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La visita e altri racconti dagli anni Trenta – Recensione

La visita e altri racconti dagli anni Trenta 
recensione di Mario Reale

Ho trovato molto belli (fondandomi solo sul mio gusto e una lunga carriera di lettore) i racconti di Bruno Tobia, raccolti in La visita e altri racconti dagli anni Trenta, Pref. di Vittorio Vidotto, Gemma Edizioni, 2024*. Sono amico fraterno da tanti anni di Bruno (perciò lo chiamerò semplicemente così) e spero tuttavia che l’amicizia non faccia velo al mio giudizio. Bruno è stato professore di Storia contemporanea alla «Sapienza» di Roma sobriamente ritirandosene anzitempo: ed è chiaro allora che non può non esserci un’intersezione, quanto meno, tra la vocazione e il mestiere di storico da un lato e, dall’altro, questi racconti che tutti sono vissuti di storia «contemporanea» a opera di mani veramente esperte e fini. Bruno fa dono al lettore, in fondo al libro, di una scheda di «Note di Storia», destinate a richiamare in breve gli eventi di cui i racconti parlano; devo dire la verità: non mi sarebbe spiaciuto se fossero state ancor più estese (la più lunga non arriva a una pagina), e che ci fosse stato posto nel libro anche per qualche riproduzione di quadri e scorci di vie. Anche le situazioni narrative in sé più definite e compiute prendono ulteriore luce e forza dalla conoscenza o la rammemorazione di luoghi, eventi e figure nella cui materia il racconto è originariamente iscritto: come in una fantasia sempre al fondo guidata da una sinergica «realtà», che ci trasmette il senso e l’«odore» di un’età. Da parte del lettore c’è come uno stupore nell’avere scovato un libro così: pubblicato da un piccolo editore di provincia, elegante, robustoso e forte come manufatto, reasonably cheap, che dà da pensare, con una straordinaria inventiva e una scrittura colta e raffinata eppure priva di compiacenza da prosa d’arte, basata piuttosto sulla sottrazione e sulla vittoria della narrazione.

I racconti vari «dagli anni Trenta» hanno tra loro qualche filo di continuità o una cornice tematica? Bruno prova a dir la cosa in questo modo: tutti i personaggi hanno «il medesimo destino di una vita che si frantuma rovinosamente». È giusto, ma forse la traccia pecca di qualche pessimismo, se è vero che la morte prende senso dalla vita, ed è di questo che dobbiamo soprattutto occuparci. In realtà – e qui sta uno dei suoi titoli di pregio – il libro di Bruno dispone di molti argomenti e non ne impone alcuno: sta al lettore scegliere, tra tanti, i suoi contenuti, la sua materia preferita. I temi che più mi hanno colpito e di cui mi occuperò sono: 1) il bello e l’arte; 2) il fascismo tra politica e storia. Aggiungerei poi un terzo motivo, «passante», che è la predilezione di Bruno per figure e concetti che stiano nel segno dell’ambiguità, dell’equivocità e della doppiezza, quale è testimoniata per esempio, nel racconto «Il Cenacolo», nell’enigmatica figura e postura di Giuda, l’apostolo traditore e reietto, ma insieme anche particolarmente amato, con Giovanni, da Cristo, che lo fa partecipe dei suoi disegni e delle future cose.

1) Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, La Visita, si concentrano tutti i temi che abbiamo richiamato: il Grundakkord sul fascismo, l’arte che prorompe da tutti i lati, la sinistra ambiguità dello scioglimento finale. Il giovane protagonista esce di casa, prende il tram e dal finestrino guarda avidamente la vita che scorre intorno a lui per carpirne, inosservato, l’anima intima, segreta e quasi riservata solo a lui delle cose. Ogni minimo aspetto della realtà viene penetrato, sezionato. Bruno possiede uno speciale sguardo fotografico, pittorico, che, per estensione, come accadde a Pasolini, potrebbe rivelarsi, in una sua particolare accezione, anche cinematografico. Nella fenomenologia si chiama «occhio intenzionato a…» e, aggiunge giustamente Bruno, «prima di ogni riflessione dell’intelletto». Viene in mente quel che tanto tempo fa ci appassionò e ci fece discutere: la tematica del cosiddetto «œil vivant»: un’espressione suggerita da Rousseau, quando nella Nouvelle Héloïse dice in esergo: scambierei l’intero mio essere per diventare tutto e solo un œilvivant, fattosi organo à part entière, quasi fosse una delle «membra pensanti» di Pascal, che hanno acquistato, ognuna, esemplarmente la mano, piena autonomia di pensare e volere. Non mi occuperò ora né del magnifico libro di JeanStarobinski in due tomi (1961) che per titolo ha proprio L’œil vivant; né degli autori e le correnti che negli anni ’60-’70 del secolo scorso furono vicini a questo movimento: da Bataille a Merlau-Ponty, dall’École du regard al Nouveau roman di Robe-Grillet, Butor, in Italia anche di Calvino del Se una notte …, ecc. Senza fare troppi esempi, mi limito a ricordare due racconti di Bruno: «Il Cenacolo», di cui subito dirò, e «Il Censore», dove il fluire degli eventi, se mai è iniziato, s’impaluda e s’irrigidisce in una scena che non ha più seguito, di ferma e insuperabile enigmaticità; ma senza dimenticare gli interni, le cose e gli scorci di città, come quelli di Berlino che si aprono dinanzi a Dietrich, il conducente di tram del tremendo e affannoso racconto «La corsa».

Ne «Il cenacolo» è protagonista dapprima proprio e solo l’arte, attraverso le lezioni di Pietro Toesca, un importante storico della produzione d’arte medievale e moderna, nonché, tramite l’uso della fotografia, innovatore della riproducibilità artistica. Il giovane Giulio, crocevia d’ogni ambiguità, frequenta le lezioni di Toesca su Taddeo Gaddi, un giottesco «maggiore» del ‘300, esaltandone, per esempio ne L’Apparizione degli angeli ai pastori, il «realismo estremo» trasfigurato – quasi una dichiarazione stilistica – dal mistero dell’Annuncio. Ma è soprattutto con il Cenacolo di Santa Croce, sempre di Gaddi, che si ha la lezione più densa e significativa di Toesca. La liaison sta qui nel fatto che Giulio, al pari di Giuda, è al tempo stesso parte intima di un piccolo cenacolo antifascista e suo reietto traditore.

Chi legga oggi nei cosiddetti «Vangeli apocrifi» il Vangelo di Giuda, ritrovato nella cosiddetta Biblioteca gnosticadi Nag Hammadi, vi rinviene già tutte le ambigue suggestioni circolate intorno a questo apostolo: amatissimo, con Giovanni, da Cristo e suo speciale confidente, che solo sa, in pieno senso, a differenza degli altri discepoli, chi è il Nazareno, e quali saranno, ancor prima della Pasqua, le sue finali vicende. La doppiezza, così presente nella narrazione di Bruno, la raffigurazione dell’uomo come un essere intrinsecamente ambiguo, trova qui la sua acme, nel punto dove è necessario che il sangue sia versato perché l’amore trionfi, o si abbia quell’Abgrund di «perfidia che genera salvezza», proprio mentre induce irrisolvibili dubbi sulla colpa e sul merito. Ma già a quel tempo, come Bruno segnala, Giulio poteva leggere su Giuda Iscariota, il traditore reietto fino a punto da sacrificare egli stesso la sua vita, l’appena uscito e curioso libro di Lanza del Vasto (Laterza 1938, coll. ‘Studi religiosi ed esoterici’: come si vede, mentre non è vero che Croce spadroneggiasse nella «sua» casa editrice barese, è attendibile dire che l’esoterismo fosse ancora un segno dello Zeitgeist). Solo la bellezza sembra sottrarsi così al tenace velo dell’ambiguità che incombe sulle cose come una minaccia pur oltre la duplice, e anzi triplice personalità di Giulio: l’unico luogo dove per un momento c’è trasparenza senza ostacolo, luminosa, piena e inconcussa verità. Ma il tempo era così pieno di ferro e fuoco, da conferire persino all’arte, sotto l’urgenza di più rudi categorie, precaria labilità: sebbene è anche vero che, nel segno ancora una volta dell’ambiguità, nel 1941 il giovane Pasolini poteva ascoltare in un’aula universitaria di via Zamboni a Bologna le lezioni di Roberto Longhi.

Poco più di dieci anni fa Bruno pubblicò un elegante (e alquanto perfido) libro fotografico, con uno scritto di Fabio Stassi, sulla ‘Sapienza’, l’università di Roma dove egli ha studiato e sempre insegnato. Non c’è ombra umana nelle fotografie di quest’opera, nulla di ciò che concerne i pomposi, e con Minerva anche guerreschi, edifici esterni, i viali brulicanti di studenti, a tema essendo appunto «la città nascosta»: angoli e sotto scale, luci, pietre e qualche fregio. Sembra qui che l’ambiguità, di cui ho detto, si proietti sull’istituzione stessa scelta da Bruno, che tiene insieme grandezze e miserie, creatività e mortificanti pratiche burocratiche, da consegnare alla fine al silenzio.

Ma se la tematica dell’œil vivant finisce nella consumazione del racconto, anche imbarazzante nella sua derivaantinarrativa, antiumanistica e oggettivistica, fino a costeggiare una sorta di strutturale positivismo logico del racconto e un’austera fenomenologia, risolti essenzialmente nell’imperturbabilità delle cose, in Bruno c’è di più e di meglio che non far tacere nella dissolvenza ogni altra voce o presenza che non siano gli oggetti o le vie. Vale a dire che – fuggendo le secche di una radicale poetica delle dissolventi e trascorse figure umane fissate dal suo œil vivant – la narrazione di Bruno si apre insieme a un massimo di sym-patheia, di vicinanza agli uomini, al loro divenire e alla loro sofferenza – gli oggetti e le vie frequentate dalla «feccia di Romolo» valendo allora come ambiente umano, fatto di passioni, dolore e dominanti umori. Proprio in questo l’occhio di Bruno è maestro: freddo osservatore e insieme vivo partecipante di ciò che vede. Quale che sia il giudizio sugli uomini e la loro storia, questa condivisione di sensi umani, speciale solidarietà con il dolore a Bruno non viene mai meno.

