L’internazionale necessaria. Sinistra e globalizzazione
1. Sinistra
In un tempo di clamorose ambiguità terminologiche, quale quello in cui viviamo, una parola che ha sollevato le emozioni di generazioni di uomini, quella che indica lo schieramento politico di sinistra, ha subito una progressiva opacizzazione fino ad essere quasi del tutto fraintesa e perfino capovolta sul piano semantico. Di conseguenza, occorre ribadire con forza che non si può intendere per sinistra altro che una forza politica che, sebbene attraverso modalità eterogenee (riformiste o rivoluzionarie), intende la storia come un processo reale di trasformazione perennemente in atto e teso a traslocare sul piano della rappresentazione/rappresentanza politica le esigenze della democrazia radicale contro le classi liberali e proprietarie. In questo senso, pertanto, è altrettanto ovvio che il processo di emancipazione a cui la sinistra faceva da sempre riferimento aveva un’alta considerazione della sfera della politica/conflitto e considerava la mera amministrazione un semplice addentellato (magari successivo alla conquista del potere) che, se non marginale, certamente cedeva il posto alla sfera sociale e istituzionale del conflitto. Su questo punto, evidentemente, la sinistra, mentre si opponeva frontalmente ai “moderati” liberali, i quali preferivano usare la politica come strumento di perpetuazione del potere, si intersecava in più punti con la destra – anch’essa, sebbene con scopi essenzialmente diversi, volta a intenti trasformativi.
Nel nostro tempo, ciò che invece vediamo è una sfera politica totalmente assorbita dall’attitudine economico- amministrativa. L’amministrazione, la governance, è oggi dappertutto. È evidente, pertanto, che ci sia stato – lentamente ma progressivamente – un appiattimento verso il centro dello schieramento politico e che i conservatori hanno gradatamente espulso sia la sinistra che la destra estreme dagli schieramenti politici.
È vero, altresì, che la sinistra è sempre stata ben lontana dal presentarsi in forma univoca e con intenti convergenti. Tutt’altro. Essa, infatti, nel corso della sua lunga storia, è stata spesso posseduta da una vera e propria tendenza auto-disgregativa. Potremmo qui ricordare le sue fortissime divisioni interne al tempo della guerra fredda: lo schieramento dei filosovietici si contrapponeva in maniera irriducibile a coloro che sostenevano invece un riformismo liberaldemocratico. E, andando ancora un po’ più indietro nella storia, come non pensare alle divisioni fra riformisti e rivoluzionari che provocò la fuoriuscita del nascente partito comunista dal partito socialista (1921)? Continuando in questo gioco a ritroso, potremmo perfino tornare con la mente alle diverse modalità con cui le istanze tipiche della sinistra, ossia la lotta per i diritti umani e per il raggiungimento d’una migliore uguaglianza contro l’arroganza delle classi privilegiate, si sono svolte all’interno della prassi socio-politica, sfrangiata e caleidoscopica, costituita dalla Rivoluzione francese e dalla sua deriva napoleonica.
Pertanto, assunto che una vocazione alla divisione interna sia una costante della sinistra, ciò che conta sono le modalità con le quali tali divisioni appaiano oggi. La messa in rilievo delle differenze sostanziali dell’attuale rispetto alle fasi storiche precedenti, consente uno sguardo più incisivo nei meccanismi che guidano la storia, sulla base del quale forse potrebbe essere possibile offrire anche qualche idea al suo sviluppo.
2. Fine della sinistra?
Il problema del potere oggi sembra aver ormai oltrepassato le categorie novecentesche: destra e sinistra appaiono largamente superate dalla storia (per lo meno nelle loro attuali declinazioni). Non che non esista più il conflitto politico: evidentemente, quest’ultimo sarà vivo fino a quando vi saranno uomini. Il grande indice del mutamento, però, avvenuto in modo particolare a partire dal 1989, quando si ruppe il bipolarismo fondato a Yalta, è la disgregazione e la frammentazione del corpo sociale che un tempo si raccoglieva intorno alla “sinistra”.
