzonte di senso, va incontro fatalmente al proprio nulla. Ma sulla scorta di un esistenzialismo di segno diverso, viene posta in primo piano la persona come centro assoluto di valori. Ciò che viene a determinarsi è una visione politica, filosofica e culturale posta al confine tra lo storicismo assoluto e il pensiero nichilista, ad intrecciare l’onnicorrelativo rapporto tra socialismo e liberalismo. Infine, se il pensiero crociano nel segnare la parabola idealistica del suo liberalismo ha finito per confinare il problema sociale nell’alveare dello pseudoconcetto, gli azionisti invece si muovono nel tentativo di risvegliare la coscienza italiana dal proprio torpore, e come dal titolo del volume, da “l’ansia di un’altra città”.

                                                                                       Luigi Somma

 

 

 

 

Diritto, religione e politica nell’arena internazionale (a cura di G. Macrì, P. Annicchino, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2017, pp. 323)

AA.VV.

Diritto, religione e politica

Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ)

2017, pp. 325, € 16,15.

 

 

 

 

 

Il volume Diritto, religione e politica nell’arena internazionale prende le mosse dagli atti di un ciclo di seminari, tenutosi nella primavera 2016 presso l’Università degli Studi di Salerno. I temi trattati riguardano problematiche diverse: i rapporti fra religione islamica e costituzionalismo, le organizzazioni religiose e la rappresentanza degli interessi particolari, le c.d. “Primavere arabe”, il rapporto fra diritto e letteratura, la questione dei diritti umani, le vecchie e nuove forme di obiezione di coscienza nel panorama giuridico italiano, etc. Si tratta di temi “caldi”, su cui la società occidentale si interroga da prospettive differenti (giuridiche, politologiche, storiche) con l’obiettivo – problematico – di elaborare strategie e proposte di risoluzione massimamente condivise. Il volume si divide in due parti: la prima raccoglie tutti i contributi di coloro che hanno partecipato al ciclo di seminari in qualità di relatori ma anche quelli degli studiosi che pure non avendo partecipato attivamente ai seminari hanno comunque voluto “contribuire alla causa” con un loro elaborato. Nella seconda, invece, si è voluto riservare uno spazio alle riflessioni di giovani laureati componenti la redazione del blog “Law&Politics for Unisa” – un esperimento culturale inserito nel contesto accademico dell’Università degli Studi di Salerno. Quasi la totalità dei contributi presenti nel volume, pur affrontando questioni diverse, presentano come denominatore comune il tema del ruolo e dell’influenza giocato dalla religione nello spazio pubblico e la tutela di quei diritti umani che ne vengono intaccati. Non manca però anche l’analisi di questioni più di “contorno” che risultano utili ad arricchire il dibattito e a fare del lavoro uno strumento capace di sviluppare una coscienza critica che tenga conto delle mutate condizioni dei tempi e che sia capace di includere, senza stabilire premesse culturali escludenti, e di utilizzare categorie valoriali aperte. Fra queste il contributo di Bilotti e Placanica, che analizza la recente giurisprudenza sulla delibazione di sentenza ecclesiastica in Italia, quello di Lorenzo Zucca che, partendo dall’analisi dell’opera di Shakespeare “Il mercante di Venezia”, propone un parallelo con la società di oggi profondamente intrisa, come allora, da crescenti contraddizioni nel rapporto tra diritto, economia e religione, il contributo di Abu Salem e Fiorita che tratta della persecuzione di natura religiosa e della conseguente protezione internazionale, il contributo di Pasquale Annicchino sul diritto di libertà religiosa negli Stati Uniti d’America, quello di Antonio Ansalone che propone un approfondimento sulla possibile convivenza fra quanto stabilito dalla Cedu e i dogmi dell’Islam fondamentalista in particolare guardando a quanto accaduto recentemente in Turchia, il contributo di Ciani e Santoro che affronta il tema dell’arbitrato internazionale, il contributo di Paola D’Acunzo sulla sussidiarietà quale strumento di solidarietà e infine quello di Raffaella Ienco sulla tratta degli esseri umani nelle dinamiche migratorie.

Ritornando al macrotema della curatela, si cercherà ora di proporre una sua breve disamina al fine di individuarne le diverse prospettive di analisi e le altrettante chiavi di lettura proposte da ogni autore. Significativamente il volume si apre con una riflessione su: “La comunità globale è una società senza sacro (le religioni fuori dallo spazio pubblico)” redatta da Antonio Cecere che analizza la “preoccupante” tensione che si è instaurata fra la società dei diritti e il riemergere di nuove comunità confessionali, che tendono a chiudersi in vincoli dogmatici e a non voler riconoscere i nuovi valori più liberali della modernità. Secondo l’autore le cause di questa “lotta” fra individuo e comunità sono due: l’avvento, da una lato, del web e dei social network – e dunque di una comunicazione fra individui più immediata – e la nuova ondata migratoria dall’altra, la quale rispetto alle precedenti si distingue proprio per la presenza del web, che se da un lato permette a questi nuovi migranti di mantenere un legame continuo con la proprio comunità e la propria cultura, allo stesso tempo impedisce, secondo l’autore, una completa integrazione con il nuovo spazio pubblico in cui si trovano, creando inevitabilmente scontri e intolleranza. Con questa nuova ondata migratoria, inoltre, si è assistito ad un “ritorno del sacro” nello spazio pubblico con tutto il suo bagaglio di violenza, e dunque ad una deprivatizzazione della religione (fenomeno a cui i paesi democratici non erano più abituati). È a questo punto, dunque, che l’autore suggerisce quale soluzione “l’espulsione delle religioni dallo spazio pubblico per confinarle definitivamente al loro posto nello spazio privato. […] [In quanto] uno spazio pubblico limitato da sensibilità soggettive sarebbe la morte stessa dell’idea di universalità e di bene pubblico”. È chiaro che per l’autore non si può avere una doppia lettura dello spazio pubblico: o si va verso una società formata da uomini mossi da medesime necessità, o si rimarrà un aggregato di individui in costante lotta per le differenti credenze e culture. Dopotutto, conclude Cecere, “la libertà di critica è il fondamento del progresso dell’umanità, perché è sempre stato dalle voci dissenzienti che è partita la marcia verso un futuro migliore”.

Sulle medesime posizioni, se pure affrontando il tema della deprivatizzazione della religione in maniera diversa, si pone lo scritto della scrivente: “Riflessioni su alcune forme di obiezione di coscienza nel panorama giuridico italiano”. In effetti, pur incentrandosi in particolare sull’analisi delle forme di obiezione di coscienza rivendicate (servizio militare, aborto) e rivendicabili (obiezione dei farmacisti alla vendita della c.d. “pillola del giorno dopo” e degli ufficiali civili alla celebrazione delle unioni civili per le coppie omosessuali), e sulle possibili ripercussioni che queste possono avere sullo stesso istituto dell’obiezione, il contributo parte dalla constatazione che è a seguito del diffondersi del fenomeno della deprivatizzazione della religione – che come abbiamo già detto si tratta di una “teoria che vede le confessioni religiose allontanarsi sempre più dalla sfera privata per immettersi in quella pubblica e nell’arena del dialogo/contrapposizione tra politica e morale e che produce gravi conseguenza sul piano del già precario equilibrio fra istanze minoritarie e maggioritarie faticosamente raggiunti nei secoli” – che si è giunti a delle vere e proprie “guerre di coscienza”, ovvero allo scontro fra istanze di coscienza e alla configurazione dello spazio politico “aperto”. A seguito della deprivatizzazione della religione, cioè, si è assistito ad un utilizzo dello strumento dell’obiezione di coscienza (di per sé non problematico) “non più invocato dalle minoranze marginali ma da soggetti (spesso a caratterizzazione religiosa) che si fanno portatori di istanze tradizionali viste come prevalenti nella società […]”. Ciò a cui si è arrivati dunque è un “sistema di obiezione di massa” che produce la paralisi di norme poste a tutela di determinati diritti, e che viene utilizzato quale mera strategia politica nelle mani di gruppi e movimenti fortemente caratterizzati in senso religioso. L’obiezione di coscienza, cioè, perde i suoi connotati costitutivi di strumento strettamente individuale a disposizione delle istanze delle minoranze. Ciò che si auspica, in conclusione, è che si riesca a garantire il bilanciamento fra tutti i diritti in gioco (sia quelli maggioritari che quelli minoritari) e che si ponga fine, come sostenuto da Rodotà, a questa “pericolosa cultura dell’obiezione di coscienza senza confini, incurante dei diritti delle altre persone”.

