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Linguaggio e realtà

“lockdown”: Parola che viene utilizzata dai giornalisti, e dai media in generale, poiché in una sola parola si veicola un messaggio semplice: “stare a casa”; e ciò avviene con una leggerezza che sembra essere inconsapevole del suo autentico significato e della realtà cui si riferisce nella lingua originaria.
C’è un semplice modo di tradurre in italiano: “confinamento”.

Contro la frammentazione

In un tempo in cui gli uomini, in quanto singoli e in quanto specie, appaiono adagiati su un terreno che di stabile non ha più nulla, in un periodo storico che vede ciascuno di noi come un piccolo quanto insignificante ingranaggio d’un apparato tecnico sempre meno controllabile dal suo costruttore, in questo tempo, occorre ricordarsi che l’uomo è strutturato su un’identità che ha un centro psico-fisico unitario e che la comunità degli uomini non può essere frammentata senza produrle danni irreversibili.

L’uomo è un intero e l’umanità stessa non può essere concepita se non nella sua interezza. In un tempo segnato dalle grandi conquiste della tecnica, peraltro, l’uomo è ancor di più parte costitutiva ed essenziale dell’intera umanità: in un periodo storico segnato dalla globalizzazione culturale, sociale, economica, tutto ciò è del tutto (e a tutti) evidente. Ancor più evidente e decisiva, però, è l’interrelazione ambientale quando si assuma con chiarezza che viviamo in una fase temporale nella quale un qualsiasi “incidente” di tipo tecnico, qualsiasi evento che si registri in un determinato continente, prima o poi è in grado di diffondersi su larga scala, producendo danni catastrofici e spesso irreversibili. Per quanto riguarda poi il fenomeno dell’immigrazione transcontinentale, vero e proprio fenomeno esodale del contemporaneo, è sotto gli occhi di tutti che la mancanza d’una geopolitica globale e di istituzioni internazionali in grado di andare al di là di logiche spazio-temporali miopi e spesso ottuse e meschine, e dunque incapaci della sia pur minima lungimiranza, hanno prodotto e produrranno inesorabilmente fenomeni che minacciano di azzerare l’intero campionario dei diritti umani nella cui elaborazione si è affaticato l’Occidente da secoli.

Sulla base di considerazioni di questo tipo – forse troppo semplici per poter essere intese nella loro importanza epocale – occorre allora ripensare radicalmente l’essere dell’uomo, riconnettendolo strettamente con le sorti del suo mondo. Non c’è uomo senza mondo, mentre al contrario il mondo senza l’uomo è pensabile sia logicamente sia storicamente. In questa luce, dobbiamo aver chiaro che, se è senz’altro vero che è l’essere umano a produrre il mondo, è ancora più vero che il mondo possiede delle leggi che non possono essere alterate senza che l’umanità nel suo complesso ne debba risentire.

Entrando dunque in una logica di questo tipo (nulla è più necessario in sede politica di tali consapevolezze), una delle prime conclusioni a cui è necessario giungere è che le discipline settorializzate – così come gli interessi regionalistici – costituiscono un’espressione disastrosa del nichilismo imperante. Dividere le scienze e gli ambiti della produzione umana (simbolica o reale che siano), impedire la loro comunicazione essenziale, cioè, risulta del tutto irresponsabile ed è totalmente sbagliato. Così come è sbagliato e politicamente criminale costruire aree geopolitiche caratterizzate da crisi (economiche e politiche) permanenti, se non da vere e proprie guerre locali. In altri termini, tutto ciò va a costituire l’antefatto teorico di un tempo che, non occupandosi più del mondo, non è più in grado di curare neppure gli interessi fondamentali dell’uomo.

In modo particolare per le discipline filosofiche, inoltre, da sempre considerate a giusta ragione il collante di tutte le scienze, oltre che l’attività principale dell’uomo in quanto essere pensante, bisognerebbe entrare nell’ottica secondo la quale la conoscenza o è “integrale” o non è affatto. Nessuna particella dell’umano, in questo senso, può rendersi autonoma in maniera anarchica, nella convinzione che l’intero non reagisca.

L’impero della tecno-finanza estesa a livello planetario, tuttavia, va in direzione diametralmente opposta. È del tutto ovvio che rientra negli interessi precipui del capitale dividere uomini, Stati, aree geopolitiche e saperi. Assistiamo così al sempre più incalzante processo di disgregazione individualistica a cui fa seguito da presso una costruzione artatamente costruita di conflitti fittizi messi in scena ad uso e consumo del capitale e delle classi dominanti. Donne contro uomini, bianchi contro neri, guerre fra poveri, sovranità assoluta di visioni del mondo antisociali e grette come il neo-liberismo prima e l’ordo-liberismo a seguire. Evidentemente, tutto ciò nel mentre asserisce di incorporare una verità storica, alle sensibilità più acute si manifesta per quello che è, ossia un tentativo di distruggere le masse orizzontali e compatte della modernità nella direzione di un’atomizzazione sociale sempre più estesa. Nulla sembra più evidente, infatti, di quanto i processi di soggettivazione contemporanei stiano costruendo un uomo senza alcuna appartenenza: fuori da tessuti comunitari e da radici ambientali. Sta emergendo e sempre più consolidandosi un modello (post)umano passivizzato, senza passato e senza futuro, interamente appoggiato sulla tecnica e con addosso una crescente sensazione di superfluità. Inutile far notare come individui di tale sorta (atomizzati ed irrelati) non possano in alcun modo sfuggire alla presa irresistibile del potere tecno-finanziario. Inutile sottolineare, altresì, quanto un dispositivo di “verità” di questo tipo sia del tutto funzionale all’edificazione e al consolidamento progressivo di una massa di “diseguali” che ha tutti i vantaggi dalle divisioni interne che vengono operate nelle masse di “uguali”.

In questo quadro, credo che debba essere la filosofia, anzitutto, a segnalare la necessità di un cambio radicale d’orizzonte. Ovviamente, non parlo della filosofia da “torre d’avorio”. Meno ancora di quella autoreferenziale che gioca i propri narcisismi nelle conferenze per élite sempre meno significative sul piano pubblico o che imperversa all’interno delle ritualità annose ed inveterate del potere accademico. Mi riferisco, molto diversamente, alla filosofia che ha per oggetto il pensiero e l’unità dello spirito umano che al pensiero corrisponde. Credo, infatti, che, da questo punto di vista, la filosofia sia anzitutto una politica. Una politica degna di questo nome, infatti, sa bene che il suo compito è quello di guardare alla comunità (lato sensu) nel suo complesso e al rapporto originario fra gli uomini, nel quadro di un bisogno ineludibile di costruzione del “luogo” del loro stesso abitare. Non c’è politica adeguata a se stessa che non sappia coinvolgere nella sua prassi quotidiana la filosofia, ossia l’unica disciplina capace di disporre di una visione complessiva dell’uomo in quanto singolo e in quanto specie. L’uomo che deve essere preso in considerazione, inoltre, non può più essere “il soggetto razionale” della tradizione illuministica, o il “cittadino” della tradizione statualistica moderna, né tantomeno l'”agente economico” tipico delle posizioni liberali, bensì un essere peculiare che si caratterizza essenzialmente per un’esposizione radicale all’evento della sua stessa esistenza.

Per giungere ad un approdo di questo tipo è chiaro che tutte le scienze sono utili e necessarie: anche quelle che non avevano mai raggiunto la dignità di “scienza accademica”. A patto, però, che tutte loro possano essere riconnesse al senso filosofico più generale ed originario possibile. Ad esempio, costituirebbe una buona filosofia quella che ritornasse a porre domande ingenue, come quelle dei bambini o dei poeti, o comunque di coloro che sanno proporre “uno sguardo straniero” sul mondo. Una buona filosofia è tale quando si mostra capace di porre in un colpo solo davanti ai tanti paradossi e alle innumerevoli contraddizioni che caratterizzano l’esistere.

In conclusione, dunque, credo che sarebbe necessario che la filosofia diventasse una visione dell’uomo esprimibile attraverso una politica internazionalistica. Per converso, occorrerebbe una politica capace di stringere una nuova, sacra alleanza con la filosofia.

Sarebbe urgente che la filosofia mutasse il suo senso e la sua ispirazione settorializzata e divenisse “antropologia politica”.

Antonio Martone

 

 

Sulla sinistra “senza compagni e senza storia”: da Ezio Mauro a quel che sta accadendo a sinistra del PD

In un bell’articolo, che in realtà è un piccolo saggio, Ezio Mauro ha tracciato il quadro di questa sinistra “senza compagni e senza storia”. Ha ricordato che “l’inconcludenza politica e la tragedia tribale” esibite in Italia sono di tutta la sinistra di questo occidente, ormai, pressoché ovunque, sull’orlo dell’estinzione. Ne ha additato l’origine nella “frattura tra il mondo compatto del Novecento e l’universo frammentato della globalizzazione, che cancella le classi ma trasforma le diseguaglianze in esclusioni”, che sposta il “ceto medio tra gli sconfitti”, che fa del precariato la “moderna interpretazione del proletariato” e che, infine, produce una “nuova solitudine repubblicana, uno spaesamento democratico dove crescono i “risentimenti individuali incapaci di trovare traduzione collettiva … una Causa”. E ne ha evinto che l’ultima chance di quella che fu la sinistra sta “in un popolo disperso e dimenticato da riconquistare”, in uno “spazio sociale da riorganizzare”, e dunque in una “scommessa culturale da giocare per ridefinire la propria presenza nel secolo”.

C’è tutto, e detto nel modo migliore. Ma fa chiedere: chi può farlo e come si può fare, magari cominciando dall’Italia.

Tutto questo è avvenuto in forza di processi oggettivi e potenti che hanno cambiato il mondo, ma hanno cambiato con esso le sinistre che in un modo o nell’altro lo avevano governato nella seconda metà del “secolo breve”.

Piaccia o no, l’attuale PD è una formazione politica di centro, e lo è non dal tempo di Renzi. Non è certo un’ingiuria, ma solo una constatazione: non perché non è più anticapitalistica, ma perché ha finito per far proprio il pensiero unico, l’idea che ai fallimenti del mercato si ovvia solo con più mercato, e dunque, in primis, riconducendo il lavoro, tutto il lavoro, alla logica della merce. Ha provato, e prova, a salvare l’assistenza, ma dall’esterno, senza “disturbare il manovratore”. Renzi ha solo accelerato questo processo, abbandonando antiche prudenze con l’idea di sfondare a destra, una destra che all’epoca della sua ascesa appariva in disarmo.

Questo mutamento del PD potrebbe sembrare reversibile, se non fosse che è mutato con esso lo statuto antropologico del suo personale politico e dei ceti che questo personale coinvolge (il popolo delle primarie): il professionismo rampante in luogo della vocazione politica e la contiguità subordinata alle èlite in luogo del “popolo disperso e dimenticato”.

Questo fa sembrare improbabile che la costituzione di una nuova sinistra possa consistere in una ri˗collocazione del PD o, comunque, in una ri˗conversione che muova dal suo interno: piaccia o no, non è facile immaginare che un tal personale politico sia folgorato sulla via di Damasco o che possa essere scalzato, protetto com’è dalla sua estesa rete di piccoli patrocini. E fa pensare che le chance di una sinistra, che ripensi la propria “presenza nel secolo”, rimangano affidate, piuttosto, all’incerta e problematica costruzione di una nuova formazione politica che provi a ri˗coniugare il grande retaggio della solidarietà e della dignità con un mondo ormai dominato dalla tecno˗scienza. Il suo problema è: con quali parole si parla oggi di una nuova Causa (come la chiama Ezio Mauro) e come si recluta ad essa un personale che vi creda e che sia disposto a mettersi in gioco.