E, appunto, a partire fondamentalmente dagli ultimi decenni del XX secolo, la sinistra si è frammentata in mille rivoli diversi e ha mutato perfino la sua essenza. Perché è accaduto tutto ciò e sulla base di che cosa? Non è facile rispondere ad una domanda simile, tuttavia, forse alcune realtà macro-sociologiche si possono indicare: sviluppo dei trasporti, crisi del bipolarismo di Yalta, avvento di internet e innovazioni tecnologiche, flussi migratori, nuove sovranità sovranazionali, limiti energetici e ambientali allo sviluppo di sistema ecc. Tutto ciò ha edificato realtà socio-politiche che hanno lentamente eroso la base sociale storica della sinistra, permettendo – appunto – l’introduzione di modalità meramente amministrative (e dunque conservative) che hanno eroso se non cancellato integralmente le forze tradizionalmente progressiste. Si è affermata, in tal modo, una visione della sinistra tutta interna al modello amministrativo-competitivo, a-statuale e per nulla sociale (Clinton, Blair), ossia quella che ha assunto come punti di riferimento il neo-liberismo di Reagan e Thatcher. I fenomeni che si sono legati a questa visione del mondo – convinta che l’arricchimento smodato dei pochi avrebbe favorito il miglioramento dei molti – ha prodotto fenomeni devastanti quali la finanziarizzazione estrema dell’economia, le privatizzazioni, i licenziamenti e le precarizzazioni nel mondo del lavoro, le pratiche di deregulation e l’enfatizzazione del ruolo dell’economia. Per quanto riguarda l’Europa, inoltre, la nascita dell’UE, data la diversa condizione di partenza dei popoli membri dell’Unione, ha reso necessario l’introduzione, in alcuni paesi, di severe politiche di austerity le quali si sono rovesciate quasi esclusivamente addosso al ceto medio e a quello basso senza neppure offrire a questi ultimi la possibilità di sentirsi rappresentati contro i ceti dominanti, e di conservare dunque la speranza, ma esponendoli semplicemente alla colpevolizzazione rispetto a se stessi. Questo modello di sinistra, in rotta di collisione rispetto ai suoi stessi valori tradizionali, portava alle estreme conseguenze quell’individualismo già da sempre annidato nel codice genetico della modernità. Diversamente dalle pratiche istituzionali e simboliche del Moderno, tuttavia, la visione del mondo della sinistra neo-liberal non trovava più alcun gruppo organizzato (neppure lo Stato) come argine simbolico o reale al proprio scatenamento.
La conseguenza immediata di tutto questo, accanto alla lacerazione del tessuto sociale e dell’idea stessa di comunità, è stato l’aumento esponenziale delle disuguaglianze e l’incremento delle tensioni sociali con il risultato che la grande parte della base elettorale della sinistra si è spostata in massa verso i partiti nazionalisti di destra.
Per quanto riguarda le classi intellettuali, le stesse che la precedente sinistra considerava guida insostituibile e preziosa nella direzione della conquista egemonica del potere, che cosa dire? Il minimo è che le élite hanno seguito pari pari la trasformazione (se non il tradimento) di cui erano state protagoniste le classi politiche. Slegati dai bisogni delle persone, quasi sempre a braccetto con banchieri e plutocrati, le élite intellettuali dirigenti della sinistra hanno perso la fiducia delle classi lavoratrici. Particolarmente efficace è la formula “radical chic” coniata nel 1970 da Tom Wolfe, scrittore e giornalista statunitense. Tale definizione, a mio avviso, è estremamente utile per indicare non soltanto coloro a cui era stata riferita direttamente da Wolfe, ossia gli intellettuali newyorchesi ricchi che, negli anni Sessanta e Settanta, ospitavano nei propri salotti ogni sedicente “rivoluzionario”, dalle Pantere Nere agli antimilitaristi di professione, agli hippy psichedelici. In realtà, tale definizione può essere estesa fino a raccogliere quegli intellettuali o politici che, nella loro visione della storia snobistica, benpensante, intellettualoide, quanto sostanzialmente ipocrita, rappresentano esattamente il clamoroso distacco delle élite dalla propria base di riferimento. A causa del tradimento delle classi dirigenti, pertanto, ma considerando anche altri elementi storico-contingenti, milioni di elettori di sinistra – appunto – hanno traslocato le loro simpatie politiche verso le destre – spesso nazionaliste e sovraniste.