Un ulteriore contributo che analizza, pur se non direttamente, il tema della deprivatizzazione della religione è quello di Gianfranco Macrì, “Il ruolo delle organizzazioni religiose tra libertà della formazioni sociali, tutela del bene comune e rappresentanza degli interessi particolari (lobbying). Brevi considerazioni sul persistere di alcune discrepanze lesive della democrazia costituzionale”, allorché, trattando dell’attività di lobbying condotta dalla Chiesa cattolica, si segnala il 1985 come data a partire dalla quale la Chiesa, per il tramite dell’attività di pressione suddetta, rivede a rialzo la propria posizione nello spazio pubblico italiano. “Gli anni che vanno dal 1948 al 1984 sono quelli in cui la Chiesa darà prova evidente della sua capacità di «resistenza corporativa» per il mantenimento dei propri privilegi di fronte a una società che cambia repentinamente”. Seguono le vicende, più recenti, sulla tutela dei valori c.d. «non negoziabili» (ad esempio le “radici cristiane” in Europa) e le battaglie affrontate sui temi etici. Tale posizione, ovviamente, ha determinato una “distorsione grave al circuito della democrazia (degli interessi)”, in quanto ha provocato uno sbilanciamento dell’ago della bilancia tutto a favore di quelli che sono gli interessi della Chiesa cattolica, senza assicurare, dunque, a tutti i soggetti collettivi connotati religiosamente di poter avere le stesse possibilità. Nell’ultimo decennio, però, lo spazio pubblico è profondamente mutato, caratterizzandosi maggiormente in senso multiculturale e multireligioso. Questo cambiamento, secondo l’autore, ha provocato un cambiamento nella strategia della Chiesa, che non è più indirizzata ad inserirsi nello spazio pubblico quale attore monopolizzatore del dibattito politico, ma come soggetto desideroso di orientare al “bene” la società per il tramite dello strumento della sussidiarietà. Ciononostante, risulta necessario, come auspicato nel contributo, che in Italia si arrivi ad una legge generale sulla libertà religiosa, soprattutto al fine di garantire l’uguaglianza sostanziale tra tutte le organizzazioni religiose.

Interessante anche la prospettiva che si delinea nello scritto di Filomena Albano, “Religione e diritti umani: tra conflitto e prospettive di collaborazione”, nel quale si parte dalla constatazione che in una società sempre più multiculturale e multireligiosa, è difficile riuscire a trovare per i diritti umani la giusta collocazione nel tempo e nello spazio. In effetti, oggi la prospettiva garantista dei diritti dei singoli secondo cui si sono sviluppati i diritti umani, si trova ad essere contrapposta a forme associative della religiosità che sempre più spesso fanno ricorso all’attività di lobbying per far prevalere i propri interessi. Non solo, sempre più spesso, le religioni sono causa di conflitto in ambito istituzionale per la loro tendenza (anche qui) alla deprivatizzazione. Tuttavia, la prospettiva che l’autrice vuole mettere in risalto è che le religioni non sempre rappresentano un ostacolo per la tutela dei diritti umani. Sono diversi infatti gli esempi riportati di figure religiose che si sono prodigate per la difesa dei diritti in questione: Martin Luther King, Mahatma Gandhi, Shirin Ebadi, per citarne qualcuno. Dunque, secondo quanto la Albano auspica in conclusione, “piuttosto che fare delle religioni un elemento di separazione e conflitto, bisognerebbe avvalersene per raggiungere una maggiore integrazione ai fini del consolidamento e rafforzamento di taluni diritti”.

Nel contributo di Kristina Stoeckl, “Il ruolo della Chiesa ortodossa russa nell’ambito della dottrina dei diritti umani”, si fa riferimento, invece, all’attività posta in essere dalla Chiesa ortodossa russa (Cor) per la tutela dei suoi “valori tradizionali” in materia di diritti umani. In effetti, secondo la Cor, i diritti umani, cosi come garantiti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, nascono da una realtà storica e culturale occidentale che non è condivisa da essa. Ciò a cui la Cor si oppone, in particolare, è l’adeguamento dei diritti umani ai tempi che cambiano, ovvero a quel “processo di estensione dei diritti umani nel nome del principio della non discriminazione verso gruppi e temi precedentemente esclusi (bambini, omosessuali, minoranze religiose, ecc.)”. Per la Cor, ad esempio, la prima pronuncia sul caso Lautsi vs Italia della Cedu che obbligava lo Stato italiano a rimuovere i crocifissi dalle scuole, avrebbe confermato la presenza di una cospirazione laica europea contro la religione. Da qui il dibattito – in seno alla confederazione russa – sul modo come i “nuovi” diritti umani tendono a tutelare le minoranze a scapito delle maggioranze, meritevoli invece, secondo la Cor, di una maggiore protezione.

Quello del caso Lautsi è soltanto uno dei tanti esempi di pronunciamenti della Corte di Strasburgo in materia di simbologia religiosa negli spazi comuni, che rivela una diffusa tendenza sovranazionale verso l’innalzamento dell’asticella e l’avvicinamento verso uno standard comune per la tutela dei diritti di tutti i gruppi in gioco. Tale andamento, però, sembra aver avuto una battuta d’arresto a seguito della decisione della Cedu sul caso S.A.S. vs Francia, ben analizzato nel contributo di Marco Parisi, “La legislazione francese sul velo integrale alla prova del vivre ensemble. Riflessioni sui più recenti orientamenti della Corte di Strasburgo in tema di manifestazione pubblica dell’appartenenza religiosa”. In questa particolare sentenza, infatti – nella quale la richiedente, una ragazza di origini musulmana residente in Francia, si opponeva alla legislazione francese che proibisce di indossare in pubblico il velo integrale, invocando il suo diritto a farlo in quanto scelta coerente con la sua fede, la sua cultura e le sue personali convinzioni – la Corte, se in un primo momento aveva precisato che attraverso “il ricorso al burqa o al niqab, […] non avrebbe dovuto ritenersi violato il principio della parità di genere”, come sostenuto invece dal governo francese, in un secondo momento ha preferito cambiare “indirizzo” e appellarsi alla teoria del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati membri, in quanto, secondo la Corte, si tratta di una vicenda nella quale non è “individuabile un «consenso europeo» sul divieto oggetto del contendere”. Si tratta però di una dottrina, quella del margine di apprezzamento, che “se applicata con ampiezza, pur rispettosa delle specificità sociali e politiche dei singoli contesti territoriali, potrebbe minare alle fondamenta la tutela sovranazionale dei diritti umani”. Cosi facendo, dunque, lo sforzo della Cedu volto al raggiungimento di uno standard elevato e comune nella protezione dei diritti umani potrebbe essere vanificato, in quanto si legittimerebbero delle restrizioni importanti ai diritti fondamentali delle minoranze religiose pur di salvaguardare la libertà delle maggioranze cristiane. Perciò, come sostenuto in conclusione dall’autore, il compito della Cedu, “alla luce della tutela promossa dalla Carta convenzionale in favore di un determinato diritto, dovrebbe essere quello di vegliare se un atto o un comportamento espresso da un potere statale abbia leso quel diritto. […] Se le differenze nazionali rendono necessario il margine di apprezzamento, la supervisione europea condotta dalla Corte potrebbe sminuire le difficoltà incontrate dalla costruzione di standards europei, esercitando in modo corretto e imparziale la propria funzione di controllo giudiziale della condotta degli Stati membri”.

