I conformisti dei nostri tempi: sul modo d’essere e di vivere della maggioranza
(da: S. Bisi, La maggioranza sta. I conformisti del XXI secolo, Bordeaux 2017)
In un universo culturale in cui tutti cercano di distinguersi, di apparire diversi, unici e originali esistono ancora i conformisti? Sì, e in gran quantità dato che costituiscono la maggioranza degli appartenenti a ogni società, compresa la nostra. Le società cosiddette avanzate però sono estremamente complesse, pertanto su un tema come il conformismo le risposte non possono limitarsi a secche alternative. Occorre ragionare, argomentare basandosi essenzialmente sull’osservazione diretta della vita quotidiana, un’osservazione che mi ha portato a dirigere lo sguardo sociologico sulle persone che frequentano quei luoghi più di recente diventati parte rilevante del sociale, fino ad assumere loro stessi un significato simbolico, non tanto utilitaristico quanto identitario: dal mercato rionale all’aeroporto, dalle boutique ai centri commerciali, dagli studenti dell’università ai circoli del tennis, dalle palestre ai centri estetici, dai luoghi della movida alle spiagge.
Ho cercato di “leggere” oltre l’apparenza la maggioranza, cioè quelle donne e quegli uomini a cui è stato insegnato che “da noi” la felicità è un diritto, che il nostro modello di vita non è esportabile, che nell’agire conforme – e cioè nella logica mercantile che distingue la nostra società occidentale – avrebbero trovato qualcosa di più di un appagamento effimero, momentaneo. Una maggioranza poco incline a occuparsi degli altri, dei diversi, una maggioranza che vive in conformità con il modello sociale dominante senza vederne incoerenze e contraddizioni, “coltivando tranquilla l’orribile varietà delle proprie superbie”, nelle parole di Fabrizio De André.
Come agisce, cosa fa per gratificare se stessa? Dove guarda, in cosa crede, come agisce?
Noi: noi italiani, noi europei, noi americani…. noi giapponesi, noi cinesi, e chissà quanti altri pronti a diventare come noi, condividiamo i modelli di vita, i valori positivi (enfasi sul successo) e i valori negativi (stigma dell’insuccesso), gli oggetti della felicità (i vari gadget), le lecite aspirazioni (fare danaro), felici di consumare (i non consumatori sono i nuovi devianti, o i nuovi impuri, come li ha chiamati Bauman), timorosi di chi attenta al nostro benessere (difendiamoci anche con le guerre preventive), sempre pronti a scambiare la libertà (degli altri) con la sicurezza (nostra).
Fatalmente, anche le persone finiscono per assomigliarsi. In un sistema che sempre più si caratterizza per le reciproche interdipendenze, assistiamo a un processo di identificazione, una tendenza generale all’omologazione di abiti mentali e comportamenti, che ci rende simili da un capo all’altro del mondo.
Mentre dovrebbero esserci meno alibi rispetto al passato, ci troviamo di fronte a un paradosso: proprio nel momento storico in cui è smisuratamente aumentata la possibilità di essere informati su tutto o quasi tutto, proprio in questa epoca caratterizzata da un ininterrotto e quotidiano viaggiare di notizie e conoscenze che dovrebbero rendere più comprensibile il concetto di “complessità”, accade il contrario. Potremo sottoscrivere quanto ha detto Cornelius Castoriadis, una voce forte contro il conformismo generalizzato e la montée de l’insignifiance: questa è l’epoca del “non-pensiero”[1]. Questa società “liquida” – che meglio sarebbe definire “smarrita” – non riesce infatti neppure a comprendere appieno la propria storia e il proprio cammino.
Il contesto non solo non aiuta, non stimola, non incoraggia a pensare ma di fatto, con vari accorgimenti e l’uso sapiente dei media e della pubblicità, non offre neanche il doveroso stimolo e incoraggiamento a farlo. L’uomo nuovo, l’uomo occidentale del XXI secolo, dovrebbe essere emancipato, dovrebbe avere acquisito istruzione e cultura, invece sembra essere sempre meno stimolato e stimolante e sempre più oscillante tra aggressività, rabbia e inerme accettazione.