Se questo è lo scenario complessivo, che cosa dunque rimane nell’orizzonte attuale della storia? Data la insopprimibilità del potere sovrano, a chi possiamo dire che la sovranità oggi appartenga? La grande novità storica è che il potere si presenta ora raccolto all’interno di due dimensioni fortissime e quasi inespugnabili: la tecnica e i suoi sacerdoti da una parte, e le sovranità transnazionali (per esempio l’UE) e i suoi sacerdoti , con relativi chierichetti, dall’altra.
Il potere, o meglio i poteri dominanti, schierano ogni giorno le loro immense risorse militari e di propaganda al fine di soffocare sul nascere l’emergere di una coscienza collettiva che possa poi divenire “di sinistra”. Non passa giorno senza che si registrino attacchi, il più delle volte pretestuosi e privi di fondamento, atti a scatenare la paura o le tensioni interne a masse inebetite. Del resto, si tratta di strategie già abbondantemente utilizzate in altri tempi, anche recenti, e non vi sono motivi per supporre che non possano funzionare ancora.
Non sono particolarmente ottimista circa il ritorno di una effettiva lotta politica democratica e di un ripristino di una sana dimensione del conflitto. Non lo sono non tanto perché consideri invincibili i poteri che oggi dominano il mondo, quanto perché le masse appaiono del tutto disgregate, incapaci di tenere una linea coerente e sprovviste di lungimiranza: afflitte altresì da una falsa coscienza rassegnata al proprio destino servile, se non totalmente inconsapevoli della posta in gioco. Senza l’apporto delle donne e degli uomini coscienti della loro libertà (ciò che il potere si affanna ogni giorno a deprimere), tuttavia, il conflitto politico indispensabile alle forze di sinistra non potrà in alcun modo attivarsi e crescere. Esiste il pericolo assai concreto che, nei prossimi decenni, il potere possa diventare ancora più inattaccabile ed esteso di oggi.
Tale pericolo è nutrito dalla crisi della rappresentanza istituzionale che fa da pendent alla passività di elettori /utenti, sotto molti aspetti, teleguidati in maniera emozionale e a-critica verso scelte per nulla consone a come dovrebbero essere le scelte di un elettore democratico, ossia informate e ben elaborate. Come già era stato, in maniera visionaria, annunciato da una grande linea del pensiero politico che va da Tocqueville ad Arendt, attraverso Nietzsche e i Francofortesi, l’homo (post) democraticus, nella sua postura dromologica e privo delle risorse tradizionalmente affidate alla dialettica e all’elaborazione, orfano di immaginazione e incapace di approfondimento, appare destinato a privilegiare atteggiamenti “automatici”, “ideologici”, disarticolati, incoerenti e di corto respiro. In tal modo, pertanto, l’epoca della complessità diviene – per singolare paradosso – quella del non-pensiero. Non può che essere tale infatti l’atteggiamento di un uomo globalizzato meramente formato dalla tecnica e dal denaro, alienato e sradicato, irreggimentato non più, come avveniva nel moderno, nelle masse guidate da un ideale e volte verso una frontiera, ma abbandonato nel vuoto di una solitudine che, per essere colmata, per evitare l’angoscia estrema, ha davanti a sé soltanto la linea di fuga verso un conformismo omologante e mimetico che non richiede alcuno sforzo e che solleva dalla fatica inevitabile connessa ad una soggettivazione “singolare”.
