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La filosofia delle donne: uguaglianza, differenza, in-differenza

Nel secolare percorso della vicenda umana non c’è dubbio che quella della donna sia una storia a sé. Le lunghe ed estenuanti lotte condotte dall’«altra metà del cielo», prima alla ricerca dell’uguaglianza, quindi, in epoca a noi più vicina, per rimarcare la differenza dall’essere maschile, derivano innanzitutto da alcuni fondamenti della cultura occidentale, e da politiche sociali concrete, che hanno impostato il rapporto con la donna all’insegna della discriminazione e della maledizione.

1. Un antico pregiudizio

Che si tratti di un essere fisiologicamente connaturato al male, capace di accoglierlo e di produrlo (e riprodurlo?) in maniera perfino inimmaginabile da parte dell’uomo, è convinzione radicata e agevolmente riscontrabile nel panorama culturale dell’Occidente. Se è la prima donna Eva a convincere il primo uomo Adamo a disobbedire al volere divino, introducendo così nel mondo il peccato e soprattutto la morte, secondo la chiosa di S. Paolo (Biblia sacra: Rom 5,12), morte che Dio non aveva previsto originariamente per la sua creatura prediletta (Biblia sacra: Sp 2,24); è sempre una donna, stavolta la moglie, a tentare il buon Giobbe, descritto di per sé come «integro e retto, timorato di Dio ed estraneo al male», esortandolo a maledire Dio per tutti i colpi gratuiti ricevuti (Biblia sacra: Gb 1,1 e 2,9).

Né le cose andavano meglio nella cultura della Grecia antica, dove la donna era vista come un essere irrazionale e ferino, sostanzialmente portatore di discordie, guerre e, infine, morte. Nel poema esiodeo de Le opere e i giorni è Pandora, una donna, colei che recita il ruolo di portatrice dei doni che gli dèi fanno agli uomini (fra i quali proprio le donne), dando in questo modo inizio alle interminabili sciagure che da quel momento li avrebbero colpiti (Esiodo, Opere e giorni: vv. 80-82).

Paradigmatico il caso della Medea raccontata da Euripide, che in seguito al tradimento del marito rivela quella che significativamente il tragediografo descrive come un’«indole odiosa e feroce che tutta la riempie» (Medea, vv. 103-104), fino al punto di uccidere i figli e negargli persino la sepoltura, pur di vendicare il proprio sentimento offeso e infliggere dolore al coniuge fedifrago.

Alla furia animale, la Medea di Euripide aggiunge anche l’immancabile nota irrazionale, per esempio quando al marito Giasone che piangeva la morte dei due cari («Figli miei diletti») ella, che pur li aveva uccisi con crudeltà, riesce a rispondere «[diletti] alla madre, non certo a te» (Medea, v. 1397). Una visione, quella di Medea, al tempo stesso olistica e totalitaria (il nucleo famigliare come entità unica e indistinta, per cui il male che colpisce un singolo elemento coinvolge, deve inevitabilmente coinvolgere anche tutti gli altri), ma anche figlia di una deresponsabilizzazione ritenuta del tutto tipica della donna (non sono io a uccidere i figli, è stato mio marito con il suo gesto fedifrago e distruttivo. Io anzi li amo, lui no).Questa connotazione originaria con cui viene definita l’essenza della donna fin dai testi più antichi e fondanti della tradizione occidentale, è certamente alla base di tutto il portato di discriminazioni intellettuali e sociali che ne sono seguite, e che trovano in san Paolo, ideologo del cristianesimo, il suggello più autorevole.

E’ lui, infatti, che pur in altre opere aveva pronunciato delle parole inaudite per quei tempi, ispirate alla perfetta uguaglianza fra tutte le creature di Dio, comprese il maschio e la femmina (Biblia sacra: Gal 3,26-28), ad esprimersi in maniera inequivocabile attraverso delle vere e proprie sentenze che sarebbero rimaste indelebili sulla parete della coscienza cristiana e occidentale:

Voglio tuttavia che sappiate che capo di ogni uomo è Cristo, capo della donna è l’uomo e capo di Cristo è Dio […] Le mogli siano obbedienti al proprio marito come al Signore […] Le donne tacciano nelle assemblee, perché non è permesso loro di parlare: siano sottomesse, piuttosto, come recita la legge (Biblia sacra: 1Cor 11,3; Ef 5,22; 1Cor 11,8).

Una vera e propria paura della donna, mista a una sottovalutazione a dir poco sospetta, visti i toni estremi, che certamente, come scriveva Jean Delumeau nel suo illuminante La peur en Occident (1978: 309), non costituisce una prerogativa esclusiva dell’ascetismo cristiano, visto che a Roma si considerava la «debolezza» o «pusillanimità» mentale della donna (imbecillitas mentis) come un dato perfettamente naturale, e anche nella tradizione greca, malgrado l’ampio lasso di tempo che separò le opere di Esiodo e Omero dall’Atene democratica, le cose non cambiarono molto, visto che un campione della democrazia come Pericle poteva affermare (anticipando S. Paolo) che «la virtù più grande di una donna è saper tacere» (cfr. Fossier 1991: 360).

2. Fra tradizione pagana e cristiana

L’analisi incrociata della tradizione cristiana e di quella pagana conduce sostanzialmente allo stesso assunto di fondo: quello di una creatura, la femmina, viziata fin dall’origine, difettosa e quindi portatrice insana di un virus malefico ben capace di distruggere l’armonia terrena, e anzi, a pensarci bene, perfettamente in grado di identificarsi con quel «male» che è caratteristica della vita mondana segnata dall’assenza di Dio e quindi del Bene (privatio boni).

Per la tradizione pagana Aristotele si impegna a descrivere con analisi minuziose l’inferiorità e la difettosità dell’anatomia femminile rispetto a quella maschile, concludendo che le femmine «sono per natura più deboli e più fredde, e si deve supporre che la natura femminile sia come una menomazione» (Aristotele, De gen. anim.: 775a, 15- 16), ma anche lo stesso Platone, pur alieno dal maschilismo viscerale degli altri filosofi antichi, nel Timeo (90e – 91a) immagina che la donna sia stata prodotta da un processo di corruzione dell’uomo.

Per la tradizione cristiana, si può ricordare S. Ambrogio, che nella fisiologica diversità fra l’uomo che è spirito (mens) e la donna che è sensazione (sensus), riteneva di scorgere la risposta al quesito teologico del tempo, cioè se fosse più colpevole Adamo oppure Eva nell’aver ceduto alla tentazione del maligno: sicuramente Adamo, perché lei non era particolarmente furba, e aveva dalla sua la scusante della stupidità» (S. Ambrogio, De inst. Virg.: PL 16, col. 325). Ma anche S. Tommaso, che nella Summa theologiae riprende proprio Aristotele e la definizione che questi dava della donna in quanto «maschio mancato» (mas occasionatus), per arrivare a confermare la sua sottomissione e inferiorità rispetto all’uomo (subiectio et minoratio), nei confronti del quale ella svolge un ruolo di aiuto, ma soltanto finalizzato a «cooperare alla generazione» (in adiutorium generationis), perché per tutto il resto altri maschi potevano essere ben più efficaci.

E del resto, che di solo aiuto si tratta, lo evinciamo dal fatto che anche nella procreazione è comunque l’uomo, con il suo seme, a svolgere un ruolo attivo (virtus activa), mentre a quell’essere «difettoso e mancato» (deficiens et occasionatus) che è la donna resta una mera funzione passiva di instrumentum procreationis (Tommaso d’Aquino, Summa Theol.: I, q. 92, arg. 1,2, co. e ad. 1).

Insomma, irrazionalità, debolezza (fisica ed emotiva), pusillanimità, difettosità generalizzata della sua natura, ma ancora, aspetto imperdonabile e irrecuperabile per la cultura cristiana, «porta del Diavolo» (diaboli janua), «prima ad abbandonare la legge divina» (legis prima desertrix), di fatto vera e propria incarnazione del male (Tertulliano, De cultu foem.: PL 1, col. 1419).

Siamo di fronte a un marchio indelebile, destinato a caratterizzare per secoli la reputazione e la condizione della donna, nonché a giustificare ampiamente l’oppressione maschile e le discriminazioni attuate nei suoi confronti lungo i secoli. Marchio tanto indelebile quanto influente: indelebile perché non risolvibile neppure con l’educazione e l’istruzione, influente perché capace di convincere di ciò persino una personalità illuminata come quella di J.J. Rousseau (non certo l’unico), che nell’Émile ou de l’éducation scrive:

Tutta l’educazione delle donne deve essere relativa agli uomini. Piacere loro, essergli utili, farsi amare e onorare da loro, allevarli da giovani e prendersi cura di loro da adulti, consigliarli, consolarli, rendere la loro vita piacevole e dolce: ecco i doveri delle donne in tutti i tempi e ciò che bisogna insegnargli fin dalla loro infanzia (Rousseau, O.C.: II, 637).

Il timore che la fragilità innata impedisse alle donne di impegnarsi negli studi più alti è stato condiviso anche al di là dell’Oceano, e per di più quando già eravamo da poco entrati nel XX secolo. Negli Stati Uniti, infatti, alcune commissioni mediche vennero incaricate di analizzare le prime studentesse con lo scopo di prevenire il sovraffaticamento del cervello e verificare il timore diffuso che lo studio troppo impegnativo potesse implicare la sterilità delle loro ovaie (Matthaei 1985: 5).

Un pregiudizio imponente e sedimentato nel sentire comune degli individui dalla matrice culturale più varia e diversa. Un vero e proprio muro all’apparenza insormontabile, destinato a separare la donna dal raggiungimento di una consapevolezza e di una riconoscibilità culturale e sociale in grado di parificarla all’uomo.

3. Uguaglianza e differenza

La ricerca di una parità, infatti, o se si preferisce dell’uguaglianza, è stato il leit-motiv costante delle prime battaglie culturali condotte in difesa delle donne, quasi un programma minimo di reazione, si potrebbe dire col senno di poi, volto a tentare di scalfire quel grande muro costruito con le pietre della maledizione e del pregiudizio. Prendiamo il caso di Mary Wollstonecraft, per esempio, che esattamente trent’anni dopo l’Emilio di Rousseau compone un’opera, forse la prima sistematicamente compiuta nel panorama della letteratura femminista, che sembra una risposta diretta al filosofo francese. Per esempio là dove scrive che «per rendere il contratto sociale veramente giusto, con lo scopo di diffondere quei principi illuminanti che soli possono migliorare il destino dell’uomo, alle donne deve essere concesso di fondare la propria virtù sulla conoscenza, cosa scarsamente possibile se non vengono educate con gli stessi criteri e obiettivi degli uomini» (Wollstonecraft 1792 (1891): 250).

La scrittrice inglese riconosce il livello inferiore delle donne dell’epoca, per lo più interessate all’aspetto estetico, alle storie d’amore e alla sola, piccola e misera, dimensione privata. Ma imputa tale condizione non a un’inferiorità congenita, bensì alla società governata dai maschi, che esclude la maggior parte di loro dalla possibilità di ricevere un’educazione culturale e mentale adeguata.

Si tratta di un’esplicita richiesta di uguaglianza delle opportunità, con delle finalità neppure troppo sconvolgenti (per l’ordine valoriale della tradizione occidentale). Infatti Wollstonecraft sottolinea sì la «massima importanza» che deve essere riconosciuta all’educazione nazionale delle donne, con lo scopo ultimo di renderle «creature razionali» e «libere cittadine» affinché possano diventare «buone moglie buone madri» (Wollstonecraft 1792: 255 e 257).