Per costruirla questa nuova sinistra ci vogliono idee nuove e programmi inediti, ma ci vuole anche una soggettività politica iniziale che si proponga di accudirvi con una attitudine che guardi oltre la contingenza.

Ed è qui che appaiono i limiti di chi dichiara di volersi far carico di questo compito.

Il campo progressista di Pisapia non riesce ad andare oltre l’obbiettivo, un po’ patetico e alla fine velleitario, di ricondurre le pecore smarrite all’ovile: ma l’ovile non cambia di certo perché c’è dentro anche Pisapia, magari con un manifesto comune che parla di diseguaglianze e povertà (se non dice quanto si dà e da chi si toglie). Senza il PD oggi non si governa? Ma se non si immagina un discontinuità non si capisce a che serva costruirgli accanto un nuovo movimento. Soprattutto, se si pensa che si governa anche dall’opposizione e che l’opposizione non vuol dire affatto perdere il filo della responsabilità (si ricordi il PCI).

In questo hanno, di sicuro, ragione MDP e Bersani e D’Alema: prima si capisce e definisce cos’è questa nuova formazione e poi si discute da dove e come parla col PD. Ma inciampano anch’essi in due limiti. Il primo è che questo PD, la sua incorporazione del pensiero unico ed il suo reclutamento opportunistico sono figli loro. Sicché non basta a definire una nuova identità limitarsi alla critica di quel che ha fatto Renzi. La seconda è che lo svuotamento del PD e dei partiti che in esso sono confluiti si è prodotto a partire dalla loro riduzione a mero anti˗berlusconismo. Sicché l’anti˗renzismo promette solo lo stesso finale.

Mentre SI di Fratoianni e Vendola dovrebbe, infine, convincersi che dal crescere o diminuire di un punto ne va solo della sopravvivenza di una “nicchia”, che può conservare vecchie parole d’ordine e il personale che ad esse è legato, ma che, di certo, non giova alla sinistra e, soprattutto, al “popolo disperso e dimenticato” di cui dovrebbe curarsi. Sicché ha ragione Macaluso a dire che, dopo Livorno, non c’è stata scissione che sia andata oltre la rivendicazione di una “purezza” che lasciava soli gli ultimi e i deboli.

Occorrerebbe, piuttosto, che tutti si convincessero di tre cose.

La prima è che una nuova sinistra non si può presentare, ed autorappresentarsi, come supporto esterno del PD: una nuova formazione deve innanzitutto costruire la sua identità e definire la sua autonomia, e dunque concepirsi e proporsi in competizione (che non vuol dire guerra).

La seconda è che, tuttavia, un rapporto con il PD non sembra allo stato (specie dopo gli ammiccamenti “a destra” del M5S) abbia reali alternative e che la segreteria di questo partito è una questione solo sua: non conta chi lo guida, ma dove si rende realmente disponibile ad andare.

La terza è che deve farsi carico dei problemi di quel pezzo di società che è trascinata nella precarietà e deve farsene carico mostrando che il superamento di questa cifra della contemporaneità salvaguarda il futuro di tutti: dunque, pensando una politica, che muova dal disagio della società e dalle sue ragioni strutturali, che indichi come rispondervi già oggi seppur con il necessario gradualismo e che si interroghi sull’Europa sapendo che fuori non c’è il ripristino delle sovranità nazionali ma solo il dominio delle potenze globali.

LA QUESTIONE DELLA SFERA PUBBLICA EUROPEA

di Manfredi Camici

 

L’Unione europea, a seguito del crescente successo dei movimenti euroscettici e della volontà manifestata dagli elettori britannici il 23 giugno scorso, si trova oggi a navigare in acque poco floride. Il clima di forte contestazione e insoddisfazione nei confronti delle politiche europee ha spalancato le porte a scenari di “disintegrazione”, che per la prima volta vengono presi seriamente in considerazione e messi a tema anche da illustri pensatori come Wolfgang Streeck e Jan Zielonka[1]. Se l’Unione appare inadeguata nel far fronte alle problematiche poste in essere dalla crisi economica e dalle ondate migratorie – rimanendo in tal modo un attore secondario sul piano internazionale – ciò viene spiegato attraverso l’impossibilità costitutiva di dar vita ad una politica comune e condivisa dal momento che risulta assente l’elemento sul quale le politiche stesse dovrebbero istituirsi: il dibattito scaturente da una sfera pubblica europea omogenea. In generale, ad essere messa in discussione, è la possibilità che si venga a formare un ordinamento politico democratico a livello europeo data l’irrealizzabilità di una sfera pubblica che vada oltre i confini nazionali. Conseguentemente, la prospettiva stessa di una democrazia transnazionale viene valutata negativamente vista l’assenza di un demos europeo culturalmente definito.

Ad affermare l’impraticabilità di una sfera pubblica europea vi sono sia i nazionalisti, che intendono il demos come entità fondata su un’a priori storico-culturale, sia coloro che come Dieter Grimm e Philip Schlesinger ne sottolineano unicamente degli ostacoli pragmatici come la mancanza di una lingua comune e di mezzi di comunicazione condivisi[2]. In entrambi i casi, risulta impossibile fondare una comunità della comunicazione europea. Il presupposto che unisce queste due visioni e che accomuna gran parte della letteratura sulla sfera pubblica europea è che ad ogni Stato membro corrisponda una sfera pubblica nazionale. La sfera pubblica viene intesa come auto evidente, omogenea e stabile. L’idea soggiacente a questa visione è quella di una corrispondenza tra confine, cittadinanza, linguaggio, identità nazionale e interessi condivisi.

Definizione e funzioni della Sfera pubblica.

Prima di poter procedere oltre è necessario chiarire cosa sia una sfera pubblica, evidenziandone gli elementi fondamentali – seppure non ne esista una definizione condivisa universalmente – ed evidenziare il suo stretto legame con la democrazia. In senso più ampio, la sfera pubblica è lo spazio sociale che si viene a creare quando gli individui deliberano e discutono su questioni comuni. L’idea della sfera pubblica si radica nella disposizione discorsiva sviluppata dal filosofo tedesco Jürgen Habermas[3], il quale elabora una teoria deliberativa della democrazia. Alla base di tale teoria, infatti, si pone il superamento del riconoscimento della democrazia con i principi del voto, della maggioranza e di una concezione della politica quale regno della razionalità strumentale e spazio di aggregazione tra interessi irrimediabilmente contrapposti. Sebbene anche all’interno della teoria deliberativa vi siano molteplici varianti, queste sono accomunate dall’idea che la deliberazione pubblica tra i cittadini rappresenti l’unica fonte possibile di legittimità democratica. Una decisione può considerarsi legittima solo nel momento in cui viene assunta a seguito di un processo di deliberazione – ovvero un processo discorsivo fondato sullo scambio di argomentazioni razionali – a cui possono partecipare tutti gli individui coinvolti dagli effetti della decisione stessa. Una norma è ritenuta valida allorquando è stata precedentemente discussa e vagliata, all’interno di un dibattito libero a cui tutti gli interessati hanno pari possibilità di accedervi.

Alla sfera pubblica, inoltre, spettano le funzioni di scoperta dei problemi che affliggono la comunità, ma cosa ancor più importante, questa fornisce la giustificazione politica intrinseca alla democrazia. È alla base del concetto di legittimità e di sovranità quello di includere nel processo deliberativo tutti i potenziali interessati.

Lo sviluppo della sfera pubblica ha profonde implicazioni sulla concezione della teoria deliberativa. Coloro che governano sono obbligati ad entrare nell’arena pubblica per difendere le loro decisioni e cercare consenso. La sfera pubblica è critica del potere. Non vi sono corpi esterni alla deliberazione pubblica che possano giustificare l’autorità della legge. Vi è una transizione dal discorso del potere al potere del discorso. Unicamente il dibattito pubblico in se stesso ha il potere di stabilire le norme. Per questo motivo, la democrazia è divenuta oggigiorno l’unico principio di legittimazione dei governi, fondata su un’inclusiva sfera pubblica che consente a ciascuno degli interessati di prendere parte nella deliberazione sugli affari comuni. É nella sfera pubblica che avviene il contesto della scoperta, della percezione e la tematizzazione dei problemi. Per converso, le discussioni istituzionalizzate, come quelle parlamentari, aiutano a filtrare le priorità tra le rivendicazioni provenienti dai discorsi periferici che scaturiscono spontaneamente all’interno della sfera pubblica informale. É in questa interazione tra discorso istituzionalizzato e discorso non istituzionalizzato che prende forma il processo collettivo di autogoverno, in tale processo ha posto la politica deliberativa. Il principio della sovranità popolare può essere realizzato unicamente assicurando una libera sfera pubblica ed una libera competizione tra partiti, insieme a corpi rappresentativi per la deliberazione e la decisione.

Inoltre, grazie al ruolo dei media e alla critica pubblica, i politici devono definire il loro mandato sulla continua ricerca della sfera pubblica generale. In questo modello, affinché i temi possano arrivare dalla periferia informale al centro istituzionalizzato, è necessario che i mass-media siano permeabili alle istanze che provengono dall’esterno.

Questa visione ha suscitato numerose critiche circa la reale possibilità della sfera pubblica di non venir manipolata e colonizzata dai grandi strumenti di comunicazione di massa, piuttosto che da giochi di potere più o meno nascosti. La concezione habermasiana nega però l’immagine del consumatore massmediatico come unicamente passivo e culturalmente drogato. Nondimeno, anche nel caso in cui si volesse pensare ad una sfera pubblica manipolata e dominata dai mass-media, quest’immagine potrebbe essere riferita unicamente ad una sfera pubblica in condizione di riposo. «Nel momento in cui si mobilitano, le strutture su cui poggia l’autorità d’un pubblico capace di prender posizione cominciano a entrare in vibrazione. Allora si modificano anche i rapporti di forza esistenti tra società civile e sistema politico»[4].

La concezione deliberativa si differenzia tanto dalla teoria liberale, quanto dal concetto repubblicano di autonomia. Nella concezione liberale, il processo democratico si compie esclusivamente nella forma di compromessi d’interesse; in quella repubblicana la formazione democratica della volontà si compie unicamente nella forma dell’autogoverno.

«Se pensata discorsivamente, la democrazia non parte né dal principio di autonomia, né da quello di pari rispetto degli interessi, ma da qualcosa che li precede e li include entrambi, cioè dall’idea che non vi siano alternative razionali alla ricerca cooperativa e paritaria delle istituzioni e delle soluzioni che meglio consentano l’equa soddisfazione degli interessi e delle istanze di tutte le persone».[5]

 

La necessità di una sfera pubblica europea e la sua costitutiva impossibilità: I problemi del “nazionalismo metodologico” e del deficit democratico.

 

Se, come si è visto, le decisioni democraticamente legittime sono quelle che coinvolgono tutti coloro che ne sono influenzati, nel contesto attuale, lo Stato-nazione – a causa della crescente interdipendenza globale – non sembra più in grado di connettere coloro che decidono e coloro su cui ricadono gli effetti delle disposizioni. Emerge così il problema del deficit democratico, dal momento che in un mondo sempre più interconnesso – sul piano ecologico, economico e culturale – gli Stati combaciano sempre meno, nel loro raggio sociale e territoriale, con le persone e le sfere che sono potenzialmente coinvolte dagli effetti di queste decisioni. Basta pensare a come la decisione francese di ricorrere a 58 reattori nucleari per soddisfare il proprio fabbisogno energetico possa, in caso di disgrazia, ricadere anche su altri Stati che hanno deciso di rinunciare all’energia atomica.