Crisi economiche, catastrofi naturali, guerre e attentati si susseguono. Media e social network ci aggiornano ventiquattrore su ventiquattro. Noi partecipiamo a questi drammi postando la notizia su Facebook, commentando con faccine piangenti, o con un tweet, aderendo a raccolte di denaro digitando un numero di telefono o via web. Bastano però pochi giorni o al massimo qualche mese perché tutto venga digerito ed espulso. Perché lo sguardo ritorni a fluttuare nel raggio corto del proprio entourage.
La domanda che in un certo senso identifica il post moderno, domanda inevasa, recita: cosa resta, ora che tutte le grandi narrazioni sono evaporate? Resta solo l’idolo narcisistico della crescita e dell’espansione, restano i “post”, cioè quelli che non sono più comunisti, fascisti, padri eccetera[2]. Resta la promessa di felicità, quella felicità dell’uomo moderno, coniata ironicamente da Fromm, che si esprime nel guardare le vetrine (o i siti commerciali online) e nel comprare tutto quello che si vuole in contanti o a rate[3]. Quei beni materiali oggetto del desiderio da soddisfare a ogni costo: pensiamo all’assurdità dei tanti che in religiosa fila aspettano dall’alba l’apertura dei negozi per acquistare e sostituire il vecchio Iphone con l’ultimo modello. Un fenomeno che si ripete in molti luoghi del mondo, a conferma della globalizzazione del desiderio, e pazienza se per averlo si debba spendere mezzo stipendio: un attimo di felicità condivisa per un oggetto il cui valore cala nel giro di un mese.
E questo mentre è in atto una crisi economica di vasta portata, una crescita della disoccupazione che ha ridotto i redditi e quindi la capacità di consumo. Nel caso Italia ci si può riferire alla lettura delle elaborazioni fatte dal Censis sulla base dei dati Istat e Gira, sui consumi alimentari. Si constata l’evoluzione delle patologie del benessere motivata dalle differenze nell’acquisto di cibo in base al reddito, per cui diminuiscono i consumi “sani” a favore del cosiddetto junk food. Giuseppe De Rita ha così commentato: “Si rinuncia a una bistecca non allo smartphone nuovo. Sono cambiate le priorità”[4]. La creazione continua di bisogni crea tensioni psicologiche e frustrazioni. E fa nascere una nuova povertà, che non è quella reale delle sacche di povertà presenti nei nostri opulenti paesi, né la cosiddetta povertà relativa, di chi stenta ad arrivare alla fine del mese. La nuova povertà è una povertà psicologica: ci si percepisce poveri se non si riescono più a soddisfare le sempre nuove sorgenti di esigenze.
Nella pur estesa e difficile crisi, è più forte la paura di impoverire che l’impoverimento reale, timore avvertito soprattutto dal ceto impiegatizio a reddito fisso, e dai giovani. Tutto ciò si può ben legare a quella che possiamo chiamare una questione di “significati immaginari sociali” colonizzati dai valori dominanti: progresso, universalismo, dominio della natura, razionalità.
E nell’immaterialità del mondo digitale, come nella vita reale, troviamo un consumatore passivo, che cerca emozioni velocemente fruibili. Bjung-Chul Han parla di un capitalismo delle emozioni, in grado di capitalizzare sull’emotività. Lo sanno bene i proprietari dei social media, che offrono gratuitamente spazi e servizi online: svelare se stessi significa anche offrirsi volontariamente a chi lo spazio sociale lo sorveglia e lo sfrutta. Significa accettare informazioni che arrivano in rete senza comprenderle, senza inquadrarle nel contesto razionale, significa, nota Han, perdere interesse per la politica così come è stata finora, e sostituirla con il mugugno e il dileggio, equiparando il politico a un fornitore, di cui ci si lamenta perché non soddisfa. Così il cittadino, questo vocabolo che volto al plurale diventa una simbolica rappresentanza della cosiddetta democrazia dal basso, ha creato una parità annullando vecchie disparità (classi, comunità, servi e padroni).
Rimandando per un approfondimento al saggio di Han, Psicopolitica[5], vorrei sottolineare un elemento che a mio avviso emerge chiaramente da questa e da altre analisi: l’inconsapevolezza. Ed è in questo baratro di inconsapevolezza che si muove quella “maggioranza soddisfatta” di cui parla Bauman e che disegna nel capitolo dal bel titolo: Della morale che inizia dentro casa. Una maggioranza poco incline ad assumersi la responsabilità della minoranza più debole, e alla quale, in forza del “potere dell’opinione”, i governi non possono fare torto.