2) Nell’altro capo cui abbiamo detto di volerci restringere, quello storico-politico, Bruno, se lo prefigga o no, a parer mio vuol anche cogliere qualcosa della natura del fascismo: un fenomeno aberrante, eppure, come ogni storia crocianamente intesa, non consegnabile interamente alla negatività di oppressiva e nuova tirannia, a una storia comandata dalla Dekadenzidee. Anche Adorno e Horkheimer, a partire dalla Dialettica dell’Illuminismo, andando oltre i soli problemi dell’emancipazione, si chiesero: ma cosa tenne insieme durante i lunghi secoli di oppressione la storia dell’umanità? Su che si fondò un sia pur tenue equilibrio capace di assicurare durata nel tempo? (Conosco in tema di continuità di questa radicale, inusitata domanda solo il caso, peraltro inconsapevole di una tale precedenza, dei primi numeri, in particolare 1962-1963, de «La rivista trimestrale» di Franco Rodano e Claudio Napoleoni, con il lavoro sulla figura del «signore» e la lunghissima età signorile, quando, come aveva paradossalmente scritto Aristotele, l’interesse dei padroni e dei servi era «lo stesso»).

Naturalmente, quest’ombra o margine di valore dev’essere precisato, puntellato di riserve e  limitato e circoscritto nel tempo: nei racconti Bruno mi pare che coincida con quella che sommariamente è stata detta l’«età del consenso» (1929-1936); non i barbari e violenti inizi, dunque, non dopo il truculento assassinio di Matteotti, dove la brutalità stava appena sotto qualche colore di ordine, e infine, non certamente e con ogni valore periodizzante, quando, nei prodromi oramai della guerra, il fascismo, potenziando il peggio della sua storia, diventò, in un modo che ancor ci offende, servile e talora persino trascurabile appendice del nazismo. I racconti di Bruno si collocano quasi tutti in questo ristretto arco temporale, dove i Fronti popolari sono l’acme e insieme la fine di una tregua, con forte senso del drammatico tempo ad quem.

Per capire cosa il fascismo è stato, bisogna cercar di dire anzitutto cosa non è stato, il suo esterno prossimo, che nel nostro caso è il nazismo. Bruno dà del nazismo una definizione a parer mio giustissima, come di mostruoso organismo interamente pensato tutto e solo per la guerra: quella dei signori, in primo luogo contro ebrei, ma anche zingari, omosessuali e comunisti. Il fascismo è in qualche modo simile a ciò, è riportabile al costitutivo e totale telos della guerra? Sebbene sempre prossimo ai conflitti armati, da essi attraversato – dalla carneficina della Grande Guerra, da cui è nato, alla crisi economica e alle riparazioni, che la guerra preparano, alle avventure coloniali con l’impresa etiopica e la ragion politica della partecipazione alla guerra di Spagna – mi pare che il fascismo abbia mantenuto per un tratto, fino al suo suicidio, un carattere differenziale rispetto al nazismo, la guerra essendo, se non un accidente, certo non un destino pensato cioè iscritto inesorabilmente nella sua propria natura. A questa vicinanza del fascismo alla guerra, senza che essa divenga, in un certo tempo, scelta della sua ineluttabilità, a questi chiaroscuri di ombre e qualche chiarore, a questa ambiguità si possono riportare altre e del tutto diverse duplicità, che sembrano avvolgere ogni cosa.

È il caso per esempio, anticipando un po’ il nostro discorso, della tanto deplorata «doppiezza» di Togliatti e del suo partito che, nonostante i loro meriti democratici, di carte fondamentali e istituti, di nuovi diritti e garanzie mai trasgrediti di libertà e portafogli non toccati, continua a risuonare nel basso continuo di molti. I comunisti vissero sulla loro pelle e senza troppi intellettualismi, un audace e radicale liberalismo, come invocazione alla libertà di movimento, di parola, di organizzazione, di necessità della vita, insieme a una viva partecipazione alla realtà delle masse, all’assetto complessivo della società e al compito di organizzazione, attraverso il partito (che non è un’aberrazione, ma il principale segno della democrazia moderna), un difficile rapporto, ancor oggi irrisolto, tra il diritto dei singoli e quello della comunità (la comprensibilità del partito, per mia personale esperienza, era problema che travagliava il liberale Norberto Bobbio).

I vecchi comunisti che ho conosciuto parlavano – fuor della propaganda certo –  della libertà e della loro vicinanza alla grande politica del «New deal» rooseveltiano cui si legava il quadro delle misure economiche, del rapporto tra politica ed economia. Il comunismo sovietico apparteneva piuttosto a una complessa e travagliata continuità, a un esercito di riserva adatto, a seguire Lenin, ai «punti più bassi», che poteva e doveva sostenere le occidentali punte avanzate; né Togliatti mostrò mai, dopo la guerra, di voler stabilire un netto legame con l’URSS, affidando l’Italia al «soviettismo», a uno sviluppo economico di guerra e a libertà arretrate.

Comunque, si diceva, l’ambiguità del fascismo si è presentata per un tempo che è scaduta abbastanza presto. Ne «Il Cenacolo» c’è, subito dopo l’Anschluss dell’Austria alla Germania, un teso e perfido colloquio tra padre e figlio –  imbarazzato a difendere la sua maschera di antifascista – sulla diversità del Mussolini del ‘38 da quello del ‘34. Se non si era venduta alla Germania – vi si legge – l’Italia era pur rimasta impaniata nella sua stessa politica quando era giunta, perdendo la sua «rendita di posizione», al giro di boa di legarsi ineluttabilmente alla sponda tedesca, quasi fossero veramente «fatali destini». Altro che spartirsi sfere d’influenza nel Mediterraneo! Si trattava in effetti di un peccato non più redimibile, come la differenza tra bianchi e afroamericani in USA che per Tocqueville poteva sì essere eliminata dalla legge, ma, tragicamente, non dal costume profondo né dai sentimenti più radicati degli uomini.

Tra arte e politica si dipana il racconto «La visita», che già è stato ricordato. Il giovane protagonista, di modesta cultura e umili origini ma di convinta fede nella «Rivoluzione» compiuta dal fascismo, avendo vinto un concorso di custode al museo di Villa Borghese a Roma, passa le sue giornate nello straordinario e accogliente posto di lavoro, trovando nello studio dei grandi dell’arte moderna motivo di crescita umana e culturale, di raffinamento; incontrando qui anche il grande amore della sua vita: una giovane ebrea di alta borghesia, studiosa universitaria di Storia dell’arte e presto incinta di lui. Il mestiere di guardiania di tante bellezze riempie il giovane d’orgoglio e i genitori di stupita soddisfazione: quasi la cura a un prezioso segreto rivelato solo a loro. Il futuro volge da ogni lato al bello, né il «Regime» sembra in alcun modo contrastare o intralciare tale felice sorte. Il fascismo sembra guidare dall’alto e tutt’intorno questa promozione culturale e sociale, coronata dall’amore. Né la differenza di classe, di cultura e di abitudini tra lui e la famiglia di quella che è diventata la sua compagna pare in alcun modo intralciare la felice congiuntura in cui la sua vita si va assestando, salvo ancora a dichiararsi dinanzi ai genitori di lei, essendo del resto già tutto fissato, il giorno e l’ora dell’incontro.

Il fascismo è, talvolta, anche questo: stemperamento delle più dure barriere di classe; unità certo anche coatta, ma al cui cospetto, come nel Leviatano di Hobbes, tutti sono egualmente servi; sperimentata convinzione che l’Uno al potere riesca più «democratico» e disposto all’eguaglianza di quanto non siano i «molti» padroni oligarchici, dove ognuno ha il suo «sovrano»; riguardi sì per i vecchi ceti dirigenti, ma a condizione che tutti indossino, come di fatto puntualmente accadeva, la camicia nera.

Anche la dinoccolata (e immaginiamo un po’ ironica) figura di Ranuccio Bianchi Bandinelli, parente di un papa e di nobili governanti antichi di Siena, nel racconto di Bruno fa capolino perché sapientemente scelto dal ministro competente nel 1938 come straordinaria guida di lusso di Hitler e Mussolini al Museo («Sehen Sie, meine Herren…»). Hitler «ricambiava» la «visita» di Mussolini, avvenuta mesi prima, nel 1937, in Germania, e questo movimento di va e vieni, come un faticoso addio, s’iscrive bene in una situazione di incerte classi e di rimescolati lombi nobiliari. Il Duce somiglia qui, forse per una volta, a Cosimo il Vecchio, che diceva bastargli un po’ di panno fino per crearsi da sé la nobiltà di cui aveva bisogno.

E ciò, nonostante che Bianchi-Bandinelli (dei conti Paparoni) – di straordinaria cultura archeologica e di storia dell’arte antica, nonché del generale rapporto tra arte e società, di precoce carriera universitaria, in possesso di un fluente tedesco appreso dal ramo materno – avesse cominciato già giovanissimo la sua carriera di ribelle «istituzionale», rifiutando, subito dopo il servizio militare e la frequenza dell’Accademia torinese, i gradi di ufficiale. Figure poste al di là delle classi, che pure ben conoscevano, scegliendo la propria parte: come Engels che si vantava di essere il più capace in tutta Europa a cucinare le aragoste o di andare a cavallo meglio di ogni altro a caccia di volpi. Tra l’altro Bianchi Bandinelli, niente affatto antifascista solo dopo il Fascismo, aveva pensato, in occasione della «visita», insieme a molti altri o a piccoli gruppi, specie comunisti, di cogliere, indipendentemente l’uno dall’altro, l’irripetibile occasione di mettere in atto, con un colpo solo, un complotto contro i due despoti riuniti.

 Ne «La visita», il quadro è smosso, funestato e sinistrato, dal Fascismo che, con le sue straordinarie e imperiose esigenze di regime, viene meno a quella sicurezza e protezione che prima in qualche modo assicurava. Hitler è a Roma e con Mussolini verrà il giorno dopo a visitare proprio il Museo di Villa Borghese. L’evento irrompe e sconvolge mortalmente il tran-tran della vita di tutti i giorni; e – non concepibile forse con tanta rigidezza sotto altri regimi politici – è circondato da eccezionali misure di sicurezza, tali da sequestrare nel silenzio tutti, con il divieto agli impiegati del Museo finanche di comunicare con l’esterno parlando al telefono per dire che non sarebbero tornati la notte a casa. Lo sgomento e l’ansia del giovane sono tesi fino allo sfinimento e allo svenimento, fino a quando, a tarda sera del giorno dopo, una volta liberato, riesce a raggiungere, in piazza Mincio, nell’agiato quartiere Coppedé, la casa della ragazza, dove trova però solo spaventoso silenzio e assenza, tuoni e buio, rovina e morte: quasi che «una gigantesca bandiera uncinata avvolgesse come un sudario il corpo sanguinante dalla mia amata».