Certo, si era saliti di livello. In quel «libere cittadine» era comunque insita un’istanza sociale che ha caratterizzato per oltre un secolo la fase cosiddetta «liberal-democratica» della lotta femminista, e che si poneva come scopo quello di far raggiungere alle donne un trattamento paritario all’interno delle società liberali che si erano affacciate alla rivoluzione industriale.

Fatto sta che i protagonisti della tradizione liberale si guardarono bene dall’accogliere tale istanza, tanto che anche lo stesso pregiudizio negativo nei confronti delle donne fece riscontrare un salto di qualità. Non più confinato alla sola sfera dell’indole e della conformazione fisica più debole (e quindi inferiore), ora si tentava di bollare la donna come costituzionalmente incapace di coltivare delle virtù pubbliche e civili, insomma di interessarsi al bene della collettività e della società. Ed è in nome di questo ulteriore pregiudizio che i pensatori liberali, ma anche gli stati che si richiamavano a tale nobile tradizione, esclusero per secoli le donne dal godimento di quei diritti politici e sociali che pur essi teorizzavano con tanta enfasi.

Basti pensare al padre del liberalismo economico, Adam Smith. Questi, ritenendo che il possesso della generosità e dello spirito pubblico fosse fondato sullo stesso principio della giustizia, distingue la generosità dall’umanità e conclude che quest’ultima è una virtù della donna, mentre la prima appartiene all’uomo. Il «sesso debole» è sì fornito di umanità e maggiore sensibilità rispetto al maschio, ma si tratta di una dote che si estrinseca nella sfera privata, quella della cerchia ristretta degli affetti. Nel più ampio ambito sociale la donna è meno generosa e meno disposta a impiegare i beni propri o della propria famiglia per il bene della collettività (Smith 1759: 190). Allo stesso modo la pensava Tocqueville, compiaciuto nel notare come nella democrazia americana ci si guardava bene dall’impegnare le donne negli affari politici e sociali, che esulassero da quell’ambito famigliare in cui lei è sì la regina, ma comunque sottoposta all’uomo che ne è il «capo naturale» (chef naturel) (Tocqueville 1951 sgg., t. I, v. II: 219-220). Non c’era niente da fare, insomma, perché il pregiudizio naturalistico si estendeva con grande facilità anche all’ambito sociale, portato avanti da quegli stessi autori liberali da cui era lecito attendersi una ricerca dell’uguaglianza delle opportunità.

È a partire da questi presupposti che il movimento femminista decise di compiere un salto di qualità, concentrandosi sul principio della «differenza sessuale» e non più su quello dell’emancipazione e della ricerca della parità fra uomo e donna. Gli scritti di autrici come Luce Irigaray e Julia Kristeva ebbero un’influenza enorme soprattutto sul movimento femminista italiano, artefice di una dura requisitoria contro il concetto di uguaglianza inteso come momento incapace di valorizzare le differenze di un essere, quello femminile, che doveva uscire dall’ordine costituito maschile e liberarsi dai rischi dell’omologazione. Insomma, se «lo sfruttamento delle donne è fondato sulla differenza sessuale, non può risolversi che attraverso la differenza sessuale», secondo le parole della stessa Irigaray (Boccia 2002: 155-8).

La donna, insomma, almeno quella immaginata dalle femministe, prende le distanze da quel cosmo maschile che l’ha culturalmente bollata e relegata ai margini più bassi del consorzio sociale, e nel fare questo, in maniera coerente, si trova a rimettere in discussione ogni aspetto della storia del pensiero, della storia e della prassi politica, persino del linguaggio, poiché questi sono tutti rami di una pianta malata all’origine: la pianta di un mondo pensato dagli uomini e per gli uomini, in cui la donna è destinata a recitare un ruolo marginale, quando non subordinato o del tutto strumentale (servile).

4. Per un nuovo femminismo tra Freud e Hegel

Non è compito di questo saggio tentare di trarre un bilancio della deviazione estremistica posta in essere dal movimento femminista negli ultimi decenni del XX secolo, né certamente di tentare un bilancio esaustivo della vicenda femminile nel suo complesso, quanto piuttosto evidenziare quello che mi sembra un ulteriore salto di qualità nel rapporto tra filosofia e pensiero femminista.

Questo ulteriore salto di qualità è composto certamente da slanci in avanti significativi, ma anche da ripensamenti tanto inaspettati quanto prolifici sul piano della speculazione scientifica e su quello di una nuova percezione che le donne posso avere della propria identità di genere.

L’occasione è fornita dall’uscita, per i tipi di Mimesis, del Manifesto per un nuovo femminismo, a cura di Maria Grazia Turri (pp. 236), filosofa ed economista dell’Università di Torino, che si avvale dei contributi di studiose e studiosi di estrazione culturale e ambiti disciplinari diversi.

Dalla lettura di questo testo, veniamo a scoprire un cambiamento radicale di atteggiamento che si manifesta fin dalla premessa contenuta nel saggio intitolato «Specchio», della psicologa e ricercatrice dell’Università di Bologna Sara Giovagnoli. La cui lettura mi ha ispirato una parafrasi del celebre incipit del Manifesto di Marx ed Engels: un fantasma si aggira dentro l’animo di ogni donna! Tremendamente capace di condizionarla, di fornirla di senso come anche di annichilirla.

Si tratta dello sguardo dell’uomo, una sorta di vero e proprio specchio interiore attraverso cui la donna cerca quell’approvazione in cui reperire finalmente una propria identità pacificata. In questa strettissima dipendenza dall’approvazione dello «sguardo» maschile risiedevano l’errore fatale e la debolezza congenita della donna fin dai tempi di Simone de Beauvoir, che nel suo celebre Il secondo sesso (1949) scriveva già di una «fanciulla che ha sognato se stessa attraverso gli occhi di uomo: negli occhi di un uomo la donna crede finalmente di ritrovarsi» (de Beauvoir 1949: 627).

Lo scopo supremo dell’amore umano è il medesimo dell’amore mistico, ossia l’identificazione con l’amato, la ricerca della sua approvazione, il bisogno di servirlo, di trovare in esso l’identità e il senso della vita, che altrimenti sfuggono tragicamente relegando l’individuo in una dimensione chiusa e soffocante. Senza speranza alcuna di un possibile salvezza.

L’essere che ama per antonomasia è la donna, come scriveva il Nietzsche de La gaia scienza, capace del «dono totale dell’anima e del corpo», con una dedizione incondizionata che fa del suo amore «una fede, la sola che abbia» (cit. in de Beauvoir 1949: 623). La forza dell’uomo consisterebbe proprio in questo disequilibrio, perché esso non si concede mai del tutto, non abdica mai per farsi servitore della donna amata, mentre a lei è concesso di amarsi soltanto attraverso l’amore che ispira, secondo le parole di de Beauvoir riportate in apertura del suo saggio da Giovagnoli (p. 195).

Questo aspetto, possiamo dire consustanziale all’animo femminile, è quanto forse è stato più trascurato dall’ala estremista del movimento femminista, che nel rimarcare la «differenza» delle donne ha spesso dimenticato di «pensare» (e quindi concettualizzare) quelli che sono gli elementi anche di debolezza insiti in quella differenza:

Così come Freud vedeva nelle donne della sua epoca il motivo portante del disagio della civiltà e il simbolo evidente della repressione sociale – scrive Giovagnoli con perspicacia profonda e suggestiva – così oggi, nell’illusiva parvenza di parità, nella corsa alla conquista del negato, possiamo vedere nella donna moderna una persona altrettanto frustrata, non più vittima della repressione sociale, ma della sua stessa repressione. È lei stessa che si vincola, che si impone delle rinunce, che castra il suo essere donna e si getta tra le braccia della nevrosi. Forse è meglio cadere vittima per propria mano che per quella altrui? Meglio una castrazione autoinflitta di una subìta? Ma poi, a prezzo di tutto ciò, le donne di oggi hanno realmente maggior potere? Abbiamo parlato dell’attrazione, sfruttata come oggetto, un mezzo per arrivare alla mèta finale (affermazione dell’intelletto). Ma, a parere di chi scrive, più che una proprietà della donna, sembra una concessione dell’uomo. Nell’illusione del pieno controllo del mezzo, ci troviamo ancora una volta a subire una decisione altrui. Il credere di sfruttare questo potere è un misero ripiego per nascondere un’ulteriore imposizione. È in realtà l’uomo che ci concede il potere illusorio dell’attrazione, che non è mai appartenuto fino in fondo alla donna. Scarso o nullo è, in verità, il potere che ella ha sulla razionalità maschile (p. 206).

Ora, tralasciando il fatto, peraltro non marginale, su quanto converrebbe all’economia globale della società che la donna riuscisse effettivamente a «scalfire» l’impianto razionale dell’uomo (materia di discussione pressoché infinita), bisogna prendere atto di un dato filosofico sostanziale che sembra uscire da questo Manifesto: la proposta di riappacificazione del pensiero femminista con Freud (o quantomeno un tornare a leggerlo con obiettività e profitto), il cui contenuto obiettivamente maschilista di alcuni scritti è stato fin troppo volgarmente esasperato, ma anche con Hegel, il pensatore su cui le femministe storiche proponevano di «sputare».

E non tanto lo Hegel che riproduceva gli schemi reazionari già visti, per esempio nella Fenomenologia dello spirito, in cui definisce il «feminino» come l’«eterna ironia della comunità», l’elemento limitato e limitante pronto a sminuire il fine universale del governo riconducendolo a fine privato, a «possesso e orpello della famiglia», oppure nella Filosofia del diritto, dove attribuisce all’uomo una vita sostanziale e reale che si realizza nello stato e nella scienza, a differenza della donna, per cui ciò avviene esclusivamente nell’ambito della famiglia (Hegel 1807, v. 2: 34; 1821: § 166).

Quanto piuttosto, potremmo dire, con il metodo dialettico hegeliano, nella misura in cui esso permette di superare la contrapposizione duale maschio/femmina, per rimettere al centro il concetto di individuo, non più sospeso nella dicotomia differenza/uguaglianza, ma riconosciuto e sintetizzato nel concetto di libertà (che le contiene, o le dovrebbe contenere, entrambe).

Un aspetto quanto mai centrale per l’epoca odierna, in cui occorre andare oltre, e qui risiede una tesi dirompente del volume, per superare quel femminismo anacronistico che, rimanendo comunque ancorato alla rigida distinzione di genere (o «differenza»), dimentica «tutto il resto del mondo», come scrive la curatrice Maria Grazia Turri nel suo lungo saggio introduttivo. Come per esempio i gay uomini, a cui una femminista storica del calibro di Luisa Muraro voleva negare il diritto di adozione dei bambini, ma anche i transgender, gli ermafroditi etc..

Mai come oggi, insomma, un pensiero femminile e femminista che voglia superare le rigide dicotomie dell’ordine maschile, nonché la logica del dominio e dell’esclusione che lo sottende, deve innalzarsi alla considerazione dell’individuo nella sua irriducibilità generica e sessuale, compiendo un salto di qualità che comprenda le persone non nella loro «differenza», quanto piuttosto nell’in-differenza che le caratterizza come esseri umani (a prescindere dal sesso, dalla razza, dal censo etc.). Cosa che del resto era stata intuita già da Judith Butler nel suo Gender Trouble del 1990 (ora rieditato in italiano attraverso una pregevole edizione per i tipi di Laterza: J. Butler, Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, pp. 221), là dove scriveva che «la categoria del sesso e l’istituzione naturalizzata dell’eterosessualità sono costrutti, fantasie o feticci, categorie politiche e non naturali» (Butler 1999: 126).