La globalizzazione ha svolto un ruolo determinante, compromettendo lo stato amministrativo attraverso cui le società democratiche sono in grado di autogovernarsi, in quanto si sviluppano problematiche (ad esempio le tematiche ecologiche, il buco dell’ozono, la gestione del nucleare etc.) non più controllabili all’interno del singolo quadro nazionale. Lo stesso vale per le capacità di redistribuzione dei redditi all’interno del confine statale: l’accelerata mobilità dei capitali impedisce l’intercettazione dei guadagni così come la minaccia di trasferire all’estero l’impresa o il denaro mette in scacco il potere contrattuale dello Stato nei confronti del mercato. Senza la capacità dello Stato di garantire determinate politiche di welfare, un cittadino può perdere la capacità di esercitare i suoi diritti, rimanendo in tal modo escluso dalla possibilità di prender parte al dibattito pubblico. Pertanto, nel momento in cui i presupposti sociali in grado di garantire una partecipazione politica vengono compromessi, anche le decisioni prese in maniera pur formalmente corretta perdono la loro legittimità democratica e la loro credibilità. Alla luce di tali evidenze, la tematica europea e quella della transnazionalizzazione della democrazia diventano sempre più urgenti, a maggior ragione nel momento in cui alla fine del XX secolo è cresciuta in maniera esponenziale la complessità della società mondiale.

L’UE nasce propriamente con l’obiettivo di far fronte ai nuovi problemi che sorgono sull’asse globale-locale, imponendo un ripensamento della spazializzazione della politica. Ma come può un’istituzione transnazionale colmare la problematica del deficit democratico nel momento in cui è sprovvista di un demos, di una cultura condivisa, di mezzi di comunicazione comuni e di una sfera pubblica da cui trarre legittimità? Senza queste componenti risulta infatti impensabile dar vita ad una politica democratica e la strada verso il federalismo sembra preclusa in partenza.

Posizioni minoritarie, ma illustri, sostengono che la questione della legittimità democratica costituisca un falso problema. Giandomenico Majone[6], concependo l’UE nei termini di uno Stato regolatore afferma che l’unico problema delle istituzioni europee sia una crisi di credibilità. L’UE è chiamata a svolgere solamente una funzione di problem-solving, per questa ragione non ha bisogno di essere legittimata in forma diretta da una sfera pubblica, poiché il suo obiettivo è quello di perseguire un criterio di efficienza. In questo caso, la legittimità viene sottratta al versante della deliberazione pubblica (input) e collocata sui risultati (output). L’approccio intergovernamentalista, sostenuto da Alan Milward e Andrew Moravcsik[7], supera l’empasse ritenendo i processi decisionali dell’UE legittimati indirettamente attraverso gli Stati membri. Gli intergovernamentalisti concepiscono il processo integrativo come il risultato di un compromesso strategico tra gli Stati, orientati al perseguimento dei propri interessi nazionali. A ciò corrisponde un sottodimensionamento del grado di autonomia delle istituzione comunitarie, dal momento che queste vengono ritenute, in ultima istanza, controllate dai governi nazionali. Entrambe le soluzioni non sembrano però in grado di risolvere definitivamente il problema. L’interpretazione dell’UE nella funzione di entità di problem-solving fondata sul criterio dell’output incorre in due errori. In primo luogo, risulta impossibile stabilire dei risultati che possano essere ritenuti soddisfacenti indipendentemente dalla deliberazione di coloro che vengono influenzati dalle decisioni prese a livello sovranazionale. È solo all’interno dello scambio discorsivo che si possono stabilire criteri di accettabilità delle argomentazioni e trovare criteri di efficacia, dal momento che non vi sono norme sostantive che stabiliscano a priori quali posizioni possano essere accettate o escluse dal processo argomentativo. In altre parole, è solo all’interno dello scambio comunicativo che si possono rintracciare gli scopi della deliberazione e gli obiettivi sul quale vengono valutate le politiche dello Stato. In secondo luogo, l’efficienza dei risultati risulta una fonte di legittimità troppo debole per garantire stabilità ad un ordinamento politico, dal momento che qualora non si raggiungessero degli esiti soddisfacenti quest’ultimo verrebbe meno. Allo stesso modo, la teoria intergovernamentalista non sembra in grado di descrivere l’attuale configurazione del sistema politico europeo. L’espansione dei poteri delle istituzioni comunitarie e lo sviluppo di un diritto autonomo e sovraordinato a quello degli Stati membri, rendono quest’approccio insufficiente ai fini di una spiegazione comprensiva del sistema politico europeo che viene ridotto alla semplice interazione strategica. Infine, l’intergovernamentalismo non riesce a dar conto del forte sentimento di frustrazione e malcontento che si può facilmente riscontrare circa l’attuale stato del processo integrativo. Se l’Europa è ancora un continente di Stati nazione e l’UE unicamente un’organizzazione intergovernativa, allora il perseguimento dei singoli interessi nazionali, con l’utilizzo di qualsiasi strumento, essendo rimesso a ciascun singolo organismo statale e non invece compito precipuo dell’Unione, non dovrebbe essere fonte di critica per l’Unione stessa. Sia lo Stato regolatore, sia l’intergovernamentalismo si rivelano pertanto inadeguati nel fornire tanto una giustificazione esplicativa quanto una giustificazione normativa dell’UE.

Il dilemma rimane ancora aperto e apparentemente insolubile. Il rischio è quello di rimanere invischiati in una situazione di stallo: se da un lato sembra evidente la necessità di stabilire un ordinamento politico democratico transnazionale, dall’altro non si riesce a trovarne una fonte di legittimazione. Così, sono molteplici gli autori che sanciscono l’impossibilità della democrazia al di fuori dello Stato nazione, ritenendo che la sola e parziale soluzione possibile del deficit democratico sia la riduzione dei poteri politici dell’UE. Il rafforzamento della dimensione europea non farebbe altro che aggravare ulteriormente la situazione[8] poiché – vista la ormai acclarata assenza di un demos, di una cultura, di un linguaggio e di mezzi mass-mediatici condivisi, di partiti politici e di una sfera pubblica europea – le riforme istituzionali non riuscirebbero a fornire una legittimazione diretta delle istituzioni europee. Dello stesso avviso sono Andreas Follesdal e Simon Hix[9], per i quali il deficit democratico viene ampliato dal fatto che il processo integrativo favorisce un progressivo aumento del potere degli esecutivi rispetto ai parlamenti, anche a livello nazionale. Per tutte queste ragioni, i sostenitori dello Stato-nazione ritengono che l’integrazione conduca ad un gioco a somma negativa, dal momento che il deficit delle istituzioni europee viene trasmesso agli Stati nazionali acuendone le problematiche invece di risolverle. Ci troviamo così, come afferma Vivien Schmidt[10], con “politiche” europee prive di “politica”, laddove i Paesi membri vivono di “politica” senza “politiche”. Le “politiche” vengono intese, in questo caso, come la capacità di prendere decisioni che possano essere efficienti e per “politica” la possibilità di dar vita a decisioni legittime fondate sul discorso pubblico.

Sia la visione della disintegrazione, tanto l’integovernamentalismo, quanto la teoria dello stato regolatore e la visione federale non riescono a fuoriuscire del paradigma dello Stato-nazione quale unica forma politica possibile avente come fonte di legittimazione una sfera pubblica monolitica. Secondo Ulrich Beck, queste teorie sono deviate da un vizio di forma che affligge gli attori sociali e gli scienziati politici: il “nazionalismo metodologico”. La denuncia di Beck è condivisa anche da Habermas il quale afferma che dimenticandosi di essere in se stessa un prodotto artificiale, la coscienza nazionale si rappresenta nei termini di un prodotto naturale dato a priori rispetto all’ordinamento ricavato del diritto positivo e alla costruzione dello Stato. Appellarsi alla nazione “organica” significa così cancellare la contingenza e l’arbitrarietà storica dei confini politici, trasfigurandoli con un’aura di “sostanzialità contraffatta”.

Un necessario ripensamento della sfera pubblica europea:

Coloro che incorrono nell’errore del “nazionalismo metodologico” ritengono, dunque, impossibile realizzare una sfera pubblica pan-europea. L’inattuabilità di quest’ultima deriva dal fatto che viene pensata in base alle medesime caratteristiche delle sfere pubbliche presenti a livello nazionale. Questa è chiamata a soddisfare gli stessi requisiti: omogeneità etnica, culturale e linguistica. L’equivoco fondamentale in cui ci si imbatte, attraverso quest’interpretazione, è quello di identificare la lingua con la precondizione della deliberazione e della democrazia: la comunicazione. In questo modo non si fa altro che confondere il mezzo con il fine. Grimm ritiene – come altri d’altronde – che a causa della pluralità linguistica (24 riconosciute ufficialmente) i cittadini dell’UE non siano in grado di comunicare tra loro. Inoltre, non vi potrebbe essere alcun dibattito europeo senza mezzi di comunicazione condivisi quali giornali e televisioni. Grimm sostiene che:

« […] le perplessità sorgono dalla considerazione che una società in grado di intendersi discorsivamente sulle proprie questioni esiste in effetti a livello nazionale, non però in ambito europeo. Le strutture intermedie composte da partiti, associazioni, movimenti civici, media della comunicazione, senza le quali è impensabile un processo democratico vitale, mancano infatti in Europa, così che risulta assente anche quella sfera pubblica europea la quale rappresenta la condizione imprescindibile di tutti gli Stati democratici»[11].

Viene ravvisata così nel progetto europeo una politica guidata da élites, in cui risulta assente il popolo. In tal maniera, le differenze linguistiche rappresentano un limite invalicabile alla creazione di una sfera pubblica democratica in grado di oltrepassare i confini delle frontiere nazionali. La trasformazione dell’Unione Europea verso il paradigma di uno Stato federale porterebbe alla creazione di un’istituzione ancor più lontana dalla sua base sociale. «La legittimazione che ne deriverebbe sarebbe quindi solamente fittizia. Per uno Stato costituzionale europeo i tempi non sono ancora maturi»[12].

A ben vedere però, ciò che conta per la formazione di una sfera pubblica è la comunicazione e non la lingua. Come sottolineato da Kalus Eder e Cathleen Kantner[13], affinché si possa parlare di scambio comunicativo è sufficiente che vengano (1) dibattute le stesse tematiche allo stesso tempo e con la stessa attenzione, (2) utilizzati gli stessi criteri di rilevanza e di riferimento per dibattere. Se questi sono gli elementi costitutivi della comunicazione è dunque possibile pensare ad una sfera pubblica europea, non più in termini monolitici, ma come europeizzazione delle molteplici sfere pubbliche nazionali. Non è indispensabile che si condivida la lingua o i mezzi di comunicazione, ma è sufficiente che i singoli media nazionali parlino delle questioni europee contemporaneamente attraverso una prospettiva comune e condivisa. La soluzione non sta nella costruzione di una sfera pubblica sovranazionale, ma nella europeizzazione delle sfere pubbliche nazionali esistenti. «Queste, senza dover modificare profondamente le infrastrutture in vigore, possono aprirsi l’una all’altra. I confini delle sfere pubbliche nazionali diverrebbero in tal modo i portali di vicendevoli traduzioni».[14]

Ma questi criteri sono sufficienti affinché si possa parlare di sfere pubbliche europeizzate? Le funzioni svolte dalla sfera pubblica non si limitano ad una reciproca osservazione, così dunque non può bastare che i media nazionali discutano delle stesse questioni monitorandosi vicendevolmente. Ciò che caratterizza la sfera pubblica è il dibattito e la comunicazione che è alla base della formazione delle opinioni e della volontà di un ordinamento politico democratico. Ritorna così la problematica del soggetto chiamato a deliberare: il demos. La possibilità che si vengano a formare sfere pubbliche europeizzate è strettamente correlata alla questione dell’identità europea.