È necessario ora rispondere subito a un’obiezione che forse si è presentata al lettore: ma come mi è venuto in mente di parlare, proprio qui e oggi, con gli attuali governanti che abbiamo al potere, di parziale sia pur limitata e contraddetta, verità nel fascismo? Ripeto anzitutto che questa affermazione riguarda solo, circondata di filo spinato, una relativa sosta nell’ambito delle classi o del privato, una mera derivazione dalla complessa e generale politica del fascismo, del quale si dovrebbe per altro parlare con ben altra completezza e severità. In secondo luogo ripeterei quel che Machiavelli dice a proposito della Chiesa di Roma: che «con la Chiesa e con i preti noi Italiani [abbiamo] questo primo obligo, di essere diventati sanza religione e cattivi» (Discorsi, 12.17). Allo stesso modo, si potrebbe dire, che noi abbiamo con quelli che ci governano questo «primo obligo» di non poter parlare più, sensatamente, nemmeno di fascismo, e quindi delle sue fasi, della diversità dal nazismo, della ferocia repubblichina, e così via. Tutto difatti è omologato in un astioso, minaccioso e sommario rancore, o in un ressentiment, come sempre lo chiama Nietzsche, perché in francese è più chiaro il senso di ‘ricordo di un torto (forse) subìto e desiderio (ineffettuale e frustrato) di vendicarsene’.

Il primo passo nel combattere un fenomeno è dargli nome, distinguendo e specificando le sue fasi e il carattere proprio di ognuna, ben sapendo che la condanna generica aiuta piuttosto i responsabili di un tremendo danno civile, politico e umano. In questo senso, hanno fatto bene Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati a tentar di descrivere recentissimamente la nostra attuale fase politica con il termine di Democrazia Afascista (Feltrinelli, 2024), invitando anche altri a cercare nomi diversi; anche la recensione che qui si legge è, per questa parte, un tentativo di tale genere. Di più, crocianamente, ogni volta che siamo dinanzi a mutamenti appena un po’ rilevanti della nostra vicenda storica è necessario, nella storia sempre «contemporanea», tornare a interrogare il passato più rilevante, com’è certamente il fascismo, per trarne luce e suggestioni, non più risposte confezionate, sul modo in cui attualmente combatterlo.

E poiché abbiamo evocato il genere ‘recensione’, conviene a questo punto anche dire che il lettore può anche essere sfavorevolmente colpito (e stufo), ormai a ragione, dalla lunghezza di questo scritto. Il termine esatto non sarebbe pertanto ora quello di «Discussione», come pure è costume nelle riviste, ma, un po’ alla tedesca, un pensare né pro né contro, ma mit… lo scrittore che si legge, in questo caso Bruno. Ciò vuol dire disponibilità a seguire le premesse e le conseguenze o gli sviluppi di ciò che si legge. Questo è un grande merito della narrativa e della scrittura di Bruno: la capacità di suscitare nel lettore altri pensieri, che non si trovano propriamente come tali nel libro, ma che da esso sono «generati»: per sviluppo del discorso, per aggiunta di particolari, per vicinanza o persino per antitesi.

Per avvicinarci al tema della «qualità» del fascismo sul terreno politico-sociale, è utile a parer mio riprendere ancora Palmiro Togliatti e le sue profonde, intriganti Lezioni sul fascismo, che tali parvero allo stesso Renzo De Felice (l’analisi più compiuta e matura del fascismo, disse all’incirca, manifestazione di un grande modello metodologico di realismo politico). Tenute queste lezioni nel 1935 agli allievi della scuola quadri, soprattutto italiani, emigrati nell’URSS, furono riattualizzate da Enrico Berlinguer nel clima dei primi anni ‘70. Anche in questi anni infatti, e dalla fine dei ‘60, entrò in crisi il rapporto tra politica e società, a dirla così in generale, o tra Stato e masse organizzate: un primo segno del difficile trapasso dalla democrazia dei partiti a quella dei cittadini, per dirla con Pietro Scoppola, che richiedeva una valorizzazione dei singoli e insieme una riorganizzazione delle masse, giunte anch’esse a un nuovo protagonismo, negli anni che pure segnarono, con Moro e Berlinguer, un avanzamento della democrazia.

Il cuore delle lezioni di Togliatti sta, secondo me, nell’ammissione che i comunisti non avevano visto le «cause sociali» su cui il fascismo si fondava e si manteneva. Il ritornello rivolto ai fascisti da Togliatti è martellante: noi non siamo vostri nemici, non siamo vostri avversari. Siamo noi, diceva, che non siamo riusciti a capire le vostre organizzazioni collaterali, né perciò siamo stati in grado di entrare in esse, spiegandovi dove sbagliavate e correggendovi: nei sindacati, che dal ‘26 hanno conquistato il monopolio sindacale, o persino, né paia poca cosa, nei dopolavoro e nelle attività ricreative (o creative come i Littoriali). Ma, più in grande, nemmeno abbiamo ben considerato gli elementi di «pianificazione» su cui bisognava riorganizzare il capitalismo dopo il ‘29, ché anche i borghesi (grandi, devo purtroppo omettere ogni cenno alla distinzione di piccola e grande borghesia su cui Togliatti lavora) avevano bisogno di organizzazioni di massa; e insomma non abbiamo studiato le novità, impostesi a tutti, anche ai paesi «democratici», a seguito della Grande crisi, riguardanti il rapporto di politica ed economia. Persino nel fascismo detto di «sinistra», in zone del corporativismo e nei «Nuovi studi di diritto, economia e politica» di Ugo Spirito e Arnaldo Volpicelli, tra gli anni ‘20 e ‘30, si cercava di riflettere, seppur con deboli strumenti, su questi temi. E il problema era anzitutto lavorare sulle failures del liberismo e del mercato, consapevoli che la borghesia liberale aveva appena sfiorato, senza lasciare tracce durature, il rapporto con la classe lavoratrice e i ceti più poveri; e che si dovessero conoscere (come accade per Keynes, introdotto forse per la prima volta in Italia dai «Nuovi studi») economisti capaci di aiutare a meglio impostare il lavoro di ricerca su urgenti e gravissimi problemi, a immettere forze fin ad allora marginali nel tessuto produttivo e talora addirittura nella «vita civile».

Il rapporto di Bruno con il fascismo è naturalmente complesso, perché è l’oggetto rispondente alla sua vocazione di studio, alla sua passione e competenza «scientifica». Proprio su questo punto il recensore dovrebbe lasciare interamente la mano al recensito, ai bei libri di Bruno, ad esempio, tra politica, società e organizzazione dei monumenti e delle città, urbse civitas (ricordo solo Una patria per gli italiani. 1870-1900, Laterza 1991). Intanto non è vero, sembra dirci, che il Duce sia solo e sempre una figura tutta d’un pezzo, ossessivamente incombente, un padre ingigantito e minaccioso, unicamente tiranno appunto. Può talvolta essere, in certe circostanze, che con lui si sia dato anche una presenza catalizzatrice e sinergica, nel cui segno (se si ha il coraggio di scendere nel regno male odorante delle Madri), poteva anche maturare qualche buon frutto di fiducia in sé e di senso del dovere, certo accresciuto dal fatto che a quel tempo non si conosceva «nessun diverso paradigma». «Mai così tanti ci affidammo a un Solo – si legge ad apertura di libro, all’inizio de «La visita» – con tutta la fiducia fanciullesca della quale allora eravamo capaci. Chi oggi lo nega, mente sapendo di mentire. Col passar del tempo, è naturale, molti ingenui entusiasmi sbollirono, ma, sin quasi al limite della catastrofe, la fede non venne mai meno, maturata in un comportamento di sobria responsabilità verso la vita, dono prezioso, della quale, ne rimasi sempre convinto, non ero io il depositario assoluto. Da mettere, se necessario, a disposizione di tutti». Anche «oggigiorno mi sento del tutto giustificato in quel mio comportamento di allora. La mia è una prova di protervia? Forse. Ma declino con forza ogni responsabilità. Non riuscirete a farmi sentire in colpa, anche se di certo in quegli anni lontani adesso non so più riconoscermi.»

Come il protagonista de «La visita», il primo racconto, così, nella stessa Stimmung, pensa e dice anche l’attore dell’ultimo dei racconti, «Vittorio». Questi è un piccolo orfano di guerra amatissimo dalla madre e felicemente inserito, già come un leader, nella vita del suo centrale rione alle falde della collina Velia, tra il Colosseo e il Milite Ignoto. Vittorio è un personaggio nutrito e cresciuto di fascismo di cui egli si fa maestro ai suoi compagni. È un bambino coscienzioso e diligente, compreso e orgoglioso del suo ruolo e della sua divisa fascista («non gioco, ma disciplina e intelligenza»), colto, «perché la dottrina fortifica la fede», devoto al giuramento prestato al Capo, interprete delle sue parole, che divengono presto fatti, assurgendo a forme proverbiali scolpite nei cuori: italiano insomma perché fascista. Il Duce, fa dire Bruno a un suo personaggio, forniva a ciascuno, nei suoi modi specifici e particolari, «le certezze necessarie per vivere una vita degna di essere vissuta sul serio».

S’è detto tante volte che a interpretare il fascismo conveniva leggere la Psychologie des foules di Gustave Le Bon (1895), che attribuiva alla folla o alle masse la dissoluzione dell’individualità con i suoi caratteri di razionalità e di distinzione tra le diverse sfere di vita, a favore di un cieco agente collettivo, modellato dalle parole di un capo, che si costituisce come una sorta di sartriano «gruppo in fusione». Vittorio insegna che anche nell’intero, nella totalità e nella presenza di un capo supremo può trovarsi un principium individuationis, l’ambiente che forma una personalità. Non solo i padri naturali, ma anche quelli imposti e poi scelti, svolgono una funzione rilevante nella crescita e nella determinazione delle (diverse) persone. Ma pure in questo caso il tentativo di identificazione s’infrange quando la vita privata e più intima entra in contrasto con le decisioni pubbliche del fascismo, quando Vittorio apprende che verranno abbattuti i quartieri popolari dove abitava e che ostruivano la vista aperta dal Colosseo al monumento al Milite Ignoto. È lo sventramento delle case attraverso cui si consentì l’apertura della grande via dell’Impero come già prima era accaduto per far (molto e prezioso) posto al Vittoriano, con la trasmigrazione degli abitanti dal centro all’estrema periferia. La vita di Vittorio, crollando il suo mondo, è scossa da rabbia e ira, poi da apatia e profonda sofferenza. Un pomeriggio, stanco delle strade anonime e senza storia dove ora deve abitare, preso dalla nostalgia della vecchia casa, si spinge fino al luogo dei lavori, e, oltre, fino agli antichi marmi della Basilica di San Giovanni. E, camminando, s’imbatte nei resti della sua vecchia casa demolita e ridotta quasi a un cumulo di macerie, ferita da centinaia di colpi di piccone. Spero che io non sia ancora tra i pochissimi, e con me l’amico Sergio Mariani, a conoscere e ricordare la vecchia canzone romanesca che, per le case impietosamente abbattute, cantava: «fa’ piano muratò’ co’ quer piccone». Vittorio, muto dinanzi allo scempio, esplode in un pianto irrefrenabile quanto doloroso. E proprio qui gli pare di scorgere sui lacerti delle vecchie case la figura stessa del Capo che, con in mano il piccone, lo saluta, portandosi via, nella polvere e nell’acre disillusione, tutta la sua felice fanciullezza.