Il superamento dell’antico pregiudizio di cui è stata vittima la donna, in nome del quale si è esercitato su di essa un dominio secolare, non può essere superato, almeno non da un pensiero femminista che opera in un’epoca e in una civiltà evolute e libere, attraverso la riproduzione di schemi dicotomici che possono generare nuove forme di dominio e di esclusione. Attraverso questo snodo fondamentale può essere ancora attuale il grande contributo, e la nobile lotta, che il pensiero femminile e femminista hanno condotto, conducono e condurranno contro quella volontà di potenza che alberga irrimediabilmente nell’essere umano. Uomo, donna, gay o transgender che sia.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Aristotele: il testo greco delle singole opere è citato dall’edizione Aristotelis Opera, 11 vv., E Tipographeo Academico, Oxonii 1837
Biblia sacra: vulgatae editionis, Sumptibus P. Lethielleux, Parisiis 1891 (i passi biblici vengono citati direttamente nel testo secondo la vulgata canonica)
Boccia M.L. (2002): La differerenza politica. Donne e cittadinanza, Il Saggiatore, Milano
Butler J. (1999): Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New York – London 1990
De Beauvoir S. (1949): Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 2008
Delumeau J (1983).: La Péché et la Péur. La culpabilisation en Occident, XIII-XVIII siècles, Fayard, Paris
Esiodo: Opere e giorni, in Opere, testo greco a fronte, Utet, Torino 1977
Euripide: Medea, in Le tragedie, 2 vv., Mondadori, Milano 2007
Fossier R. (1991): La société médiéval, A. Colin, Paris
Hegel G.W.F. (1807): Fenomenologia dello spirito, 2 vv., La Nuova Italia, Firenze 1973
Id. (1821): Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, Milano 2006
Matthaei J. A. (1985): Histoire économique des femmes aux États-Units, L’Age d’homme, Paris
PL: Migne patrologia latina, 217 vv., in Patrologiae cursus completus, Paris 1845-1866
Platone: il testo greco delle singole opere è citato dall’edizione Platonis Opera – The Works of Plato, 5 vv., Clarendon Press, Oxford 1901-1907
Rousseau J.J.: Oeuvres complete, 4 vv., A. Houssiaux Libraire, Paris 1852
Smith A.(1759): The Theory of Moral Sentiments, Liberty Fund, Indianapolis 1984
Tocqueville A. (1951 sgg.): Oeuvres complètes, Gallimard, Paris
Tommaso d’Aquino: Summa theologica, diligenter emendata, De Rubeis, Billuart et aliorum notis selectis ornata (1266-1273), 6 vv., Marietti, Torino 1932
Turri M.G., a cura di, (2013): Manifesto per un nuovo femminismo, Mimesis, Milano
Wollstonecraft M. (1792): A Vindication of the Rights of Woman, Scott, London 1891

Paolo Ercolani insegna storia della filosofia e teoria e tecnica dei nuovi media all’Università di Urbino. Collabora all’inserto culturale del Corriere della sera («La Lettura»), è redattore della rivista Critica liberale, oltre che fondatore e membro del comitato scientifico dell’Osservatorio filosofico (www.filosofiainmovimento.it). Fra i suoi libri, che più volte hanno suscitato un dibattito acceso sui media nazionali: Il novecento negato. Hayek filosofo politico (Perugia 2006); Tocqueville: un ateo liberale (Bari 2008); La storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche (Napoli 2011) e L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana (Bari 2012).

Le promesse della Costituzione

di Luigi Pannarale

Le costituzioni sono la soluzione del grande paradosso che caratterizza il diritto dell’età moderna, che consiste nel rendere possibile l’esercizio della libertà come delimitazione che continuamente riapre possibilità di azione. Attraverso la costruzione dell’asimmetria tra legge costituzionale e legge ordinaria il diritto può fondarsi su se stesso e trovare una giustificazione plausibile al fatto che il diritto non può violare i diritti. La nostra Costituzione sembra, tuttavia, afflitta da uno strano destino: per molto tempo è stata considerata troppo proiettata verso il futuro e di difficile attuazione, per essere poi troppo presto considerata invecchiata a differenza di altre costituzioni che, invece, sembrano sopportare con disinvoltura il trascorrere dei secoli.

1. Ambivalenza delle costituzioni

Il concetto di costituzione contiene in sé un’ambivalenza, in quanto appartiene contemporaneamente al linguaggio della politica ed a quello del diritto.

La nascita delle moderne costituzioni è strettamente connesso con il processo di positivizzazione e di secolarizzazione del diritto e, in tale processo, trova la sua principale giustificazione. Il diritto deve, infatti, cercare nuovi fondamenti alla propria legittimazione, che d’ora innanzi si caratterizzerà come auto- legittimazione.

Attraverso il concetto di costituzione sistema politico e sistema giuridico cercano risposte adeguate a problemi equivalenti. Per la politica l’affermazione che lo Stato è il creatore del diritto e che il diritto trova il suo fondamento nello Stato, implica inevitabilmente la necessità di spiegare perché le decisioni dello Stato abbiano il carattere della vincolatività, in che cosa consista questa vincolatività, quali siano i suoi destinatari e se, fra essi, sia ricompreso lo Stato medesimo. Per il diritto, che segue una via opposta ma simmetrica, il problema è quello di spiegare perché lo Stato abbia la potestà di comandare ed i sudditi abbiano il dovere di obbedire, ovvero perché e come possa esistere una norma che attribuisce allo Stato una simile potestà e fa gravare sui sudditi un siffatto dovere [ref] Luhmann N., Il diritto della società, Giappichelli, Torino 2012. [/ref]

La costituzione non è, dunque, un meccanismo che esaurisce nella sfera politica il proprio ambito d’azione. Attraverso la costituzione diviene pensabile un controllo giuridico della politica: il giudizio di costituzionalità sulle leggi trasferisce dalla sfera politica alla sfera giuridica il potere di controllo del sistema politico e risolve il problema di un tale controllo attraverso il diritto. Il riferimento alla costituzione consente di comunicare giuridicamente sull’attività politica, distinguendo tra lecito e illecito, tra diritto e non-diritto.Non basta più assicurarsi un più o meno largo consenso nei confronti delle decisioni, perché vi sono dei limiti esterni alla potestà politica di decidere ed essa può essere illegittima, ancorché suffragata da un ampio consenso popolare. Vero è che anche la costituzione può essere cambiata, ma soprattutto le costituzioni rigide prevedono delle procedure di revisione tali da non consentire che i cambiamenti avvengano in modo troppo disinvolto e sulla base di emozioni momentanee; inoltre tra gli stessi costituzionalisti si discute molto circa l’individuabilità di un nucleo ristretto di norme, che si sottraggano ad ogni procedura di revisione, perché il loro cambiamento modificherebbe così radicalmente la natura stessa dello Stato, da dover essere considerato un atto rivoluzionario più che di semplice modifica della costituzione.

Considerazioni analoghe valgono anche in riferimento alla funzione che la costituzione ha per lo stesso sistema giuridico.

La positivizzazione consente di mettere in dubbio il potere vincolante del diritto o, quanto meno, di porsi il problema del fondamento di legittimazione di quel potere e dell’uso della forza che lo sostiene. Nella tradizione liberale lo Stato di diritto ha il compito di filtrare le azioni precarie della politica (relative agli interessi) attraverso il diritto. Lo Stato di diritto costituisce la formula attraverso la quale il sistema giuridico osserva il sistema politico e cerca di controllare le modalità secondo cui quest’ultimo costruisce una relazione con il suo ambiente sociale. Da tale prospettiva il carattere distintivo dell’ordinamento statuale, rispetto ad ogni altra forma di ordinamento, consisterebbe nella sua positività.

Il punto di osservazione del sistema giuridico non è, tuttavia, l’unico dal quale sia possibile osservare il processo di positivizzazione del diritto. Se si assume la prospettiva del sistema politico, la giuridificazione costituisce allo stesso tempo una restrizione ed un potenziamento delle decisioni politiche: il diritto si presta ad essere strumentalizzato dalla politica, ma allo stesso tempo restringe l’ambito delle possibilità e degli strumenti che la politica può utilizzare di volta in volta per il raggiungimento dei propri scopi. Inoltre, come è stato teorizzato dalle teorie dell’implementazione, il sistema giuridico si assume il rischio di scegliere strumenti giuridici non idonei al raggiungimento dei propri scopi. Non è un caso, quindi, che la semantica della decisione abbia avuto bisogno di una giustificazione per legittimare un atto di volontà troppo semplificato rispetto alla complessità del codice politico (soggetti, interessi, obbedienza-resistenza- comando).

La costituzione può, dunque, essere considerata la forma più diffusa e abituale di reazione del sistema giuridico alla propria autonomia, attraverso la quale esso cerca di rimpiazzare quei sostegni esterni che erano stati postulati dal giusnaturalismo. La costituzione è in grado di stabilire una gerarchia delle norme giuridiche, di sancire le condizioni della sua mutabilità e persino della sua immutabilità, ma soprattutto consente un’applicazione riflessiva della differenza tra legittimo e illegittimo al diritto stesso, poiché anche le norme giuridiche possono essere (costituzionalmente) legittime o illegittime.

Attraverso la costruzione dell’asimmetria tra legge costituzionale e legge ordinaria è possibile interrompere la regressio ad infinitum per la ricerca di un fondamento esterno, il diritto può fondarsi su se stesso e trovare una giustificazione plausibile al fatto che il diritto non può violare i diritti. Tuttavia tale asimmetria può reggersi a condizione che ne sia occultato il carattere autologico: “il codice diritto – non diritto genera la costituzione, perché la costituzione generi il codice diritto – non diritto” [ref] Ivi, p. 474. [/ref]. La soluzione del problema ha un carattere meramente operativo e le sue giustificazioni teoriche non possono che costituire il tentativo di descrivere come necessario (o naturale), ciò che è contingente (o artificiale).

2. Il futuro passato della Costituzione italiana

Rispetto a questo quadro generale, la nostra Costituzione presenta alcune specificità, sia perché essa è una costituzione scritta alla metà del XX secolo, sia e soprattutto perché essa pone fine alla tragica esperienza del fascismo e sancisce il ripristino della democrazia.

Subito dopo la sua promulgazione si pose, infatti, il problema di quali conseguenze essa avrebbe dovuto avere sulla normativa previgente, soprattutto su quella del periodo fascista. A tale riguardo un ruolo determinante fu svolto dalla Corte di cassazione, che da un lato ribadì l’antico principio secondo cui il giudice non ha la potestà di disapplicare la legge sotto pretesto della sua incostituzionalità, dall’altro operò la nota distinzione tra norme “precettizie” (a loro volta complete o incomplete) e norme “programmatiche”, attraverso la quale poteva rinviare sine die l’effettività di una buona parte delle norme costituzionali [ref] Una critica di questa distinzione si trova in S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in “Rivista del diritto commerciale”, LXV (1967), pp. 83-125. [/ref] .

Questa scelta interpretativa, però, non fu soltanto il frutto di un’ideologia di stampo conservatore, ma anche la conseguenza della novità costituita dall’introduzione dei “diritti sociali” accanto ai più tradizionali diritti di libertà. La Costituzione, infatti, non si è limitata a restaurare i diritti liberali, ma si è spinta a realizzare un’idea di cittadinanza, in cui il cittadino è visto in rapporto ai suoi legami sociali, in cui si fa strada il dovere di solidarietà: i diritti sono stati liberati dal sospetto del privilegio. La Costituzione non rappresenta più la garanzia di un ordine dato, ma il punto di partenza di un processo continuo, di un programma da realizzare, che è immerso esso stesso nelle contraddizioni della società e corre continuamente il rischio del fallimento.