Larga parte della letteratura sulle sfere pubbliche ritiene che l’identità sia una precondizione ineliminabile, per queste ragioni si sostiene che non sia possibile una sfera pubblica europea. Il “nazionalismo metodologico” parte da premesse giuste, ma arriva a conclusioni sbagliate. È vero che la questione dell’identità è strettamente correlata a quella della sfera pubblica, ma identificando la comunicazione con la lingua si ipostatizza l’elemento identitario.

In realtà la relazione che intercorre tra identità e comunicazione è meno problematica dalla prospettiva della teoria deliberativa. Habermas non tratta infatti le sfere pubbliche o le identità collettive come qualcosa di dato. Le sfere pubbliche emergono nel processo stesso in cui le persone dibattono. Nel momento in cui si crea un dibattito su questioni comuni si reifica e reinterpreta la stessa comunità politica. Questo punto segue dall’affermazione di Craig Calhoun[15], secondo il quale le identità sono ridefinite nella sfera pubblica, il che le rende aperte al cambiamento. Sulla base di un concetto d’identità non esistenzialistico, Thomas Risse ritiene che si possa osservare anche l’emergere di identità europeizzate nella pluralità delle opinioni pubbliche europee[16]. La frequente interazione tra le persone e la condivisione di problematiche, come quella della crisi economica, connesse a simili esperienze di vita, sono in grado di incrementare il senso di comunità. È a partire dalla concezione della cittadinanza e della democrazia mediata discorsivamente, che la teoria deliberativa della democrazia include l’altro nella discussione pubblica, dal momento che la crescita esponenziale delle problematiche che influenzano la vita delle persone e che sfuggono al raggio d’azione degli Stati nazionali, compromettono la stessa possibilità delle persone di auto-organizzarsi sia come individui che come società. Laddove una concezione statica e culturalista dell’identità ritiene impossibile fondare una democrazia sulla partecipazione diretta dei cittadini europei a un dibattito transnazionale, adottando una prospettiva post-nazionale, che supera l’identificazione della comunità politica con la comunità di “destino”, lo sviluppo di uno spazio discorsivo europeo può fornire la base per una cittadinanza costituita da una pluralità dei demoi. La nascita di un’identità europea può perfettamente coesistere con quella nazionale. Detto in altri termini, non esistono identità monolitiche, ci si può sentire tanto europei quanto membri del proprio Stato. La globalizzazione ha infatti inciso anche sul sostrato culturale di solidarietà civica che costituiva le fondamenta dello Stato nazionale. L’integrazione politica di una società molto estesa, dal punto di vista di attuazione del processo di autodeterminazione democratica, è senz’altro il merito migliore della forma Stato-nazione. Tuttavia, sintomi di frammentazione politica sono oggi evidenti e mettono a nudo le difficoltà di una simile concezione della cittadinanza e della solidarietà. Per un verso, in virtù degli innumerevoli flussi migratori, lo scontro di diverse forme culturali e dei diversi mondi di vita porta a un indurirsi dell’identità nazionale, ma per altro, l’assimilarsi di una cultura globale smussa gli angoli delle sfaccettature che rendono uniche le singole culture autoctone e indigene, ammorbidendo il tutto. La solidarietà è sempre “solidarietà tra estranei” e questo vale sia nel contesto nazionale che in quello europeo.

Le sfere pubbliche, dunque, non sono date una volta per tutte, non preesistono alla comunicazione, ma soltanto all’interno di essa. Una comunità della comunicazione può essere costruita, decostruita e ricostruita tramite l’interazione intersoggettiva. Ciò che risulta indispensabile alla comunicazione è la condivisione del “mondo della vita”: ovvero di quel corpo comune di significati e di esperienze necessarie per comprendersi a vicenda. Siffatte ragioni spingono Risse ad aggiungere un terzo criterio – ai due proposti da Eder e Kantner – per poter parlare di sfera pubblica europea: (3) è lecito parlare di una comunità della comunicazione transnazionale solo nel momento in cui i parlanti (i demoi nazionali e i cittadini europei) si riconoscono come legittimi partecipanti al dibattito, inquadrando determinate questioni dalla medesima prospettiva[17]. Sia chiaro, adottare una prospettiva europea non significa adottare una medesima identità – intesa in senso forte – ma avere lo stesso quadro di riferimento per valutare la situazione ed essere consapevoli delle altrui posizioni.

Una comunità della comunicazione europea? La necessità di politicizzare l’UE

Se finora si è tentato di ricostruire il dibattito sulla possibilità della formazione di sfere pubbliche europeizzate, tuttavia non si è detto ancora nulla circa la reale esistenza di un’opinione pubblica europea.

L’attuale modello della governance europea ritiene che l’UE non possa che legittimarsi in base ai risultati raggiunti. Attraverso una concezione “paternalistica” dell’ordinamento sovranazionale le élite europee considerano – ricalcando così l’errore del nazionalismo metodologico – che vista l’impossibilità di una sfera pubblica non sia possibile politicizzare le questioni europee. Autori, come Stefano Bartolini[18], ritengono che la partecipazione diretta dei molteplici demoi nazionali alle politiche europee comprometterebbe la possibilità da parte dei governi dei Paesi membri di raggiungere un accordo sugli interessi comuni, trovando così risultati soddisfacenti.

La bassissima affluenza registrata nelle elezioni europee – passata dal 62% del 1979 al 43,09% del 2014 – viene interpretata dai sostenitori dello Stato regolatore come la dimostrazione del fatto che gli elettori non siano interessati all’UE dal momento che non si sentono europei. Sebbene sia indubbio che le elezioni europee vengano percepite come elezioni nazionali di secondo grado, anche i politici spiegano il loro focus “domestico” nelle campagne elettorali europee con il disinteresse dei cittadini. Di conseguenza, politicizzare l’UE in questo momento comporterebbe l’immediato fallimento del processo integrativo nell’istante in cui le singole comunità nazionali dimostrano di non riconoscersi a vicenda quali appartenenti alla stessa comunità politica.

Questa lettura contrasta con la circostanza che molti studi attestano come la maggior parte dei votanti voglia sapere di più sull’UE. L’assunto di fondo è che la crescita del sentimento anti-europeo sia legato alla mancanza del suo opposto. In quest’ottica, aprire alla politicizzazione vorrebbe dire incorrere nel rischio di una ri-nazionalizzazione, come dimostrerebbe emblematicamente anche il caso della Brexit.

Ad essere completamente rimossa è la possibilità che vi sia una crescente europeizzazione delle identità nazionali e che i cittadini possano giudicare le politiche dell’UE sul merito. Al contrario, la costante denuncia dell’esistenza di un deficit democratico a livello europeo, secondo Hans-Jörg Trenz e Eder[19], starebbe a testimoniare la nascita di una emergente comunità della comunicazione. Il deficit democratico non consiste nell’appropriazione da parte dell’UE delle competenze degli Stati membri, quanto nel non fornirne un degno sostituto a livello europeo. L’esito di questo processo è l’espropriazione della capacità di influenzare le “politiche” da parte della sfera pubblica informale. Il riferimento è rivolto alle scarsissime competenze legislative attribuite al Parlamento europeo dalla procedura di codecisione. Come se non bastasse, la crisi dell’euro ha contribuito ad aumentare la discrasia esistente tra le sfere pubbliche informali europeizzate, volte a politicizzare il discorso europeo e il centro amministrativo-istituzionale. Appare infatti emblematico il distacco tra i discorsi provenienti dalla Commissione europea, che hanno lo scopo di consentire la formazione di politiche sovranazionali senza “politica” e la contestazione emergente nella sfera pubblica. Il deficit democratico che ne risulta non è dovuto all’assenza del demos europeo, ma all’incongruenza esistente tra il luogo dove le decisioni vengono prese e quello dove queste agiscono. Tale contrasto ha fatto sì che le sfere pubbliche si risvegliassero assediando il centro istituzionalizzato, imponendo il loro dissenso vincolante al consenso permissivo che ha sinora guidato il processo d’integrazione europeo. Emerge così l’impreparazione dell’assetto istituzionale europeo ad affrontare la politicizzazione degli affari dell’UE. Le élite temevano che la politicizzazione dell’UE potesse condurre ad uno stallo politico, invero paradossalmente sta accadendo l’opposto: è la mancata politicizzazione del processo d’integrazione europeo a condurre verso il blocco dello stesso. La lezione che l’élite europea ha imparato dal proprio fallimento è stata quella di silenziare il dibattito pubblico, ma questi sforzi volti alla depoliticizzazione sono stati pagati a caro prezzo. Le questioni dell’UE sono rimaste visibili data la loro importanza. Temi come il cambiamento climatico, la politica monetaria, l’immigrazione, le politiche sociali, la sicurezza, gli interventi militari e l’ingresso della Turchia sono argomenti politici scottanti nella maggior parte degli Stati membri.

L’equivoco di base sta nel credere che sfere pubbliche europeizzate coincidano con il supporto verso l’Unione. La tesi che si vorrebbe provare a sostenere può apparire a prima vista inverosimile. Vale a dire, sottolineare il paradosso che individuerebbe nella crescita esponenziale dei movimenti euroscettici la nascita di un dibattito pubblico sulle questioni europee. Per questo, benché pericolosa, la politicizzazione è necessaria alla creazione dell’identità politica. Infatti, le persone sebbene non apprezzino le politiche europee, si identificano sempre più con l’UE. La fiducia nelle istituzioni europee non è mai stata così bassa, ma i livelli di riconoscimento sono cresciuti. Dibattere le questioni europee in quanto europei serve a costituire una comunità della comunicazione. Questo non significa consenso. D’altronde se per euroscetticismo si intende l’insieme di critiche volte all’UE allora euroscetticismo e politicizzazione sono la medesima cosa poiché ogni divergenza invoca un certo grado di disaccordo sulle politiche dell’UE. Il progressivo dissenso verso l’UE non fa che attestare la percezione che i cittadini hanno circa la rilevanza dell’ordinamento politico.

Dal punto di vista della teoria deliberativa e normativa della democrazia la politicizzazione è fondamentale. Controversie e discussioni sono ingredienti necessari per una sfera pubblica vivace e per un centro istituzionalizzato capace di trasformare gli impulsi provenienti dai processi comunicativi, posti alla periferia, in decisioni vincolanti. In questo modo, i dibattiti relativi alle questioni del processo integrativo e dell’identità europea, costituiscono il cardine di un’istanza di democratizzazione da parte della sfera pubblica. Il pubblico silente, attraverso il dibattito, si trasforma in pubblico capace di esprimere consenso o dissenso nei confronti delle politiche europee.

Comprensibilmente non è sufficiente che ci sia agonismo tra le parti, ma è necessario dar vita a politiche deliberative fondate sulla discussione e sul confronto. Il disaccordo è un presupposto necessario, ma non sufficiente alla nascita di un confronto discorsivo. Se il disaccordo non si articola in modo discorsivo rimane “contrapposizione” irriducibile e irrimediabile. Occorre, come si è detto, il riconoscimento dell’altro come appartenente alla medesima comunità politica. Ma esiste una simile agnizione tra le pluralità delle sfere pubbliche?