Dobbiamo infine soffermarci sul complesso racconto che s’intitola «Parigi 1937» e narra delle strane vite parallele di Korda Claude – un soldato e un poliziotto che ha la fredda, razionale passione della patria e dell’ordine, ora nella squadra mandata a presidiare una piccola fabbrica occupata per il licenziamento di due operai – e Alphonse, un abile dirigente e capo operaio, leader sindacale della CGT e fedele militante del Partito comunista, d’autorità indiscussa, generoso con gli altri, in grado di spiegare a tutti le mosse e la logica stessa della politica, che a sua volta ha una specie di altro, un apprendista e pupillo, il giovane fresatore Dubois Maurice. Siamo al tempo dei Fronti popolari e perciò di un nuovo clima, più favorevole agli operai. Korda soppesa e studia freddamente la situazione, le chances di vittoria degli operai, l’estendersi dei loro successi. La sua parte ha all’inizio scarsissime possibilità di avere la meglio, e il poliziotto è ferito perché odia gli operai, non la «classe», ma la loro stessa carnale umanità, quelli che incontra per strada a Parigi, con qualche invidia per la loro fresca vitalità e allegra protervia giovanile, una sorta di gioia puerile tra le marce e le bandiere della nuova stagione politica. Ma poi, col passar del tempo, Korda, non impaurito, comincia a vedere una luce di uscita, il ritorno alla «normalità»: riacquista il sangue freddo di chi sa vivere con la morte, ed è disposto a dare la vita, di chi non ha mai avuto vita civile, passando dalla trincea alla caserma. Per il resto, ciò che è giusto – pensa – deve accadere.

Ma è proprio vero che Alphonse è in tutto perfetto? Maurice sente la voce, presumibilmente vera, che va a cercare ragazzini nel buio del cinema o in mezzo alle fronde dei giardinetti. Ne riporta sbigottimento e vergogna, dolore e rabbia. La prima e debole osservazione è: ‘son fatti suoi’; ma ben presto l’immagine disgustosa, che non ha strumenti per comprendere («può darsi che Alphonse guarisca da questa malattia se affidato a cure mediche»), torna ad assillarlo. Un abboccamento tra i due, il maestro e l’apprendista, si risolve nell’aggressiva e infamante accusa che sta lì lì per esser pronunciata, e nella muta difesa dell’andar via senza parola: un congedo definitivo che Maurice non riesce più a revocare. Alphonse dilegua abbandonando il campo, ma Korda, coerente con la sua vita, ritrova sé stesso nell’atto di dare, con l’arma in mano, il segnale dell’attacco agli asserragliati della fabbrica, mentre Maurice non riesce nemmeno a dare l’allarme ai suoi dell’attacco imminente. Bruno, come pure è naturale nella pena di una sconfitta, spesso è più severo con la parte sua che non con quella avversa, salvo la sua grande e infinita pietas che egli sa suscitare per entrambi i protagonisti e che nasce dalla volontà di andar oltre gli strati d’apparenza e d’appartenenza, nel punto profondo dove, oltre l’immediatezza, vince la voce di partecipazione alla sofferenza altrui.

Tanto più viva è questa così sentita commemorazione e commozione, in quanto la speranza, forse per le troppe storie lette e vissute su se stesso, non è affatto un sicuro e garantito sentimento per Bruno, non ha avanti a sé un immediato futuro, né costituisce immancabile porto, rifugiandosi piuttosto in piccoli particolari come la commozione di Korda per un’ingenua e paffuta Madonna di una chiesetta di campagna, o, per Alphonse, nella capacità sollecita e cordiale di pensare agli altri e agli uomini, nell’affetto con cui impartisce i suoi insegnamenti a Maurice. Infinita e necessaria è la pietas di Bruno per i suoi personaggi, specie per quelli che nulla hanno avuto dalla vita, per i diseredati costretti a misurarsi con gli ambienti più difficili e pericolosi. Ma la pietà rischierebbe di risultare insulsa e mortificante se fosse solo un sentimento spontaneo, che avvolge nella sua immediatezza ogni cosa. In Bruno la pietas non nasce da un originario emozione, ma dalla precisa volontà di capire, non si colloca alle origini istintive, ma a conclusione di una sottile e fredda analisi, sicché ognuno ha diritto alla sua pietà, specie chi sta dalla parte ingiusta e atroce della storia. La pietà, nutrita di ragione, non è affatto cieca dinanzi alla verità o alla miseria collettiva, al giudizio morale, politico e storico, che resta lì invalicabile, fuori di ogni perdono e compassione soggettiva, oggetto di comprensione che non assolve. Ma c’è un fondo d’umanità che residua ogni più feroce atto, ogni travagliata psicologia e fa guardare avanti. Forse è vero, come è stato scritto, che a salvarci sarà solo la «carità», che è un altro nome della pietà: un’antica virtù di cui il bel libro di Bruno abbonda

 

 

 

 

Abstract

Mario Reale recensisce e discute il libro di:

Bruno Tobia, La Visita e altri racconti dagli anni Trenta, Gemma Edizioni 2024, prefazione di Vittorio Vidotto.

 Seppur leggibile da molte prospettive, Mario Reale sceglie di recensire e discutere La Visita soprattutto alla luce di questi due temi: 1) Il bello e l’arte; 2) Il fascismo tra politica e storia.

1) Bruno possiede uno straordinario sguardo pittorico e fotografico, che ricorda l’œil vivant e il Nouveau romanfrancesi nella letteratura, nella filosofia e nel cinema della seconda metà del secolo scorso. Ciò vuol dire che è dotato di uno sguardo «intenzionato a…», come si diceva in ambito fenomenologico, che scruta, «prima di ogni riflessione», i pur minimi aspetti della realtà, soprattutto le cose, le vie e gli scorci di città. La riproduzione fotografica delle arti figurative, innovativamente promossa da Pietro Toesca, esprime bene questa situazione dell’occhio che fissa e per tutti trattiene significati. Toesca dalla cattedra illustra la singolare figura e postura di Giuda nel Cenacolo di Santa Croce di Taddeo Gaddi, ma è l’intera narrativa di Bruno che, con particolare efficacia ne «Il censore», si sofferma volentieri, su condizioni e figure che hanno a loro centro ambiguità, equivocità e doppiezza. Tuttavia, l’œil à part entière di Bruno è lontano da ogni esclusivismo e ideologismo antinarrativo e oggettivistico; alla fermezza dello sguardo sulle cose s’accompagna anche una sym-patheia, una viva partecipazione agli uomini e alle loro vicende, di cui gli oggetti sono allora lo sfondo e l’Umwelt.

2) Del fascismo mi pare che Bruno cerchi di cogliere una particolare natura, già visibile nella differenza dal nazismo, che è invece un fenomeno tutto finalizzato alla guerra «totale» dei signori. Pur sempre vicino a molteplici conflitti, attraversato da essi fin dalla sua nascita dalla macelleria della Grande Guerra, il fascismo mi pare conservi il suo carattere differenziale dal nazismo, aprendosi perciò a un qualche margine di positività. Naturalmente i tempi sono qui essenziali, e sembrano coincidere con l’età che è stata detta del «consenso», tra il 1929 e il 1936, quando il fascismo diventerà subalterna appendice al nazismo. In realtà la crisi si apre ogni volta che il fascismo si separa da un certo compito di promozione sociale e politica, di protezione dei ceti fino ad allora esclusi dalla storia e persino dalla «civiltà». Ancora ne «La Visita», le straordinarie misure di sicurezza, che la visita al museo di Hitler e Mussolini mette in atto, rompono vite «rovinosamente», spezzano destini e legami.

Se il lettore pensa che, proprio oggi, col carattere dei nostri governanti, questo ragionamento è intempestivo e troppo cedevole verso chi è al potere, si deve rispondere che conviene giocare una resistenza su tutti i registri, dicendo per esempio che il pressapochismo e la dilettantesca boria di chi ci governa impediscono persino di poter parlare ragionevolmente di fascismo, tutto essendo omologato in un sommario, astioso e vendicativo rancore.

Per capire cosa s’intende per storia in cui il fascismo riacquista una qualche dignità, conviene forse leggere le belle e intriganti Lezioni sul fascismo del 1935 di Palmiro Togliatti, con il rappel ai fascisti: «noi non siamo vostri nemici, vostri avversari»; siamo noi che non siamo riusciti a capire le «cause sociali» su cui vi fondate, le «organizzazioni collaterali» che avete costruito, fossero pur solo le colonie estive e i dopo lavoro.

Il rapporto di Bruno con il fascismo è certo complesso, rispondente alla sua vocazione e alla sua competenza, ma la linea che lo vede anche come difficile occasione è limpida e coraggiosa, capace di aprire un discorso nuovo e complesso, seppur disagevole, e sempre al limite di vite che, come nell’ultimo racconto «Vittorio», si «frantumano rovinosamente». Se nel complesso racconto «Parigi 1937» il giudizio sulle vite parallele dei due (o tre) protagonisti sembra alla fine più favorevole al poliziotto che conosce solo le caserme e le trincee, piuttosto che all’abile leader, sindacale e politico, è perché la raffrenata pietas di Bruno, al di là del giudizio storico e politico che sta lì immutabile, abbraccia veramente tutti e ognuno a suo modo.

* È l’intervento allargato della presentazione, fatta con Elisabetta Rasy, del libro nella libreria di via Panisperna il 7 maggio 2024).

