La popolocrazia e l’ossimoro di un populismo di sinistra

Pochi sono i concetti politici che, al pari della locuzione di populismo, sono al tempo stesso ricusati come schemi-contenitori fluidi e multiuso (da molti studiosi giudicati persino tendenziosi nella loro formulazione), e nondimeno vengono utilizzati come insurrogabili strumenti di indagine. Accanto a una copertura elastica, che abbraccia ogni fenomeno politico in apparenza eccentrico, il termine ha assunto una valenza assiologica, prevalentemente negativa. In molti casi rinvia ad una etero-definizione il cui intento è di norma quello di criticare, stigmatizzare gli altri indirizzi e movimenti in nome di una forma politica ritenuta altrimenti minata. Come ogni studio politico dedicato al populismo, anche quello di Ilvo Diamanti e Marc Lazar1 contiene una dimensione analitico-descrittiva e una apertura verso asserzioni di carattere più valutativo. Sul piano empirico-descrittivo, la questione definitoria del populismo rimane irrisolta e anzi pare in gran parte complicata dalla trama eterogenea costituita dalla multiforme fenomenologia di atteggiamenti, stili, comportamenti credenze classificate come populiste. Se il riferimento discriminante per isolare la specificità del fenomeno è alla opposizione del basso contro l’alto, dei molti contro le èlite, non si esce dall’equivoco teorico che accompagna il populismo. La frattura moltitudine-élite è per certi versi originaria, si pone al centro del modello teorico di Machiavelli2 sottile indigatore degli “omori” in contrasto nella vita civile, e che per la sua celebrazione della costruttività del conflitto sociale arduo sembra definibile come un pensatore populista, nel senso deteriore e spregiativo che si accompagna alla nozione.

Il fatto è che si trovano oggi in circolazione populismi dall’alto e dal basso. Non sono soltanto le moltitudini piene di rancore ad essere mobilitate in contrapposizione ai pochi che comandano. Sono anche i piani alti del potere a proporsi al pubblico come figurazione autentica della massa che richiede la soppressione delle fastidiose mediazioni istituzionali. La stessa polarità dentro-fuori risulta sfuggente poiché le versioni contemporanee di populismo sono collocate sia dentro il sistema, sia fuori del sistema. Se il riferimento discriminante è alla collocazione dei movimenti nello spazio politico, la rassegna del campionario populista ne svela esemplari di destra, di sinistra e anche di centro. Una caratteristica precipua dei movimenti populisti è quella di rigettare il sapere, la competenza, l’autoreferenzialità della tecnica come rifugio delle élite che mascherano, occultano le cose per celare il vero al cospetto del più genuino sentimento della gente. Ma questa versione tardo-bucolica del mondo della tecnica convive con la maturazione speculare di un tecno-populismo che esalta invece le magnifiche virtù della rete quale strumento di una immediata relazione politica degna di una agorà ritrovata. Accanto al tecno-pessimismo e alla nostalgia di semplice, al rimpianto dei valori della terra si presenta il tecno-ottimismo con l’elogio del cyberspazio della rete come dissolutore di ogni enigma metafisico. La tecnocrazia che spoliticizza le questioni in nome della complessità e il populismo che spoliticizza i problemi collettivi in nome del semplice (uno vale uno) condividono la riduzione del governo a amministrazione affidata al cittadino-portavoce. La dicotomia centro-periferia sembra anch’essa suggente dinanzi a un variopinto mondo di movimenti che non nascono solo dalla periferia, dai territori per sfidare il potere ma che già annidati al potere si propongono dalla postazione dell’appellativo populista sono affrancate dalle riprovazioni che ricadono sulle culture nere e consegnate a un purgatorio concettuale4.

Il momento normativo, in ogni indagine politica, rimane un corollario inevitabile, e anche Diamanti e Lazar ne fanno uso. Sotto il profilo assiologico, il loro libro può essere considerato come un tentativo di difesa della categoria politica della liberaldemocrazia, minacciata dalle tendenze degenerative che scuotono i sistemi costituzionali occidentali. In alcuni passi del volume si tende, in sintonia con una tale ottica valoriale, a contrapporre la calma ragione liberale-discorsiva alla confusa passione-interesse. “Per esistere, il populismo ha bisogno di eccitare le passioni, cosa che si manifesta nel suo linguaggio, mentre la democrazia liberale e rappresentativa cerca di prosciugarle, al fine di far trionfare la ragione”. Questo schematismo ragione-passione non pare risolutivo. Così anche Hume sarebbe da considerare un filosofo populista. La sua geometria delle passioni, che contiene una lucida analisi dei moventi reali o interessati dell’agire, andrebbe setacciata con sospetto e denunciata come un fondamento etico-politico del populismo. Nella loro genesi reale, i movimenti populisti sorgono in occidente proprio quando una pretesa ragione si separa dagli interessi e quindi con i ritrovati procedurali banalizzati non riesce a contente, integrare, dare forma.