Il moderno aveva esordito con l’idea del dominio prometeico da parte dell’uomo sulla natura. L’uomo della modernità aveva spostato incessantemente le proprie frontiere proprio allo scopo di superarle. La tecno-scienza era esattamente questo. Alla fine del percorso moderno, ci ritroviamo però con un apparato costruito dall’uomo che esercita diabolicamente il proprio dominio sull’uomo stesso. La città elettronica (la Ecity) estende le proprie propaggini su tutta la terra e chiede ad ogni singolo uomo di costituire nient’altro che una piccola, insignificante rotella del suo immenso meccanismo. Le donne e gli uomini del XXI secolo sono spinti incessantemente verso processi di soggettivazione tesi alla costruzione di una child society nella quale una grande entità – la tecno-finanza – provvede a tutte le esigenze umane in cambio della libertà e del pensiero.
Provare a ricostruire una piattaforma teorica di sinistra non dovrebbe significare anzitutto prendere posizione rispetto a questo?
3. Possibilità
La fine dell’universalismo statuale, oltre ad aver fatto emergere soggettività prima compresse, ha dato spazio ad una situazione socio-istituzionale con tratti marcatamente nichilistici. La globalizzazione, in questo quadro, sembra costituire ormai un mondo chiuso su se stesso: asfittico e claustrofobico. In conclusione, e soltanto in maniera evocativa, mi piacerebbe sottolineare però che le possibilità per un nuova sinistra, benché assai fragili, esistono. Si tratta di un sentiero strettissimo, arduo da frequentare e che necessita di tempi probabilmente lunghissimi.
E dunque: intanto, l’universalismo non dovrebbe essere identificato sic et simpliciter con la città elettronica globalizzata, sradicante e priva di contenuti che non siano quelli legati all’impero della tecno-finanza: occorrerebbe cioè costruire un senso inedito dell’universalismo: un’’“idea” universale di uomo fondamentalmente rimossa nell’ambito dei secoli moderni che oggi, del resto, sembra ancora tanto lontana. Si tratta di una prospettiva potente, poiché capace di svuotare dall’interno sia i comunitarismi ultra-blindati delle nuove destre, sia l’astrazione iper-tecnologica, anonima e impersonale, delle sinistre neo-liberal: è un universalismo concreto, nel quale le esigenze dei corpi vissuti, in quanto originariamente segnati da un’appartenenza data dalla memoria storica e dal legame con uno spazio/ambiente determinato, possono senz’altro essere investite di senso all’interno di uno spazio globale nel quale il confronto fra libere differenze non sia assoggettato alla logica imperialistica ed omologante del capitale finanziario.
In un tempo in cui l’universalismo è lasciato al nichilismo della tecno-scienza e al consumismo planetario, il compito più difficile ma anche più urgente è quello che si sforza di recuperare il senso universale dei corpi prima ancora che questi siano cooptati nello spazio impersonale e anonimo della ecity. In effetti, uno dei connotati della tecnica è proprio quello di impedire alla soggettività di attivare le intenzionalità dei corpi, obliterandole a favore di un dogmatismo spersonalizzante quanto omologante. I corpi nei quali sono sedimentate le innumerevoli memorie storiche andrebbero, di contro, valorizzati e fatti esprimere a pieno, alla luce di uno spazio pubblico (esterno ormai ai confini dello Stato moderno) nel quale agiscono libere differenze ed intervalli singolari.
Il capitalismo contemporaneo ha l’ambizione di slegarsi da qualsiasi contenuto di senso culturale: si tratta di un nichilismo che pensa se stesso – paradossalmente – come un’affermazione senza precedenti della libertà. Il capitalismo contemporaneo, diventato città elettronica globalizzata, ha la necessità vitale di corrodere e cancellare i significati culturali locali, poiché ha bisogno di estendersi senza alcun condizionamento pre-esistente che possa ergersi come limite alla diffusione della tecno-finanza.