La morte Ivàn Il’íč di Lev Tolstòj. Appunti di lettura

1
Nel primo capitolo de La morte Ivàn Il’íč di Tolstòj, nel primo dei movimenti (in senso musicale) che compongono questo sottile e misterioso racconto, non sono presenti, a rigore, né la morte né Ivàn Il’íč. La morte del protagonista è già avvenuta e, di questi, è solamente esposta – solenne, pacificata – la salma. La morte, al più, in questa sezione del racconto, è una notizia, giunta attraverso il giornale ai colleghi dello scomparso. In quanto notizia, essa genera delle reazioni individuali che si conformano alla manifestazione mondana del lutto, alle regole da mantenere in questi casi: neppure i segreti pensieri di avanzamento di carriera, che i colleghi si aspettano dalla fine di Ivàn Il’íč, si sottraggono a questa legge di conformità, a questa prevedibile ritualità.
La morte è anche un apparato, un allestimento, una recita: prevede un sistema di frasi di circostanza, una chiave di lettura del senso implicito di alcune espressioni, tanto di quelle di pena quanto di quelle di conforto, uno scambio di gesti che corrisponde ai codici di comportamento concordati e a tal punto introiettati da apparire perfettamente naturali. L’evento della morte di qualcuno, di ciascuno, è il motore di una meccanica commedia funebre a parti fisse: i colleghi, la vedova, i familiari, la servitù; il posto libero, la pensione, il cordoglio, i costi delle esequie.
La morte è anche un odore, il più terribile, il più indecoroso, ma da cui ci si allontana con rapidità, una volta espletati i riti previsti. Questo racconto è anche un balletto di personaggi che si allontanano.
Si intuisce che la morte è un grande Altrove, eppure il brulicante tumulto dei sopravvissuti, degli eredi come dei conoscenti, è dominato da un piccolo altrove, dal desiderio di non esser lì: ma si intuisce che anche questo piccolo altrove (il gioco delle carte, il teatro, l’ufficio) sia un espediente provvisorio. Non si sa bene, a pensarci, dove vorremmo stare, dal momento che, prima o poi, ogni luogo viene a noia, ogni interlocutore è di peso, ogni distrazione è sopraffatta dallo scorrere del tempo.
Ma il motivo segreto di questo primo movimento non sembra essere, o almeno non sembra soltanto, quello di una satira di costume. Si avverte un’altra necessità strutturalmente connessa alle ragioni di efficacia e persuasività del testo. Questa necessità è la distanza: il procedere da un punto lontano, quando tutto è già compiuto e irreversibile. Il procedere su una materia già fredda, inerte, come il cadavere di Ivàn Il’íč. Un cadavere non parla, un cadavere non fa smorfie. “Dall’alba della sua giovinezza l’uomo sprofonda nelle parole e nelle smorfie” scriverà Witold Gombrowicz, cinquant’anni dopo, in Ferdydurke. La prima parte del racconto tolstojano inaugura una fenomenologia (o una semiologia) delle smorfie, delle parole e dei loro sottintesi; un lavoro di primi piani (volti, schiene, mani), di inquadrature ravvicinate, allo stesso tempo proiettato davanti agli occhi del lettore come se provenisse da una remota sorgente di luce livida. È necessario che sia così, perché da questo momento in poi il piano dell’azione e dello sguardo non può che scendere, non può che calarsi nel racconto di una vicenda e accompagnarsi all’umano che di questa vicenda è emblema.

2
Quello che si diceva del giovane Ivàn: la phénix de la famille.
La medaglia appesa alla catenella che decora il suo nuovo abito da funzionario: Respice finem, recita il motto inciso sopra.
Essere portatori di equivoci (e ironici) segni di appartenenza. Alla morte.

3
La vita di Ivàn Il’íč, ci viene detto, era stata delle più semplici e delle più orribili. È uno di quei procedimenti tolstojani che ci sembra a prima vista del tutto evidente, ma conserva (ed è bene che sia così) un fondo di ambiguità. Cosa vi è di veramente orribile in una vita comune? Da dove nasce e in quale punto di un’esistenza normale, come quella del quieto giudice istruttore, può dirsi che questo orrore germini e si manifesti? Un velo di calcolata incertezza è sospeso tanto per chi legga questo racconto per la prima volta quanto per chi lo abbia assimilato in più occasioni e ne abbia introiettato le valenze filosofiche e morali. Si intuisce che la cifra di questo orrore stia proprio nella normalità (e quindi nella sua esemplarità da Everyman in veste borghese) di Ivàn Il’íč, ovvero nel sistema fittizio di convenzioni su cui questa normalità poggia, ma non possiamo essere sicuri che l’orrore non si riferisca anche alla sua malattia, alle forme della sua sofferenza e alla sua conseguente iscrizione alla categoria dei reietti, se non alla definitiva disperazione e all’abisso spirituale in cui il protagonista precipita fino a pochi secondi dal suo estremo respiro. E se orribile fosse la condizione umana tout-court, determinata sempre e soltanto da scelte irrevocabili, da strade non prese, da occasioni perdute?

4
Il colpo subìto al fianco, perno narrativo che sconvolge la vita del protagonista e fa ruotare l’intera vicenda, raggiunge Ivàn Il’íč al culmine della sua carriera, di una carriera tutto sommato modesta che dà accesso a un tranquillo benessere e a un sistema di utili relazioni sociali. È probabile che l’ultimo (e insperato) avanzamento di carriera sia, più o meno, il traguardo professionale più alto a cui il protagonista possa aspirare. Anche la cura di Ivàn Il’íč nell’arredare personalmente l’ ambìto appartamento pietroburghese rivela che, per costui, questa non possa che essere la dimora definitiva. Ecco perché la sua angoscia è tanto più elementare e orribile. Se il protagonista avesse consapevolezza di poter aspirare a più alti successi, a una maggiore gloria, la sua disperazione sarebbe da attribuire al pensiero di quanto gli resti da fare: verrebbe proiettata così su uno sfondo quasi eroico. Ma il pensiero di Ivàn Il’íč è tutto rivolto a una posizione conseguita e, mano a mano che il decorso della sua malattia procede, i sentimenti del protagonista si orientano più al passato che al futuro. Al futuro è demandata la speranza di una guarigione. Possiamo chiamarla speranza ma anche superstizione: in entrambi i casi, si tratta di sentimenti ancorati alla duplice e ossessiva decifrazione degli arcani medici e dei segnali del corpo.

5
Di cosa muore infine Ivàn Il’íč? Neppure di questo abbiamo particolare certezza. Egli urta con violenza contro un mobile. Dai giorni successivi, che coincidono con l’arrivo e l’insediamento del resto della famiglia nella nuova abitazione, cominciano a manifestarsi i segni del malessere. Un colpo violento, uno stato morboso e i molteplici consulti dei dottori. Le contraddizioni dei responsi, i silenzi. Le analisi. Forse il rene mobile, forse l’intestino cieco. L’attenersi disincantato alle prescrizioni e all’ottimismo incontrovertibile della scienza medica.
Non è possibile sapere di cosa muoia. Non dobbiamo saperlo. Se lo sapessimo con certezza, saremmo portati a pensare che a noi non può accadere. Che potremmo morire in molti modi ma non di quella malattia. Attiveremmo dei meccanismi di difesa, ci sentiremmo affidati al mondo dei sani, confortati dal fatto di esserlo o di essere un po’ meno malati del protagonista. L’incertezza delle diagnosi è un espediente narrativo, certo un po’ crudele. È quell’opacità che frustra nel lettore il desiderio di trasparenza: quella trasparenza (è la malattia della letteratura contemporanea) che trasforma i lettori in moralizzatori con l’istinto dei voyeurs.

6
Si legge e si accredita un po’ ovunque che Gerasim, il servo che tiene sollevate le gambe di Ivàn Il’íč, per offrirgli un notturno sollievo, sia l’unico personaggio positivo del racconto. Di Gerasim sappiamo che è un servo contadino trasferito in città, è giovane, è sano, è ben pasciuto. Appare di sfuggita nel primo capitolo, si intrattiene con Ivàn Il’íč nelle fasi in cui la malattia isola costui dal contesto familiare e sociale, gli offre la propria opera con pazienza e gaia generosità. Non appare né è nominato nell’ultimo capitolo. Non sappiamo nulla della sua vita e della sua famiglia, non sappiamo come morirà, se anche lui in mezzo a brucianti sofferenze fisiche e morali o se accompagnato dalla stessa mitezza manifestata nei confronti del suo padrone. È un personaggio letterario, del resto. Vive per il tempo esatto in cui rimane in scena. Ci piace perché è giovane, perché è del popolo. Tolstoj arriva sull’orlo preciso di una descrizione di Gerasim venata di populismo (nell’accezione storica del termine), ma per fortuna se ne trattiene. L’idealizzazione appartiene più allo sguardo del lettore che dell’autore.

7
Philippe Ariès, in Storia della morte in Occidente, cita il racconto di Tolstòj come documento di storia della mentalità, come attestazione di un passaggio decisivo nella percezione di malattia e morte nella società occidentale moderna. A proposito della condizione del malato, illumina: “A poco a poco egli [Ivàn Il’íč] viene spogliato della sua responsabilità, della sua capacità a riflettere, a osservare, a decidere, è condannato alla puerilità.”

8
Capire il mistero de La morte di Ivàn Il’íč. Avvertire come ogni singola frase del racconto, ogni snodo, ogni dialogo, ogni personaggio compongano un emblema complessivo della condizione umana, ma senza intenzioni edificanti. Avere anzi l’impressione che, a coglierne tutte le implicazioni (ma dopo quante letture?), la coscienza di un lettore autentico non possa non comprendere qualcosa di necessario e terribile e trarne le inevitabili conseguenze. Ma comprendere cosa? Probabilmente che la morte eccede ogni elaborazione concettuale e ogni espressione linguistica. Probabilmente che anche un racconto perfetto, come quello che abbiamo sotto gli occhi, può arrivare sino a una soglia, farsi massa critica della soglia stessa ma non può riuscire a superarla. Ivàn Il’íč è vivo, fino al punto conclusivo del racconto. Poi comincia l’oltre della pagina bianca. Può la letteratura, può l’arte sottrarsi ai suoi stessi principi costitutivi? Per natura la rappresentazione non può accedere all’Irrappresentabile: deve accontentarsi di emblemi, metafore, finzioni. È come se il racconto avesse due lati, uno aperto verso la vita (e il morire che le è connesso) e uno verso la morte. Il primo brulica di parole, speranze, intenzioni, dolore, inconcludenza, successi, rimpianti. Il secondo è privo di immagini, di parole, di pensieri, eppure la sua semplice evocazione basta a mettere in scacco le pretese di autenticità del primo. Eppure, direbbe Vladimir Jankélévitch, “è la morte a dar senso alla vita, proprio sottraendole tale senso. Essa è il non-senso che dà un senso negando questo senso”.

9
Le prugne francesi, “crude e grinzose” dell’infanzia di Ivàn Il’íč. Verrebbe da associare quel ricordo al professor Isak Borg, al posto delle fragole e all’ultima sequenza dell’omonimo film di Ingmar Bergman. L’infanzia come radice di tutte le possibilità. E aggiungo: non di ciò che è dolce ma di ciò che è acerbo sono fatte le promesse dell’infanzia. La fresca asprezza di un frutto come nucleo originario di tutte le promesse destinate a fallire.