Più persuasiva, rispetto al fuorviante schema assiale ragione-passione, è l’indicazione che il libro suggerisce per definire in termini politici il populismo come avversione alla mediazione. Sia il capo, che si appella al popolo contro la lentocrazia delle assemblee, sia il movimento dal basso che si mobilita reclamando momenti di democrazia diretta, imporre istanze per la revoca dei mandati condividono un paradigma: il culto dell’immediato, il sogno di un legame solo orizzontale e senza più forme, limiti. Non ogni teoria del capo carismatico è annoverabile tra le espressioni del filone populista (Weber è più propriamente un conservatore) e non ogni istanza per un allargamento degli spazi di partecipazione e controllo diffuso è indice di una mentalità populista (Gramsci o lo stesso Kelsen non appartengono alla famiglia teorica del populismo). A questo riguardo, pesa un equivoco teorico connesso all’impiego del termine populismo assunto nella sua accezione americana. Nella cultura politica d’oltreoceano, populista è da intendere ogni declinazione della democrazia come regime provvisto di un catalogo partecipativo più ampio rispetto a quello ristretto al puro momento competitivo-elettorale. Una tendenza diffusa nella cultura americana è ben resa dal titolo di un libro di L. Wiker, “Liberalism against populism”. Il suo nucleo ideale consiste nel contrapporre una democrazia “liberale” (elettorale-competitiva) e una “populist democracy” con sensibilità verso la partecipazione, il referendum, la volontà generale, le domande sociali5. Sull’uso equivoco che prevale in ambito americano, si costruiscono definizioni non esaustive del fenomeno populista, confuso anche con tendenze verso lo sviluppo di nuove istituzioni di democrazia deliberativa.

La figura della mediazione, che viene saltata e combattuta in nome della identità “immediata” da realizzare attorno al trascinamento di un capo, non è solo quella ristretta alla dimensione elettorale-competitiva ma abbraccia la rappresentanza come essa si è storicamente strutturata nelle democrazie ispirate al modello del costituzionalismo novecentesco. Il populismo non è quindi la pura contrapposizione della massa all’élite ma l’espressione di una specifica crisi della forma politica che ha perso i soggetti, gli strumenti, i principi. La mediazione che si è infranta è quella storicamente maturata dall’apporto di molteplici tendenze e processi politici. Essa

prospetta una democrazia pluralista, che, oltre il quadro liberale classico, fa la sintesi di eterogenei apporti culturali: suffragio universale, rappresentanza, controlli di legalità e di costituzionalità, diritti sociali e centralità del lavoro. La democrazia è quel progetto che ha un fondamento (il lavoro, i diritti, la finalità sociale imposta dal pubblico potere alla stessa attività d’impresa), che è mediata (dai soggetti collettivi della rappresentanza politica e sociale), che definisce un compromesso tra partecipazione e capitalismo. Si tratta quindi di una inedita formazione politica che aggiusta la “forma” e la “sostanza” modellando la democrazia oltre che come sistema istituzionale di governo anche come assetto sociale. La democrazia che è in crisi in occidente non è stata ferita dalla invasiva “popolocrazia” ma sfidata dai “nuovi barbari” che sono entrati in scena dopo la decomposizione del nesso tra forma e sostanza che ne aveva definito il volto tardo novecentesco del politico.