Questa maggioranza, occupata nella mera soddisfazione dei bisogni individuali, ascolta altre voci, guarda ad altro, non reagisce, anzi, accetta quanto la società offre, trova conforto nell’essere in tanti: si contagiano, si copiano, sognano… e fuori i diversi. Hanno anche un alibi: hanno sempre fretta, vivono freneticamente. Dal lavoro allo svago non fanno altro che correre, anche se non sono certa che sappiano dove stiano andando.
Nella vita quotidiana però non è possibile allontanarsi, disancorarsi totalmente dalle leggi, complicate e molteplici, della propria e insidiata interiorità. E allora si tenta un recupero: ecco il fenomeno del “risveglio delle religioni”, la difesa della famiglia legalmente sancita, la battaglia contro diritti già, e a fatica, acquisiti (divorzio, aborto, procreazione assistita, unioni civili), il rinverdirsi di desuete e moraleggianti dispute, i nuovi conservatorismi. Da più parti si riaffacciano pretese di verità assolute, spacciando troppo spesso la difesa delle “cose” per difesa dei valori.
In realtà, parlare di risveglio dei valori, è assolutamente improprio: ne sono rimasti i nomi, simulacri, simboli vuoti, parole di facciata che servono più ad alzare barriere che ad accogliere le (eventuali) pecorelle smarrite. Prevale una spinta alla passività piuttosto che all’iniziativa. Sempre più si tende a rassicurare se stessi adattandosi a quei modelli di vita socialmente condivisi, in una autodifesa dell’identità quasi a garanzia di conforto e di gratificazione.
Anche nella civiltà occidentale contemporanea, l’unione col gruppo è la maniera più frequente per superare l’isolamento. È un’unione in cui l’individuo si annulla in una vasta comunità, e il suo scopo è quello di far parte del gregge. Se io sono uguale agli altri, sia nelle idee che nei costumi, non posso avere la sensazione di essere diverso. Sono salvo: salvo dal terrore della solitudine[6].
In questa ricerca degli oggetti del desiderio sembra prevalere una condizione generalizzata di infantilità: il mercato alimenta rapidi e voraci entusiasmi, destinati in breve tempo alla delusione, offrendo novità che rendono subito vecchio ciò che poco prima era ritenuto indispensabile; la televisione alimenta una dimensione favolistica che induce a credere in mondi immaginari; personaggi dello sport e dello spettacolo alimentano miti impossibili, favorendo mimetizzazioni in altri da sé. Un’enfatizzazione, questa, che contribuisce a iscrivere sempre più persone nella già numerosa cerchia delle pedine del destino: sugheri, gavitelli in balia delle correnti della vita, senza difesa verso i condizionamenti, gli stereotipi, le idee ricevute, le allettanti sirene della superficialità.
Non c’è niente – per ora – da opporre al consumismo se non un modello di vita che poco ha di elitario o di autenticamente popolare. Si assiste a uno spostamento verso il centro, una posizione dove alberga la mediocrità, secondo l’analisi di Alain Deneault nel suo saggio dal titolo La Mediocratie[7]. Vivere nella mediocrità comporta una vita condotta all’insegna del mantenimento dell’ordine economico e sociale, dove la media è diventata la norma. Una deresponsabilizzazione generalizzata che non accetta una riduzione dei desideri, che mette al primo posto il piacere individuale, e annulla qualunque altra priorità che non sia il valore primario: il denaro.
In che modo si tutela il nostro conformista dinanzi alla compiuta alienazione o quantomeno dinanzi al ripiegamento dell’essere su se stesso? Costruendosi una tana come nell’angosciante racconto di Kafka.
In poche parole il conformista si chiude in cerchie familiari o amicali in cui trovare sistematica conferma di quello che pensa, vivendo in quartieri che tengono a debita distanza gli outsider, formandosi un’opinione tramite quelle forme di spettacolo che sono ormai diventati i telegiornali, restando adolescenti in età adulta, astenendosi dall’impegno collettivo.