10
I quattro movimenti musicali di questo racconto. L’esordio con la notizia della morte e le esequie. Il riepilogo della tranquilla e convenzionale vita del nostro eroe. L’insorgere dei sintomi della malattia e la progressiva consapevolezza della fondamentale finzione dell’esistenza. E infine: i tre giorni (con evidente corrispondenza cristologica) dell’agonia.
Il suono di questa agonia è un ululato ininterrotto. Questo suono sgretola le strutture del linguaggio e dei suoi significati, è il correlativo fisico (ma di segno opposto) della voce interiore che ha interrogato Ivàn Il’íč nelle ultime settimane della sua malattia, smontandone convinzioni e illusioni. Dentro all’urlo dell’uomo parole e intenzioni si deformano (“Voleva ancora dire «perdonami» [in russo: prostì], ma disse «lascia andare» [in russo: propustì]”), subiscono una torsione dentro la quale non è escluso che sia nascosta la vera natura del linguaggio. Questo urlo è quanto di più lucido e vitale e sconveniente il malato possa compiere. È sconveniente perché non lascia in pace gli altri abitanti della casa, ne turba il decoro; è necessario perché guida il morente a una nuova e decisiva consapevolezza. Doppio è il viatico a questa consapevolezza: prima, la visione del figlio, disperato e inerme di fronte al dolore del padre, di quel figlio così simile a lui da adolescente. E poi, quell’ È finita, pronunciato da qualcuno sopra di lui, che dà luogo all’ultimo malinteso: quell’ È finita la morte, la morte non esiste, che Ivàn Il’íč pronuncia dentro di sé. Malinteso benefico, ma pur sempre malinteso, a conferma dell’inadeguatezza di quel linguaggio che è pure l’unico modo che l’individuo ha per testimoniare la sua presenza e la sua giustificazione al mondo.

11
Si possono portare alcune visioni verso estreme conseguenze. “È come una vita tra le quinte” scrive Franz Kafka in un frammento. E poi evoca la possibilità di un’evasione, attraverso fondali e attrezzi di scena, fino al vicolo adiacente al teatro “stretto, umido, buio”: il Vicolo del Teatro, appunto. Esso è reale e ha “tutte le profondità del vero”. Eppure, si può notare, esso è talmente vicino al Teatro da portarne ancora il nome. E chi ci può assicurare, aggiungo, che dal teatro non si sia evasi verso una finzione ancora più reale? O che dal vicolo non si possa evadere verso un’altra realtà ancora più profonda e da questa verso un’altra ancora?

12
Vi dovrebbe essere un quinto movimento, da qualche parte, oltre il punto finale del racconto. Ma già l’espressione “da qualche parte” risulta incongrua rispetto alla morte intesa come alterità assoluta e irrappresentabile. Bisognerebbe immaginarlo come il silenzio, mai udito da alcuno, che sovrasta una terra di nessuno dopo la furia del combattimento. Ma anche questa è solo una metafora.

Testo di riferimento utilizzato: Lev Tolstòj, La morte Ivàn Il’íč e altri racconti, a cura di Igor Sibaldi, Mondadori, Milano, 1999.
Altri autori citati
Witold Gombrowicz, Ferdydurke, a cura di F. M. Cataluccio, trad. I. Salvatori e M. Mari, Il Saggiatore, Milano 2020
Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, trad. Simona Vigezzi, Rizzoli, Milano 1978
Vladimir Jankélévitch, Pensare la morte?, a cura di Enrica Lisciani-Petrini, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995
Franz Kafka, Frammenti e scritti vari, trad. Italo A. Chiusano e Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1989

Le regioni del sottosuolo

Il tema del sottosuolo può essere declinato in senso lato o in senso stretto, se si considera, nel secondo caso, questa espressione di paternità dostoevskiana. Un’indagine del sottosuolo, come qualcosa che eccede la razionalità, o la precede nel vasto mondo del prerazionale, è sicuramente stata un’esigenza primaria dell’essere umano.
Nell’Apologia di Socrate, una delle accuse mossa per imbastire il processo è proprio quella che riguarda l’insegnamento del maestro: egli parla di «ciò che sta per aria e ciò che è sottoterra». A cosa alludeva in questo passo il discepolo Platone? Probabilmente a un territorio che i filosofi dell’antichità hanno dissodato ma non scoperchiato per giungere alle radici. Un mondo che comprende la contraddizione, l’irrazionale, quelle eccedenze che secondo Emil Cioran caratterizzano l’essenza dell’uomo del sottosuolo: «Un uomo che si distrugge non per una carenza ma per una sorta di pienezza pericolosa». Un territorio che è abitato dalle creature forse più estreme che uno scrittore abbia mai potuto creare: gli uomini del sottosuolo dostoevskiano sono le più vivide rappresentazioni del nichilismo della perversione e della malvagità. Una propensione che valse a Dostoevskij, da parte del critico Ivanov, l’etichetta di “talento crudele”, più di ogni altro predecessore russo o europeo.
Partiamo dal big bang dell’uomo moderno: Dostoevskij scrisse le Memorie dal sottosuolo nel 1864. È un romanzo in cui un uomo inizia a narrare di sé, delle sue idee, del perché è comparso e doveva comparire in seno alla nostra società. Tutto inizia con un richiamo alla malattia fisica, un male al fegato che è già preludio di un morbo esistenziale:

«Io sono un uomo malato… astioso. Sono un uomo malvagio. Credo di essere malato di fegato. Del resto, non ne so un accidenti della mia malattia e non so neppure esattamente cosa mi faccia male».

Dostoevskij ritrae in questo romanzo il prototipo dell’uomo irrazionale, cioè l’uomo che rinuncia alla ragione per affondare nelle profondità più abiette e deteriori dell’animo umano. Il personaggio è un impiegato della complessa e schiacciante burocrazia russa, un automa del sistema che spesso rimaneva frustrato e chiuso nel proprio ambiente, privo di qualsiasi speranza di mobilità. Si trattava di un sistema molto gerarchico, ogni uomo era inserito in una precisa casella, al di sopra della quale stava una casella superiore e così a salire fino ad arrivare ai massimi vertici; l’uomo che ha vissuto una vita dentro questo meccanismo, all’improvviso attua una sorta di ruminazione interiore che lo porta a snocciolare – nella prima parte del romanzo – una confessione interiore, una ìcherzalung (un racconto in prima persona) della sua crisi interiore: egli si presenta come essere abietto, immorale, astioso, malvagio. Si diverte a scapricciare su fantasie sadiche di rivalsa nei confronti dei colleghi e al contempo si abbassa a idee masochistiche di autoflagellazione. È un uomo malmostoso, livoroso, pieno di tic, di paranoie – oggi diremmo – che si perde nei meandri della sua stessa abiezione.
In una delle prime pagine, dice: «Quanto più avevo coscienza del bene o di tutto questo bello e sublime, tanto più a fondo m’immergevo nel mio brago e tanto ero bravissimo a immischiarmici fino alla testa». Seguono i veri e propri ricordi, relativi ad avvenimenti della sua vita. Dalla confessione in prima persona si passa, nella seconda parte, una narrazione a ritroso di memorie vissute. L’elucubrazione, esacerbata dai consueti eccessi verbali e dalle tipiche manifestazioni nervose dei personaggi iperrazionali di Dostoevskij, viene trasferita sul piano dell’azione in un movimento parossistico di perversioni volte a dimostrare che il male è anche materiale, vivo, agito.
Dopo una notte trascorsa a stordirsi tra la neve fradicia e sudicia di Pietroburgo, si trova a fianco di Liza, una giovane prostituta, e contro di lei inizia un gioco perverso in cui sadicamente si diverte a “rovesciarle l’anima”. Alterna analisi impietose del suo status di perduta a sogni di fantasticherie e rivalsa, in cui lui si erge a giudice, aguzzino, mentre le scava la fossa dell’umiliazione e della vergogna. Liza si attacca a questo sogno scorgendo una pietà, un’autenticità verbosa ma che nel suo cuore già ferito fa velocemente breccia.
Tuttavia, l’uomo del sottosuolo, disabituato alla ‘vita viva’, può soltanto realizzarsi nell’annientamento del sogno di rivalsa e di resurrezione di una poverina gettata al mondo per soffrire:

«Anche nelle mie fantasie del sottosuolo non mi figuravo l’amore se non come una lotta che cominciasse sempre dall’odio e finisse col totale assoggettamento morale e poi però non sapevo che farmene di un oggetto assoggettato. E cosa c’è di inverosimile allora se io ero già arrivato a una simile perversione morale, se m’ero già così disabituato alla vita viva che avevo pensato bene di deplorare e svergognare Liza».

A tagliare, come un rasoio, le due dimensioni – la confessione demoniaca e l’azione abietta – è la teoria del crollo dell’impianto razionale che è sintetizzata nella contro-formula matematica due per due fa cinque. Ecco, questo impianto razionale che Dostoevskij chiama il muro, l’uomo del sottosuolo lo vuole infrangere con tutta la sua potenza distruttiva ed eversiva. Chiaramente dentro questa formula è compresa la rappresentazione utopistica della società socialista. Secondo Dostoevskij, tale configurazione imbriglierebbe l’uomo all’interno di formule precostituite come quelle della felicità a prezzo della libertà, l’uniformità dell’ essere umano rinchiuso nel falansterio – tipica costruzione di stampo socialista, precursore del casermone sovietico.
Stipare l’uomo dentro questi edifici, siano essi fisici siano essi morali, è una violenza contro la sua libertà e contro il suo diritto di vivere secondo l’impulso vitale, irriducibile, la vera vita:

«Che gusto c’è di volere sulla base di una tabella aritmetica? Ma c’è di più: si trasformerebbe subito da uomo in uno spinotto d’organo o in qualcosa del genere. Perché l’uomo senza desideri, senza volontà, e senza possibilità di scelta cos’è se non appunto il tasto di una tastiera?».

Per l’uomo del sottosuolo le tenebre, l’irrazionale, il caos e la maledizione sono spazi da preservare e se si pretende di soffocarli con la razionalità, il castello crollerà e l’uomo diventerà pazzo per affermare sé stesso. Per questo motivo egli è il prototipo degli uomini in rivolta, di quei demonî della ragione che saranno anche Ivan Karamazov e Kirillov dei Demonî.

Le “ragioni” del sottosuolo

La genesi di questo romanzo ha un richiamo al vissuto dell’autore russo; in quel periodo Dostoevskij sta al capezzale della moglie moribonda e nonostante tutto è interamente assorbito dal compito di terminare questa pur lacerante scrittura. Legge il testo di Černyševskij Che fare? (Schto delath?), un pamphlet che veicolava le idee socialiste in Russia e che sarebbe diventato ben preso una sorta di Bibbia per i nuovi credenti del cambiamento politico e della rivoluzione. In questo preciso momento, Dostoevskij partorisce l’idea dell’uomo del sottosuolo, un uomo malato, vissuto per 40 anni come un topo nel suo sotterraneo, che ha covato rabbia frustrazione odio, e che ora è pronto a confessarsi di fronte a tutti: rifiuta la legge naturale, i dati delle scienze, la matematica.
Un uomo che è nato sotto il rigoglio del razionalismo occidentale ma che si scaglia ardentemente contro le costruzioni ottimistiche, utilitaristiche che questo mondo prospetta. Rifiuta il progetto socialista della costruzione di una società felice a prezzo della vita vera, rifiuta il falansterio, il palazzo di cristallo, pur di non abdicare all’essenza del sottosuolo: la contraddizione.
Un particolare tipo di contraddizione, condita dal veleno di desideri insoddisfatti: noia, inerzia, desiderio di umiliare ed essere umiliati. L’uomo del sottosuolo è insomma un coacervo di sentimenti irragionevoli, di visioni di vendetta miste a pentimenti, capace di pensarsi come un insetto, un topo, un essere abietto e subito dopo un illuminato al di sopra dei suoi simili che considera filistei e meschini.
Egli è differente dagli altri perché differito (in sé stesso) nei sentimenti, per eccedenza di coscienza: «Sentivo continuamente in me una quantità di elementi i più contrari a questo, li sentivo ribollire in me, questi elementi contrari».