Il lavoro di Ciro Sbailò, “I diritti di Dio. Una sfida ai fondamenti epistemologici della secolarizzazione”, invece, analizza il rapporto tra Islam ed Occidente, in particolare in relazione al problema della riespansione delle questioni religiose sulla scena pubblica sia in ambito islamico che occidentale e relativamente a come il diritto europeo debba confrontarsi con le nuove istanze culturali che ne derivano. Secondo l’autore, le istanze di carattere identitario del mondo arabo-islamico si offrono quale alternativa ai modi occidentali di governare la politica e la convivenza civile. Il diritto occidentale, dal canto suo, fatica a trovare una soluzione affinché si riesca ad allestire uno spazio pubblico di inclusione che non vada ad indebolire il complesso di valori-principi cari al costituzionalismo europeo. La caratterizzazione in senso radicale della sfida islamica e i diversi orientamenti delle maggioranze di governo dei sistemi politici occidentali, hanno portato ad una polarizzazione dell’atteggiamento nei confronti della sfida suddetta: da una parte alcuni sistemi protendono verso un “riconoscimento tout court delle istanze identitarie e comunitaristiche provenienti dal mondo islamico […] in nome del pluralismo e di una tolleranza intesi in senso letterale; dall’altro lato, si assiste ad una politica di «imposizione» della democrazia costituzionale, tanto all’interno dei confini nazionali («assimilazionismo») quanto all’esterno di essi («esportazione della democrazia»)”. Ma, come sostenuto dall’autore, trattare l’Islam alla stregua di un qualsiasi fenomeno religioso e culturale diverso, fa chiudere la porta ad ogni comprensione della sua capacità innovativa e della sua forza espansiva.

Interessante è anche il contributo “«Dabiq» e «Inspire»: magazine jihadisti a confronto” di Paolo Maggiolini e Andrea Plebani, che ci porta a conoscenza delle nuove strategie di comunicazione e dei nuovi metodi di proselitismo utilizzati da quei gruppi di matrice islamica fondamentalista (Al-Qa’ida e Isis) al fine di aumentare il numero di affiliati alla causa jihadista. Si tratta, nello specifico, di due riviste jihadiste online in lingua inglese (scelta non casuale quella della lingua inglese che permette di avere un più ampio pubblico di lettori): “Inspire” e “Dabiq”. Queste due riviste, se pur presentano percorsi, obiettivi e un pubblico simile, mantengono elementi di specificità, dovute alle diverse formazioni di cui sono emanazione. “Inspire”, per esempio, è la rivista che fa capo ad Al-Qa’ida e il suo obiettivo principale “è quello di spingere i potenziali mujahiddin residenti in occidente a prendere parte alla lotta ingaggiata contro il nemico, senza abbandonare i territori nei quali sono nati, hanno vissuto e sono cresciuti”, ovvero cerca di fornire a qualsiasi musulmano ispirato il know-how operativo per eseguire attacchi all’Occidente. “Dabiq”, invece, è la rivista che fa capo al sedicente Stato islamico (IS) e che nasce con l’obiettivo di raccontare puntualmente l’avanzamento del suo progetto politico finalizzato alla creazione di un Califfato, portato avanti chiamando l’intera umma a prendervi parte ed a dirigersi verso i suoi territori, quasi fosse un manifesto di chiamata alle armi. Queste due riviste dimostrano chiaramente come questi movimenti radicali si adeguano al progredire della tecnologia, e laddove in un primo momento l’identificazione della causa jihadista avveniva per il tramite di strumenti maggiormente tradizionali, attraverso ad esempio le azioni di reti di reclutamento o di indottrinamento, oggi un ruolo sempre più rilevante è giocato dal web, che ha fornito a questi gruppi uno spazio ideale all’interno del quale diffondere il proprio messaggio e attirare sempre più proseliti.

Ad occuparsi della materia islamica nella seconda parte del volume, invece, troviamo il contributo di Giuseppe Luongo, “Che cosa ci lascia lo «Stato Islamico»”, nel quale si analizza il nesso fra la reazione del governo statunitense agli attacchi terroristici del settembre 2001 e la nascita del Califfato. In effetti, secondo Luongo, “il Califfato è figlio delle profonde mutazioni geopolitiche innescate dalla reazione statunitense agli attentati dell’11 settembre 2001 e della relativa politica di esportazione della democrazia”. In effetti quando nel 2011 gli ultimi soldati statunitensi lasciarono Baghdad, la capitale risultava divisa in due: da un parte i quartieri sciiti protetti dalla polizia, dall’altra la comunità sunnita esclusa dal potere, ed è in questa situazione che l’Isis si insinua e riesce ad ergersi a protettore dei sunniti iracheni e siriani: “il califfo, cioè, riesce a conquistare la fiducia delle tribù sunnite perché ha offerto ordine e stabilità in una regione afflitta da un costante senso di precarietà […], riuscendo a proporsi come un’alternativa credibile a governi ritenuti corrotti e usurpatori dalle tribù […]”. In conclusione, però, sebbene lo Stato Islamico stia vivendo la sua fase discendente, Luongo pone l’accento su un ulteriore fattore che potrebbe continuare a destabilizzare quella particolare regione, ovvero “lo scontro ideologico intraislamico sullo spazio da riservare alla religione nella vita politica e sociale, in cui gli estremisti continueranno a cercare di spuntarla, creando ragioni di divisioni tra chi opta per posizioni moderate al fine di fare proseliti”.

In ultimo, alcune considerazioni attorno al contributo di Luca Mezzetti, “Le primavere arabe: bilancio e prospettive”, all’interno del quale viene svolta una puntuale disamina di quelle che sono le differenti ragioni che queste hanno prodotto, interessando, in particolare, i paesi del Nord Africa e dell’area mediorientale. Si tratta di un tema che Luca Mezzetti ha analizzato in maniera approfondita in un libro intitolato “La libertà decapitata. Dalle primavere arabe al Califfato” (Editoriale Scientifica, Napoli 2016) del quale troviamo un’accurata recensione da parte di Giampiero di Plinio proprio nella curatela oggetto di questa mia breve analisi. Secondo Luca Mezzetti, per “Primavere arabe” devono intendersi tutti quegli “esperimenti di superamento dei regimi autocratici vigenti negli ordinamenti dei Paesi islamici”, e tra le ragioni giustificative che hanno dato luogo a questi “moti” bisogna fare menzione dei livelli di democrazia, della permanenza al potere dei leader, del PIL, dei tassi di disoccupazione, dei tassi di natalità e delle tensioni di natura etnica e settaria. Gli aspetti più “innovativi”, nonché comuni a tutte le “Primavere arabe”, sono da rinvenirsi principalmente nel “profilo dei rivoltosi”, ovvero giovani in prevalenza disoccupati e senza prospettive di lavoro, frustrati sia dalla mancanza di capacità e volontà dei governi di trovare soluzioni tali da correggere alla radice sistemi economici e meccanismi redistributivi sclerotizzati, che dalla comparazione (grazie al massiccio utilizzo del web e dei social network, che è il secondo aspetto innovativo di tali proteste e che hanno funto da strumenti di propagazione delle stesse) con le condizioni raggiunte dai propri omologhi in quei contesti attraversati da eventi simili. Tuttavia, il risultato sperato, ovvero il raggiungimento del successo del costituzionalismo liberale, si è rivelato solo parziale. Una delle cause di questo “fallimento” potrebbe essere attribuita alla minaccia dell’islamismo radicale, che ha rappresentato un ostacolo per la materializzazione di una evoluzione in senso democratico in questi paesi, ed anzi che in alcuni casi ha addirittura provocato una loro involuzione conservatrice. Ciò che si rileva, dunque, è che la religione islamica produce importanti condizionamenti nell’assetto costituzionale e politico soprattutto di quei paesi che hanno mostrato una tendenza a degenerare in forme di involuzione radicale. Secondo l’autore, dunque, “ai fini dell’avvio del processo di effettiva democratizzazione, sembra imprescindibile per gli ordinamenti islamici superare la frammentazione sociale […], l’organizzazione autoritaria […], le pratiche ritualiste […]. Si impone, a tal fine, una ridefinizione del ruolo dell’Islam in seno alla politica e una progressiva autonomizzazione della religione dalla politica e della politica dalla religione, che passi anche attraverso la individuazione della sharia quale fonte di riferimento, ma non quale fonte principale o esclusiva, nel sistema costituzionale delle fonti del diritto adottato dai singoli ordinamenti […]”.