In questa prospettiva si può osservare la nascita di posizioni chiaramente europeizzate tra le diverse comunità della comunicazione. Il referendum greco, così come quello britannico hanno testimoniato come vi fosse una netta politicizzazione europea all’interno di ciascun Paese membro. Benché i quesiti fossero nazionali, le tematiche referendarie sono state dibattute all’interno delle molteplici sfere pubbliche informali come qualcosa che le coinvolgesse direttamente. In casi come questi, secondo Ruud Koopmans e Jessica Erbe[20], si può parlare di europeizzazione orizzontale. Laddove quest’ultima indica l’apertura di un pubblico nazionale verso gli altri, l’europeizzazione verticale sottolinea il rapporto che intercorre tra le sfere pubbliche europeizzate e l’UE. Un esempio può essere la tematica dell’austerity che viene posta in termini e prospettive comuni, proponendo una contrapposizione tra Stati debitori e Stati creditori che si riconoscono vicendevolmente come membri della medesima comunità politica. Allo stesso modo, si può individuare un nazionalismo cristiano e europeo contrario all’ingresso della Turchia. I movimenti “No-Euro” che sono sorti nell’eurozona avanzano delle istanze condivise e si riconoscono vicendevolmente come membri della stessa comunità e in quanto tali legittimati a prender parte al dibattito pubblico. Ciò viene attestato dal fatto che le posizioni espresse dalle singole sfere pubbliche, nei confronti di quelle degli altri Stati membri, non vengono più considerate ingerenze esterne. Appare dunque evidente la politicizzazione di queste linee di conflitto secondo prospettive europee. L’affiorare dell’opposizione alle “politiche” dell’UE implica necessariamente l’affermarsi di un soggetto in grado di muovere delle critiche: le sfere pubbliche europeizzate. Le rivendicazioni avanzate dall’euroscetticismo chiamano il centro istituzionale a giustificare le proprie decisioni nell’arena pubblica.

La discussione su quale Europa si vuole non può essere sottratta a coloro che ne fanno parte e ne subiscono passivamente le decisioni. Occorre prendere atto dalla politicizzazione – con la consapevolezza che è qui per rimanere – evitando che la prima decisione realmente deliberata dalle sfere pubbliche europeizzate possa essere quella di rinunciare all’Unione. I centri istituzionali hanno il compito di aprirsi alle istanze provenienti dalle sfere pubbliche europeizzate, dopodiché se ai cittadini informati non piace quello che vedono nell’UE, questo dovrebbe essere accettato come un normale e legittimo risultato espresso da un ordinamento democratico. Le élite sono chiamate a sostenere la loro visione dell’Europa all’interno del dibattito pubblico senza difendere l’UE al di là della forma politica assunta. Con il manifestarsi di sfere pubbliche europeizzate, l’era del consenso permissivo è probabilmente giunta al suo termine.

[1] Per approfondire la tematica della disintegrazione Cfr. W. Streeck , Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano, Feltrinelli Editore, 2013. e J. Zielonka , Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione Europea, Bari, Editori Laterza, 2015.

[2] Cfr P. Schlesinger, Europeanisation and the Media: National Identity and the Public Sphere, in Arena 7 working paper, 1995. e D. Grimm, ‘Does Europe Need a Constitution?’, European Law Journal 1(3): pp. 282–302, 1995.

[3] Cfr. J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Bari, Editori Laterza, 2013.

[4] J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Bari, Editori Laterza, 2013, p. 425.

[5] S. Petrucciani, Democrazia, Torino, Einaudi editore, 2014, pp. 126-127

[6] Cfr. G. Majone , ‘The Credibility Crisis of Community Regulation’. Journal of Common Market Studies, Vol. 38, No. 2, 2000, pp. 273–302. eThe European Commission: The Limits of Centralization and the Perils of Parliamentarization’. Governance, Vol. 15, No. 3, 2002, pp. 375–92.

[7] Cfr. A. Moravcsik, ‘In Defense of the “Democratic Deficit”: Reassessing the Legitimacy of the European Union’. Journal of Common Market Studies, Vol. 40, No. 4, 2002, pp. 603–34. e A. Milward, ‘The European Rescue of the Nation State, Routledge, 2005.

[8] Cfr. R. Bellamy , D. Castiglione , Legitimizing the Euro-“Polity” and its “Regime”: the Normative Turn in EU Studies, « European Journal of Political Theory», 2, 2003: pp. 7-34.

[9] Cfr. A. Follesdal, S. Hix, Why There is a Democratic Deficit in the EU: A Response to Majone and Moravcsik, Eurogov Paper, N. 05, 2005.

[10] V. A. Schmidt. Democracy in Europe: The EU and National Polities, Oxford University Press, 2006.

[11] D. Grimm, Il significato della stesura di un catalogo europeo dei diritti fondamentali nell’ottica della critica dell’ipotesi di una Costituzione europea in, Diritti e Costituzione nell’Unione Europea , a cura di G. Zagrebelsky, Roma-Bari, Editori Laterza, 2005, p. 20.

[12] Ivi, p. 21.

[13] Cfr. K. Eder , C. Kantner, Transnationale Resonanzstrukturen in Europa. In Die Europaisierung nationaler Gesellschaften, edited by Maurizio Bach, Wiesbaden: Westdeutscher Verlag, 2000.

[14] J. Habermas , La democrazia ha anche una dimensione epistemica? Ricerca empirica e teoria normativa, in Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa, Roma-Bari, Editori Laterza, 2011, p. 106. Per approfondire la tematica relativa all’apertura delle sfere pubbliche nazionali cfr. J. Habermas , Perché l’Europa ha bisogno di una costituzione?, in Tempi di passaggi, Milano, Feltrinelli Editore, 2004, pp. 57-80.

[15] Cfr. C. Calhoun, Habermas and the Public Sphere, Cambridge, Mass.: MIT, 1992.

[16] Cfr. T. Risse., European Public Spheres. Politics Is Back, Cambridge University Press, 2014.

[17] T. Risse., A Community of Europeans? Transnational Identities and Public Spheres, Ithaca, NY: Cornell University Press., 2010, p. 156.

[18] Cfr. S. Bartolini, S. Hix, Should the Union be ‘politicised’ ? Prospects and Risks in Politics: The Right or the Wrong Sort of Medicine for the EU?, Notre Europe Policy Paper; 2006/19.

[19] Cfr. K. Eder , H. Trenz, The Democratizing Dynamics of a European Public Sphere: Towards a Theory of Democratic Functionalism, in European Journal of Social Theory 7, no. 1, 2004, pp. 5-25.

[20] Cfr. R. Koopmans , J. Erbe, The Transformation of Political Mobilization and Communication in European Public Sphere. Integrated Report: Cross-National, Cross-Issue, Cross-Time. Berlin: Europub.com, 2004.

 

Verità e Diritto: episteme o fictio? Ambedue?

1….per cominciare

 

Per l’ “uomo della strada” e, dunque, per il senso comune, il termine “diritto” si accompagna ad un altro termine, “giustizia”, e quest’ultimo, a sua volta, ne evoca un altro ancora: “verità”. Il “chi” sociale accetterebbe forse un giudizio di condanna se non credesse che un tale giudizio fosse “giusto”? E, per esser tale, chi non legherebbe la più immediata, semplice idea di giustizia alla conoscenza della verità? Ogni giudizio, infatti, per il senso comune, deve, innanzitutto, poggiare sull’accertamento di una verità; insomma, si parte sempre dal sapere “come stanno veramente le cose”. Questo percorso, sempre per il senso comune, vale per qualsiasi forma di giudizio, come ho detto; sia esso morale, politico o, infine, giuridico-giudiziario: una sentenza processuale.

Per un senso “meno” comune, che è quello della filosofia teoretica e pratica, il rapporto tra giustizia e verità si presenta assai più articolato e talora problematico; fino al limite della reciproca indifferenza, come appunto accade nel mondo del diritto, nella sua versione positivistico-formalistica.

Anche se, proprio nella versione più rigorosa del formalismo normativo, intendo quella kelseniana, la “verità” trova un suo posto inaspettato. Sappiamo tutti, infatti, che “validità” ed “esistenza” della norma sono qualificazioni formalmente coincidenti; tant’è che una norma non valida “non è una norma”. Allora, per l’equivalenza di Tarski, si può dire che una norma valida è una “vera” norma; in altre parole, la validità, costituendo l’esistenza di una norma, dichiara che è vero che è una norma. Si può dire, quindi, di una prescrizione, che abbia i requisiti della validità formale, che è “vero” che è una norma; e di una prescrizione priva di tali requisiti che è “falso” che sia una norma. La questione è particolarmente significativa, atteso che, di recente, Luigi Ferrajoli ha definito la coincidenza esistenza – validità della norma come un’aporia della dottrina kelseniana ([1]), per ragioni, tuttavia, che non entrano nella questione che sto prospettando e che non intendo discutere qui.

In ogni caso, una prospettiva filosofica dalla quale ragionare attorno al concetto di diritto, così come è venuto sviluppandosi nel corso della storia del pensiero che noi conosciamo, non può non avere a suo centro la tematizzazione teoretica ed epistemologica della “verità”.

Riflettendovi, in questo lavoro, mi limito ad un ambito specifico: quello che ha il suo inizio nella “modernità” della Ragione, per due motivi. Il primo, perché è proprio sulla teoresi della “verità” che viene a giocarsi la soggettività dell’uomo moderno, come ente finito e, al tempo stesso, costituito nella “potenza” della Ragione; il secondo, perché è il razionalismo moderno che opera come fondamento per la scientia juris, nelle versioni giunte fino a noi (sinteticamente: jus naturale, codificazioni, Begriffsjurisprudenz, teorie generali) ([2]), avendo come chiave teoretico-epistemologica l’idea di “ordine”. Basti pensare al tema del governo e della sovranità, nel quale i concetti di “soggettività” e “ordine” sono in continuo e strutturale dialogo: è il tema della “legittimazione” che, costituendo lo spartiacque tra potere arbitrario e potere di governo, distingue il “vero” sovrano dall’usurpatore: la “verità” dell’investitura genera la “giustizia” dell’esercizio (anche se qui “giustizia” può assumere il contenuto formale della “legittimazione”: intreccio complicato!). Fin ai primi decenni del ‘900 viene ribadita una sorta di sinallagma tra giustizia e verità; si ricorderà come, nella polemica attorno alla legge tra Kelsen e Schmitt, quest’ultimo affermasse con vigore che, di fronte all’impersonalità formale della norma, la legge evoca la figura del re “giusto”; che perciò può essere definito “veramente” un re.

La questione, allora, si sposta sull’ “investitura”, la quale rinvia, secondo modelli o paradigmi differenti, ad un “ordine” superiore che ne costituisce la fonte ed il fondamento ([3]): il “potere” deve avere un’origine “oggettiva”; non deve dipendere cioè da un gesto arbitrario. Al di là delle diverse configurazioni e fondazioni dell’investitura, l’ordine sociale, che l’artificio del sovrano deve realizzare, ne è la manifestazione peculiare in continuità con l’ordine della natura. In fondo, anche la sovranità hobbesiana ha il suo più autentico fondamento non tanto in un atto umano (pactum subiectionis), quanto nella “natura” umana, la quale è tale che solo un potere sovrastante gli individui può davvero regolare il loro appetiti, al di là di ogni loro, pur possibile, convenzione (pactum societatis).

 

  1. Il dubbio

 

Dunque, un tema di fondo ed una parola, “Verità”. Parola, peraltro, strutturalmente affetta da un paradosso: chiarezza e ambiguità. Al centro del paradosso, quasi a scioglierlo o comunque a renderlo intellettualmente accettabile, si aggiungono un “pensiero” ed un’altra parola, che il diritto conosce assai bene: “dubbio”. Accettabilità intellettualmente e praticamente sostenibile, proprio se concepita come argine nei confronti di “certezze” facilmente attraenti ed invece bisognose di maggiore e più scrupolosa indagine. E, tuttavia, anche il dubbio si presta ad una ambiguità, contenuta in due espressioni ugualmente utilizzabili: “non ho più dubbi” e “non ci sono più dubbi”. In ogni caso, è il nesso dubbio – Verità ad essere particolarmente significativo, ancora una volta per due ragioni.