Le forze che avevano definito la forma e la sostanza della democrazia nel secondo dopoguerra sono decomposte dalla grande disintermediazione richiesta dalle nuove dinamiche dell’economia globalizzata. Quando le espressioni sociali e politiche del lavoro si presentano molto indebolite sino a perdere autonomia organizzativa, la sintesi novecentesca appare infondata e salta così la “forma” della politica invasa da micropratiche dissolutive. Il populismo è non già la causa della crisi ma l’espressione di una forma de-formata. Da dialetto marginale, che esita a presentarsi nella sfera pubblica con i sui simboli ancestrali e aggressivi, il populismo diventa la rude lingua ufficiale perché è caduta la “forma” per dare una rappresentazione alle domande, ai conflitti. Mancano traduttori, soggetti che mobilitano e al tempo stesso trattengono (la zona dell’indicibile prima presidiata dai partiti che non politicizzavano questioni “culturali” legate all’etnia, alla identità di fede) e gli attori populisti si insediano come portatori dei nuovi codici del tutto disinibiti. Quando si parla di crisi della rappresentanza bisogna intendersi. E’ caduta la costruzione politica della rappresentanza, cioè l’idea di una funzione positiva della èlite politica che mobilita interessi collettivi, che dalle istanze particolari definisce visioni generali, che dal conflitto progetta alternative di società. Questo profilo della rappresentanza e della produttività della contesa sociale in uno spazio organizzato dai soggetti del pluralismo è in gran parte sfumato. Ma non è scomparsa la funzione rappresentativa-passiva della politica. Anzi proprio questo passivo aderire a ciò che già esiste negli umori più diffusi è il tratto distintivo dei populismi contemporanei. Entrare in sintonia con i rancori, i pregiudizi esistenti, i timori di discesa repentina nella gerarchia sociale sempre più fluida, in un quadro che non contempla alcuno sforzo di cambiamento, di sfida ai poteri dominanti è la preoccupazione cruciale delle forze populiste che assumono la rappresentanza come fotografia statica della paura.

Nel contesto della crisi della democrazia rappresentativa novecentesca, occorre leggere le dinamiche del populismo (ostilità alla mediazione in nome di non-partiti e leader carismatici) di cui l’antipolitica (la rivolta del cittadino-portavoce contro la “casta” responsabile del declino, dell’impoverimento, dei costi esorbitanti del professionismo politico) è un aspetto rilevante. In questa cornice, che vede infranta la sintesi storica che in Europa e in America aveva connesso economia, politica e diritti, Y. Mounk interpreta il populismo che, nella sua indagine, appare come un fenomeno che matura quando la “colla che univa in un mix unico diritti e regole democratiche si sta rapidamente assottigliando”. Dalla decomposizione della democrazia novecentesca “stanno nascendo due nuove forme di regime: una illiberal democracy, o democrazia senza diritti, e un undemocratic liberalism, o diritti senza democrazia”6. In un tale processo di lunga durata, la riconduzione della fenomenologia del populismo a una conseguenza generalizzata della grande recessione economica del 2007 obbedisce a una spiegazione troppo monocausale che, pur cogliendo un tratto essenziale, trascura l’esistenza di una decostruzione lenta che si avvale di molteplici variabili7. Per quanto riguarda l’Italia, nell’insediamento di un populismo diventato ormai tratto di sistema, ha inciso molto un lavoro antipolitico di professione che, anche prima della grande contrazione economica, aveva immesso il verbo dell’antipolitica come asse strategico, con una operazione egemonica risultata vincente ma distruttiva delle condizioni generali della politica. Con la guerra della innocente società civile contro la casta dei politici corrotti e ritenuti, proprio come casta, arroccati in una inaccessibile posizione di dominio, situata al di fuori del gioco competitivo, la borghesia italiana ha rimediato alla sua minore attitudine ad esportare merci di qualità con una invidiabile capacità di aprire la fabbrica delle cattive ideologie di esportazione (la fortuna mondiale della parola “casta” in tutti i movimenti populisti conferma la vitalità del mady in Italy nelle degenerazioni della forma politica)8.

 

La proposta politico-culturale che Diamanti e Lazar avanzano è quella di reagire alle manifestazioni distruttive della popolocrazia (ostilità alla separazione dei poteri, ai limiti formali dell’esercizio dell’autorità, proliferazioni di stili, mentalità, pratiche antipolitiche e esibizioni pseudocarismatiche) confidando nella virtù adattiva-trasformativa della rappresentanza. Questo auspicabile ritrovamento della forma politica, per non restare sul piano del puro dover essere, esige però, attorno alla rappresentanza come istituto imprescindibile del moderno, una ricomposizione dei soggetti sociali e politici. Una sinistra sociale e politica, da questo punto di vista, è una condizione minimale per la riprogettazione della forma democratica in occidente. Convincenti paiono le considerazioni critiche che il libro dedica alle diffuse inclinazioni a ripensare la sinistra in Europa sul solco dell’ossimoro raffigurato nella proposta di un populismo di sinistra. Un vero ossimoro: se la condizione basilare del populismo è la dichiarazione di essere oltre destra e sinistra, che senso ha l’autoproclamazione di “populismo di sinistra” per occupare una posizione ben precisa nella divisione assiale dello spazio politico? Pensare di ricostruire i pilastri della forma politica europea con l’importazione di un peronismo di sinistra9 pare non solo irrealistico (come ogni artificiale prodotto di laboratorio sganciato da dinamiche effettuali, culture, esperienze) ma estremamente riduttivo come formula ideologica imposta come novità a un continente che ha scoperto la forma della razionalità politica occidentale.