Costruire la propria tana è un lavoro duro, che richiede un impegno quotidiano. Il lavoro di chi giorno per giorno deve difendersi dagli altri vissuti come concorrenti (chi è più ricco? chi più giovane? chi più bello?) o come nemici (i diversi, i poveri, i migranti). Il gruppo di amici rappresenta, anche per gli adulti, il rifugio sicuro perché non c’è confronto ma condivisione, perché si è simili nel gusto e nelle idee, e il ritrovarsi nei soliti luoghi e negli stessi social media dà una nota di certezza alla turbolenza degli animi. I ragazzi del muretto, i tifosi della stessa squadra, i compagni di burraco o di altri giochi di carte, le discoteche alla moda, le cene nei soliti ristoranti con le stesse persone… segni tutti della tendenza a chiudersi, a cercare sicurezza in chi riconosciamo simile a noi.
Dominati da un senso di onnipotenza simile a quello dei bambini, come bambini i nostri, numerosi, cittadini normali reagiscono alle privazioni con sentimenti quali gelosia e invidia, rancore, ribellione e litigiosità. Nei vissuti quotidiani, però, si insinua un inspiegabile turbamento, sentimenti vaghi e penosi che si sottraggono a un riconoscimento, e si esprimono con vari e subdoli sintomi tra i quali, purtroppo, alberga anche l’odio verso coloro che del loro mondo non fanno parte[8].
Insomma, l’omologazione degli stili di vita, o per meglio dire, il dilagante conformismo, rappresenta un’efficientissima scuola del disimpegno e dell’inconsapevolezza. Ma sono in pochissimi ad avvertire questa emergenza. In primo luogo i diretti interessati, ossia gli stessi giovani, per non parlare dei politici. I giovani dediti all’esibizionismo e allo sballo in discoteca o nel corso di quelle adunate postmoderne che sono le varie movide, le vacanze in paradisi esotici e così via. Penso infatti che l’incredibile livello di omologazione delle nuove generazioni costituisca un problema politico di prima grandezza proprio perché imprigiona la coscienza nei giochi delle apparenze e nella vertigine fine a se stessa.
Simonetta Bisi
[1] C. Castoriadis, “Contre le conformisme généralisé », Le Monde diplomatique, agosto 1997
[2] R. Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica, Feltrinelli, Milano, 2012
[3] E. Fromm, L’arte di amare, Oscar Mondadori, Milano, 1996.
[4] La Repubblica, 24710/2016, p.3
[5] B-C. Han, Psicopolitica, Nottetempo, 2016 e E. Mauro, “Il fantasma della libertà all’epoca degli emoticon”, La Repubblica, 30-6-2016, p. 31.
[6] E. Fromm, L’arte di amare, cit. p.26
[7] A. Deneault, La mediocratie, Lux Editeur, Montreal, 2016, citato in: A. Mincuzzi, La “mediocrazia” ci ha travolti, così i mediocri hanno preso il potere”, La Repubblica, 19-6-2016.
[8] Il termine “normale” in questa accezione si riferisce alla maggioranza, cioè ai conformisti.
questo articolo intervento sembra scontato e invece è spietato e appassionato… ricorrendo anche all’osservazione dei luoghi sociali .
il problema è sempre la sensazione che le critiche e le analisi alle quali siamo abituati , sembrano ormai insufficienti e retoriche , mera informazione di un dibattito e non nuove elaborazioni critiche teoriche discorsive. anche i discorsi e le analisi partecipano al disagio dei tempi … a loro volta “post” sui social .
ma è nei discorsi e coi discorsi che dobbiamo e possiamo ricostruire e ricomporre la nostra dignità .
Io sono convinta che CHI PUO’ dovrebbe muoversi in questo periodo di cose sconvolgenti che ne fanno prevedere altrettante. E MUOVERSI OGGI SIGNIFICA FARSI SENTIRE NELLE UNIVERSITA’, NEI LUOGHI DI RADUNO X ESEMPIO PRESSO IL VITTORIANO NEI SUOI SPAZI SPLENDIDI. O PIAZZA VENEZIA IN TEMPI ACCESSIBILI A CHI LAVORA, SICCHE’ DI SERA O FESTIVI. IO HO FATTO MILIARDI DI MANIFESTAZIONI E LE NS CONQUISTE SONO STATE STRAPPATE DAI GOVERNI. ORA TOCCA A CHI A MENO ANNI DI ME MUOVERSI, PERCHE’ POI I COLPEVOLI DI QUELLO CHE ACCADRA’ SAREMO NOI.