La prima, perché scandisce il percorso verso la “Verità” iniziato dal cogito cartesiano, che assumo in questa sede, per ovvia semplificazione, come emblematico della teoresi gnoseologica della modernità razionalistica; la seconda, perché quel nesso pervade il giudizio giuridico più invasivo per l’uomo: quello del processo penale, per riflettersi, nel suo interno svolgersi e complicarsi, in quella modellistica processuale, che va sotto le qualificazioni storiche di processo “inquisitorio” e “accusatorio”, e fino a contemplare quello che potremmo definire il brocardo: “oltre ogni ragionevole dubbio”. Di questo più avanti.

Ma, fin d’ora, il punto che intendo sottolineare è il seguente: il “dubbio” ha un suo significato teoretico, prima ancora che epistemologico, in relazione ad una, altrettanto teoretica, idea di “Verità”. Il suo significato cambia in conseguenza del trasfigurarsi, proprio sotto il profilo teoretico, dell’idea di “verità” in quella di una possibile “rappresentazione teorica” del mondo. E la chiave della questione diviene allora non la “oggettività” del conosciuto, ma la sostenibilità della teoria ([4]). In quest’ultimo contesto, che è quello proprio del sapere contemporaneo, il ricorrere del dubbio, in ambito giuridico, può dirsi il residuo di una idea di verità, che fa riferimento ancora al paradigma cartesiano, ed alla quale, tuttavia, il diritto non può rinunciare, al fine di garantire ciò che è gli è proprio: la costruzione dell’ordine sociale.

Se si guarda, da un lato, alla sequenza giustizia – verità – dubbio, che orienta il ragionare giuridico, e, dall’altro, alla questione epistemologica che trasfigura la “Verità” nella “sostenibilità della teoria”, ne segue che la nostra contemporaneità esibisce, tra diritto e conoscenza, un rapporto, che potrei definire nuovo, rispetto a quello che si era instaurato nel contesto del razionalismo moderno. Rapporto, segnato dalla tensione tra due aspetti dell’esistenza propri dell’uomo come ente finito, l’uno inevitabile e l’altro indispensabile: “incertezza” del sapere e “certezza” del normare.

Vi sono, infatti, settori del vivere sociale, nei quali è possibile tradurre l’incertezza teorica in “complessità” socio-epistemologica e sostituire il concetto razionalistico di ordine con quello pragmatico di equilibrio rappresentato dalla nozione di governance ([5]). Sono questi i settori ove opera il diritto privato, largamente inteso e, in parte, quel che resta del diritto pubblico e costituzionale; per non parlare dell’ambito giuridico del “sovranazionale”. E su questo spenderò qualche parola più avanti.

Vi sono però altri settori, quali quelli che investono la libertà della persona, quelli cioè del diritto penale in genere, dove non è possibile sostituire l’ordine dei “moderni” con la governance dei “contemporanei”. In tali settori, il diritto non può non tener conto dei paradigmi cognitivi che il sapere scientifico oggi propone, ma nello stesso tempo non può rinunciare al paradigma della “certezza”, di cui si è detto, in vista della costruzione di un ambiente sociale sufficientemente stabile. Per una tale stabilità è necessario, infatti, disporre di un affidamento nei processi cognitivi e nelle loro risultanze, che possono essere raccontate come “certe”, e dunque corrispondenti alla nozione di “realtà”, propria del linguaggio comune. Così, il superamento “soggettivo” del dubbio (“non ho più dubbi”) trapassa in un “oltre” ragionevolmente oggettivo: “non ci sono più dubbi”. Lo scarto epistemologico, tuttavia, con ciò che si può definire “conoscenza scientifica”, e con la sua complessità (il termine è molto generico), resta intatto. Proprio a sottolineare tale scarto, grazie alla conversione di “razionale” in “ragionevole”, il “dubbio” riesce a svolgere una sua propria funzione eminentemente pratica, di tipo “critico-cautelare”: è come dire che una good governance della scienza sconfina in un problema di democrazia ([6]).

 

  1. 3. Diritto e “incertezza”

 

Il Diritto, dunque, è, nell’attuale momento storico, al centro di un intreccio epistemologico e pratico, che definirei, senza esagerare, “epocale”: quello tra incertezza cognitiva e governo della società.

La questione dell’intreccio mi sembra complicarsi, se si pensa che all’ “incertezza cognitiva” si aggiunge un altro genere di incertezza: quella che investe il paradigma ed il concetto stesso dell’ “ordine”, quale si è formato nella Modernità e che, in qualche misura – come ho già accennato poco più sopra – la modellistica centrata sullo Stato ha fatto giungere fino al nostro ‘900, salvo l’ultimo decennio. La “globalizzazione”, con la conseguente evaporazione della Sovranità territoriale, e, con essa, l’affermarsi del primato dell’economico “finanziario” sul politico, hanno trasformato le società in ambienti umanamente “complessi”, privi di confini territoriali, e tuttavia segnati da nuovi confini: quelli etnicoculturali. Questa nuova situazione fa sì che al paradigma dell’ “ordine” se ne sostituisca uno di tipo funzionalistico – gestionale: l’ “equilibrio”, che, come è noto, Luhmann aveva già disegnato negli anni ’70, ma con una differenza, rispetto all’oggi, non trascurabile. Luhmann aveva costruito la sua epistemologia “funzionalistica” avendo come riferimento cognitivo un paradigma “sistemico” debitore ancora all’impianto storicistico hegeliano, innervato dal “materialismo” post-marxiano, così come emerge però attraverso la declinazione post-metafisica novecentesca. E’ a partire da qui che occorre comprendere la ragione per cui il nesso complessità – equilibrio si pone come epistemologicamente alternativo all’idea di ordine, fermo restando, però, l’idea del “sociale” è comprensibile come sistema, sebbene non di processi “causali”, ma di sequenze “funzionali”. Basti aver presente la “funzione”, appunto, che Luhmann riconosce alla dogmatica giuridica rispetto al sottosistema politico. Diversamente, il proceduralismo gestionale, affermatosi come conseguenza regolativa della globalizzazione, consiste in un mero pragmatismo negoziale che di per sé trascende il sistema sociale come cornice, ma affida alle forze in campo, quale che sia loro soggettività e ovunque si dispieghino, il formarsi degli equilibri e la loro tenuta. Globalizzazione e pragmatismo negoziale determinano quella “incertezza” che avvolge l’idea stessa di società e di diritto, nel senso, quest’ultimo, di “sistema” capace di organizzazione normativa di un ambiente umano: l’ordinamento giuridico.

Per non arrendersi alla ineffabilità che il mutamento in atto potrebbe a buon diritto legittimare, provo ad indagare meglio il rapporto tra “incertezza scientifica” e quel che resta della tradizione giuridica della quale abbiamo fatto esperienza e di cui resistono tracce formali e semantico-linguistiche.

Innanzitutto si tratta di vedere, in generale, quale tipo di relazione venga ad instaurarsi ed articolarsi tra il momento, giuridicamente qualificante, della tipizzazione del fatto (irrinunciabile, per assolvere alle ovvie finalità regolative) e le problematiche cognitive della “realtà”, promosse da una attenta epistemologia.

Il punto centrale della questione, infatti, è dato dalla considerazione che la trasformazione e riduzione di “eventi” o “accadimenti” naturali in “fattispecie” è la conseguenza di una lettura del “mondo” secondo un paradigma epistemologico, idoneo a dar luogo ad un processo di tipizzazione. Come dire che le condizioni per una tipizzabilità dei fatti sono già contenute nel paradigma di lettura adottato dal soggetto; dipende, cioè, da come il soggetto “osserva” un evento, configurandone cognitivamente quella che definiamo “realtà”.

Basti considerare come l’espressione cognitiva comunemente adoperata – “fenomeno” – sia un prodotto puramente congetturale, e dunque “mentale”, proprio di un certo modello epistemologico, e non la mera traduzione semantica di un dato materiale: in natura non si danno “fenomeni”, ma solo “accadimenti”.

Occorre, perciò, aver presente qualcosa di molto scomodo per la scienza del diritto, soprattutto per le sue applicazioni processuali. E dico soprattutto nell’ambito processuale, e processuale penale, perché, in relazione a questo, non ci si può permettere di civettare con l’altra “incertezza”, quella giuridico-categoriale, che origina dai processi di governance, come invece fa quella dottrina, prevalentemente privatistica, cui ho già fatto cenno, che ritiene di saper cogliere al meglio il mutamento apportato dalla globalizzazione e quindi di essere al passo con i tempi.

Ciò dunque che ho definito “scomodo” per la scienza giuridica è che il “conosciuto”, e che comunemente indichiamo con il termine “realtà”, giunge al termine di una operazione cognitiva umana (che comincia già con l’osservazione e si completa nella astrazione concettuale), consistente nella traduzione semantico-congetturale di un incontro dell’uomo con il “mondo”. Il punto chiave è, però, che tale incontro implica, per lo statuto stesso dell’atto cognitivo umano, uno scarto incolmabile con il referente naturale, che è, nel suo “in sé”, totalmente altro dal soggetto (questione che ho appena introdotto nelle pagine precedenti, facendo riferimento al tema della sostenibilità delle teorie e sulla quale tornerò di qui a pochissimo).

Il fulcro della questione allora è tutto nella determinazione della nozione di “realtà”, in quanto parola che raffigura l’incontro del soggetto conoscente con tutto ciò che è fuori di lui (che per brevità ho già chiamato “mondo”), e che si pretende essere “qualcosa” di analogo a ciò che è davvero. Questo “qualcosa” di analogo a ciò che è davvero viene qualificato spesso, soprattutto nel linguaggio comune, che vorrebbe essere anche “scientifico”, con il vocabolo “oggettività”. Insomma: per il senso comune si dà una sequenza almeno tra tre termini: conoscenza, oggettività, realtà; termini che dovrebbero confluire nel luogo agognato: “verità”.

Verrà fuori in seguito come questa sequenza sia epistemologicamente inesatta, poiché l’ “oggettività” non corrisponde a “ciò che è davvero” (vale a dire “la cosa in sé”), ma è esclusivamente l’esito di una operazione metodico-congetturale del soggetto, chiamata “nesso di causalità”. Fin d’ora si può sottolineare come il sapere giuridico abbia importato nel suo contesto, dall’ambito della scienza naturale, tale piattaforma congetturale, cioè il “nesso di causalità” tra gli eventi-fenomeni che cadono sotto il suo sguardo regolativo, trasformandoli in “fattispecie”, che consentono di costruire quella “certezza” dell’agire pratico, necessaria al mettere in forma l’ordine sociale. La chiave della “certezza” come simulacro di “verità”, in quanto prodotto del legame tra “nesso di causalità” e “fattispecie”, ha storicamente garantito quella oggettività del “conosciuto”, che la dottrina e la scienza giuridica incontrano comunque e sempre nel loro operare.

 

  1. Per salvare il diritto che conosciamo: spunti epistemologici .

 

Se, oggi, invece, si mettono assieme “incertezza scientifica” e “globalizzazione” si va incontro ad un rischio, che considero enorme per le due attività pratiche necessarie alla costituzione di una società: la politica ed il diritto. Tale rischio è il nichilismo pragmatico-economicistico. Cui se ne aggiunge un secondo: una sorta di neo-dogmatismo, che investe il nesso conoscenza – valutazione – decisione normativa. Una polarizzazione, forse propria di ogni momento di mutamento storico profondo, ma capace di condurre verso una conflittualità umana e sociale dagli esiti, questi sicuramente, imprevedibili.

Questo a me pare essere il contesto che si pone di fronte a chi, come me, rifletta sul tema in una prospettiva filosofico-giuridica.