 

Molto pertinente è pertanto il rilievo critico avanzato da Diamanti e Lazar secondo i quali “il marxismo ostacola l’espansione del populismo. Il populismo di sinistra, quindi, appare solo come una forma degradata dell’ideologia dei partiti di sinistra”. Il pensiero di Marx si inserisce lungo una tendenza duplice che prima spinge a differenziare (la classe) e poi ad astrarre politicamente dalle diversità (il popolo quale sfera politico-giuridica). Lo stesso dispositivo teorico era già presente in Machiavelli che distingueva tra la plebe (connotazione sociale di una parte) e il popolo (ricomposizione politica). L’asse verticale (critica della astrazione politica) in Marx si accompagna sempre all’asse orizzontale (conflitto di classe). La politica organizzata è, in tale prospettiva, un punto irrinunciabile per ogni impostazione critica nella tradizione della sinistra. Spiegava proprio Marx, alludendo ai soggetti sociali dispersi, che finché “l’identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, un’unione politica su scala nazionale e un’organizzazione politica, essi non costituiscono una classe”10. E se i ceti sociali subalterni, il discorso vale anche per quelli frammentati della postmodernità, non dispongono di una organizzazione politica “non possono rappresentare se stessi; debbono farsi rappresentare”. I delegati sindacali, i lavoratori precari e frantumati hanno rinunciato a costruire una loro coalizione sociale, con una organizzazione politica autonoma, credendo di essere rappresentati da una microimpresa che maneggia in solitudine la magia occulta della rete. Sono vittime in tal senso di forme di falsa coscienza. Il marxismo è indeclinabile secondo gli schemi racchiusi nel gergo populista perché la sua ambizione teorica è proprio quella di cogliere l’effettiva natura dei rapporti sociali di dominio e subordinazione che vengono invece deformati dalle maschere dell’ideologia del sotto e del sopra. Anche per una sorta di eccesso di dipendenza dall’effettuale, come si ricava dalla descrizione-amplificazione di disagi rispetto ai quali non si scava in profondità per cogliere la radice sociale, il populismo è una maschera che inganna, deforma, riduce cose complesse a schemi semplificati. Il codice populista si mantiene assai lontano dal vero anche quando parte dalla reale situazione di disagio e però ne nasconde la genesi, ne occulta il fondamento. Il tratto peculiare del populismo è quello di inventare soluzioni ingannevoli perché, per raccogliere sostegno, rivolge il disagio contro nemici irreali o caricaturali.

Anche sulla cruciale tematica dell’Europa, affiora un paradosso costitutivo che vede il populismo reagire, in nome del basso, alla vocazione tecnocratica dei vertici burocratici, o fase del funzionalismo che decide le politiche senza giustificazione elettorale e neutralizzandole11. Agitando lo schema alto-basso per scagliarsi contro le neutralizzazioni della tecnocrazia (che, in nome della tecnicalità delle questioni, trascende l’asse destra-sinistra) il populismo non fa altro che recuperare la stessa struttura cognitiva della tecnocrazia (le cose vanno scrutate oltre la lente deformante di destra e sinistra) per ridurre i problemi controversi a semplice amministrazione.

Confluendo nelle acque della ormai alluvionale corrente della “popolocrazia” che invoca referendum (anche un “normale” leader conservatore ha affidato al popolo la scelta sul destino dell’Europa), direttismo, dispositivi del recall in funzione anti-élite, annichilimento delle classi dirigenti e dei contropoteri, depotenziamento del pluralismo con opachi non-partiti, abbattimento della rappresentanza e delle verticalizzazioni con il capo pseudocarismatico, la sinistra diventerebbe un subalterno fattore di accelerazione ulteriore della crisi della democrazia. Sfigurata e scivolata a pura “autocrazia elettiva”, la pratica democratica sarebbe declassata in un paradigma che postula un mondo minimo di procedure indifferenti a scopi12. Essenziale è invece una sinistra di parte, con una analisi di classe e un diffuso radicamento nel conflitto sociale, capace di ricostruire forme organizzate indispensabili per interrompere il sentiero della destrutturazione di ogni autonomia della politica inghiottita dalle potenze dell’economia in un processo di espropriazione che pudicamente viene definito democrazia del pubblico. La rottura della mediazione o forma non è la semplice conseguenza della democrazia del pubblico e delle nuove tecniche della comunicazione, è connessa invece al tramonto della soggettività politica del lavoro e alla metamorfosi delle democrazie del mercato che archiviano la questione sociale. Per questo non c’è più forma: si sono eclissati i soggetti. L’industria del rancore come “nuova” politica così riesce a soppiantare la critica, sostituire il conflitto e azzerare la capacità di costruire, rappresentare oltre la pura fotografia di passioni tristi, paure, sentimenti ostili. Il populismo, nel vuoto della mediazione, vince con l’amplificazione di emozioni e pronunciando l’indicibile. L’attitudine del populismo è quella di essere al tempo stesso sistema e antisistema. La ridefinizione di una nuova “forma” della politica non può consistere nel puro e semplice recupero della democrazia procedurale liberata dai barbari ma nella progettazione delle condizioni sociali, culturali, istituzionali di un governo pubblico dei disagi dell’età del capitalismo della globalizzazione.

