Etica della parola
Partirei dal sintagma stesso “etica della parola” e innescherei subito il doppio senso del genitivo, oggettivo e soggettivo. Etica, cioè, come un qualcosa che è una proprietà della parola e di cui quest’ultima è, a sua volta e al tempo stesso, una declinazione.
Etica, come si sa, viene da ethos: un termine che Heidegger ci ha invitato a intendere nel senso di abitare. Per cui, in via assolutamente iniziale, potrei dire che concepisco la parola come un modo di abitare il mondo, non però poeticamente – come voleva lo stesso Heidegger –, ma prosaicamente. Termine, quest’ultimo, che mi fa pensare a un qualcosa che mette radici in quella “carne” – il riferimento è, ovviamente, a Merleau-Ponty[ref]Su questo punto, cfr. il mio La prosa del senso. La dinamica della significazione in Merleau-Ponty, IF Press, Morolo (Fr) 20122.[/ref] – che è la pasta comune di cui siamo fatti noi stessi e il mondo.
Parto da un’ipotesi poco ortodossa dal punto di vista strettamente linguistico, ossia che la parola sia la cellula e il nucleo germinale del linguaggio. Poco ortodossa, perché nel campo dei miei studi vige, da qualche tempo, incontrastata, una tesi: quella secondo cui la parola, intesa come atto creativo individuale, sarebbe sempre preceduta dalla lingua, intesa come sistema. Facendo mio il principio secondo cui il linguaggio articolato metterebbe radici nel terreno della gesticolazione e della corporeità, do grande importanza alla dimensione cosiddetta “circostanziale”, in quanto sfondo extralinguistico indistinto su cui si staglia l’apparizione della parola. Tale sfondo lo faccio coincidere anche con l’esperienza del “voler dire qualcosa”, inteso con quella riserva permanente di senso che, convertendosi solo parzialmente nel parlare, fa della lingua, in quanto allusione, un continuo processo di metaforizzazione. Al riguardo, parlando di metafora, voglio ricordare che il primo accesso a quest’ordine di problemi lo devo all’autore cui ho dedicato la mia tesi di dottorato: Vico, di cui ho approfondito, appunto, la filosofia implicita nella sua riflessione sulla retorica.
Dicevo che parto da un’ipotesi poco ortodossa dal punto di vista strettamente linguistico. La preciso meglio, appropriandomi della definizione di un filosofo americano, ingiustamente definito comportamentista, George Herbert Mead, il quale afferma quanto segue:
ciò a cui la parola si riferisce è qualcosa che può risiedere nell’esperienza dell’individuo a prescindere dall’uso del linguaggio[ref]G. H. Mead, Mente, sé e società. Dal punto di vista di uno psicologo comportamentista (opera postuma: 1934), tr. it. di R. Tettucci, Barbera, Firenze 1966, p. 44.[/ref].
E se vi prescinde, vuol dire che essa è intesa in qualità di gesto incardinato in un comportamento, ossia, pragmatisticamente, in termini di “abito”.
In un testo che ho in preparazione e che s’intitola: Semiotica dell’espressione, studio il passaggio dal gesto alla parola attraverso la mediazione di una terza figura: il ritmo. Il sottotitolo del libro è infatti: Il gesto che si fa ritmo, parola.Cosa intendo per ritmo? Uno degli autori da me studiati in questo testo, l’antropologo e linguista francese – ahimè poco noto, ma vi garantisco geniale – Marcel Jousse, parla di «gesto proposizionale»[ref]Cfr. M. Jousse, L’antropologia del gesto (opera postuma: 1969), tr. it. di E. De Rosa, Paoline, Roma 1979.[/ref], attribuendo al gesto la propensione naturale a strutturarsi “sintatticamente”, dandosi, appunto, una cadenza strutturale ritmica. Per l’autore da me appena citato, il nostro corpo, dopo aver captato i segnali che provengono a esso dalla realtà circostante e averli raccolti in quelli che lui chiama «mimemi» – e qui starebbe, appunto, l’origine del linguaggio –, li rilancia, infine, sotto forma di pensiero o di azione. I momenti da tener presente sono, dunque, tre: il momento mimetico originario, il momento ritmico, che consiste in una riarticolazione e in un assetto più coeso della fase precedente e, infine, il momento in cui codifichiamo le due fasi orali precedenti nella scrittura.