Tanto più che tra i classici diritti di libertà e i diritti sociali vi è pure una differenza non trascurabile sotto il profilo economico: mentre la soddisfazione dei primi normalmente non costa nulla allo Stato, la soddisfazione dei secondi non è soltanto una questione politica, ma anche una questione finanziaria. Lo stesso Calamandrei evidenziò questa differenza, già alla vigilia della Costituente: “quando avremo consacrato in lapidari articoli, come programma minimo di civile convivenza democratica, quei ‘diritti sociali’ senza i quali tutti siamo convinti che non può esistere per il cittadino vera ed effettiva libertà politica, avremo il dovere di domandarci sinceramente quale potrà essere il significato pratico di quella proclamazione; quali mezzi avrà la nuova democrazia per tradurla in realtà; quali speranze non illusorie potrà il povero fondare su quelle solenni promesse di redenzione sociale […]. Quando ci accingeremo a risolvere il problema della giustizia sociale, forse dovremo mestamente accorgerci che ci sarà consentito soltanto di porgere alcune premesse: formulare in articoli promesse consolatrici, segnare mete che servano di faro al cammino dei figli e dei nipoti; e intanto limitarci ai primi passi, a chiedere a chi soffre di continuare, chissà per quanto, a soffrire” [ref] P. Calamandrei, Costruire la democrazia. Premesse alla Costituente, Vallecchi, Firenze 1995, pp. 108-111. [/ref].

Incominciare a prendere sul serio i principi costituzionali fu, perciò, lo strumento attraverso il quale, a partire dalla seconda metà degli anni ’60, parte della magistratura e del ceto dei giuristi incominciarono a porsi il problema di un uso alternativo del diritto, che mettesse in discussione il vecchio formalismo e individuasse nuovi modelli interpretativi più attenti all’evoluzione della realtà sociale ed ai conflitti in atto nella stessa.

La riformulazione del principio di legalità attraverso l’individuazione di una norma gerarchicamente sovraordinata introduce, però, anche la possibilità di operazioni di tipo riflessivo: la distinzione tra diritto e non diritto può essere applicata al diritto stesso. Si pensi, ad esempio, al caso in cui la clausola che regola gli emendamenti costituzionali venga usata per emendare se stessa, ovvero al dibattito sulle possibili modifiche alla Costituzione e al tentativo di immunizzare almeno una parte delle norme costituzionali dalla possibilità di venire modificate, introducendo un ulteriore gerarchizzazione tra norme costituzionali pure e semplici e principi fondamentali o “diritti supercostituzionali”, i quali come tali devono essere rispettati dallo stesso potere costituente e salvaguardati anche contro gli attentati provenienti da esso.

La crisi dello Stato di diritto di stampo ottocentesco e il passaggio allo Stato costituzionale segna contemporaneamente il passaggio dal principio di legalità al principio di legalità costituzionale, che pone al di sopra della legge, appunto, la Costituzione, destinata ad essere rigida, alla quale viene attribuito il compito di sottrarre alla decisione politica e all’onnipotenza dei soggetti rappresentativi aspetti quali la configurazione del potere pubblico, la sua organizzazione interna, la struttura dei suoi organi e ogni tipo di rapporto tra governanti e governati. Sulla base di questa distinzione di compiti le leggi ordinarie sono quelle che servono a regolare i rapporti tra i cittadini nella loro quotidianità: quelle che servono a governare secondo legalità la concreta vita sociale. Ma queste leggi ordinarie presuppongono l’esistenza e il funzionamento di organi di governo, che non solo le applichino, ma via via le modifichino e le rinnovino secondo il continuo rinnovarsi delle esigenze pubbliche; a loro volta questi organi di governo presuppongono l’esistenza di leggi, che abbiano fissato in anticipo la loro struttura e il loro modo di funzionare e abbiano distribuito tra essi l’esercizio della sovranità: queste ultime leggi si dicono appunto “costituzionali”.

3. La Costituzione tra stabilità e mutamento

Solo che anche questo modello si è presto mostrato insufficiente, poiché l’agognata unità del sistema è continuamente rimessa in discussione dal carattere positivo delle stesse norme costituzionali. Se la Costituzione deve servire a garantire l’unità del sistema [ref] G. Zagrebelski, Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992, pp. 2 sgg. [/ref], essa non può ignorare e, anzi, deve presupporre le sue divisioni e le sue incoerenze. Proprio per questo le costituzioni moderne non si presentano più semplicemente come l’insieme delle regole sui poteri o la definizione dei diritti fondamentali, ma sono utilizzate e comunicate come simboli: la Costituzione italiana, ad esempio, è il simbolo del patto antifascista, però – come tutti i simboli – rischia continuamente di diventare fragile ed invisibile.

L’improbabile unità dei sistemi giuridici, nonostante il ricorso alla differenziazione tra norme ordinarie e norme costituzionali, trova una plausibile spiegazione nel fatto che, nelle società pluralistiche, non è dato riscontrare la preventiva coagulazione di un ampio consenso sui cosiddetti “valori fondamentali”. Le moderne costituzioni non sono più il frutto di un processo deliberativo aperto, pienamente dispiegato, che coinvolga i principali gruppi, corpi costituiti e rappresentanti e che implichi la disponibilità di ognuno a modificare la propria opinione iniziale alla luce degli argomenti addotti dagli altri partecipanti e delle nuove informazioni raccolte; il caso più frequente è, invece, quello della semplice accettazione del dissenso, senza alcun tentativo di mediare le opinioni contrapposte [ref] A. O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza. Perversità, futilità, messa a repentaglio, Il Mulino, Bologna 1991, p. 171. [/ref]; non importa, infatti, che esse siano tra loro incompatibili, l’importante che siano almeno ragionevoli [ref] J. Rawls, Liberalismo politico, Comunità, Milano 1994. [/ref]. Stanti l’incapacità di ciascun partecipante di imporre il proprio punto di vista come egemonico e l’indisponibilità ad accettare come tale quello degli altri, appaiono più probabili incontri di tipo tattico, che non strategico. È noto il giudizio di Calamandrei sull’assetto di valori consacrato nella nostra Carta costituzionale: “per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa” [ref] P. Calamandrei, Questa nostra Costituzione, Bompiani, Milano 1995, p. 8. [/ref].

Il risultato compromissorio, che se ne deduce, evidenzia che l’ambiguità è un carattere essenziale della democrazia del nostro tempo; esso accresce, anziché limitare gli spazi di creatività della legge ordinaria, dal momento che sono sempre possibili combinazioni diverse dei principi costituzionali e l’accordo sulla priorità di un determinato valore, raggiunto secondo il principio di maggioranza per l’approvazione di una determinata legge, non è detto che valga anche per le leggi successive [ref] G. Zagrebelski, Diritto costituzionale. I. Il sistema costituzionale delle fonti del diritto, Utet, Torino 1997, p. 61. [/ref]. La Costituzione, nonostante sia stata impostata come costituzione rigida, è allo stesso tempo una costituzione dinamica, nella quale vi sono norme che, pur carenti di precettività, hanno “un’efficacia educativa e quasi si direbbe pedagogica”, “un carattere puramente tendenziale”; si tratta di una “costituzione che, se il popolo saprà civilmente volere, potrà accompagnarlo, senza rinunciare a libertà, verso la giustizia sociale” [ref] P. Calamandrei, Costruire la democrazia, cit., p. 7 sgg. [/ref].

Forse anche per questo accanto alla distinzione tra legge e costituzione, la dottrina costituzionalistica ne individua operativamente un’altra, almeno in parte sovrapponibile, tra regole e principi [ref] V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Giuffrè, Milano 1952. [/ref]. Mediante il riferimento ad una pluralità di principi, privi di una gerarchia formalmente determinata, si cerca, allo stesso tempo, di concepire un diritto che sia più idoneo a garantire la sopravvivenza di una società pluralista, la cui condizione è il continuo riequilibrio attraverso transazioni di valore. Solo la virtù etica, infatti, è assoluta; tra i valori, invece, che sono semplicemente ciò che è desiderabile, si può venire a patti. Il diritto per principi di valore consente una relativizzazione dell’etica; e relativizzare un’etica non significa rinunziare ad avere una propria visione del mondo, significa piuttosto avere la consapevolezza che la sopravvivenza del mondo è la prima indispensabile condizione per realizzare qualsiasi progetto etico [ref] G. Zagrebelski, Il diritto mite, cit., p. 171. [/ref].

Parafrasando Elster, si può dire che, se i delegati della Convenzione federale di Filadelfia avevano avuto come principale preoccupazione quella dell’avidità e dell’egoismo dei legislatori futuri e i delegati dell’Assemblea costituente di Parigi si erano preoccupati soprattutto della loro vanità e superbia, la Costituente italiana individuò nel dogmatismo arrogante e nello scetticismo opportunista il motivo prevalente delle proprie scelte [ref] J. Elster, Argomentare e negoziare, Anabasi, Milano 1993, p. 8 e 66 sgg. [/ref].

La soluzione di questo problema si è configurata come una continua oscillazione tra sostanzialismo e proceduralizzazione (sia pure nella sua forma più moderna della legalità costituzionale), già visibile nella concezione giuridico-politica della democrazia di Kelsen. È vero che, al contrario dello Stato etico, lo Stato di diritto non impone alcun consenso ed anzi legittima il dissenso; ma anch’esso non può non prevedere almeno un’eccezione, costituita dai diritti fondamentali, i quali sono sottratti alla legalità procedurale e alla decisione del politico. Il problema è che anche lo Stato di diritto è così costretto a presupporre condizioni forse possibili, ma altamente improbabili: prime fra tutte la revocabilità e la prevedibilità di ogni decisione.

Sembra, perciò, tornare di attualità l’insegnamento di Constant e quella che è stata definita la “teoria delusa” della costituzione: una carta costituzionale non è un patto progettuale per il futuro in una società che ha deciso di emendarsi dalle oscurità del proprio passato, ma è una secolarizzazione in termini giuridici dei meccanismi sociali dell’obbligazione politica; una secolarizzazione giuridicamente pregnante ma politicamente debole, che contraddice clamorosamente la pretesa dell’ordinamento giuridico alla stabilità, alla continuità o, comunque, ad un mutamento entro limiti e secondo procedure prestabiliti. A partire da questa consapevolezza, i principi di diritto costituzionale non possono più essere considerati principi di giustizia eterni ed immutabili, che si affermano in forza della loro intrinseca eccellenza. “Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e cambiare la propria costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future” (art. 28 della Dichiarazione dei diritti del 1793).

Unico principio, al quale è possibile riconoscere una priorità in virtù del suo carattere più universalistico, è il principio democratico: è questo principio, per i moderni Stati costituzionali, il valore dei valori; l’unico valore assoluto che essi riconoscono e che rende, quindi, tutti gli altri valori sempre contingenti e potenzialmente disponibili da parte della comunità democratica.

“La certezza ricade nella speranza; la legge che aveva la pretesa di decidere ‘il caso’ si scopre ‘caso’, a sua volta di un’altra legge”[ref] E. Resta, La certezza e la speranza, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 92-93. [/ref]

Solo che una tale consapevolezza, a mio avviso, è tutt’altro che “deludente”, perché ci conferma che la lotta per i diritti non termina con la proclamazione di una costituzione, ma ha bisogno di un impegno costante e quotidiano, perché quei diritti, una volta conquistati, siano anche difesi dai continui attacchi di quanti vorrebbero imporre altre regole ed altre logiche alla nostra convivenza. La presenza della Costituzione, per quanto rigida essa sia, non può rassicurarci una volta per tutte, ma è piuttosto un punto costante di riferimento per un impegno sociale e politico che deve rinnovarsi e arricchirsi di nuovi contenuti e di nuove motivazioni e che ci sprona ad essere parte attiva nella attuazione di quei diritti, piuttosto che semplici eredi di quel patrimonio. Si tratta di una sfida difficile, ma anche molto esaltante.