E, allora, l’interrogativo diviene davvero centrale, e addirittura inquietante, se si assume come teoreticamente ineludibile quella “trasfigurazione” della Verità, quale fu concepita dalla “Ragione moderna” in senso “essenzialistico”, in quella che ho più sopra definito come rappresentazione possibile del mondo, affidata al succedersi delle “teorie”, in quanto sistemi di proposizioni.

A mo’ di introduzione al mio ragionamento, valgano le parole di Carlo Sini, a proposito dell’antico logos come “discorso” che mette in forma la cosa, in quanto struttura eidetica della “cosa” stessa: “La mente dunque è un discorso, in quanto proprio il discorso è quella immagine logica (non sensibile) della cosa…. Che possono mai avere in comune i segni del discorso e la cosa che dicono? Ma come potrebbero significare senza avere qualcosa in comune, senza che il discorso (la mente) e la cosa (…) non posseggano una comune natura?…Come però operi (e quindi cosa sia) la mente resta un gran problema, che è appunto l’oggetto specifico della logica: la disciplina filosofica che deve chiarire come la mente vede, comprende e ragiona”. Ma “guardati – incalza subito Sini – dal farti catturare da questi problemi logici…Tutt’al più essi sono demandati alle indagini di discipline particolari…Ma queste analisi parcellizzate ed empiriche [che hanno per oggetto unicamente la struttura linguistica della forma-discorso] con i loro caratteristici e spesso complicatissimi problemi astrattivi, anziché avvicinare alla semplice e originaria domanda sul contenuto della forma, ancor più ce ne allontanano…”[7]. E qualche pagina oltre, a proposito della “verità”: “La verità pubblica, nella quale siamo ancora totalmente immersi, presenta così vari livelli correlativi, che sono costitutivi della mente e del soggetto ‘puri’. C’è la storia, la cui pratica determina la formazione di un soggetto prosaico astratto che cerca, attraverso i ‘documenti’, di creare una prospettiva ‘esterna’…, qualcosa che finge, nella scrittura, una verità degli eventi che è il lor accadere al cospetto dell’universale storico (come se fossero davvero accaduti così). E poi c’è la filosofia, la cui pratica determina la nascita di un soggetto panoramico e teoretico che definisce la verità in sé di tutte le cose, cioè che traduce le cose dal vissuto esperienziale alla loro definizione logica astratta (come se le cose fossero davvero così; e bada che il vissuto esperienziale non è un dato primario, ma a sua volta il risultato di pratiche di parola e scrittura peculiari). Infine c’è la scienza…” ([8]).

Dunque, il tema della “verità”, che io ho trasfigurato attraverso la formula “rappresentazione possibile del mondo”, è la trama di un tessuto nella quale si intrecciano la mente dell’uomo, costituita nella sua ontologica finitudine, il suo logos, cioè il suo essere “parola” ed “eidos” al tempo stesso, e la “forma”, come rappresentazione saputa di una “cosa” (episteme), che “storia”, “filosofia” e “scienza” riconducono al “soggetto”, alla sua mente, alla sua parola, alla scrittura. Un percorso ed un processo, del quale si possono ovviamente studiare analiticamente ed empiricamente le singole parti o gli specifici aspetti, ma nel quale fluisce, come filo conduttore, l’incontro eidetico tra soggetto e mondo.

Appare chiaro, mi sembra, come in questo percorso il tema del “dubbio” abbia una sua cittadinanza unicamente come omaggio alla tradizione cartesiana, dalla quale proveniamo ed alla quale si ispira ancora, nei settori che ho detto, il modo di ragionare del diritto. Quel tema può in qualche misura sopravvivere, insomma, più per semplicità pratica che per ragioni epistemologiche, e forse per ricordarci quale fosse il suo fondamento, questo sì “teoretico”, non “epistemologico”: l’essere il segno della tensione tra la imperfezione umana dell’ io, cum sim res cogitans, e la perfezione di Dio ([9]). In particolare, al dubbio era ascritta la proprietà razionale di essere passaggio obbligato per eliminare quei pregiudizi che intralciano la via per la definizione di ogni certezza ([10]).

Già all’interno del razionalismo moderno, tuttavia, la questione aveva acquistato una luce del tutto nuova, che poi si sarebbe proiettata nel tempo a venire, con la Critica kantiana. Possiamo assumere, come “chiave” impressionistica della forza speculativa del passaggio in questione, proprio la critica esplicita che Kant rivolge alla dottrina del cogito cartesiano, in una nota che si trova nella “Dialettica trascendentale”.

Sottolineando la differenza da Cartesio, Kant chiarisce il senso dell’ “io penso” nella prospettiva fondante della precedenza dell’esistere sul pensare; meglio, Kant stabilisce teoreticamente il radicamento esistenziale del pensiero, senza tuttavia ridurre quest’ultimo ad una dimensione meramente empirico-fenomenica. ([11]).

Se quel testo kantiano viene letto ed interpretato con gli occhiali del “dopo”, questo, allora, può essere assunto come la base teoretica dalla quale si diparte l’epistemologia del ‘900. Mi spiego, pensando al modo in cui Sini fa i conti con la “modernità” attraverso il pensiero antico.

Nel testo kantiano vi è la chiara sottolineatura della finitudine della “soggettività”; finitudine della quale era ben consapevole anche Cartesio, ma dalla quale Kant trae tutte le conseguenze, in quanto limite e potenza del pensiero umano, senza alcun appello al Trascendente. Potenza, proprio in quanto prodotto di un limite che non è solo ontico-naturale, ma ontologico-esistenziale. Tale limite, infatti, contiene in sé la capacità di pensare oltre il dato empirico-fenomenico. Capacità razionale (ogni “limite” implica razionalmente un oltre, appunto), che a sua volta contiene la provvisorietà del risultato cognitivo, poiché ogni dato conosciuto, rientrando nell’esperienza, è solamente una possibilità del pensiero strutturalmente finito, retta dalla logica interna della pensabilità ([12]). E qui si gioca davvero la differenza della finitudine kantiana rispetto a quella cartesiana. Ed è qui che prende avvio l’epistemologia contemporanea: la possibilità che il costrutto operato dal pensiero si presenta sotto forma di “teoria” e l’oggettività altro non è che quel livello di stabilità cognitiva, che usiamo chiamare “risultato” e che, proprio perciò, può essere messo in comune. Una tale stabilità del dato svolge una funzione decisiva soprattutto quando si opera nel settore della “pratica”, come accade appunto nel campo dell’obbedienza normativa.

Vale la pena di ricordare quanto spiegava Ernst Cassirer nel suo corso invernale 1920 – ’21, presso la sua Università di Amburgo, intorno ad una questione allora impellente e di rilievo epocale. Si trattava, infatti, della riflessione filosofica originata dalla teoria della relatività generale di Einstein([13]). Voglio ricordare alcuni di quei pensieri in un contesto come questo, con uno spettro tematico ben più limitato di quello nel quale si muoveva Cassirer, perché aiutano a capire quale sia il rapporto tra risultanze cognitive e senso comune, sul quale grava una relazione fondamentale: quella tra “verità” dell’attività conoscitiva e rappresentazione simbolica. E’ un modo per proiettare Kant nel XX secolo.

Spiega Cassirer: «La concezione ingenua del mondo ritiene di cogliere immediatamente la realtà delle cose, della natura delle percezioni sensoriali; ma già fin dai primordi delle considerazioni scientifiche del mondo si scopre la relatività e la mutevolezza dei contenuti della percezione sensibile e si mostra con ciò che essi non possono essere attribuiti all’oggetto “stesso”»([14]).

Da qui in poi Cassirer evidenzia, attraverso numerosi esempi, come la conoscenza scientifica incorpori o sconti uno “scarto” tra la verità scientifica contenuta in una formula matematica, quale quella che viene costruita da una determinata “teoria”, e la verità che proviene dalle rappresentazioni sensoriali, per la cui inaffidabilità basti pensare al ruolo che gioca la “direzione dello sguardo”: «…nella stessa osservazione, nella determinazione del suo contenuto e del suo significato non si tratta appunto mai solamente dell’accaduto passivamente, bensì anche della specifica disposizione spirituale, della specifica direzione dello sguardo. E’ questa direzione dello sguardo che distingue il procedimento del fisico da ciò che comunemente si chiama “esperienza sensibile” »([15]).

Perché mi spingo così lontano, fino a toccare un ambito di questioni che ai giuristi può sembrare irrilevante per l’attualità del loro lavoro? La ragione è la seguente e spero di darne conto in modo convincente e condivisibile, anche se sono costretto ad esporla in modo sintetico e per grandi punti.

 

  1. Dall’epistemologia ai modelli processuali

 

Ho ritenuto di dare un certo spazio dal punto di vista epistemologico al tema, che è innanzitutto teoretico, della “verità”, poiché questo conforma la questione, più specifica e lessicalmente affine, che riguarda l’esperienza giuridica: il tema della “verità”, quando questa è messa alla prova nel processo penale. Qui entrano in gioco due capisaldi del diritto processuale: la prova scientifica ed il libero convincimento del giudice ([16]). Come dire, per usare l’espressione di Cassirer, formule matematiche (lato sensu) di una possibile rappresentazione teorica dell’evento e, non uno, ma due sguardi: quello dell’investigatore e quello del giudice. Ed alla fine del percorso, la necessità del diritto: la “certezza” del giudicato, nella quale la forma processuale viene intesa come rappresentazione corrispondente ad una “sostanza accertata”.

Ed è ancora qui che prende forma la fictio terminologica, “verità”, ed assume senso, esclusivamente pratico, il “dubbio”, nella sua trasmigrazione dal necessariamente soggettivo al ragionevolmente oggettivo, cui poi si lega l’ “oltre…”.

La scienza giuridica ha sempre avuto contezza che operava tramite una fictio; ma una fictio, alla quale non ha mai potuto sottrarsi. Ha aggirato invece il problema, di una teoria che deve farsi “pratica”, delegandone la risoluzione alla qualificazione-configurazione dei soggetti processuali, che ha condotto a delineare i due modelli: l’inquisitorio e l’accusatorio.

In altre parole, la “verità” del giudizio viene a dipendere dalla legittimazione degli sguardi dei soggetti processuali. Prova ne sia, che nel tempo in cui si riteneva che la verità del giudizio non potesse essere una fictio dell’uomo, lo “sguardo” cui si ricorreva era quello di Dio (che stava dietro anche alla confessione del supposto reo). Lo mostra bene Franco Cordero, in un suo celebre testo ([17]), evocando l’origine del modello processuale che ne verrà fuori: l’ “inquisitorio”. Il suo contrappunto epistemologico è il modello “accusatorio”.

Intendo sottolineare che la differenza processuale tra i due modelli ha la sua radice proprio in un contrappunto epistemologico, legato al significato dei due termini-chiave, che danno il nome ai rispettivi modelli: la “colpa” e l’ “accusa”.

La “colpa” esige la dimostrazione della verità; l’ “accusa”, al contrario, chiede l’argomentazione logica di una possibile e plausibile ricostruzione dell’evento operata dal magistrato dell’istruzione ([18]). La “colpa”, allora, si inscrive nell’orizzonte logico del vero/falso; essa altro non è che la radice animistica originaria del concetto di “causa” di un evento, come ebbe a sottolineare Kelsen, risalendo al greco aitia, che comprendeva le due declinazioni di colpa e causa ([19]). Il modello inquisitorio è tutto raccolto in questa configurazione razionale, ed il ricorso al “Cielo”, di cui parla Cordero, ne è la testimonianza più suggestiva ed immaginifica.