Ma torniamo al ritmo. Un altro autore che studio nel mio prossimo libro, il linguista francese Henri Meschonnic, invita a intenderlo non, come abbiamo fatto, da tempo immemorabile, fin qui, nel quadro della legge del numero e come sinonimo di ordine e di misura, ma come un qualcosa di connaturato al linguaggio, così che, per questa via, arriveremmo a superare la canonica – e ormai poco produttiva – distinzione, nel segno, fra significato e significante, nonché, in un testo, fra contenuto e forma. Potremmo pensare, cioè, al darsi di un senso extralessicale che, permeando di sé tutto il discorso, si struttura, appunto, in termini di continuità del ritmo[ref]Su questo punto, cfr. il mio Il movimento della parola del linguaggio. Meschonnic e la poetica del ritmo, in «Testo e senso», 2012, n. 13, pp. 117-33.[/ref].
Parlando di gesto come “abito” e prospettandolo come ipotesi naturale circa l’origine del linguaggio, trovo inevitabile risalire a un autore che sta all’origine di molte questioni ancora aperte del nostro tempo: Darwin. Da lui, riprendo l’idea relativa al carattere “modulare” del linguaggio umano, nel senso di un sistema combinatorio che funziona scomponendo e ricomponendo elementi discreti in ordini e combinazioni particolari sempre nuove. Idea di cui egli si serve, in chiave esplicativa, soprattutto, nell’opera: L’espressione delle emozioni nell’uomo e neglianimali (1872).
Un’altra tesi di Mead che mi sta molto a cuore è che «parlare è [innanzi tutto] parlarsi», nel senso che la «comunità della risposta è [a tal punto] essenziale alla insorgenza della parola»[ref]C. Di Martino, Linguaggio e autocoscienza in George Herbert Mead, in Id., Segno, gesto, parola. Da Heidegger a Mead e Merleau-Ponty, ETS, Pisa 2005, pp. 141-2.[/ref] che noi stessi, per primi, ci percepiamo come membri di una tale comunità. L’atto in cui ci udiamo parlare sarebbe, cioè, quello in cui si costituisce la nozione stessa di significato, poiché, nel momento in cui incardiniamo ciò che diciamo in un profilo dal tratto fermo e stabile, mettiamo capo ad un qualcosa che vale, al tempo stesso, per noi e per gli altri.
Un antropologo tedesco del Novecento, Arnold Gehlen, ha definito questo fenomeno come «autoaffettività della voce»[ref]A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), tr. it. di C. Mainoldi, Feltrinelli, Milano 1983.[/ref] e l’ha indicato come quello in cui sarebbe custodita, per lui, la radice principale del linguaggio.Grazie ad un tale fenomeno, noi impariamo a dislocarci, a “trasferirci” nella reazione dell’altro, per cui l’interiorità nascerebbe nel segno di una figura non mentalisticamente autocentrata, ma eteroreferenziale. Che è proprio ciò che, ad esempio, ha consentito a Ricoeur di parlare – è anche titolo di un suo libro – del “sé come un altro”[ref]Cfr. P. Ricoeur, Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993.[/ref]. È questa una scoperta molto importante, perché, gettando luce sul modo di insorgere del linguaggio, siamo arrivati a vedere come sia proprio nel segno di esso che, dischiudendosi la dimensione del sé, si dischiude, al tempo stesso, anche la dimensione dell’alterità.
Definendo la parola, nella sua essenza, come gesto, penso, ovviamente, al gesto deittico, indicativo. Ora, approfondendo il problema filosofico e linguistico dell’enunciazione[ref]Cfr. il mio L’istanza del soggetto parlante. Il problema linguistico dell’enunciazione, Lithos, Roma 2010.[/ref], ho potuto mettere meglio a fuoco il carattere, fondamentalmente, interlocutivo dell’alterità, prospettando la parola, nel suo profilo ostensivo, come quello spazioetico in cui facciamo originariamente esperienza della comunanza umana, dell’incontro e della prossimità.