Luigi Pannarale è avvocato e professore ordinario di Sociologia del diritto nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari “A. Moro”. È componente del Consiglio Scientifico della Società Italiana di Filosofia del Diritto, vicepresidente della Associazione di Studi “Diritto e Società”, componente del direttivo dell’Italian Society for Law and Literature, direttore scientifico del Centro Studi dell’Apulia Film Commission. Fa parte della Direzione scientifica della Rivista “Sociologia del diritto” e del comitato scientifico di riviste nazionali e internazionali. Autore di saggi e monografie, tra cui Il diritto che guarda (Franco Angeli 2012), Lezioni sui diritti (Multipensa, 2010), Giustiziabilità dei diritti (Franco Angeli 2007). Ha tradotto e curato l’edizione italiana di N. Luhmann, Diritti fondamentali come istituzione (Dedalo, 2002).

Laicità come principio giuridico e Costituzione

 1. Una riflessione sul carattere giuridico della laicità, all’interno di una società dinamica e multiculturale qual è quella italiana, richiede di essere affrontata partendo dalle coordinate di natura costituzionale che la «categoria» in esame presuppone (libertà, uguaglianza, dignità, solidarietà, autodeterminazione) in quanto, solo la “traduzione” pratica di queste pre-ferenze – funzionale alla ricerca delle soluzioni normative poste dai problemi “pratici” del pluralismo sociale (e culturale-religioso in particolare: abbigliamento, alimentazione, luoghi di culto, simboli, festività, etc.) – consente di rinvigorire lo spazio (politico) della democrazia e di alimentare, per connessione, le «capacità inclusive» sottese al valore-significato attribuito (soprattutto dalla giurisprudenza costituzionale) alla laicità italiana.

La “ricerca” della laicità passa, perciò, innanzitutto, attraverso quella «apertura del tessuto costituzionale» (artt. 11 e 117, comma 1 Cost.), cara ad alcuni padri costituenti (Calamandrei), indirizzata all’integrazione e non all’esclusione e finalizzata (in prospettiva) alla costruzione di una «Comunità [europea] dei diritti fondamentali». All’interno di quest’«ordine» costituzionale, frutto della feconda interazione tra livelli ordinamentali diversi (dal locale al sovranazionale e viceversa), gli stati sono vincolati a rimuovere dalle rispettive legislazioni tutti gli elementi con probabilità discriminatorie dal punto di vista del pluralismo culturale, dando vita a un lessico dei diritti in grado di assicurare l’allineamento tra libertà, uguaglianza e differenza. Questa “vocazione” (sempre in bilico) alla composizione – propria delle democrazie liberal-democratiche – si nutre di parole (rectius: di valori-principi), la cui caratteristica peculiare risiede nell’essere dotate di forza “circolante” (in grado, cioè, di rinvigorire costantemente il circuito democratico) e di poter essere diversamente declinate sulla base di strumenti tecnici diversi tra loro (diritto, politica, filosofia, storia, sociologia, etc.). Laicità, dunque, come «narrazione» delle virtù trasformative del costituzionalismo – di cui la convivenza tra culture diverse rappresenta la sfida ultima più poderosa – e come «antidoto» contro tutte le verità rivelate a priori. C’è, dunque, una disposizione “responsabilizzante” che la laicità impone alle istituzioni pubbliche, la cui concreta estrinsecazione sotto il profilo normativo determina e accompagna procedure finalizzate alla effettività delle garanzie poste in essere dall’ordinamento repubblicano per “assistere” «i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» (art. 2 Cost.).

 2. Il modello costituzionale italiano, dunque, non manca certo di «robusti punti di forza» in grado di “contenere” le dinamiche del «presente cosmopolita e del futuro (inevitabilmente) interculturale della democrazia». La nostra, ricordiamolo, è una Costituzione che «invita all’azione», che esorta la Repubblica (cittadini e istituzioni insieme) ad «assicurare la pace e la giustizia» (art. 11 Cost.), a conformare «l’ordinamento giuridico alle norme di diritto internazionale» (art. 10 Cost.) e a rispettare i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» [meglio: “euro-unitario”] (art. 117, comma 1° Cost.). Se opportunamente resi effettivi, questi capisaldi possono rappresentare l’intelaiatura valida di una Costituzione multiculturale, in grado di governare una società aperta e di favorire la formazione di una mente «multiculturale» quale presupposto per una «convivenza civile, pacifica e costruttiva». E se concretamente “praticati” dal diritto vivente questi presupposti sono in grado di meglio delineare, arricchendolo, il profilo della «laicità in versione italiana».

Sta di fatto che nella pratica quotidiana è facile riscontrare sintomi preoccupanti di affievolimento dei valori sanciti nella Carta, a cui bisogna prestare massima attenzione, elaborando (sul piano politico prima ancora che giuridico) programmi educativi frutto dello «specchiarsi e riconoscersi nel lessico e nel galateo costituzionale» (M. Ricca). Per fare questo bisogna avere ben chiaro un progetto di spazio pubblico quale “casa di tutti” (A.C. Jemolo), quel luogo neutro del confronto tra persone e idee, continuamente disponibile ad accogliere le opzioni culturali (dunque, anche religiose) di volta in volta proposte. Stabilire, al contrario (per convenienza politica), che quello spazio «appartiene» a qualcuno o a qualcosa, significa orientarsi in chiave escludente verso i fatti nuovi emergenti nel contesto sociale, rinunciare all’analisi delle differenze, nonché sottrarsi all’obbligo costituzionale di misurare la compatibilità legale di certe pratiche, simboli, stili di vita – aprioristicamente ritenuti incompatibili (soltanto perché pigramente non condivisi) – con la nostra tavola di valori e principi.

Ri-fondare un «ethos condiviso» (E.-W. Böckenförde), in grado di costituire la rete delle regole del pluralismo sociale, significa, allora, “recuperare” il canone della laicità in una chiave non ideologica (intollerante verso le fedi religiose), bensì come «metodo» (N. Bobbio) oppure «attitudine» dei poteri pubblici a valorizzare, nel quadro ampio della legalità costituzionale, le diverse opzioni culturali e religiose senza identificarsi con alcuna di esse.

 3. In quest’opera di ri-assunzione delle coordinate normative e valoriali contenute nella Carta, un apporto rilevante è stato offerto (stante la totale inerzia del legislatore ordinario) dalla Corte costituzionale la cui produzione giurisprudenziale è servita a cogliere l’evoluzione del principio della distinzione tra ambito secolare e religioso e a comprendere che: «Le leggi, la Costituzione innanzitutto, sono e devono essere considerate come diritto dello stato, frutto di discussioni e procedure democratiche, non come manifestazione immediata di un’etica religiosa» (G. Zagrebelsky).

Nella oramai storica sentenza n. 203 del 12 aprile 1989 (relatore Casavola), la Consulta ha affermato la sussistenza nell’ambito del nostro sistema costituzionale del principio supremo di laicità. In realtà, la Corte non “scopre” nulla di nuovo. Sollecitata (tardivamente!) sul tema, essa si limita a porre in chiaro ciò che in realtà risulta essere ben presente nella trama “materiale” della Costituzione. Al contrario, la politica preferisce per molto tempo ancora non spendere parole sulla parola mancante, ritardando finanche l’introduzione di una legge generale sulla libertà religiosa (da più parti auspicata ma da molti in realtà temuta) il cui fine avrebbe dovuto essere (deve essere) quello di ricondurre su un piano di uguaglianza, le libertà di pensiero e di religione degli individui e delle organizzazioni a carattere religioso o aventi patrimoni ideali comuni. Questa inerzia da parte delle istituzioni, l’incapacità di «seguire l’evoluzione dei rapporti sociali» oltre che di «preservare l’integrità dell’ordinamento», ha determinato il persistere di uno squilibrio grave tra il c.d. “sottosistema” della disciplina costituzionale del fattore religioso con l’impianto generale dei rapporti civili e sociali disegnato nella Costituzione (artt. 19, 20, 2, 3, 8 e 7 Cost.), con gravi ripercussioni rispetto al «potenziale cognitivo e creativo racchiuso nell’ideale democratico».

In siffatto quadro – sempre più squilibrato in quanto “partigianamente” interpretato secondo gli interessi delle confessioni anziché delle libertà delle persone – la Corte ha ricercato le batterie di valore che concorrono a «strutturare il principio supremo della laicità dello stato, che è uno dei profili della forma di stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica» (sent. n. 203/1989, punto 4 in diritto). Dire principio supremo significa attribuire a un concetto tutta la forza giuridica scaturente da un “insieme valoriale” corrispondente – in pratica tutta la parte prima della Costituzione – qualificandolo come «indispensabile» al fine della compiuta definizione della forma di stato italiana. Da qui la sua piena inderogabilità, neppure in sede di revisione costituzionale (art. 138 Cost.), oltre che prevalenza sui contenuti del sistema normativo di relazioni bilaterali tra stato e confessioni religiose (artt. 7, comma 2° e 8, comma 3° Cost.). La laicità, dunque, in quanto principio supremo, opera come medium, «attraverso il quale il mondo dei valori entra in quello giuridico e il mondo giuridico si apre ai valori»; la sua essenza materiale serve, insomma, a “tenere in vita” il diritto, fermo restando l’impegno da parte delle istituzioni repubblicane a non abbassare la guardia, a non ritenere la laicità un valore scontato.

 4. Quanto al “contenuto” della laicità, la “costante” è rappresentata – e non poteva essere diversamente all’interno di un sistema costituzionale che riconosce le “ragioni” delle istituzioni politiche e di quelle religiose – dal fattore religioso (diversamente declinato nel corso del tempo), preso in considerazione alla luce, sia delle complesse dinamiche storico-politiche che hanno caratterizzato la società italiana nei decenni precedenti la pronuncia del 1989 (riforma del Concordato del 1929, evoluzione dei comportamenti sociali, avvio della “stagione delle intese” ex art. 8, comma 3 Cost., etc.), sia delle nuove basi politiche che l’Europa ha deciso di gettare con la firma del Trattato di Maastricht sull’Unione europea (1992), che segna una nuova tappa nel processo di consolidamento della democrazia, dello stato di diritto, del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Secondo i giudici della Consulta, la laicità: «Implica non indifferenza dello stato dinnanzi alle religioni ma garanzia dello stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale»; infatti: «L’attitudine laica dello stato-comunità […] risponde non a postulati ideologizzati e astratti di estraneità, ostilità o confessione dello stato persona, o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o a un particolare credo, ma si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini» (sent. n. 203/1989, punti 4 e 7 in diritto). La Corte, come si evince da questo importante passaggio della sentenza, offre alla società e agli interpreti una nozione ampia e articolata della laicità – sicuramente non de combat (proteggere lo stato dalla religione) – sottratta a qualunque tipo di approccio “ideologico” riguardo al fenomeno religioso, in grado di valorizzare le potenzialità della democrazia pluralista (a patto, beninteso, che le si vogliano concretamente ricercare e affermare queste potenzialità: operazione non sempre attuata in ambito politico né supportata dalla giurisprudenza ordinaria e, soprattutto, amministrativa) e di contenere i contrasti inevitabili insiti nel processo di “apertura” dello spazio pubblico.