Per concludere, ciò che si evince da tutti i contributi è che negli ultimi anni si è assistito ad una sempre più rilevante presenza della religione all’interno dello spazio pubblico aperto, che ha provocato nella maggior parte dei casi, a causa soprattutto dell’aumento delle istanze cui i governi si sono ritrovati a far fronte, uno sbilanciamento della tutela dei diritti a favore delle istanze maggioritarie, o per meglio dire “tradizionali”, a discapito, perciò, di quelle “marginali”. Tale condizione, fra l’altro, pare “sclerotizzarsi” ancora di più nei paesi islamici, dove la religione ha da sempre giocato un ruolo fondamentale sia nella politica che negli assetti costituzionali.

Dunque, tenendo conto che la società di oggi tende sempre di più a caratterizzarsi in senso multiculturale e multireligioso, tutti gli autori sembrano proporre una medesima soluzione alle questioni emerse, ovvero quella di raggiungere la più piena attuazione del principio del pluralismo, nonché di riuscire a realizzare un migliore bilanciamento dei diversi diritti in gioco e di riuscire a “riconfinare” la religione nello spazio che meglio le si addice, quello privato.

Milena Durante

 

VIDEO LIBRO – Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci 2016.

VIDEO LIBRO – Diversamente uguali. Noi, gli altri, il mondo, Paoline Editoriali Libri 2016.

VIDEO LIBRO – Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza 2002

A distanza di quasi vent’anni, Laterza ripubblica in versione notevolmente ampliata “Il revisionismo storico. Problemi e miti”, di Domenico Losurdo. Un testo che, con una mole impressionante di aneddoti e riferimenti, spiega ampiamente come e perché a scrivere la Storia sono sempre quelli che vincono. Con buona pace di quella vittima designata che è la Verità. Domenico Losurdo, professore emerito di filosofia a Urbino, ci spiega i tratti salienti della nuova edizione del suo grande classico.

F. S. Trincia, Freud, La Scuola 2014

 

Francesco Saverio Trincia

Freud

La Scuola, Brescia 2014, pp. 480, € 26.

 

 

 

Nel concludere nel 1925 la sua Selbstdarstellung, Sigmund Freud definiva “frammentario” il lavoro svolto durante tutta una vita, un’esistenza, di cui proprio questo lavoro – e cioè la creazione e la definizione della scienza psicoanalitica –  rappresentava l’inscindibile “contenuto”[ref]S. Freud, Autobiografia, in Opere, Boringhieri, Torino 1978, vol. X, p. 137[/ref]. Scoraggiando, com’è noto, i tentativi di chi voleva scrivere una sua biografia, Sigmund Freud metteva implicitamente in guardia coloro che in futuro avrebbero tentato  di ordinare la forma frammentaria di quella Wissenschaft der Seele, la “scienza dell’anima”, che egli consegnava non solo agli psicoanalisti e agli uomini di scienza, ma all’umanità tutta.  Non che Freud respingesse la sistematizzazione della psicoanalisi e l’esibizione del suo sviluppo progressivo attraverso l’ampliamento delle sue definizioni – al contrario, riteneva che la nuova scienza psicoanalitica dovesse fondarsi proprio a partire da alcuni distinguo fondamentali, nonché affermarsi di contro alle numerose obiezioni che le venivano rivolte da più parti; la frammentarietà in questione si riferisce piuttosto alla consapevolezza freudiana che la “rivoluzione psicoanalitica” – sebbene sorretta da una teoria faticosamente fondata ma ampiamente illustrata e giustificata, e dunque in certo senso completa –   fosse al tempo stesso ancora tutta da fare. Richiamando questa impossibilità di rivolgere uno sguardo definitorio alla sua opera, lo stesso Freud dichiarava la non terminabilità dell’opera psicoanalitica, e cioè l’inesauribilità del contributo che essa, una volta per tutte, forniva al mondo della scienza e della cultura, ben oltre le forme storicamente determinate che questa scienza e questa cultura avrebbero assunto nel tempo. La consapevolezza che la psicoanalisi aveva aperto la strada ad un progresso conoscitivo e razionale senza confronti, e quindi mai superabile, implicava un pensare la psicoanalisi come una grande operazione culturale, che in quanto tale travalicava i confini della storia; Freud invocava in qualche modo la possibilità che la sua psicoanalisi potesse investire la cultura, l’idea di cultura, in una maniera sovratemporale e proprio per questo insuperabile.

L’ultimo libro di Francesco Saverio Trincia, Freud (La Scuola 2014), accogliere pienamente questa idea  – quella di un innesto definitivo, ma sempre da riattivare,  della psicoanalisi, del logos psicoanalitico, nel mondo della cultura –  e sceglie di restituirla attraverso un’analisi puntuale delle opere più significative del corpus freudiano, di cui quel logos costituisce l’anima vitale. Ma a partire da una premessa fondamentale:

«Ogni ricognizione, ogni giudizio, che si aggiungano ai tanti già dati del pensiero freudiano, presuppongono una sorta di scelta di fondo, una collocazione riconosciuta ed esplicita all’interno di un orizzonte problematico, di una certa cultura capace di pre-condizionare il confronto teorico» (p.6). Con queste parole, che introducono alla sezione del testo intitolata Biografia, Trincia si colloca esplicitamente all’interno di un orizzonte interpretativo del pensiero e della figura del padre della psicoanalisi, rispetto al quale è una premessa di metodo ad emergere come essenziale: non si dà confronto puro o neutrale con Freud, a patto di non volerne praticare un uso scolastico e scolasticistico ,ma piuttosto si dialoga con Freud – e insieme con il logos psicoanalitico –  sempre a partire da uno spazio concettuale definito, all’interno del quale pensare psicoanaliticamente, con Freud e dopo di lui, significa riattiavare sempre di nuovo la creatività che è strutturalmente connessa a questo pensiero.

Il testo completa e rappresenta, ma in un senso non immediatamente ovvio, il precipitato dei lavori precedenti che Trincia ha dedicato a Freud e alla psicoanalisi, frutto di una costante attenzione scientifica al problema del rapporto tra filosofia, in particolare fenomenologica, e psicoanalisi freudiana; si ricordi, per citare solo due tra i numerosi contributi che attestano dell’ampia frequentazione freudiana di Trincia, i volumi Husserl, Freud e il problema dell’inconscio (Morcelliana 2008), e Freud e la filosofia (Morcelliana 2010).