Dandosi a noi nel segno dell’indicazione, la parola mostra, inoltre, di avere un vero e proprio volto, nel senso che la percezione e l’identificazione del parlato avvengono sempre secondo modalità di tipo fisiognomico, esattamente come noi riconosciamo una faccia o un oggetto familiare. E proprio questa dimensione che si concretizza nella materialità della voce è quella che, forse, più è stata affossata nel regime, sotto cui da lungo tempo ci troviamo, cosiddetto di «devocalizzazione del logos»: regime che, oltre a «fissare il primato ontologico del pensiero sulla parola», ha provveduto anche a disincarnare quest’ultima, liberandola «dalla corporeità del fiato e della voce»[ref]A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003, p. 74. Sulla voce come ciò che «sgorga prima che qualsiasi carattere semiotico/semantico abbia a formularsi», cfr. C. Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, il Mulino, Bologna 1992, p. 29. Infine, circa «il disincarnarsi della lingua dalla voce», G. Agamben, La parola e il sapere, in «aut aut», 1980, n. 179-180, pp. 155-66, afferma che, da tutto ciò, la prima, in quanto «costruzione del sapere», ne esce guadagnando un’autonomia radicale rispetto alla seconda e «all’atto concreto di parola» (pp. 162-3).[/ref]. Trovo che un motivo da recuperare sarebbe proprio questa unità originaria – e spezzata – fra logos e voce. E ciò a partire dal ripensamento della famosa definizione aristotelica del linguaggio come phoné significativa: come un qualcosa che ci dà prova, cioè, della genesi, naturale e contemporanea, di articolazione vocale e di attività logico-cognitiva[ref]Cfr. F. Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua, Laterza, Roma-Bari 2003.[/ref].
Oltre al titolo “Etica della parola”, l’incontro di oggi presenta anche un sottotitolo: “Politica, comunicazione, responsabilità”. Lascio cadere, senza alcuna esitazione, il primo termine, non rientrando la problematica relativa a esso nella mia sfera di competenza specifica, e mi approprio, invece, degli altri due. Ebbene, “comunicazione” e “responsabilità” posso considerarli come le parole-chiave intorno a cui si raccolgono due miei testi, già citati in precedenza: uno dedicato a Merleau-Ponty e l’altro a Ricoeur.
Merleau-Ponty impianta il processo della comunicazione sulla dialettica fra silenzio ed espressione. Poiché, per lui, vi è un senso prima che vi sia linguaggio, il lasciarsi guidare dalle cose così come esse si danno e si manifestano, è un far sì, letteralmente, che esse “prendano la parola”: parola che, perciò, è da sempre già iscritta nella “carne” viva dell’esperienza prelinguistica e preriflessiva.
Nella sua opera, forse, maggiore: Fenomenologia della percezione, Merleau-Ponty interpreta il motto fenomenologico che prescrive un “ritorno alle cose stesse” come un recupero di quel «mondo anteriore alla conoscenza» di cui essa «parla sempre», come l’«espressione seconda» di quella vita irriflessa della coscienza che opera in modo inavvertito e silenziosamente. Prima del «significato concettuale», che fa leva sulla funzione rappresentativa ed eteroreferenziale del segno verbale, si darebbe, cioè, un «significato gestuale», «esistenziale», «emozionale», che è «immanente alla parola» e che coincide con «uno degli usi possibili del mio corpo». Dietro la parola c’è sì un’operazione categoriale, ma ciò non vuol dire che essa riposa sul concetto come sul suo fondamento: parlare non è accedere ad un oggetto posto da un’intenzione conoscitiva o da una rappresentazione, ma quella dimensione espressiva entro cui il pensiero stesso trova la sua ragion d’essere e il suo compimento. Le parole “abitano” non solo le cose, ma anche il soggetto stesso quando le pronuncia. E ciò che ci consente di affidarci spontaneamente alla parola e di “muoverci” a nostro agio in essa è proprio il fatto che noi ne possediamo l’essenza articolare come una «modulazione» o un certo «stile di condotta» del nostro corpo. In tal senso, proprio come noi non ci rappresentiamo mai lo spazio esterno quando ci muoviamo in esso, ma lo viviamo come quel campo d’azione che ci si apre d’intorno, così non abbiamo bisogno di rappresentarci la parola per capirla e per pronunciarla: essa è un «certo luogo del mio mondo linguistico, fa parte della mia costituzione». Ne discende che la parola non è il modo di designare un pensiero, ma la presenza di questo stesso pensiero nel mondo sensibile: «non il suo vestito, ma […] il suo corpo»[ref]M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, pp. 251 e 253.[/ref]. Una riflessione, quest’ultima, che – quasi identica – possiamo trovare anche nello Zibaldone di Leopardi[ref]G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, 2 voll., a cura di A. M. Moroni, Mondadori, Milano 1972, vol. II, p. 610 (n. 1694).[/ref].