Altre sentenze (non tantissime), successive a quella del 1989, hanno contribuito a meglio definire i confini della laicità italiana. Nuovi tasselli sono stati aggiunti ma, ulteriori «aspetti importanti necessitano ancora di un chiarimento» per meglio riempire di contenuti il disegno iniziale. Il principio, dunque, resta “sotto osservazione”, soprattutto da parte di chi ha rilevato, in alcune pronunce della Corte, un certo sbilanciamento tra rilevanza dell’elemento religioso (in senso stretto) e opzioni di coscienza, con progressiva svalutazione del primo elemento a vantaggio di istanze riconducibili ai più generali processi di individualizzazione della società italiana ed europea.

 5. A distanza di più di vent’anni, è indubbio che la sentenza n. 203/1989 costituisca una vera e propria «pietra miliare» per la normativa e per gli studi in materia di rapporti tra stato e religione in Italia. Intorno a essa si sono venuti compiendo passi importanti in direzione del «soddisfacimento dei […] bisogni e interessi» religiosi (sent. n. 195/1993) dei soggetti (libertà religiosa), individuali e collettivi. Come fattore sociale positivo, all’interno di un contesto pubblico finalizzato all’inclusione delle credenze, di fede e non (il pluralismo religioso e culturale di cui la sent. n. 203/1989), nonché impegnato nella lotta contro tutte le forme di discriminazione, la giurisprudenza della Corte costituzionale (ha messo e) mette a disposizione della legislazione (e prima ancora della politica) finalizzata alla promozione della religiosità umana, argomentazioni giuridiche utili a facilitare la circolazione di quei “canali normativi” (artt. 2, 3, 19 Cost.) attraverso i quali la Costituzione si presenta come «luogo di affermazione e di equilibrato bilanciamento di valori essenziali per la vita delle istituzioni e della stessa società civile». La laicità diventa, così, precondizione e strumento basilare della democrazia. Come tale essa vincola le istituzioni pubbliche a non «ricorrere a obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l’efficacia dei propri precetti» (sent. n. 334/1996) – una laicità, dunque, nel senso di non confessionalità e quale principio di «distinzione degli ordini», secolare e religioso – a non stabilire differenze di trattamento fra confessioni religiose sulla base del solo criterio numerico e sociologico (sentt. n. 925/1988, 440/1995, 508/2000), a riconoscere la giusta rilevanza e protezione alla piena realizzazione della libertà di coscienza di ciascuna persona, i cui elementi costitutivi coprono ambiti anche diversi da quelli propri della laicità (sentt. n. 149/1995, 334/1996, 329/1997), a non operare distinzioni e disuguaglianze di trattamento tra confessioni religiose con o senza intesa (sent. n. 195/1993), facendo ricorso all’ampio ventaglio di opzioni semantiche opportunamente individuate da un costituente lungimirante ( la “forma associata”  della professione di fede religiosa di cui all’art.19; le associazioni o istituzioni a carattere ecclesiastico o con fine di religione o di culto” di cui all’art.20; le “confessioni religiose” di cui all’art.8) al fine di meglio identificare le diverse “forme collettive” di religiosità.

 6. Il principio di laicità necessita, allora, di una costante opera di manutenzione che significa, praticamente, agire sui punti di forza dell’impianto costituzionale da cui esso trae linfa vitale. Se da un lato, nel nostro Paese, il principio supremo di laicità non ha mai, concretamente, messo in discussione il ruolo della religione come fatto sociale rilevante né, tanto meno, quello delle confessioni religiose (Chiesa cattolica in primis) quali attori di prima grandezza nelle dinamiche del dibattito pubblico, la persistenza di alcune norme di matrice confessionista nella legislazione vigente e l’introduzione nel tempo di disposizioni normative «indifferenti» alla laicità costituiscono un fattore di potenziale «neutralizzazione del principio», che nei fatti può risultare “alleggerito”, dunque, irrilevante dal punto di vista giuridico. Da ciò scaturisce che nello stato laico, alle affermazioni di principio sulla libertà di coscienza e di religione di tutti, i poteri pubblici (legislatore, giudici, pubblica amministrazione) devono rispondere praticando la regola aurea del pluralismo, garanzia di uguaglianza e libertà (degli individui e delle formazioni sociali a carattere religioso). Ma è in una prospettiva europea, spazio ampio di maggiore garanzia e tutela dei diritti umani, che la laicità può trovare terreno fertile utile alla sua progressiva implementazione. Siamo ancora lontani dalla enucleazione di «un livello minimo apprezzabile ed effettivo di tutela della laicità» e della stessa libertà religiosa in ambito “euro-unitario” (Unione europea, Consiglio d’Europa). Inoltre, alcuni recenti pronunciamenti della Corte europea dei diritti dell’Uomo (Strasburgo) in materia di simboli religiosi nelle scuole pubbliche (dall’esposizione del crocifisso al porto del velo: Lautsi c. Italia del 18 marzo 2011; Drogu c. Francia e Kervanci c. Francia del 4 dicembre 2008) riconoscono un discreto (troppo ampio) “margine di apprezzamento” in capo ai singoli ordinamenti giuridici. Ci troviamo, perciò, di fronte a un processo il cui linguaggio (quello, appunto, dei diritti) necessita di essere maggiormente “affinato” per colmare le trincee delle identità nazionali – per andare “oltre” il «dogma della sovranità nazionale» (G. Napolitano) – modificare antichi istituti e tradizioni, mobilitare, come già detto, le virtù trasformative del costituzionalismo europeo.

Bibliografia

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Ius sanguinis o ius soli? Riflessioni sulla storia politica della cittadinanza in Italia

di Vito Francesco Gironda

Quali sono le ragioni che hanno sempre condotto in Italia a privilegiare lo ius sanguinis allo ius soli? Per rispondere a questa domanda bisogna risalire alle origini dello Stato unitario. In questa fase lo ius sanguinis è servito a procurare agli italiani un senso di appartenenza “nazionale”, capace di superare le varie frammentazioni territoriali e di guadagnare il consenso e l’inclusione delle élites economiche e sociali dei vecchi Stati territoriali. Ma il venir meno di queste esigenze dovrebbe condurre oggi a elaborare una nuova concezione della cittadinanza.

L’attuale dibattito politico sulla riforma della cittadinanza risente di una forte impostazione emotiva e di un principio di presunzione d’appartenenza, una concezione particolaristica dell’individuo e delle sue relazioni sociali quale risorsa culturale da spendere sul terreno della comunicazione politica. [ref] Per una discussione sul dibattito politico italiano mi permetto di rimandare ai miei interventi Vito Francesco Gironda, La cittadinanza controversa, ovvero il problema di un paese al bivio (appunti sulla democrazia), in: Critica Liberale 13.05.2013; Riforma della cittadinanza per gli immigrati. E poi?, in: Politica e Società 17.02.2012; Caro Ministro Riccardi, cos’è lo ius culturae?, in: sbilanciamoci.info 30.03.2012. [/ref] Eppure, guardare alla storia politica dell’istituto giuridico della cittadinanza significa, storicamente, interrogarsi sulle trasformazioni della moderna statualità otto e novecentesca. [ref] Su tali questioni rimando al mio lavoro Vito Francesco Gironda, Die Politik der Staatsbürgerschaft. Italien und Deutschland im Vergleich 1800-1914, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2010; Andreas Fahrmeir: Citizenship. The Rise and Fall of a Modern Concept, New Haven / London, Yale University Press, 2007; Thomas Faist/ Peter Kivisto, Citizenship: Discourse, Theory and Transnational Prospects, Oxford, Blackwell, 2007. [/ref] In primo luogo, sul terreno della cittadinanza formale si è giocata una partita fondamentale dei processi di nation-bulding: chi e attraverso quali criteri identificativi può considerarsi membro di diritto della comunità politica e, poste determinate condizioni di status economico e di capitale culturale, esercitare i diritti connessi alla qualità di cittadino? In questo caso, la nazione più che essere “immaginata” (Benedict Anderson) diventa un fatto reale che ha immediate ripercussioni sulla vita di ogni singolo individuo e gruppo sociale. [ref] B. Anderson, Comunità immaginate: origine e diffusione dei nazionalismi, Roma, Manifestolibri, 1996 (ed. orig. Imagined Communities, London-New York, Verso, 1982). [/ref] In secondo luogo, la cittadinanza rappresenta una spia importante per analizzare le forme, i contenuti e i limiti della credenza utopica della modernità attorno all’idea di una società di cittadini. Infine, riflettere sulle modalità di sviluppo e di codificazione del diritto di cittadinanza permette, più in generale, di ragionare in ordine alle culture politiche di volta in volta dominanti. Certo, non si può prescindere da un’attenta valutazione del significato culturale dello ius sanguinis e dello ius soli nel quadro della moderna statualità nazionale. [ref] A insistere su questa questione è stato soprattutto Rogers Brubaker, Cittadinanza e nazionalità in Francia e Germania, Bologna, Il Mulino, 1997 (ed. orig. Citizenship and Nationhood in France and Germany, Cambridge, Harvard University Press, 1992) [/ref]

Un tale approccio culturalista rischia, però, di semplificare la complessità storica dei modelli idealtipici di costruzione della cittadinanza moderna come risultato di un processo discorsivo di natura prettamente simbolica che investirebbe immagini e concezioni della politica dell’identità. Al contrario, ritengo che ogni formazione discorsiva sottostia a delle condizioni strutturali e processuali. Per questa ragione, la continuità secolare del primato dello ius sanguinis nella legislazione italiana, ossia una concezione etnoculturale della cittadinanza in base alla quale per essere membro di una comunità politica bisogna essere membri di fatto di una comunità prepolitica determinata da fattori culturali, linguistici e antropologici, piuttosto che un indicatore di un diffuso discorso biologistico nella storia italiana – eccezione il ventennio fascista – dovrebbe essere interpretato nella sua plurifunzionalità politica. Lo ius sanguinis è passato dalla tradizione ancora confessionalista del Regno di Sardegna allo Stato liberale a quello fascista per giungere indisturbato anche allo Stato democratico repubblicano. La questione fondamentale è chiedersi il perché? Perché nel lungo periodo le varie legislazioni statali connesse a diversi sistemi politici hanno fatto riferimento al primato dello ius sangunis? La risposta sta nella singolare funzione del diritto di cittadinanza quale forma di political governance rispetto alle trasformazioni istituzionali, sociali ed economiche che hanno investito il paese nel corso degli ultimi due secoli. Da qui anche il carattere prettamente politico dell’istituto giuridico della cittadinanza. Andiamo per ordine.