Freud è dunque un libro su Freud scritto da un filosofo, che tuttavia non mira a deformarne filosoficamente la fisionomia ma piuttosto – e a partire dalla convinzione fondamentale per cui questa stessa filosofia è costitutivamente mancante nell’esercizio dell’afferrare il cuore pulsante della psicoanalisi – mette in luce come dall’ analisi delle opere emerga la potenza concettuale del discorso.  Per questo motivo, verrebbe da collocare questo “profilo freudiano” tra quei testi, alcuni dei quali letteralmente fondanti per la cultura filosofica del secolo scorso, nei quali la lettura di Freud è esplicitamente condotta a partire da un filtro filosofico –   uno fra tutti, il celebre Saggio su Freud di Paul Ricoeur, con il quale Trincia condivide molte delle premesse teorico-ermeneutiche di fondo, e al quale non manca di richiamarsi più volte nel testo -; ma questa collocazione sarebbe se non errata, certamente parziale.

Il Freud di Trincia è, più di ogni altra cosa, una guida, ampiamente leggibile, al pensiero freudiano, stilisticamente immaginata e strutturalmente concepita per informare ed offrire una comprensione di ampio respiro su tutto ciò che di Freud deve essere conosciuto e studiato; la sua intenzione sintetica si accompagna all’approfondimento analitico proprio della filosofia e la rende per questo un’ottima introduzione che parla ai filosofi interessati alla psicoanalisi, agli psicoanalisti, agli studenti e in generale a tutti coloro che partecipano e perseguono l’idea che dalla psicoanalisi derivi un pensiero a tal punto radicale da non poter essere ridotto, né tantomeno obliato.

Così, il testo si presenta in un certo senso isolato dai saggi precedenti, i quali, come accennato, puntavano direttamente alla questione del rapporto tra Freud e la filosofia, ma insieme strettamente legato ad essi: si potrebbe dire che laddove nei due saggi citati si esprimeva era una certa volontà dell’autore di offrire le vie tracciabili, e le coordinate possibili,  del dialogo tra il filosofo e Freud, l’ultimo libro è in un certo senso l’incarnazione stessa di questo dialogo. Ora Trincia fa parlare le opere stesse, venendo così a “praticare”, in questo lasciar parlare, l’idea per cui il confronto teorico-filosofico con Freud è necessario, in quanto sono i concetti stessi ad evocare la filosofia, ma al tempo stesso impossibile, qualora esso dimentichi che le opere sono la trama stessa di quei concetti. Il testo di Trincia riesce in altre parole a combinare sapientemente l’ispirazione filosofica che regge la lettura critica delle opere, e le opere stesse che riemergono così, svuotate di ogni significato che le renda meri contenitori di ciò che Freud ha scritto e pensato; questa peculiarità del testo è una peculiarità di stile (filosofico) che riflette l’idea per cui è l’andamento del testo, il suo stile appunto, a segnalare la sostanza del pensiero cui questo stile si riferisce: «Uno stile», scrive Recalcati, «è il modo di dare forma a una forza, di rendere il sapere vivo, agganciato alla vita, di abitare un’etica della testimonianza che rifiuta qualunque criterio normativo di esemplarità»[ref]M. Recalcati, L’ora di Lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino, 2014, p. 104.[/ref].

Se gli scritti di Freud sono il tessuto nel quale si innerva il pensiero psicoanalitico, Trincia restituisce alle opere la loro dignità di oggetti che pre-esistono e resistono a qualsivoglia tentativo di interpretazione che tenti di eliminarne l’autonomia : alle opere in quanto oggetti, alle opere in quanto “contenitori” di oggetti psichici, si deve quello che altrove, riferendosi a ciò che propriamente si attiva nel lavoro analitico, Trincia ha definito “il rispetto verso l’oggetto analitico che, sottoposto al rischio di una interpretazione “gratuita” o parziale, viene ancora rinviato alla sua attualità di oggetto analitico”[ref]F. S. Trincia, Oggetti vagabondi. La psicoanalisi e l’etica, in «Iride», 67 (2012), p. 65[/ref].

Di questo testo va inoltre segnalata l’assoluta originalità, che lo rende l’unica proposta editoriale, all’interno del panorama europeo della bibliografia dedicata al maestro viennese, che ne ripercorre interamente il pensiero e lo scandisce attraverso  la biografia e l’analisi degli scritti fondamentali cui sono efficacemente corredate un’illustrazione delle categorie chiave ed una importante storia della ricezione.

Tutti gli snodi teorici fondamentali, dagli Studi sull’isteria (1892-95) a L’uomo Mosé e la religione monoteistica (1934-38), i più significativi tra i saggi e i casi clinici, sono ripresi per essere chiariti; il testo risulta essere così uno strumento prezioso che orienta il lettore all’interno di quel territorio sconfinato ed affascinante che è costituito dalle opere di Sigmund Freud, e al tempo stesso lo mette in contatto con la dimensione più profonda, e inesauribilmente produttiva del pensiero psicoanalitico. Ciò accade in virtù del fatto che Trincia è riuscito ad evitare i possibili  rischi che pure minacciavano il difficile progetto di scrivere un profilo freudiano: quello di cedere al nozionismo ed alle facili schematizzazioni e di perdere, di conseguenza, il senso complessivo di un corpus di ineguagliabile fecondità e bellezza letteraria. Freud è in definitiva una importante occasione per riaprire un dialogo, quello con il pensiero psicoanalitico, che non dovrebbe mai smettere di essere praticato, un dialogo che non deforma né tradisce soltanto nella misura in cui riconosce che si tratta di “un pensiero che resta estraneo e straniante, e che proprio per questo invita ad una interlocuzione sempre nuova, sempre difficile, sempre nuovamente difficile” (p.461).

Simona Viccaro

V. Chiti, Tra terra e cielo. Credenti e non credenti nella società globale, Giunti 2014

 

Vannino Chiti

Tra terra e cielo. Credenti e non credenti nella società globale

Giunti Editore, Firenze 2014, pp. 192, € 14,00.

 

 

 

 

 