E passiamo al termine “responsabilità”, una parola che – come sapete – ha un profilo linguistico, prima ancora che etico, stando a significare, propriamente, “abilità nel rispondere”. Su questo punto, di Ricoeur, ho sviscerato, soprattutto, la sua riflessione intorno al fenomeno della promessa, nel cui segno egli intende l’identità personale come fedeltà alla parola data. Per il filosofo appena menzionato, tre sono i fattori che ci obbligano a mantenere una promessa. Innanzi tutto, chi promette si vincola all’impegno di fare qualcosa, dando prova, così, di essere fornito di autostima. In tale autostima, trova espressione, poi, il bisogno di essere riconosciuti da altri: è sempre a qualcuno, infatti, che si promette. Ed è qui che il fare di cui si è appena detto si configura, propriamente, come un dare: un dare all’altro qualcosa di ritenuto buono da chi promette. Infine, dietro il mantenimento di una parola data c’è sempre la volontà di «preservare la struttura del linguaggio» e la sua «dimensione fiduciaria»: linguaggio che, nel suo uso normale, «ingloba una tacita clausola di sincerità e, se così si può dire, di carità»[ref]P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento. Tre studi, a cura di F. Polidori, Cortina, Milano 2005, p. 149.[/ref].
Vorrei terminare parlandovi della riflessione di Ricoeur in merito al problema della traduzione, perché è qui che trova la sua formulazione ciò che egli ha definito “etica dell’ospitalità linguistica”[ref]P. Ricoeur, La traduzione. Una sfida etica, a cura di D. Jervolino, Morcelliana, Brescia 2001.[/ref]. Si parte dal fatto che, nell’atto in cui noi ci rivolgiamo ad un’altro, in quest’ultimo c’è sempre un qualcosa dello straniero. Ciò fa sì che lo scambio comunicativo di tipo intralinguistico non sia strutturalmente diverso da quello di tipo infralinguistico. Concedere una spiegazione nella nostra lingua all’interlocutore di turno, presentandogli la cosa da lui non capita in un altro modo, presuppone, infatti, la ricerca di una corrispondenza fra due versioni dello stesso discorso. Che è proprio ciò che facciamo anche quando traduciamo da una lingua ad un’altra. Tanto nel primo quanto nel secondo caso, andiamo alla ricerca, cioè, di un principio di equivalenza, nel cui segno di svolge, perciò, qualsiasi forma di scambio interumano mediato linguisticamente.
In tal senso, rappresentando un modello di integrazione che concilia il proprio e l’estraneo, l’identità e l’alterità, la traduzione si configura come un ethos che è perfettamente funzionale sia alla politica di edificazione della nuova Europa sia alla cultura del dialogo ecumenico interreligioso.
Ecco, prima avevo lasciato cadere il termine “politica”. Ora – come potete vedere – lo riguadagniamo, ma solo dopo aver attraversato i percorsi contrassegnati dai termini “comunicazione” e “responsabilità”.
** Testo letto nell’ambito della rassegna «Le ragioni della politica», organizzato dall’Osservatorio filosofico e dalla Compagnia de’ Galantomeni (Latina, 16 aprile 2013).
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