«Allora signori, non è il caso, una buona volta, di prendere a calci tutta questa ragionevolezza, di mandarla in frantumi, unicamente con lo scopo di mandare al diavolo i logaritmi e di tornare a vivere secondo la nostra stupida volontà? […] Voi m’accusate signori, d’aver filosofeggiato: per forza, quarant’anni di sottosuolo! Permettetemi di fantasticare un po’. Vedete: la razionalità , signori, è una bella cosa, non si discute, ma la razionalità è solo la razionalità e soddisfa solo la facoltà ragionativa dell’uomo e il “volere” è l’espressione di tutta la vita, cioè di tutta la vita umana che comprende la ragione, ma anche tutti i veri capricci. E sebbene la nostra vita in questa manifestazione risulti il più delle volte una porcheria, è comunque vita e non solo l’estrazione di una radice quadrata. È del tutto naturale, per esempio, che io voglia vivere per soddisfare le mie capacità di vivere e non per soddisfare solo la mia capacità ragionativa, cioè qualcosa come un ventesimo della mia intera capacità di vivere […] io ribatto per l’ennesima volta che c’è un solo caso, solo uno in cui l’uomo può intenzionalmente, consapevolmente desiderare per sé qualcosa di dannoso, o di stupido, o addirittura di assolutamente insensato e proprio per avere il diritto di desiderare per sé anche la cosa più insensata e non essere vincolato dall’obbligo di desiderare solo ciò che è intelligente. […] Alcuni sostengono che si tratta del bene più prezioso per l’uomo: la libera scelta».

Qui ritorna chiaramente la grande lezione di Berdjajev, profondissimo e acuto analista del rapporto tra libertà e male in Dostoevskij: il male è inesplicabile senza la libertà. Questa idea pone al centro un’antinomia: senza la libertà, il responsabile del male sarebbe Dio. Ma la libertà è irrazionale e perciò può creare sia il bene che il male; gli uomini del sottosuolo sembrano lottare strenuamente contro questo peso, per scrollarselo di dosso; in prima istanza attraverso la negazione di Dio: impossibile non citare le due celebri formulazioni dell’ateismo dostoevskiano, quella di Ivan Karamazov, di cui però egli pronuncia solo la seconda parte, lasciando completare la prima parte a noi ascoltatori, a noi lettori. lvan la pronuncia nel suo dialogo con il diavolo: «(se dio non c’è)… tutto è permesso», riproposto nell’altra celebre formula, questa volta pronunciata da Kirillov nel romanzo I demonî: «O io o Dio».
Ancora, nella Leggenda del grande Inquisitore, straordinaria vetta di letteratura contenuta nel romanzo I fratelli Karamazov, è lo stesso popolo, incapace della libertà originaria, a mandare al rogo Cristo, uccidendolo per la seconda volta.
In seconda istanza aggiunge Berdjajev: «La via della libertà trapassa in arbitrio, arbitrio porta al male, il male al delitto».
L’omicidio è figlio della libertà e Dostoevskij ne è stato un potentissimo fisiologo descrivendone i prodromi, le intenzioni, le macchinazioni interiori, quelle esteriori, le dinamiche, le conseguenze. Ma oltre alla psicologia del delitto così sminuzzata nel particolare, Dostoevskij ha analizzato le implicazioni metafisiche di questa azione, ravvisando in essa l’oltrepassamento di un limite morale che degenera in omicidio ontologico, distruzione di un’unità inalienabile che è la persona, l’altro.

«E se un mistero c’è, allora anche noi abbiamo il diritto di predicare il mistero e d’insegnare agli uomini che la non libera decisione dei loro cuori è ciò che importa, e non l’amore, ma il mistero, al quale essi hanno l’obbligo di assoggettarsi ciecamente, e addirittura indipendentemente dalla loro coscienza. E appunto così abbiamo fatto noi. Noi abbiamo emendato le Tue gesta abbiamo dato loro per fondamento il miracolo il mistero e l’autorità. E gli uomini si sono rallegrati che di nuovo li conducessero come un gregge e che dai loro cuori fosse stato tolto finalmente, un dono tanto tremendo, che aveva arrecato loro tanto danno. […] a che dunque sei venuto qui a darci impaccio? E che vuoi tu, che in silenzio e intensamente sei venuto ora qui a darci impaccio? Ascoltalo dunque: noi non siamo con te, siamo con lui: ecco il nostro segreto».

Un passaggio che indica inequivocabilmente la sua appartenenza alle regioni del sottosuolo: il brano infatti riprende, quasi identiche, le parole dell’uomo del sottosuolo quando questi rifiuta il palazzo di cristallo. Qui, il grande inquisitore se ne fa portavoce ma per ribadire la tesi contraria, che all’uomo basta la felicità terrena, materiale, tentazione che Cristo rifiutò nel deserto: «Perché tu rifiutasti questo terzo dono? Tu avresti realizzato in pieno tutto ciò che l’uomo cerca su questa terra e cioè: dinanzi a chi genuflettersi, a chi affidare la propria coscienza, e in che modo, infine riunirsi in un indiscusso, comune e concorde formicaio, giacché l’esigenza di un’ unione universale è il terzo e ultimo assillo degli uomini».

Forme del Male

Il male del sottosuolo, insomma si staglia su due piani: quello meramente di idea (gli uomini del sottosuolo agiscono nel male partendo come Raskol’nikov da un’idea da un rovello filosofico che loro percepiscono come intera essenza della loro vita), e poi quello di azione, del male agito e performato.
Luigi Pareyson in Filosofia romanzo ed esperienza religiosa, fa un’ampia disamina dei casi di coscienza e dei personaggi del male che animano le pagine dostoevskiane suddividendole in categorie tipologiche: la ribellione, sottoforma di titanismo e amoralismo; la perversione, sottoforma di profanazione e crudeltà, l’abiezione e distruzione di sé.
Per quanto riguarda la prima categoria si potrebbe eleggere a rappresentante per eccellenza Raskol’nikov; il male come trasgressione della norma, di una hybris, questo è il caso specifico del personaggio di Delitto e castigo. Il suo ribellismo, che è incarnato nello stesso nome Raskol’ – che in russo significa scisma – si alimenta proprio della scissione, dello sdoppiamento.
Un chiaro segno del suo sdoppiamento viene trasposto in Dostoevskij nella dimensione onirica: un bellissimo passo in cui Raskol’nikov sogna una cavallina che viene uccisa a frustate e in cui chiaramente sublima il suo desiderio interno di pentimento che, va ricordato, non avverrà mai sul piano razionale.
In questa medesima categoria rientra il teorico della ribellione Ivan Karamazov che si inventa un vero e proprio trattato per spiegare al fratello Alësa le ragioni del suo ateismo: narra una serie di episodi in cui i bambini vengono sottoposti a violenze inaudite. Sono scene che fanno da sottofondo al dilemma di Ivan: la sofferenza anche di un solo innocente, le lacrime miti inoffensive di una bambina che si batte il petto con il suo minuscolo pugno, invocando il buon Dio perché l’aiuti, non valgono, secondo il fratello ateo, il prezzo dell’armonia universale e pertanto egli restituisce il biglietto, rifiutando di aderire al progetto divino.
Nessun personaggio incarna meglio la perversione come Nikolaj Stavroghin, il principe che inaugura le pagine più intense e crude del romanzo I demonî. Questo romanzo è imperniato sui giovani della generazione degli anni ‘60, i nichilisti e i nečaeviani, i rivoluzionari che assorbirono le idee socialiste e su quelle fondarono il progetto di un uomo nuovo, libero dai legacci della fede e del regime zarista. Stavroghin può essere considerato la mente, il primus inter pares di questa combriccola di facinorosi.
Pareyson considera Stavroghin l’uomo della dissoluzione e della disgregazione interiore, in cui ancora una volta lo sdoppiamento degenera in distruzione e culmina con la distruzione di sé e di tutti quelli che vengono a contatto con lui. Così Dostoevskij lo descrive nei taccuini: «Carattere cupo, appassionato, demoniaco, disordinato, senza misura. Si pone il problema: essere o non essere? Vivere o distruggersi».
Chiaramente Stavroghin sceglie la seconda: l’azione che incarna la sua dissoluzione nichilista è lo stupro di una bambina. Vale la pena di aprire una parentesi: il bambino innocente e inerme è al centro della metafisica dostoevskiana e diventa la pietra di volta dell’impianto morale. Il bambi-no sofferente, in particolare, quello incolpevole la cui uccisione non può far parte dell’ordinamento morale di un mondo che Ivan rifiuta e che non vuole accettare. I bambini, dice Dostoevskij, sono l’immagine di Cristo, violentare e ucciderne uno significa allora profanare alla radice l’immagine luminosa di libertà che è lo stesso fondamento della vita umana.
Il risultato di questo atto, che con una serie di rimandi iconografici e simbolici Dostoevskij accomuna alla profanazione delle icone, è l’autodistruzione. La confessione di Stavroghin alla cella di Tichon ne I demonî è un’autoaccusa impietosa, una condanna a morte che il principe delle tenebre firma con la sua coscienza. Le parole che scandisce sono l’epitaffio della sua esistenza, morto dentro prima che la morte effettiva faccia il resto.
Dopo, è solo annientamento, Il Principe s’impicca, sigillando con un suicidio che nulla ha a che fare con quello di Kirillov scaturito dalle aporie della ragione di fronte alla fede. Stavroghin, oltre Sisifo, è l’uomo dell’oltre soglia, il primo Übermensch. Altrimenti, il primo testimone della morte di dio.