Michele Prospero

1 Diamanti e M. Lazar, Popolocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2018.

 2  “Populari” contro “cittadini grandi”, molti contro i potenti sono gli “omori” opposti che da Machiavelli (Discorsi, in Opere, vol. I, a cura di R. Rinaldi, Torino, 1999) vengono analizzati come fonti di divisioni, inimicizie, zuffe (conflitti sociali orizzontali che istituiscono ordini e nuove libertà). La differenza delle declinazioni populiste è che nella polarità alto-basso si rinviene la costruzione di “formule” ingannevoli con le quali i poteri reali si nascondono, deviano.

3 L. Curini, Corruption, Ideology, and Populism, Palgrave Macmillan 2018, p. 161. Esiste un populismo etico che con istanze anticorruzione esalta il popolo puro e combatte l’élite corrotta. Oltre al populismo dell’onestà esiste anche il populismo a sostegno del capo liquidato dai magistrati politicizzati. Al populismo giustizialista si affianca un populismo antigiustizialista ostile alla separazione dei poteri

4 T. Lochocki, The Rise of Populism in Western Europe, Berlin, 2018, p. 7. Mentre il populismo della destra radicale nel suo primitivismo identitario ha un impianto illiberale, le versioni populiste delle formazioni conservatrici (oltre le ideologie, le dottrine) rimangono nello spettro democratico occupando nella competizione politica lo spazio comunitario-identitario-tradizionale proprio dei partiti di centro destra più moderati. Studiando “le cause dietro le cause” (p. 151) si comprende come la formula “for the nation, against the elite” si avvalga di efficaci tecniche di comunicazione politica per veicolare messaggi populisti (aspettative, identità) che consentono a partiti di nicchia di espandersi in tempi di crisi.

5 Dacombe, The Theories, Concepts and Practices of Democracy, London, 2018, p. 7.

6 Mounk, The People vs. Democracy, London, 2018, p. 43.

7 La grande recessione, con la sua contagiosa ansia di discesa per l’impoverimento dei ceti medi, è la causa immediata di rivolte anti-establishment, ma il trend della ribellione del populismo identitario e antipluralista è più lungo. La destra è pragmatica nel convertire istanze economico-patrimoniali in domande identitarie e la sinistra è altrettanto scaltra nel tramutare le tematiche sociali in diritti civili. Cfr. Lochocki, op. cit., p. 157.

 8 Lo schematismo dentro-fuori non è adottato solo da forze esterne ma anche da figure istituzionali, da soggetti interni che dal governo organizzano referendum istituzionali contro le poltrone, la casta. Anche la polarità alto-basso non copre le sole formazioni populiste irregolari ma le élite del potere. Sono gli abitanti dei piani alti dell’edificio del potere a scagliarsi contro il potere in nome del basso. Il sistema si fa antisistema. Se forze esterne costruiscono la rappresentanza in nome della rinuncia alla rappresentanza, forze interne al palazzo agitano la rottamazione delle èlite come valore. La forma dell’antipolitica non è esclusiva delle forze populiste. L’antipolitica come resistenza contro la casta è il profilo della cultura liberale ufficiale in Italia. La lotta contro la nomenclatura, contro la partitocrazia e poi contro la casta è l’ideologia della borghesia rispettabile.

10  Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Roma, 2015, p. 238.

 11  Innerarity, Democracy in Europe, cit.

 12 M. Bovero, Autocrazia elettiva, “Costituzionalismo.it”, 2015, n. 2. Il sistema democratico generato in autocrazia elettiva è già populista. Le ribellioni populiste confermano l’ossatura del populismo di sistema. Il risvolto della mitologia orizzontalista è infatti la dimensione plebiscitaria di un capo che, con il supporto dei media vecchi e nuovi, verticalizza l’esercizio del potere e lo indirizza contro la rappresentanza. La debolezza del liberalismo politico è la conseguenza di una rottura della forma novecentesca che precipita nella complessiva geografia dei poteri.

 

 

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