Vannino Chiti dedica il terzo volume della sua produzione editoriale al dialogo tra le istanze del mondo laico e i valori di quello confessionale, dopo la proposta programmatica veicolata in Laici & Cattolici (Giunti, 2008) e il contributo, già approfonditamente arricchito di spunti internazionalistici e ricostruttivi, emerso in Religioni e politica nel mondo globale. Le ragioni di un dialogo (Giunti, 2011). Ben oltre la ripartizione redazionale del volume, in cinque saggi, intimamente coesi, che rende il testo più accessibile e coinvolgente anche nei passaggi logici più complessi e articolati, sono essenzialmente tre le direttrici attraverso le quali si sviluppa il ragionamento di Chiti: il rinnovamento ecclesiastico che la Chiesa è spinta ad abbracciare dallo stesso Magistero di Papa Francesco, la pluralità di opzioni dialogiche che vanno emergendo nella cultura e nella politica islamica, a dispetto di una rappresentazione massmediologica ancora troppo ferma al mero resoconto cronachistico degli episodi più gravi e luttuosi, il ruolo dell’Europa nel contesto globale e le difficoltà in cui è costretto a muoversi l’ancora incompiuto processo costituente europeo. Quanto al primo aspetto, Vannino Chiti prende le mosse dall’oggettiva epocalità della rinuncia di Benedetto XVI: più che volerne fornire quella lettura persino di taglio escatologico, ad esempio accolta da Giorgio Agamben (Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, Laterza, Roma-Bari, 2013), Chiti evita la capziosa invocazione di continuità o, piuttosto, di cesura tra i due Pontefici e, facendo ciò, riesce a dar conto con lucidità dei punti più genuinamente innovativi che stanno emergendo nella prassi di Francesco. La costante attenzione al social divide che spacca in due anche quelle parti di mondo globale che erano abituate a minime forme di omogeneità reddituale, la scelta di procedere ad un prudente riformismo legislativo ecclesiastico, basato sull’adozione di pratiche consultive larghe (ma, negli esiti, sin qui, di segno progressivo), la rivendicazione dello spirito del Concilio Vaticano II e la necessità di riprenderne i profili attuativi laddove essi erano stati interrotti e mai finalizzati. Nel far ciò, si apprezza particolarmente che Chiti non voglia cedere a rappresentazioni “sentimentali” del post-concilio, preferendo piuttosto concentrarsi su quelle testimonianze, solo apparentemente marginali, che hanno garantito la sopravvivenza della novità conciliare nell’ordinamento e nella pastorale ecclesiale. In proposito, sono rare, rispetto alla pubblicistica recente, e, perciò, da rilevare le pagine del testo dedicate a Don Enrico Chiavacci e a Don Ferrero Battani (pp. 63-68). In special modo, la riflessione di Chiavacci, nata essenzialmente nel campo della teologia morale, si proponeva come una paziente elaborazione alternativa alla tradizione dottrinale, soprattutto in quell’insieme di questioni chiamate, censurabilmente, “eticamente sensibili”. La quarta di copertina del volume, stringata e di cristallina significatività, sembra un evidente tributo all’insegnamento di Chiavacci, del resto: credenti e non credenti hanno un riferimento comune: il primato della coscienza. Questo primato fonda la qualità dell’agire, sia per chi crede in Dio, sia per chi non ha e non cerca la fede. E non è un caso che di Chiavacci si ricordino, ancorché spesso de relato e, invece, ben più analiticamente nella ricostruzione di Chiti, le posizioni in tema di aborto (essenzialmente finalizzate a una legislazione rigorosa e di garanzia, volta ad assistere i diritti della donna e la tutela sociale della maternità, come pure si intestava la legge n. 194 del 1978) e di celibato ecclesiastico, dove il profilo dell’A. considerato non era, forse, quello dell’esplicita rottura, ma certo di un ripensamento che avrebbe potuto e dovuto essere condiviso e incoraggiato. In una Chiesa che voglia recuperare prospettive del genere, Papa Francesco è guida preziosa, anche quando le posizioni in concreto veicolate paiono sostenere un orizzonte teorico non del tutto inedito. Ad esempio, non ad una visione positivistica del dialogo interreligioso, punta Francesco, sebbene a uno spirito di concordia e di cooperazione che si sostanzi precipuamente nel riconoscimento degli interlocutori altri, della loro rilevanza esistenziale e spirituale per i rispettivi seguaci, nell’individuazione delle opzioni di reciproca collaborazione sui tanti scenari di guerra (innanzitutto, la Siria), dove il movente religioso è spesso il travisamento opportunistico di un conflitto eminentemente politico-economico. E bene fa Chiti (pp. 103-113) a ripercorrere le tappe più significative, anche sotto il profilo, ahinoi, militare delle cd. primavere arabe: agitazioni popolari che sin qui non sono riuscite a produrre una classe dirigente in grado di governare la trasformazione con quello spirito di liberazione (altri direbbero: costituente) che l’intero popolo medio-orientale da decenni esige, a prescindere da quale fazione sia, volta per volta, alla guida del tutto. Da osservatore della politica internazionale, oltre che da cultore della geopolitica, Chiti non può non osservare come in Egitto e in Tunisia (pp. 105-106) il ruolo svolto dai Fratelli Musulmani sia ancora lontano da potersi valutare serenamente. La presa del potere, se interpretata come supremazia (nemmeno “egemonia”, in senso gramsciano, nell’immaginario popolare o, per dirla con Chomsky, nei meccanismi di produzione del consenso sociale), è stata, sin qui, anche e prevalentemente l’esclusione delle forze, nient’affatto minoritarie, che all’interno dell’Islam ben conoscono quali siano le sfide in atto. Ad esempio, il rifiuto della tradizionale querelle tra l’interpretazione letterale e l’interpretazione sistematica ed evolutiva del Corano (una diatriba che sarà per la cultura mediterranea e medio-orientale ben più significativa di quanto lo fu quella tra sinistra e destra hegeliana per la genesi del costituzionalismo continentale) e l’apertura al tema dei diritti umani, non più tarati sulla pedissequa riproposizione delle categorie elaborate nelle Carte internazionali, successive alla conclusione della seconda guerra mondiale, ma nell’ottica di apprezzare specificamente le realtà territoriali più coinvolte nella sfida della modernizzazione di un’immensa area socio-geografica. E Chiti non cerca equilibrismi, anzi prende posizione, fornendo una lettura pacata eppure incisiva: chiama sul banco degli imputati la politica occidentale (in Libia, ad esempio, dove le macerie sono state fonte di appetiti interni agli stessi rapporti di forza nella governance europea tra Francia, Inghilterra e Germania) e invoca quello splendido, ricchissimo, multiforme, filone di studi che è chiamato, non senza qualche forzatura occidentalistica, “Islam della Liberazione” (pp. 131-137 e, in questo stesso contesto, con l’ambizione di una riflessione di massa dell’Islamismo sui diritti della donna, pp. 138 e ss.). Non si può prescindere, per Chiti, dall’insegnamento di Gharbi Kacem, di Hassan Hanafi, di Mohammed Taha e, per capire le dinamiche del subcontinente indiano, sospeso tra modernizzazione, sopravvivenza del sistema delle caste e radicalismi di marca tanto hinduista quanto islamista, di A’la Mawdudi. Ed è così nelle pagine conclusive del volume (pp. 180 e ss.) che si rinvengono le più evidenti proposte pratiche, dopo essersi volti al cielo e al modo tutto terrestre con cui l’interpretazione del cielo è strumento per governare la terra. Per Chiti, l’attuale empasse nella politica europea (non solo economica) è una ferita aperta, che può essere sanata solo e soltanto in modo netto, chiaro. Innanzitutto, deponendo le pretese degli Stati nazionali nella guida della governance: nessuno dei cinque maggiori Stati membri della UE avrà nei prossimi 30 anni la stessa collocazione nella gerarchia economica planetaria. O si esce dalla crisi con un progetto culturale e integralmente politico comune, e l’Unione diviene il terminale sicuro e affidabile per le istanze locali, anche quelle micro-regionali (altrimenti abbandonate alla propaganda bieca di separatismi xenofobi e improvvisati, solo raramente fondati sul piano sociale e spesso basso tema di -inutile- rivendicazione politica), o lo smembramento è destinato ad avvenire in ordine sparso: ordine sparso in cui l’Italia rischia di essere capofila del patibolo e non economia civile in grado di resistere, alla pari, con gli altri attuali membri non europei del G20. Europa Federale, allora! La delocalizzazione del meccanismo decisionale proposta da Chiti è ben diversa da quella del dumping sociale in economia, ove si ricercano le materie prime, anche umane, al minor costo più che al miglior prezzo, perché si pone il problema dell’individuazione delle linee di indirizzo in modo chiaro, durevole, non contingente. Terra e cielo, le economie in sofferenza e le religioni reciprocamente sospettose l’una dell’altra, possono e devono unirsi in un progetto federalista europeo: meno barriere all’immigrazione e diretto coinvolgimento istituzionale dei Paesi extracomunitari più interessati ai fenomeni di emigrazione, modalità di coinvolgimento popolare ampie e meditate (quelle procedure consultive che, col rigore tecnico del caso, suggeriva già David Held nel celebrato Modelli di Democrazia), adesione a un progetto di pacificazione che dal semplice perimetro continentale, dove pure è stato tendenzialmente attuato, sappia arrivare all’ordine globale. A patto che questa Europa federale, laica e plurale, sostenitrice delle libertà religiose, non sia un perenne altrove. Siamo, al contrario, in presenza di un doveroso e indefettibile oggi.