Lo Stato unitario eredita per lunghi tratti il modello di appartenenza formale allo stato del Codice Albertino del 1837 in base al quale la sudditanza subalpina era stata codificata attorno al principio della patrilinearità. [ref] Carlo Bersani, Modelli di appartenenza e diritto di cittadinanza in Italia dai codici preunitari all’Unità, in Rivista di Storia del diritto italiano, LXX, 1997, pp. 277-344. [/ref] Lo status di suddito, che oramai coincideva con l’esercizio di alcuni diritti civili, era una diretta emanazione della discendenza da un suddito subalpino. Le capacità giuridiche dei singoli venivano, però, legate all’appartenenza alla confessione cattolica (art. 18). La cittadinanza-sudditanza subalpina diventava uno strumento di chiusura sociale nei confronti delle minoranze religiose dei valdesi e degli ebrei. In questo modo si voleva testimoniare che il modello di riferimento comunitario subalpino consisteva, dopo la breve parentesi napoleonica, nel riaffermare il sano sodalizio tra altare e trono. [ref] Daniele Menozzi, Tra riforma e restaurazione. Dalla crisi della società cristiana al mito della cristianità medievale (1758-1848), in: Chittolini, G./Miccoli, G. (a cura di), Storia d’Italia, Annale IX, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, Torino, G. Enaudi, 1986, pp. 753- 789. [/ref] Il Codice civile italiano del 1865 fa suo il principio della patrilinearità, si svincola dal confessionalismo sabaudo e riafferma con forza il modello classico di disuguaglianza di genere partorito dal Codice napoleonico del 1804, secondo la quale la donna sposata seguiva la condizione giuridica del marito. Nella normativa sulla cittadinanza italiana entrava di prepotenza il canone tardo-illuministico dell’unità organica della famiglia. [ref] In generale si veda Geneviève Fraisse, Les deux gouvernements: la famille et la cité, Gallimard, Paris, 2001; Jennifer Ngaire Heuer, The Family and the Nation: Gender and Citizenship in Revolutionary France, 1789-18 30, Ithaca, Cornell University Press, 2005. Sul caso italiano si vedano le lucidissime osservazioni di Chiara Saraceno, Le donne nella famiglia: una complessa costruzione giuridica, in: Barbagli, M./ Kartzer, D.I. (a cura di), Storia della famiglia italiana 1750-1950, Bologna, Il Mulino, 1992, pp.103-127; Raffaele Romanelli, Individuo, famiglia e collettività nel codice civile della borghesia italiana, in: Gherardi, R./Gozzi, G. (a cura di), Saperi della borghesia e storia dei concetti fra Otto e Novecento, Bologna, IL Mulino, 1995, pp. 351-399. [/ref] Vittorio Polacco aveva poi giustificato sulle pagine dell’Archivio giuridico i principi ispiratori del Codice civile italiano del 1865 in rapporto ad una presunta legge naturale della “associazione domestica”, secondo la quale “un individuo prima di appartenere a una nazione è membro di una famiglia (…) e per questa ragione è cittadino di uno Stato nel quale la famiglia e non l’individuo costituisce la cellula elementare”. [ref] Vittorio Polacco, La famiglia del naturalizzato secondo il codice civile, in: Archivio Giuridico, 1882, 29, pp. 366-388, citazione p. 379. [/ref] Come dire, la donna sposata e i suoi figli possedevano secondo la giuspubblicistica italiana una sorta di cittadinanza necessaria, tanto che un altro giurista del tempo, Antonio Ricci, affermò che esiste una nazionalità della famiglia il cui “destino” dipende dalla condizione del pater familias nel senso che ogni modificazione del suo status comporta una modificazione dello status familiare. [ref] Antonio Ricci, Il principio dell’unità della famiglia nell’acquisto della cittadinanza, in: Rivista italiana di scienze giuridiche, 1891, XIII, pp. 24-53. [/ref] Tradotto poi in termini di disposizione di diritto, per il Codice civile significava che la donna straniera acquisiva attraverso il matrimonio con un “nazionale” automaticamente la cittadinanza del marito, mentre una donna italiana perdeva la cittadinanza nazionale attraverso il matrimonio con uno straniero. Fin qui i tratti del dettato normativo, ma la questione resta sempre aperta: perché lo ius sanguinis reggeva l’impalcatura codicistica italiana del 1865? La risposta in questa prima fase della storia unitaria italiana deve essere ricondotta, molto probabilmente, alla valenza comunicativa dello ius sanguinis nel rendere fruibile di comprensione un processo di associazione di tipo comunitario, l’“accomunamento politico” (politische Vergemeinschaftung) di weberiana memoria, il quale trova una sua ragione d’essere in un senso di appartenenza dei partecipanti in senso affettivo e tradizionale. Rispetto a che cosa? Sicuramente rispetto alle varie frammentazioni territoriali, alle crisi di legittimità, alla ricerca del consenso e inclusione delle élites economiche e sociali dei vecchi Stati territoriali. Il Risorgimento italiano più che essere interpretato attraverso il primato dell’idea di nazione dovrebbe essere riletto come dissenso e in alcuni casi “ribellione” politica delle élites notabilari locali nei confronti delle procedure burocratico-esecutive delle diverse monarchie amministrative degli Stati territoriali preunitari. [ref] Per una panoramica d’insieme si rimanda a Marco Meriggi, Gli Stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Bologna, Il Mulino, 2002; Luca Mannori, La crisi dell’ordine plurale. Nazione e costituzione in Italia tra Sette e Ottocento, in: Giornale di storia costituzionale”, 6, 2003, pp. 243-271. [/ref]  Il municipalismo e il localismo rappresentano i due assi centrali per comprendere la storia politica italiana della prima metà del XIX secolo. Il successo del costituirsi del paese Italia in nazione dipendeva dalla ricerca di un equilibrio contrattuale tra gli interessi delle rappresentanze (possidenti, proprietari, burocrazie locali) delle società locali, tradizionalmente refrattarie nei confronti delle prassi di centralizzazione del potere politico e lo Stato. Tutto questo fondamentalmente voleva dire rispettare il dominante canone risorgimentale del municipio quale associazione privatistica e patrimoniale, lasciare un’ampia autonomia finanziaria alle élites locali nella gestione degli “affari” comunali così come istituire dei meccanismi di rappresentanza in grado di allargare la visibilità istituzionale alle formazioni sociali dei possidenti e dei proprietari e, in alcuni casi, alla nascente borghesia acculturata. [ref] Fondamentale resta il lavoro di Raffaele Romanelli, Il comando impossibile. Stato e società nell’Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1988. [/ref] Come è noto, in relazione a quest’ultima questione essa sarà, poi, egregiamente svolta dal Parlamento nazionale quale garante del raccordo al centro degli interessi particolaristici delle società locali. In un tale contesto, marcato da una debolissima identificazione nazionale, il liberalismo governamentale si premurò fin da subito di presentare alle periferie nazionali l’unificazione giuridica ed amministrativa non solo nella sua dimensione tecnica di essere neutrale ed oggettiva, ma nella costruzione di un nuovo spazio di diritto nazionale cercò di riformulare la relazione tra stato e società sulla base di un’idea di comunità nazionale i cui membri erano tenuti insieme da legami culturali e da valori ascrittivi, da una appartenenza naturale, organica e olistica alla nazione. In altre parole, si assiste a una fondamentale traslazione concettuale dal sostantivo “ordine” all’aggettivo nazionale. Nei primi anni sessanta del XIX secolo si trattava, dunque, di rappresentare la nazione nella sua dimensione normativa e su questo terreno lo ius sanguinis era diventato uno strumento comunicativo spendibile. [ref] Sulla tradizione di una narravita risorgimentale attorno all’idea dell’Italia come comunità geoparentale e naturale si rimanda a Alberto. B. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Enaudi, 2000. [/ref]

La prima legge organica sulla cittadinanza italiana si ha agli inizi del XX secolo con la riforma del 1912. Codesta riforma dovrebbe essere letta nel quadro più generale dell’intensa attività riformistica d’inizio Novecento, i cui intenti modernizzatori sono stati “frenati” da specifiche cautele conservatrici volte ad adeguare l’assento istituzionale alle trasformazioni in atto nella società italiana senza procedere a radicali modifiche. L’industrializzazione, l’inserimento dell’Italia in un mercato del lavoro già tendenzialmente globale, la regolamentazione statale in materia di acquisto e perdita della cittadinanza tra paesi di immigrazione e quelli di emigrazione e non, non da ultimo, l’emergere di una specifica concezione di politica espansionistica verso l’America meridionale, furono tutti fattori che condussero ad una politicizzazione della cittadinanza nazionale. All’interno della modernizzazione difensiva d’inizio XX secolo, la riforma del 1912 rappresenta una legal regulation (Verrechtlichung) rispetto ai temi sopra citati.

Toccata solo marginalmente dai flussi di migrazione continentale – secondo il censimento italiano del 1910 gli stranieri residenti erano meno di ottantamila – la politicizzazione della cittadinanza ruotava attorno all’emigrazione di massa verso il Brasile e l’Argentina, paesi dove vigeva un principio territoriale puro (ius soli). Oltre che essere motivo di scontro tra lo Stato italiano e i governi argentini e brasiliani in materia di acquisto e perdita della cittadinanza, lo status giuridico degli emigranti transoceanici fu al centro del coagularsi di un’ampia convergenza d’interessi in relazione all’idea di una politica espansionistica nazionale costruita attorno alla metafora della colonia libera. In diversi ambienti economici, governativi e culturali l’emigrazione era considerata uno strumento di espansione economica, una specifica via di colonizzazione e al tempo stesso, come scrisse Francesco Saverio Nitti sulla pagine della “Riforma sociale”, “una potente valvola di sicurezza sociale contro gli odi di classe e l’unica salvezza di un paese privo di risorse e pieno di uomini”. [ref] Francesco Saverio Nitti, La nuova fase dell’emigrazione italiana, in: Riforma sociale, 1896, 3, pp.13-28, citazione a p. 21. [/ref] Al trauma di Adua, al fallimento del colonialismo diretto, si rispondeva attraverso un’idea di espansionismo “pacifico” a cui sottostava l’idea di una “italianizzazione” dei territori di emigrazione attraverso la salvaguardia della fisionomia nazionale degli emigranti italiani. In altre parole, la locuzione di colonia libera era diventata nell’Italia di fine XIX secolo sinonimo d’italianità organizzata all’estero. Se si voleva tramutare l’emigrazione in un fattore di potenza era necessario, così gli umori politici del tempo, adoperarsi a far diventare gli emigranti in Sud America più “italiani” e, contemporaneamente, bisognava incoraggiare l’emigrante italiano a partecipare alla vita politica ed amministrativa nei paesi dell’America meridionale e dunque ottenere il diritto di cittadinanza in questi paesi:

Dobbiamo facilitare ai nostri emigranti l’acquisto della cittadinanza locale. Solo così si potrà ottenere di rialzare laggiù la dignità dei nostri emigranti. Essi non si sentiranno più come oggi ripudiati dalla madrepatria e disprezzati dal paese che li alberga. I figli loro, che oggi si vergognano della loro discendenza, sentiranno simpatia per il paese dei loro padri, che continueranno a considerarsi come sangue suo, che tende loro le braccia, e non considerarli come rinnegati e cani renitenti. [ref] Sidney Sonnino, Relazione al Senato, stato dell’emigrazione, Archivio storico della Camera dei Deputati, protocollo n. 13427. [/ref] Sul terreno giuridico istituzionale l’ostacolo principale per questi propositi espansionistici e nazionalistici era rappresentato dalle disposizioni contenute all’articolo 11 del Codice civile del 1865 che prevedevano la perdita automatica della cittadinanza italiana al momento della naturalizzazione in un paese straniero. Fautori e promotori della campagna politica per una revisione della suddetta norma furono le rappresentanti degli interessi economici italiani all’estero legati alle Camere di Commercio e ai vari Comitati degli italiani all’estero. [ref] Si vedano gli Atti del I e II Congresso degli Italiani all’estero, a cura dell’Istituto Coloniale, Roma 1909-11. [/ref] Codeste rappresentanze si fecero interpreti dell’utilità politica ed economica da parte dello Stato italiano di riconoscere una doppia cittadinanza di diritto, ossia di riconoscimento da parte dello stato sia di origine sia di residenza della contemporanea appartenenza politica dell’individuo emigrato a entrambe le entità statuali. Tali richieste trovarono, poi, una forte eco tanto nei gruppi di pressione imprenditoriali vicini al blocco protezionista quando in quelli con una più spiccata visione liberista. Tutte e due i fronti, pur partendo da presupposti differenti, erano interessati a politicizzare la questione della condizione giuridica degli italiani nell’America latina sul fronte di un rinnovato programma di politica economica nazionale. Essi guardavano all’emigrazione transoceanica come opportunità per costruire un mercato nazionale all’estero in risposta ad un mercato interno al limite della saturazione ed in crisi per la concorrenza internazionale e, d’altra parte, intravedevano una possibile compensazione rispetto all’incerta soluzione dei rinnovi dei trattati commerciali con i paesi dell’Europa continentale. In questa prospettiva l’emigrazione risultava complementare all’espansione solo se l’emigrante fosse stato in grado di tenere solidi contatti con la madrepatria. Compito dello Stato era allora quello di agevolare l’acquisizione della cittadinanza nei paesi d’immigrazione senza che ciò comportasse una perdita della cittadinanza d’origine.