Giustizia e verità sono termini che evocano, nel loro strettissimo legame concettuale, uno scenario teoretico-argomentativo di tipo sostanzialistico. L’attività corrispondente è attribuita ad un Ente, lo Stato, come autore supremo della Legge; tale attribuzione, per quanto esclusiva, si fonda però su di un presupposto formale, la legittimazione, e viene esercitata da soggetti, dotati anch’essi dell’investitura, ancora formale, della “competenza”, dipendente dall’ essere organi dello Stato. In definitiva, la fictio consiste nel soddisfare alla domanda di verità, che è “ontologica”, attraverso una modalità argomentativa che, però, è formalistico-funzionale, fermo restando – ancora un “però” – il fine: l’affermazione della giustizia, che è un concetto, a sua volta, di ordine di nuovo sostanziale.

Il paradigma concettuale dell’ “accusa” è del tutto differente. “Accusare”, nella tradizione storica e nella sua struttura concettuale, individua una iniziativa di origine privata, individuale o sociale, ma comunque non pubblica, almeno nel senso che non ha la sua origine nello Stato. Un individuo accusa un altro individuo dell’offesa ricevuta e l’offensore, a sua volta, contesta l’accusa su di un piano di parità. Una tale fenomenologia riposa sull’idea che la verità umana si manifesti per via argomentativa e dialettica.

Da qui segue che la caratteristica peculiare di questo modello: la centralità cioè del profilo retorico – epistemologico. Alla “verità”, sia pure nella sua accezione processuale, si sostituisce il concetto di ipotesi sostenibile, che porta con sé, a sua volta, due conseguenze teoriche dagli importanti riflessi pratici. Accusa e difesa vengono incarnati da soggetti processuali pari ordinati, coerentemente con la premessa che il magistrato che promuove l’azione penale non attribuisce una “colpa” con le relative “prove”, ma prospetta solo una “ipotesi” argomentativamente sostenibile attraverso elementi di prova; e la difesa, a sua volta, potrà fornire una diversa “ipotesi”, attraverso altri elementi di prova.

Insomma, nel modello processuale accusatorio l’uomo sperimenta tutta la sua finitudine. Non presume di conoscere la verità, ma solo cerca, a volte drammaticamente, di inseguire una possibilità, nella quale la dimensione epistemologicamente “ipotetica” può essere corroborata solo dalla sostenibilità retorica, messa alla prova attraverso il confronto tra parti, processualmente pari ([20]). Al giudice, non solo super partes, ma soggetto altro dalle parti, spetta di formarsi una “opinione”, che valga come “giudizio”. Tutto ciò significa che il confronto tra ipotesi retoricamente ed argomentativamente sostenibili si traduce, nella mente del giudice, in una rappresentazione plausibile, che dà luogo alla sentenza. E non senza significato: appellabile.

In altre parole, nel modello accusatorio prende forma la “verità” intesa, in generale, come “rappresentazione possibile del mondo”, alla quale ho fatto riferimento nelle pagine introduttive.

 

  1. Per finire…una “puntualizzazione”

 

Pensando a questo modello di “verità”, quale si manifesta nel processo penale sotto la veste dell’ “accusatorio”, non intendo ascrivere al processo, ed al diritto di cui è manifestazione decisiva, una sorta di relativismo scettico. Intendo invece costruire una sorta di “arca”, nella quale salvare il tema cruciale per il pensiero e per l’agire dell’uomo, in quanto ente finito: il tema della episteme, dando il rilievo che merita alla dimensione empirica della mente umana, come visione, logos, ragione, idea, discorso e, al tempo stesso, dando altrettanto rilievo al fatto di esistere al mondo, di appartenere al mondo e di incontrare il mondo, come realtà altra dall’uomo come soggetto pensante e agente.

Il termine “possibile” indica, allora, lo spazio logico, nel quale il soggetto -“ente finito” si confronta con una dimensione altra da sé: quella che ho definito, appunto, “mondo”. Il “possibile” va inteso come uno “spazio reale”, proprio in quanto corrispondente ad una possibilità di rappresentazione offerta dalla esistenza di una “cosa”. Entro un tale spazio, il soggetto elabora le sue conoscenze (ricostruzioni e interpretazioni “possibili”, e dunque discutibili), le sue valutazioni (giusto – ingiusto)e, infine, motiva le sue decisioni.

Insomma, puntualizzando. In termini più generali, “rappresentazione possibile del mondo” può riassumersi nei seguenti 5 punti:

  1. Esiste un “mondo”, altro dal soggetto, di cui quest’ultimo dà una “rappresentazione”, attraverso un atto cognitivo;
  2. Si dà uno scarto tra l’in sé di questo mondo e la sua rappresentazione possibile da parte dell’uomo (se si vuole, è un’allusione alla noumenicità kantiana);
  3. Da qui, la molteplicità delle rappresentazioni possibili, tutte però riferibili al “mondo”;
  4. Le radici soggettive dell’oggettività, il che significa che il concetto di oggettività è strettamente legato a quello di possibilità, poiché il possibile individua lo spazio di agibilità logica tra soggetto e mondo esterno;
  5. Rispetto e dialogo sul piano delle ricadute pratiche, non come opzioni soggettivistiche, ma come dovere morale derivabile dalla lettura critica della realtà, che dalla “rappresentazione possibile” discende (a-dogmatismo).

Due parole ancora sull’oggettività, che è un tema che affanna i giuristi di tutti i settori, come generico contrappunto della “soggettività”. Tale contrappunto è epistemologicamente inesatto, poiché l’ oggettività è comunque l’esito di quel ragionamento che ha origine soggettiva, in quanto proviene dalla “testa” di un uomo. La peculiarità dell’ “oggettivo”, invece, si pone in contrasto con un altro aggettivo: soggettivistico, in quanto indica quel dato che, pur avendo una origine soggettiva, non coincide con una mera opinione individuale (“soggettivistica”, appunto), ma assume una forma argomentativa tale da essere generalizzabile, e quindi capace di fornire una rappresentazione del mondo “possibile”, ma, al tempo stesso, idonea a soddisfare attese sociali. Proprio perciò pur rimanendo discutibile, lo è su quel piano epistemologicoargomentativo che ha origine soggettiva, ma che non è soggettivistico. Prova ne sia l’imprescindibilità della “motivazione” negli atti giudiziari

Questa è la “mia” arca, che mi sembra possa navigare attraverso il mare del pragmatismo, dagli esiti scettici e nichilisti, e destreggiarsi tra gli scogli del dogmatismo del pensiero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] L.Ferrajoli, La logica del diritto. Dieci aporie nell’opera di Hans Kelsen, Laterza, Roma – Bari 2016, in part. la IV aporia.

[2] Per un’analisi dettagliata di questo percorso, mi permetto di rinviare al mio Ragionare per decidere. Dalla scientia juris alla governance, in AA.VV. Ragionare per decidere, a cura di G.Bombelli e B.Montanari, Giappichelli, Torino 2015, pp. 1 – 33.

[3] Su questo punto, ancora C.Schmitt, Dialogo sul potere, tr.it. Il Melangolo, Genova 1990

[4] Intorno al tema della “sostenibilità della teoria” ed a quello ad esso strettamente connesso dell’ “incertezza scientifica” resta emblematico un dibattito centrale per l’epistemologia scientifica contemporanea: Kuhn- Feyerabend (cfr., del primo, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago University Press, Chicago 1962, tr. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969; e, del secondo, almeno Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, London 1975, tr. it. Contro il metodo, Feltrinelli, Milano 1979). In particolare di Kuhn merita di essere sottolineato come l’affermarsi di un paradigma di “verità” (ovviamente scientifica) dipenda dalla sua “codificazione” manualistica. Quest’ultimo tema fu anticipato da Kuhn in un lungo saggio precedente al 1962 e pubblicato, insieme due lettere di Feyerabend, da Cortina nel 2000 (Dogma contro critica, Milano). Cfr. intorno a questo tema il saggio, breve ma assai intrigante di Giorgio Agamben, Che cos’è reale? La scomparsa di Majorana, Neri Pozza, Vicenza 2016.

[5] Mi permetto su questi punto di rinviare al mio Dall’ordinamento alla Governance, in “Europa e diritto privato”, n. 2/2012, pp. 397-436, ed alle riflessioni ivi espresse

[6] Cfr. su questo tema il bel saggio di Mariachiara Tallacchini, Between uncertainty and responsability. Precaution and the complex journey towards reflexive innovation, in AA. VV., Trade, Health and the Environment: The European Union Put to the Test, Routledge, London 2014, pp. 74-88 (in part. pp. 78-81), nel quale si fa il punto, con il corredo di una amplissima bibliografia, sul tema della “incertezza scientifica” in specifico rapporto alle ricadute sociali, sul piano delle decisioni politiche e della statuizioni giuridiche. In part., p. 81 con il riferimento al testo di S.Jasanoff, Science and public reason, Oxon, Routledge, 2012

[7] C.Sini, L’alfabeto e l’Occidente, Opere vol.III / I, La scrittura e i saperi, Jaca Book, Milano 2016, pp. 27 e 26.

[8] Ivi, p.44

[9] Il tema è sviluppato, come è più che noto, nelle Meditations Métaphisiques, nelle due ed. il latino (1641-’42) ed in quella in francese (1647). L’espressione cit. è nella. Med. III, ma cfr. anche, in part. la II, la IV e la VI. (Flammarion, Paris 1979)

[10]Cumque attendo me dubitare, sive esse rem incompletam et dipendentem, adeo clara et distincta idea entis indipendentis et completi, hoc est Dei, mihi occurrit” (IV, ed. cit., p.130)

[11] Critica della ragion pura, Libro II, tr.it. Laterza, Bari 1972, p.334, nota

 

[12] Ho trattato questo tema più ampiamente nel mio Potevo far meglio. Kant e il lavavetri. Ovvero: l’etica discussa con i ventenni, CEDAM, Padova 2008 (3^ ed.), cui mi permetto di rinviare.

[13] E.Cassirer, I problemi filosofici della relatività. Lezioni 1920-1921, tr.it a cura di R.Pettoello (con Premessa e note del traduttore-curatore editoriale), Mimesis, Milano-Udine 2015

[14] Ivi, p.57

[15] Ivi, p.70.

[16] Si veda, ad es., il ricchissimo testo M. Bertolino – G. Ubertis (a cura di), Prova scientifica Ragionamento probatorio e Decisione giudiziale (Atti del Convegno tenutosi all’Università Cattolica del Sacro Cuore il 10 e 11 ottobre 2014), Jovene, Napoli 2015. Sulla questione di un possibile modello di “verità” riferibile agli enunciati normativi cfr. ancora F.D’Agostini, cit., p.36 e ss. Alla crisi culturale del nostro tempo presta la sua attenzione anche G.Forti nella sua Introduzione al testo La “verità” del precetto…, sopra citato, pp. 3 – 23, in part. le osservazioni di p. 10 e ss, La questione è partitamente analizzata da G.Forti, in un “chapter”, in corso di redazione per un testo che avrà come ed. Sprjnger, dal titolo From scientific evidence to scientific proof: Daubert standard and medical standard care.

[17] F,Cordero, Riti e sapienza del diritto, Laterza, Bari 1981, in part. p.556 e ss.

[18] Cfr. R. Alexy, Theorie der juristischen Argumentation. Die Theorie des rationalen Dioskurseswe als Theorie der iuristiscen Begrundung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1978, tr.it. Teoria dell’argomentazione giuridica, Giuffré, Milano 1998, p.171.

[19] H.Kelsen, Reine Rechtslehre, Wien 1960, tr.it. Einaudi, Torino 1966, p. 103

[20]In argomento, cfr., il significativo testo di P.Ferrua, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in Diritto e Processo. Studi in memoria di Alessandro Giuliani, ESI, Napoli 2001, vol. III, pp. 315 – 368.