Domenico Bilotti

M. Ventura, Creduli e credenti. Il declino di Stato e Chiesa come questione di fede, Torino, Einaudi, 2014.

 

Marco Ventura

Creduli e credenti. Il declino di Stato e Chiesa come questione di fede

Einaudi, Torino 2014, pp. 233, € 18.

 

 

 

L’Italia è un paese dove la concettualizzazione, prima ancora che la trattazione, della questione religiosa come problema politico (che và ben oltre, dunque, lo specifico dei rapporti tra Stato e organizzazioni religiose) riveste maggiore complessità che altrove (USA e diversi paesi europei) stante la perdurante incapacità a livello istituzionale e normativo di declinare la libertà religiosa come libertà giuridica in un contesto “politico” ispirato al pluralismo culturale, dunque come «fine» costituzionale (la Costituzione come «strumento teleologico»). Sul piano generale delle libertà, e della libertà religiosa in particolare, il nostro apparato politico-ordinamentale ha sempre “faticato”, tranne qualche parentesi virtuosa e limitata, a considerare gli individui dal punto di vista delle loro “domande” libertarie – ponendo attenzione al «ripetersi delle ingiustizie» [ref]A. Dershowitz, Una teoria laica dell’origine dei diritti, Torino, 2005, p. 11[/ref] preferendo, piuttosto, concentrarsi su una “gestione” dei processi di integrazione democratica fortemente influenzata in chiave “verticistica” per meglio assecondare gli interessi organizzati più forti, i soli capaci di inserirsi nel circuito ristretto della mediazione più «alta e complessa». La causa di tutto ciò è da ricercare, in buona parte, nella crisi dello Stato legislativo-parlamentare e nel progressivo ampliamento del ruolo del Governo [ref]R. Di Maria, Rappresentanza politica e lobbying: teoria e normativa. Tipicità ed interferenze del modello statunitense, Milano, 2013, pp. 28 ss.; G. Di Cosimo, Chi comanda in Italia. Governo e Parlamento negli ultimi venti anni, Milano, 2014, pp. 93 ss.[/ref]. Sul fronte, invece, specialistico delle dinamiche tra poteri pubblici e confessioni religiose, questa ri-configurazione dei rapporti interni alla forma di governo “riflette” analoghe declinazioni di ordine sia politico che giuridico, nel senso che la materia c.d. “pattizia” (artt. 7, comma 2 e 8, comma 3 Cost.) ha progressivamente “assorbito” nel circuito della trattativa (di vertice) sia la disciplina di materie un tempo riservate alla normazione unilaterale statale, sia quella relativa ai diritti fonda­mentali di libertà, comprimendo la portata di altrettanti importanti principi costi­tuzionali. La questione, perciò, è di metodo, il cui attuale alto tasso di rigidità politico-normativa appare non idoneo a raccogliere l’«inesauribile quantità di significati della libertà religiosa» [ref]M. Ricca, Art. 19, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Commentario alla Costituzione, Torino, 2006, Vol. I, pp. 420-440[/ref], sia a livello statale (nelle sue diverse articolazioni) che sovranazionale (EU e CEDU).

Questa premessa serve, nelle intenzioni dello scrivente, ad “apparecchiare” il complesso e affascinante ragionamento che Marco Ventura svolge nel suo Creduli e credenti. Il declino di Stato e Chiesa come questione di fede (Einaudi, 2014). Un libro, scritto sì da un giurista pubblicista, ma destinato anche a una platea di lettori che va ben oltre la cerchia ristretta dei cultori del diritto pubblico e dello stesso diritto canonico (materia che l’Autore insegna, insieme a diritto e religione, nelle università di Lovanio e Siena), in quanto la trama che attraversa sottilmente l’opera esprime una sensibilità culturale parecchio elastica, espressiva di un bagaglio di conoscenze proprie di chi ha saputo affinare nel tempo l’osservazione della realtà senza farsi sedurre da finzioni precostituite e alla ricerca di “alternative” integratrici del discorso sulla libertà e sulle sue istituzioni: lo Stato, il mercato, la democrazia, la scienza, etc.

Si resta immediatamente colpiti già dal titolo del libro, dove la parola “fede” (a mò di chiosa finale) serve a invitare il lettore a prendere sul serio i “presupposti” non solo verso quel «qualcosa in più della realtà», cioè la trascendenza nelle sue diverse e complesse implicazioni soggettive e relazionali [ref]P.L. Berger, Questione di fede. Una professione scettica del cristianesimo, Bologna, 2004, pp. 11-13[/ref] ma anche verso la costruzione dello spazio politico all’interno del quale laici e religiosi devono stare sullo stesso piano [ref]G.E. Rusconi, Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia, Torino, 2000[/ref].

Secondo l’Autore, la storia italiana vede dal 1984 ad oggi due categorie di soggetti (di cittadini-fedeli) affrontarsi in una logorante sfida a braccio di ferro. La posta in gioco è il destino dello Stato – nelle sue multiformi declinazioni sia verticali che orizzontali – e delle formazioni sociali a carattere religioso – delle chiese storicamente presenti sul territorio italiano e delle nuove forme di religiosità – nella società plurale. Da un lato ci sono i creduli, che «sfruttano la storia» e se ne servono per «controllare il presente», dall’altro i credenti, che, al contrario, «si mettono al servizio della storia» e responsabilmente cercano di spezzare il ciclo della diffidenza. Su campi segnati da steccati spesso insormontabili, «il declino di Stato e Chiesa [diventa perciò] questione di fede» (p- 14), e tra il credulo e il credente la lotta si fa «decisiva» (15).