Tuttavia, il capitalismo della ecity contemporanea non si riconosce in quanto nichilismo. Esso, al contrario, trasforma la cancellazione del senso di cui è protagonista, in una proliferazione incessante di significati/eventi. Ciò produce non soltanto l’”impercezione” del capitalismo in quanto nichilismo, ma anche la dimenticanza del vuoto di senso di cui il capitalismo stesso rappresenta l’espressione più compiuta. E così, nel proliferare incessante di eventi/vuoti, anche il dissenso diviene parte attiva della mega-macchina universale: è infatti del tutto ovvio che, all’interno di un orizzonte di questo tipo, non si possa in alcun modo parlare di una logica antagonistica. In realtà, le forme di critica, come piccoli o grandi trompe-l’oeil, risultano perfettamente organici al sistema e vengono perfino utilizzati come motore del suo stesso dinamismo. Non è possibile opporsi alla ecity: essa, come un gigantesco magnete cosmico, non smette di esercitare un’irresistibile forza ipnotica. Forse se ne può parlare soltanto con termini teologici, dal momento che il capitalismo contemporaneo è un sistema di produzione economico che coinvolge in sé, e che anzi presuppone, una visione del mondo globale che si radica in un’antropologia storica assai peculiare. In questo senso, avevano visto giusto coloro che scorgevano nel capitalismo una vera e propria religione. Si tratta, però, di una religione senza dogmatica né teologia ma interamente fondata sul “culto”, ossia la produzione e il consumo innalzati a festività permanente. Il capitalismo concerne un culto inteso come pratica costante del debito e dunque del peccato: un peccato che non prevede alcuna redenzione, mentre il mondo vive costantemente accanto alla possibilità dell’apocalisse. Nel capitalismo non è prevista espiazione, bensì radicalizzazione e universalizzazione della colpa.
In un orizzonte simile, pertanto, per poter acquisire un ruolo politico di sinistra, la critica dovrebbe acquisire coscienza di sé al punto da diventare “senso del vuoto”: soltanto in tal modo, essa potrebbe innervare nuove “simboliche” di azione politica. In questa maniera, cioè, attraverso la modulazione attiva di corpi portatori di memoria e di concretezza storica, sarebbe possibile restituire al politico una dimensione di partecipazione tale da assurgere ad un ruolo di reale antagonistico rispetto alla ecity globalizzata.
È chiaro che tutto ciò presuppone però una nuova investitura politica. Lo spazio pubblico in quanto tale dovrebbe ritornare – sia pure con modalità che rimangono in larga misura da inventare – a rivestire un ruolo significativo. Soltanto una ripoliticizzazione dei corpi e del loro essere in comune appare in grado di ridare vigore ad una globalizzazione che oggi presenta soltanto tratti nichilistici. La peggiore globalizzazione è quella che tende, invece, alla spersonalizzazione del rapporto lavorativo e alla strutturazione endemica del disagio, alla de-localizzazione della produzione e alla costruzione di oligarchie assolutamente indifferenti alla realtà dei singoli. La globalizzazione in senso deteriore costruisce modelli sganciati dalle realtà locali, ma non prende in considerazione un fattore decisivo, ossia che la politica abita nei corpi delle donne e degli uomini, così come è nei territori dove i corpi vivono la loro esperienza che si accumulano le memorie individuali e collettive. Non che nei territori ci si possa ritrovare in una maniera romanticamente “autentica”. Non è a questo che penso. Al contrario, ritengo che lo specifico dell’uomo non sia affatto ritrovarsi quanto piuttosto perdersi, per poi ri-conoscersi. E, tuttavia, non è possibile né perdersi né tantomeno riconoscersi quando la propria identità storica accumulata nelle memorie dei corpi e dei territori siano obliterati dal dogmatismo tipico della città globale.
In questa luce, pertanto, appare di somma importanza disoccultare la particolarità soggettivo-corporea (con le relazioni comunitarie che essa già da sempre implica) dalla coltre fittissima degli aspetti macchinali che la ecity globalizzata comporta. Si tratta di elementi in grado di destrutturare un biopotere feroce ed inflessibile che dispone di capacità manipolatorie senza precedenti. Dati questi presupposti, sembra che dal nichilismo della città elettronica, in realtà, non si possa uscire: e comunque non subito e forse mai del tutto. La società dei simulacri, il grande apparato della tecno-scienza, si im-pone con una forza che appare invincibile.
