Marc Augé, “Prendere tempo. Un’utopia dell’educazione. Conversazione con Filippo La Porta” (Castelvecchi, 2016)
di Giulia Ceci
Edito da Castelvecchi nella collana Irruzioni, il libro trae spunto dalle conferenze che hanno visto dialogare Marc Augé e Filippo La Porta in occasione del Futura Festival di Civitanova Marche (2013-2014). Il sociologo francese di fama mondiale ripercorre, attraverso le domande e le considerazioni del critico letterario, le tematiche fondamentali della sua produzione, cercando di interpretare i nostri tempi, ma soprattutto il senso stesso del tempo ai nostri tempi. L’avvio non può che darsi a partire da quegli spazi in cui l’uomo contemporaneo trascorre parte delle sue ore e delle sue giornate: secondo la felice definizione di Augé, i «non-luoghi». Si tratta di aeroporti, stazioni ferroviarie, ipermercati, centri commerciali, per i quali la negazione dello statuto di luogo si riferisce principalmente
a ciò che li contraddistingue, ossia transitorietà e astoricità. Agli antipodi della piazza, i «non-luoghi» sono infatti luoghi di passaggio e senza passato, ai quali risulta difficile attribuire un’identità, data l’assenza di una memoria, la mancanza di una sedimentazione. Tuttavia, a dispetto di questa ambiguità, resta un fatto incontrovertibile la loro elezione attuale a luoghi della socialità, dove la relazione è necessariamente mediata dal consumo, spesso subordinata al potere d’acquisto.
Si incappa così in un apparente paradosso: proprio nella società che ha massimizzato la comunicazione, la relazione umana è costantemente a rischio, se non impossibile, a riprova dell’irriducibile differenza fra l’una e l’altra. Alla base di tale differenza v’è il tempo, presupposto irrinunciabile di qualsiasi forma di relazione. Per questo, «dovremmo imparare a pensare di nuovo nel tempo», respingendo l’immediatezza dei mezzi tecnologici, ossia quella dimensione virtuale di istantaneità che è venuta sostituendosi all’esistenza nel tempo e nello spazio.
È la stessa incapacità di padroneggiare il tempo, secondo Augé, la causa di un diffuso «sentimento di abbandono che abita i giovani», nella mutata socialità dei «non-luoghi». A prescindere dalla crisi economica e dalle insoddisfacenti prospettive di occupazione, si avverte un vuoto più profondo nell’istruzione. Occorre tornare a formare per formare, ricondurre l’istruzione al cuore dell’educazione, concedere tempo per sapere; investire nel tempo equivale a investire nell’istruzione. Finché si considera la scuola, nonché l’università, uno strumento teso all’ottenimento di un buon impiego, confinando la conoscenza all’applicazione ‒ ulteriore estremismo della logica del consumo ‒, ogni progetto educativo è destinato a fallire. Da questa consapevolezza nasce l’utopia di un’«educazione per tutti», dove il carattere utopistico non sta per fantasioso, ma ne indica la posterità. Augé immagina così una società nella quale l’essere umano come uomo generico, ossia l’uomo «planetario, indipendentemente dalle sue origini, dal suo sesso e dalla sua appartenenza culturale», sia accompagnato al compimento della sua finalità: «conoscere il più possibile». Un primo passo importante in tale direzione, ad esempio, sarebbe assicurare l’accesso alle fonti del sapere, poiché l’aumento delle diseguaglianze economiche non crea conoscenza, bensì ignoranza, che congiunta al progresso della tecnica annuncia «minacce e violenze di varia natura». Ne va, allora, della stessa visione del futuro, oggi abitato da un’apocalisse, come fossimo perennemente angosciati, effetto di un tempo subito e del tutto fuori controllo. Soltanto «un’utopia dell’educazione», in quanto riconquista del tempo, può scalzare
la distopia apocalittica.