Riferimenti bibliografici
Dostoevskij, F.M. Delitto e castigo, Einaudi, Torino 1993
Dostoevskij, F.M. I demonî, Einaudi, Torino 1994
Dostoevskij, F.M. Memorie dal sottosuolo, Rizzoli, Milano 2001
Berdjajev, N., La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 1981
Pareyson, L., Dostoevskij: Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993
Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1992
Vjačeslav, I., Dostoevskij. Tragedia, mito mistica, Il Mulino, Bologna 1994

La morte di Ivan Il’ič

Nel 1859, Tolstoi comunicò in una lettera la sua idea di un racconto, che scrisse e nell’anno stesso pubblicò: I tre morti. L’idea era questa: muoiono tre esseri viventi: una signora, un contadino e un albero. La morte della signora è “misera e ripugnante perché ha mentito tutta la vita”. Il contadino muore tranquillamente “proprio perché non è cristiano”: anche se per abitudine compie riti cristiani, la sua religione è la natura con cui vive: quella legge della vita, della nascita e della morte che la signora non conosce. L’albero infine muore in modo tranquillo e magnifico, “perché non mente, non finge, non teme, non si duole”. Questa semplice idea, potrebbe già farci entrare nel mondo della vita poetica e anche morale e religiosa, e persino politica di T. In tema di religione, ad esempio, riguardo al drammatico contrasto tolstoiano, che gli segnerà la vita e l’arte, tra natura “pagana” e cristianesimo radicale; o anche in merito alla scissione tra felice e spontanea creatività artistica, da “divinità” figlia della natura, e rattrappimento creativo di crisi morale e moralistica. Th. Mann ha scritto su questo cose bellissime, in un saggio dei primi anni ’20, Goethe e Tolstoj; e sempre intorno a questo tema molte cose s’imparano nell’imponente libro, documentato e a volte fine, sebbene discutibile perché troppo sbilanciato, rispetto a Tolstoj, dal lato di Dostojevskij, di D’mitri Merezkovskij.
Ma, nel caso di I.I. la religione non entra quasi per nulla, né vi entra il pauperismo e l’ansia di riforme economiche e sociali. O forse, a dir meglio, tutti questi temi possono essere recuperati nel tema originario della verità e della menzogna. Tutto ciò che corrompe la vita, la coerenza di sé, la freschezza autentica della pacifica e fraterna armonia sociale, è menzogna. E, com’è evidente, la massima menzogna è quella verso se stessi, circa la propria vita, quale si rivela in prossimità della morte. La signora che muore misera e ripugnante ha sempre mentito. Anche I.I. ha sempre mentito a se stesso, e questo, ancor più che i tremendi dolori fisici di cui soffre, è la devastante causa del suo angosciato terrore della morte, come un atto di verità che intervenga in un mondo di falsità. Ma come si mente? Tostoj non fa differenze tra le grandi menzogne politiche militari sociali proprietarie (le grandi ricchezze terriere di cui voleva e seppe disfarsi), e le piccole menzogne borghesi, sempre a tutti abituali. Un eccesso moralistico, forse, se non fosse che la grande arte narrativa di T. sa calarsi, senza preconcetti ideologici, con estrema aderenza alle figure e soprattutto ai corpi dei protagonisti, nell’ambiente sociale della loro vita pubblica e privata, da rendere leggera la menzogna, persino impalpabile, quasi risolta nelle convenienze professionali e sociali, nell’essere, secondo quanto la (scelta) cerchia di persone che si frequenta si aspetta da noi – comme il faut.
Anche per questo, il dubbio capitale di I. I. – “che forse io non sia vissuto come si dovrebbe – incontra in lui tanta ostinata resistenza: “Ma come si può dire mai una cosa simile, se io ho agito sempre in perfetta regola”. E immediatamente respinse, commenta Tolstoj, “quell’unica risoluzione di tutto l’enimma della vita e della morte, come una completa assurdità”. Ma allora, di nuovo, perché, “a che scopo, tutto questo orrore?» E poiché la risposta tornava a essere sempre la stessa: l’idea di non aver vissuto come si doveva, immediatamente la scacciava, richiamandosi innanzi l’irreprensibile correttezza della sua vita (420-21). Eppure, segni premonitori non erano mancati. Fin dall’insorgere della malattia, alla prima visita medica, I.I. nota una stretta parentela tra il suo comportamento di giudice in tribunale e quello dei medici: “sussiego affettato e dottorale”, domande e risposte scontate e inutili, ipotesi e probabilità ed esami, condiscendenza di chi dica: tranquillo, sappiamo noi proprio tutto, senza mai dare una risposta all’”oziosa domanda” sulla gravità della malattia. Proprio come accadeva a lui in tribunale, quando si “metteva una certa maschera di fronte agl’imputati” (394). In tribunale, I.I. aveva molte e riconosciute qualità, ma specialmente l’abilità di tener separati nel modo più rigoroso, l’ufficio e la vita degli interessati, escludendo del tutto “quel non so che di grezzo, di aderente alla vita che sempre impedisce il retto corso degli affari d’ufficio”, tutto ciò che non potesse venir espresso legalmente, su un “foglio con tanto d’intestazione”, riempito con formule di precisa burocrazia. (390-91).
Intorno a sé, Ivan respira finzioni; il suo “più gran tormento è ora la menzogna” sulle sue condizioni. Lo invitavano, i medici e i familiari, a star calmo e a curarsi, così sarebbe guarito, senza dirgli mai che sarebbe presto morto tra dolori strazianti. E il peggio era che, in questo cumulo di menzogne, facevano tanto da costringere lui stesso a prendervi parte, abbassando il solenne atto della morte a farmaci e diete. Né aveva forza di dire: smettetela con queste bugie. Una trama di finzione e di convenzione è con leggerezza sospesa sul racconto, che su questo, e fin dall’inizio, è mirabilmente strutturato. La notizia della sua morte, che colleghi e amici (uno, in particolare) avrebbero appreso dal giornale. Era, vi si sarebbe detto, amato da tutti; ma i primi e insopprimibili pensieri sarebbero stati sul posto che si “libera”, sui possibili avanzamenti di carriera e sulle retribuzioni che ne derivano: 800 rubli d’aumento, più l’indennità di cancelleria. E poi, la noia della visita, delle condoglianze e del funerale, i “noiosissimi doveri di convenienza”. La casa lontana, come vestirsi, come comportarsi, il penoso e insieme divertente colloquio di Pjotr con sua moglie, la vedova, informatissima di tutto, eppure ancor avida di spillar più soldi di pensione allo stato. E sempre con un “certo senso di gioia”: “è toccata a lui, e non a me”; e i segni, le parole sussurrate per accordarsi sulla partita serale a carte.
Dopo questo prologo, la fine in forma d’inizio, il racconto di Tolstoj narra la vita di I.I. Sono sette o otto pagine, ma di straordinaria intensità, ricche di penetranti osservazioni psicologiche e di felici aperture sul mondo privato: la famiglia e l’ambiente, gli studi e la carriera, la casualità del matrimonio, la precoce infelicità coniugale (un campo dove Tolstoj è maestro), i particolari sull’arredamento della casa, che è causa del primo malore di I.I. La narrazione è costantemente sottesa, come un basso continuo, da alcuni aggettivi sul modo di I.I. di concepire la vita: leggera, lieta, piacevole, corretta, approvata (dai superiori e dalla buona società); distinta, elegante – e insomma comme il faut. E quando si arriva al buio straziante e indicibile, alla solitudine astiosa, assillata da domande senza risposta della malattia terminale, altri aggettivi sottendono il discorso. Merezkovskij nota, a proposito dell’eccezionale capacità di Tolstoj di calarsi nella realtà del corpo, gli aggettivi, nessuno superfluo, per descrivere la sofferenza e il dolore di I.I. : noto, vecchio, sordo, rodente, ostinato, silenzioso, grave.
Ma, nella più atroce, interminabile solitudine, ecco che si apre la luce di Gheràsim, il giovane pulito fresco allegro leggero abile (altri aggettivi) che assiste I.I. G. si occupa, con partecipe discrezione, dei più naturali bisogni di I.I. e gli tiene per ore le gambe alzate, per un’impressione di sollievo. Ma soprattutto G. è la sola persona che non ferisca d’invidia: è puro calore umano, capacità di comprendere le stagioni della vita, la legge umana della natura; esprime ciò che è più caro a T.: i contadini russi, semplici, vigorosi, attivi, saggi. Una lezione per la buona morte, questa necessità di essere accuditi, anche da estranei (e forse solo da essi), con discrezione e accettazione aperta della morte, di essere anche vezzeggiati e accarezzati (cosa di cui I.I. sente gran bisogno). Un servizio che si rende volentieri, nella speranza che altri faranno la stessa cosa per noi, quando sarà il momento. Credo, che G. costituisca la vera svolta nel riscatto dalla menzogna e nella serena accettazione della morte di I.I.. Dopo lo strazio urlato per i tre giorni dell’agonia, c’è la risoluzione finale, avvenuta in pochi attimi. Al posto della sofferenza e del terrore, arriva la luce e la pace. La sua vita, sì, era stata fuori strada, ma ora, se non si poteva più parlare, si poteva ancora agire, preoccupandosi che gli altri non soffrissero, e “godendo”, con “esultanza” della liberazione. Dove è finito il dolore, dov’è la morte, quale morte? “Che esultanza!”. Essa, la morte non c’è più.
La morte prende senso dalle vita (fino ai suoi ultimi istanti) ed è essa stessa vita: la (buona) idea della morte è un “passaggio obbligato al sapere, alla salute e alla vita”. Lo dice Th. Mann, nella conferenza sulla Montagna incantata che nel 1939 tenne agli studenti dell’università di Princeton; e sarebbe istruttivo un confronto tra questo grande libro (i medici, la malattia, la morte) e il racconto di Tolstoi, un autore che Mann tanto amava e ammirava. “Possiamo togliere la morte o il dolore o il male dal tessuto della vita?” – si chiedeva l’ultimo Croce della riflessione sulla vitalità. Si toglierebbe la “vita stessa”. E, ancora in queste pagine crociane, leggiamo che “senza dubbio, il benessere, nel chiuso e ingenuo suo egoismo, è il male in tutte le sue conseguenze, anche le più terrificanti”. Questa è l’esatta diagnosi del male o della menzogna che opprime I.I., e di cui alla fine riesce a liberarsi.
Parlare della morte è facile e insieme tremendamente difficile. Alla fine, non si sa proprio cosa dire. Paul Ricoeur ha scritto un bellissimo libretto, all’origine una voce d’enciclopedia, intitolato Il male, tradotto anche in italiano dalla Morcelliana agli inizi degli anni ’90. Sul male e sulla morte, vi si sostiene, appunto, non c’è presso che nulla da dire. Magistralmente, Ricoeur ripercorre le soluzioni tentate dalla filosofia e dalla teologia, e vi riconosce molti insegnamenti, ma nulla sul punto decisivo, quello che giustamente I.I. voleva conoscere. I.I. insegna che molto si può fare e dire finché c’è vita, prima del silenzio. Il problema è allora quello che si può fare per vivere pienamente finché si può e, certo, pensare anche alla morte, ma fuor di ogni ossessione, come in Heiddeger. E sperare in una buona morte, senza troppi dolori, e, soprattutto, senza menzogne e sensi di colpa. Sperare insomma di morire un po’ come accade, negli ultimi istanti, a I.I.