Eppure, anche la paura di deragliare dai binari del potere sociale, come tutte le cose umane, ha i suoi limiti. Non sono rari i momenti e le circostanze nelle quali i timori sono meno grandi delle realtà che li hanno fatti nascere. Occorre però fare attenzione a non credere di potersi opporre alla macchina in maniera soltanto apparente – come quando si entra nel gioco perverso della violenza collettiva – mentre non si sta facendo altro che alimentarla. In realtà, nessun approdo ad un altro orizzonte storico-culturale sarà possibile se non passando attraverso lo stretto sentiero della coscienza individuale. È soltanto grazie a quest’ultima, infatti, che potrà avvenire la lotta difficile nei confronti del nichilismo della tecno-finanza. Dovrà essere soltanto la coscienza, cioè, a combattere contro quei dispositivi macchinali nei quali siamo già da sempre strutturati e che ci costituiscono in quanto soggetti sociali: quegli stessi che, magari senza che ce ne avvediamo, vanno a costituire un piccolo meccanismo dell’immenso apparato universale. Il dovere primario sarebbe allora quello di liberarci da convinzioni, pregiudizi, concetti imposti dall’esterno e perfino da desideri che stentiamo a distinguere da noi stessi. Parallelo a questo, dovrebbe essere il compito di rivoltarci, magari anche attraverso modalità non violente di disobbedienza civile: coscienze individuali capaci di costituire un fronte comune per un nuovo tessuto di senso.
Nessun sistema è tanto irrispettoso della singolarità umana di un modello di sviluppo tale che, prima di guardare agli uomini e alle relazioni concrete, costruisce una città elettronica davanti alla quale gli individui possono soltanto scegliere se entrarvi come meccanismi insignificanti o esserne esclusi come carne superflua. In fondo è questo l’attuale scenario oscillante fra la ecity e la no city. Una tappa ulteriore della civiltà umana, invece, avrebbe il compito di recuperare l’idea secondo la quale i corpi sono differenze in atto da mediare incessantemente all’interno di uno spazio democratico e che non vi sono differenze che non vivano concretamente all’interno di corpi incessantemente desideranti e agenti su un piano di universalità.
Sebbene la coscienza individuale detenga il ruolo fondamentale quanto alle possibilità di rilanciare un’autentica lotta “di sinistra”, è necessario altresì sottolineare come nulla sia più indispensabile, se si intende procedere in questa direzione, quanto la creazione di un’unità. Senza quest’ultima, infatti, senza la coordinazione in un movimento unico di masse post-statuali liberate dagli egoismi nazionalistici e capaci di visualizzare gli interessi comuni (la violenza sull’ambiente, il nascente pauperismo, la consapevolezza dei rischi di guerre globali, la crescita delle disuguaglianze) nessuna emancipazione sarà mai possibile. Nel tempo della globalizzazione, nel nostro tempo, troppi sono i vincoli che possono essere opposti e imposti a gruppi di sinistra che intendessero rivoltarsi contro l’ordine dominante rimanendo però soltanto all’interno di un ambito nazionalistico (connotabile ormai in senso sempre più provinciale). Occorre(rebbe) dunque – mutatis mutandis – una nuova Internazionale. E ciò è paradossale, poiché quanto più c’è bisogno di unità e di internazionalismo, tanto più le masse contemporanee appaiono disarticolate e atomizzate: disponibili a rinvenire soltanto nella tecnologia massmediatica il proprio elemento aggregante e/o dis-aggregante.
In ogni caso, nonostante le difficoltà del lavoro, mi sembra abbastanza indubitabile che una sinistra degna di questo nome abbia, oltre che il compito, anche la necessità storica di procedere in tale direzione.
Antonio Martone
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