Quella religiosa, in Italia, è “questione” datata, come in qualsiasi altro paese occidentale, fatta oggetto di politiche da parte del potere civile non sempre coerenti con quelle «premesse sostanziali» funzionali (parafrasando Böckenförde) all’affermazione di uno spazio pubblico liberale e secolarizzato. Ed è questione (quella religiosa) che poggia interamente sul significato e sul valore della libertà. Ebbene, proprio dall’amore per la libertà, Ventura fa discendere la sua analisi, prendendo a prestito alcuni passaggi della dissertazione del protestante svizzero Vinet sulla libertà dei culti (1826) il quale sosteneva che «è migliore la società in cui il libero concorso di una pluralità di fedi e di Chiese scongiura opportunismo e moralismi a beneficio del credo più vero e dei credenti più seri» (p. 30). Una libertà, dunque – quella voluta dai pensatori e politici liberali – «non privilegiaria, cioè potere a favore dell[e] Chies[e]» [ref]G. Zagrebelsky, Scambiarsi la veste. Stato e Chiesa al governo dell’uomo, Roma-Bari, 2010, p. 34[/ref] quanto, piuttosto, affare interindividuale, che diventa metodo, e che aspira a farsi procedura, sotto l’ombrello della Costituzione, al fine di ricomporre le domande in campo, i problemi pratici nascenti dal rapporto tra sfera religiosa e sfera pubblica. Ma si tratta solo di un progetto, di una idea geniale che resta – nel dibattito politico italiano che dal Fascismo porta alla Costituente (e oltre) – completamente ai margini; confinato quanto un’eresia, che interessa sparute minoranze di studiosi e attivisti politici (prima i liberali contrari al Concordato del 1929, poi quelli apertamente ostili al richiamo nella Costituzione del 1947 ai Patti Lateranensi), fortemente arroccato su binari consolidati, su opzioni e strategie messe in campo al di qua e al di là del Tevere al solo fine di “conservare”: la memoria dello Stato cattolico fondato sul Concordato (così come voluto, nel 1929, dalla Chiesa di Pio XI e dal Regime di Mussolini, entrambi “presi in ostaggio” dai rispettivi interessi “ideologici” di parte), e di scongiurare la rottura della “pace religiosa” minacciata dal Vaticano (come accettato da Togliatti e altri che votarono l’art. 7 Cost.). Non a caso l’Autore rinvia alle parole pronunciate nel 1947 dal giudice della Corte Suprema americana Hugo Black, a proposito delle «generazioni fuggite in America dall’Europa per sottrarsi all’oppressione di Chiese favorite dal governo e determinate a mantenere la propria assoluta supremazia politica e religiosa» [ref]pp. 22-23; mio il corsivo riferito al virgolettato citato nel libro[/ref]. Anche qui, siamo di fronte a una “professione di fede”, nei confronti però di un modo di concepire la libertà (in senso giuridico-costituzionale) che non ha nulla a che vedere con la  libertas Ecclesiae – «potere a favore, radice permanente di conflitti, incomprensioni ed equivoci» [ref]G. Zagrebelsky, op. cit., pp. 33-34[/ref] – quanto, invece, con una dimensione politico-normativa rispondente alle esigenze di una società democratica, laica, pluralista, che affonda e rinnova l’esperienza e l’apporto di un filone culturale rappresentato da Cavour, Ruffini, Jemolo, Basso, protagonisti sì di stagioni politiche diverse, ma che l’Autore rievoca per delimitare una scansione ideale e argomentativa (nonché “specialistica” dei rapporti tra poteri dello Stato e fattore religioso organizzato) a cavallo della quale il nostro Paese preferisce “dribblare” una serie di conquiste (separatismo, uguaglianza, libertà, laicità) anziché porle quale “nucleo duro” di un nuovo diritto pubblico del fenomeno religioso. Si tratta, perciò, di un percorso “a metà” lungo il sentiero dei fondamenti dello Stato costituzionale, di “promesse non mantenute” a causa di molteplici resistenze agenti in ambiti diversi ma pur sempre cooperanti (gli ordini distinti della Chiesa e dello Stato, con le loro ricadute sul sistema dei rapporti con le confessione c.d. “diverse” dalla cattolica), di processi interrotti per l’affermazione di modelli di matrice lobbistica finalizzati a mantenere inalterato lo status quo – per non allargare la sfera della partecipazione, facendo finta di cambiare ma senza alterare sostanzialmente sistemi di relazione e prassi consolidate, anzi, stravolgendo il senso e la portata giuridica di categorie di nuovo conio costituzionale (es. la sussidiarietà, «risucchiata», secondo Ventura, «nella centrifuga degli interessi»; p. 89) – di riforme parziali, incapaci di leggere e interpretare il “nuovo” (migrazioni, globalizzazione, sicurezza, convivenze, integrazione, multiculturalismo, etc.), di una “eclissi dello Stato” che immagina di risolvere il problema del Risorgimento, «svincolare l’Italia e la Santa Sede» [ref]S. Cassese, Governare gli italiani. Storia dello Stato, Bologna, 2014, pp. 324-326[/ref], ingessando la società italiana e le istituzioni politiche nella camicia di forza del «monopolio cattolico» (p. 67) e non garantendo i «diritti delle coscienze e degli individui», come chiaramente sanzionato dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel caso Pellegrini c. Italia (20 luglio 2001) che pone in luce, secondo Ventura, incongruenze sostanziali e procedurali gravi dell’ordinamento italiano e del suo cotè concordatario.

Le questioni poste sotto osservazione dall’Autore sono diverse e tutte meritevoli di approfondimento: l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche; l’8 per mille; le agevolazioni tributarie e le esenzioni in materia fiscale riservate agli enti ecclesiastici; la tardiva attuazione delle intese ex art. 8 comma 3 Cost.; la pugnace “difesa della fede” che, sulla scorta delle dichiarazioni di Ratzinger, significa: «opposizione alla maggioranza relativistica»; il divieto di «votare sulla verità», come dichiarò, ancora Ratzinger in una nota intervista concessa a Messori nel 1984; la laicità “sempre in questione”, ovviamente «sana» solo se intesa ex parte Ecclesiae, e non secondo le chiare parole della Corte costituzionale nel 1989; la difesa delle “radici cristiane” nella nuova Europa politica; il ruolo in-politico svolto dalla CEI in diverse materie sottratte de facto alla governance del diritto comune, oppure messe “a bagnomaria” in attesa del supporto politico utile a soddisfare interessi di parte e non il bene comune (es. la campagna massiccia a favore del “non voto” in occasione del referendum del 2005 sulla legge 40/2004); la vessata questione in materia di simboli religiosi (su tutte, quella relativa alla presenza del crocifisso nelle scuole pubbliche, con il ribaltamento di pronunce da parte della Corte di Strasburgo a cavallo tra il 2009 e il 2011, dove prima si stabilisce che la croce è il simbolo di una «particolare religione», dunque, da rimuovere, poi che la croce è un «simbolo passivo», “inoffensivo”, e che quindi può restare dov’è); la dura contestazione, portata fin dentro alle stanze della politica, della laicità quale fondamento di una legge generale sulla libertà religiosa (mai varata “anche” per le pressioni cattoliche), strumento utile, a parere di chi scrive e in linea con le tesi dell’Autore, non solo per abrogare la legge fascista sui culti ammessi (n. 1159/1929) ma anche e soprattutto per ricondurre lo strumento della bilateralità alla funzione regolatoria «degli aspetti che si collegano alle specificità delle singole confessioni o che richiedono deroghe al diritto comune» (Corte cost. 346/2002). E poi la questione islamica, che l’Autore ripercorre facendo risaltare l’approccio bicefalo, da un lato, della Chiesa di Benedetto XVI – il primato della ragione, esaltato nella conferenza di Regensburg del 2006, da contrapporre alla “assolutezza” dell’elemento trascendentale secondo la visione musulmana – dall’altro, dello Stato, a partire dal riconoscimento nel 1974 della personalità giuridica quale ente di culto del Centro islamico culturale d’Italia fino al sostanziale fallimento del Comitato per l’islam italiano (2010).

C’è bisogno, allora, di novità, di azioni coraggiose, di disponibilità ad apprendere da parte di entrambi gli interlocutori: istituzioni pubbliche da un lato e forme della religiosità organizzata, Chiesa cattolica inclusa, dall’altra. L’elemento destabilizzante resta la “confusione”, lo “scambiarsi la veste”. Ventura, nel suo Creduli e credenti, offre importanti elementi di riflessione e utili proposte di soluzione per una rinnovata primavera delle libertà.

Gianfranco Macrì

VIDEO LIBRO – Creduli e credenti

Marco Ventura nel libro “Creduli e credenti” (Einaudi, 2014) ci descrive una società divisa tra credulità e fede, tra istinto di conservazione e volontà di rinnovamento. Invece di accompagnare il cambiamento sociale e religioso, governi e parlamenti si sono aggrappati al passato, con la complicità di una gerarchia cattolica impaurita. I rapporti tra Stato, Chiese, islam e nuove religioni si sono impantanati nella retorica della «tradizione cristiana» e negli equivoci sulla laicità. L’autore ripercorre le tappe che hanno portato al declino della Chiesa e del paese, entrambi ostaggio dei «creduli», i dogmatici e i manipolatori, i cinici e i faccendieri. Ci si trova dinanzi ad un bivio: se i credenti prevarranno sui creduli, se chi prende sul serio la propria fede politica o religiosa caccerà i mercanti dal tempio, è ancora possibile una primavera per l’Italia e per la Chiesa.