La revisione dell’articolo 11 del Codice civile poneva dunque la classe politica liberale di fronte al problema di ricercare una convergenza tra un’autocomprensione etnoculturale dell’appartenenza nazionale e la legittimità di nuove forme di politiche espansionistiche. Tanto per riportare le parole dell’onorevole Grippo in sede del dibattito parlamentare del 1911, “noi ci troviamo in una situazione contradittoria, perché mentre diciamo che bisogna facilitare agli italiani che risiedono negli Stati Uniti e specialmente nell’America del Sud, la partecipazione alla vita politica e amministrativa, dall’altra parte vogliamo mantenere il sentimento d’italianità, vogliamo cercare di non perdere questa grande massa di italiani che vanno nell’America del Sud”. [ref] L’intervento dell’onorevole Grippo si trova in “Atti Parlamentari“, Roma, 1912, p. 2296. [/ref] In definitiva si trattava di risolvere la questione, come scrisse un commentatore politico del tempo, circa la “compatibilità tra la nuova cittadinanza acquistata dall’emigrante all’estero e la durevolezza della sua appartenenza alla nazione, la permanenza di certi vincoli etnologici con l’Italia.” [ref] Giulio Cesare Buzzati, Questioni sulla cittadinanza degli Italiani emigrati in America, in: Rivista di diritto civile, 1909, 2, pp. 445-476, citazione a p. 432. [/ref] Nelle diverse sedi di dibattito politico (Commissione di riforma, Ufficio centrale del Senato, Parlamento) il fronte contro la doppia cittadinanza di diritto fu molto grande. La proposta della doppia cittadinanza fu considerata una sorta di mostro giuridico, un nuovo Giano bifronte perché essa non era assolutamente compatibile con i fondamenti costitutivi della stessa cittadinanza. Tanto per riportare le parole di Vittorio Scialoja relatore in Commissione senatoriale:

Elemento materiale costitutivo dello Stato è il territorio, elemento personale costitutivo dello Stato è il popolo; chi del popolo fa parte è cittadino e come tale appartiene allo Stato; in questo è membro e sta quindi con lo Stato un collegamento organico; dato ciò, è un assurdo giuridico l’ammettere la possibilità che uno stesso membro a due diversi organismi possa appartenere: il collegamento dell’individuo a uno Stato importa necessariamente l’esclusione di un altro uguale collegamento a un altro Stato. [ref] Vittorio Scaloja, Relazione riforma istituto della cittadinanza, Atti del Senato, Roma 1911, p. 432. [/ref]

Ora, l’aspetto fondamentale che emerge da queste affermazioni è la dominanza nella cultura politica del liberalismo del paradigma dello stato-persona, dell’idea dello Stato come organismo. Si ricorre al paradigma organicistico per legittimare il rifiuto della proposta della doppia cittadinanza. Proprio qui sta la fondamentale logica di affermazione politica e non culturale dello ius sangiunis. Lo ius sanguinis va visto come un elemento costitutivo dentro il più ampio paradigma della concezione dello Stato-organico. Per questa ragione bisogna considerare la generale valenza politica di quest’ultimo nella storia politica dello Stato liberale.

La storiografia giuridica italiana ha osservato che per la giuspubblicistica liberale far quadrato attorno alla metafora organicistica aveva significato rappresentare in termini esclusivamente giuridici l’apparato normativo e organizzativo dello stato di diritto liberale. [ref] Su tali questioni si rimanda a Pietro Costa, Lo stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana tra Otto e Novecento, Milano, Giuffrè, 1986; Luigi Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1999; Maurizio Fioravanti, La scienza del diritto pubbblico. Dottrine dello Stato e della costituzione tra Otto e Novecento, Milano, Giuffrè. 2001. [/ref] L’ordine giuridico si identifica con lo Stato e, come giustamente sottolinea Pietro Costa, per questa via si procedeva indicando le fondamenta dello Stato sulla base di un procedimento ad escludendum. La cultura giuridica liberale escludeva a priori un’idea contrattualistica dello Stato, in quanto essa sarebbe viziata dal cosiddetto “atomismo” di derivazione francese che proietterebbe sullo Stato l’ombra della instabilità (Pietro Costa).

Una tale elaborazione concettuale si proponeva come risposta prettamente politica rispetto ai crescenti processi di differenziazione del sociale e di mobilitazione politica tra Ottocento e Novecento; essa era diventata il mantra della modernizzazione difensiva. Infatti, vedendo nello Stato un’unità organica naturale ovviamente la stessa legittimazione statale era posta oltre la sfera di giustificazione politica. Secondariamente, era proprio questo che permetteva di sottrarre la concezione della Stato dai conflitti del sociale, neutralizzando anche per questa via una possibile dimensione politica espressa dalle rappresentanze degli interessi plurali delle diverse formazioni sociali. Ebbene, a me sembra che il paradigma dello Stato-organico abbia rappresentato nei circuiti legislativi il sostrato culturale di quelle politiche di governance nel primo decennio del XX secolo hanno avviato il processo di nazionalizzazione delle masse attraverso una graduale estensione formale dei diritti di cittadinanza. Basti pensare alla strutturazione normativa delle relazioni centro-periferia (legge sulle municipalizzazioni del 1903) tesa a depoliticizzare le politiche di city government di matrice socialista e cattolica; [ref] Sulla valenza politica del concetto di comune come ente autarchico si rimanda a Fabio Rugge, Trasformazioni delle funzioni dell’amministrazione e cultura delle municipalizzazioni, in: L’amministrazione nella storia moderna, Archivio Isap 3, Milano, 1985, pp. 1233-1288. [/ref] oppure, nel modo in cui si affronterà la questione sociale e il tema del suffragio universale. Sia le politiche di welfare liberale che attraverso il canale amministrativo proveranno a istituzionalizzare i conflitti in base a programmi sociali politico-clientelari da una parte, e sia l’avvento del suffragio universale concesso in virtù di una concezione del voto come funzione pubblica rappresentarono due tappe importanti nel processo di integrazione delle masse e in quello di rafforzamento delle istituzioni sociali, senza tuttavia che l’estensione formale dei diritti di cittadinanza fosse accompagnata da un’effettiva cultura egualitaria dei diritti. [ref] Si vedano Giovanni Gozzini, Povertà e stato sociale: una proposta interpretativa in chiave di path dependence, in: Zamagni, V. (a cura di), Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo ad oggi, Bologna, Il Mulino, 2000, pp-578-610; Paolo Pombeni, La rappresentanza politica, in: Romanelli, R. (a cura di), Storia dello Stato italiano dall’Unità ad oggi, Roma, Donzelli, 1995, pp.73- 125. [/ref]

Durante il ventennio fascista lo ius sanguinis assumerà la connotazione di un atto performativo volto a determinare lo spazio di appartenenza e di esclusione del nuovo razzismo di Stato. [ref] Per le considerazioni a seguire si rimanda ai contributi in Nel nome della razza. Il razzismo della storia d’Italia 1870-1945, a cura di Alberto Burgio, Bologna, Il Mulino, 2000; Antisemitismo in Europa negli anni trenta: legislazioni a confronto, a cura di A. Cappelli/R. Broggini, Milano, Franco Angeli, 2001; Giulia Barrera, Mussolini’s colonial race laws and the state-settler relations in Africa Orientale Italiana, in: Journal of Modern Italian Studies, 2003, 8, pp. 425-443. [/ref] In questo processo la dimensione politica, quella di potenza, così come le disposizioni normative discriminatorie costituivano un continuum, sono state il risultato di uno specifico dispositivo ideologico. Si è trattato di un dispositivo che per un verso ha avuto una connotazione di tipo inclusivo perché funzionale alla continuità di una certa idea di politica estera ed espansionistica giocata attorno al ruolo attivo degli emigranti. A partire dal 1927 la politica migratoria fascista sarà tutta tesa a preservare l’italianità all’estero, il principio del cosiddetto carattere indelebilis della cittadinanza. Allo stesso tempo, la nuova stagione del razzismo di Stato poggiava sul principio di “naturalità” negativa dei gruppi sociali che di volta in volta poteva essere definita su basi culturali, religiose, politiche o economiche. Lo sarà in riferimento alla produzione normativa di tipo pervasivo del dominio coloniale fascista, ma anche con le Leggi razziali del 1938 e i vari provvedimenti amministrativi e legislativi in materia. Anzi, la definizione normativa di “persona appartenente alla razza ebraica” sintetizzava tragicamente il trionfo del razzismo biologico fascista.

Allora, a questo punto la questione finale alla quale bisognerebbe provare a rispondere è perché l’idea di cittadinanza “nazionale” agganciata, storicamente, a una valenza politica pluriforme dello ius sanguinis si sia conservata anche nell’Italia repubblicana? Credo che la risposta vada trovata nelle modalità del processo di transizione verso una democrazia costituzionale che in Italia si è avvalsa d’immagini storiche e autorappresentazione collettive volte a rendere fruibili di comprensione l’idea secondo la quale è l’appartenenza allo Stato, determinata dalla nascita, che dà fondamento di partecipazione alla grammatica dei diritti democratici. Non diversamente dalla transizione democratica tedesca anche in Italia si afferma una concezione di democrazia omogenea. [ref] Sul caso tedesco si veda Gustavo Gozzi, Democrazia e diritti. Germania: dallo Stato di diritto alla democrazia costituzionale, Roma-Bari, Laterza, 1999. [/ref] Allo stesso tempo, la persistenza dello ius sanguinis nella nostra legislazione dimostra che la territorialità (Charles Maier), intesa come organizzazione spaziale dai confini culturali e politici netti imperniata sullo stato-nazione continui ad essere un progetto onnicomprensivo, un lunghissimo Novecento che non vuole finire. [ref] 24 Charles S. Maier, Secolo corto o epoca lunga? L’unità storica dell’età industriale e le trasformazioni della territorialità, in: Novecento. I tempi della storia, a cura di C. Pavone, Roma, Donzelli, 1997, pp. 45-78. [/ref] Ora, rispetto alle nuove condizioni di un paese di fatto d’immigrazione, la questione politica rimane: con la rottura di un’omogeneità culturale via ius soli, la cittadinanza in pieno senso democratico come strumento d’aspettative di partecipazione ne uscirebbe indebolita o rafforzata? Su questo terreno la politica è chiamata a dare delle risposte, urgenti, però.

 

L’omosessualità come problema politico

Quando ragioniamo circa le questioni che agitano la convivenza civile dovremmo concentrarci innanzitutto sui concetti di base della discussione. Laddove si pensi all’omosessualità come un problema politico della società contemporanea sarebbe necessario avviare un’analisi sui fondamenti stessi della convivenza nella Polis. Continua a leggere