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Ciò che viene dalle stelle. Tentativi di recupero del desiderio.

di Zoe Cocco

 

Desiderio. Cosa significa? Che cos’è? Cosa vuol dire desiderare? Quello che desidero è il frutto di un’influenza esterna oppure no? È giusto desiderare? Cosa si può desiderare? Cosa non si può?

In classe con gli studenti capita spesso di affrontare queste domande.

Ancor più spesso si sente parlare di desiderio al bar, al centro commerciale, dall’estetista.

Anche in biblioteca, negli occhi dei “cercatori di libri”, si percepisce desiderio.

Infine noi stessi, nel nostro piccolo e sconfinato mondo personale, ci ritroviamo a fare i conti con il desiderio.

Un termine che rimanda ad un’alterità irraggiungibile (de-sidus, ciò che viene dalle stelle) che tuttavia funge da motore della nostra agentività, della nostra forza di agire nel mondo. Leggendo il libro di Valeria Bizzari si comprende quanto sia necessario “SOstare nei desideri”.

L’utilizzo del plurale non è casuale poiché il termine oltre a rappresentare l’Altro, ad essere espressione di una mancanza incolmabile, si presenta anche come pluralità poiché la costante assenza fa si che vi sia un continuo spostamento del desiderio  da un oggetto ad un altro, da un soggetto ad un altro.

Ma questo pluralismo si evidenzia ancora di più, si fa da bidimensionale a tridimensionale, giacché non solo il desiderio si sposta da un oggetto ad un altro, ma può assumere nature le più diverse: desiderio amoroso, desiderio di conoscenza, persino desiderio di aspetti che suscitano disgusto, desiderio come slancio creativo e resistenza all’omologazione. Tutte queste declinazioni di desiderio presentano a loro volta sfaccettature diverse per cui non è del tutto sbagliato immaginare un io immerso in un mare di desideri.

Quindi un libro sulla storia del pensiero filosofico sul desiderio? No. Tutt’altro. Una riflessione sull’oggi. Sull’importanza di accettare tutte queste alterità e di sostare dentro tutte queste alterità; di imparare ad ascoltare i nostri desideri per evitare di “cadere nei pericoli del desiderio”. Perché sì, si potrebbe incappare nel “desiderio di piacere”, quello che fagocita il Don Giovanni di Mozart o ancora nella probabilità, non remota al giorno d’oggi, di ritrovarsi a desiderare qualcosa che l’io non desidera affatto. In questo il pensiero capitalista prima e i media e i social a seguire l’hanno fatta da padrone, proponendo un menù molto invitante di “oggetti da desiderare”. Hanno fatto di più. Hanno trasformato i soggetti in oggetti: i corpi sono stati oggettivizzati e l’ocularcentrismo – che da Aristotele in poi ha caratterizzato la storia dell’Occidente – ha fatto il resto. Tutti, senza porci in uno stato di vulnerabilità (concetto non gradito perché ha sapore di fragilità), possiamo vivere “appieno” le nostre vite seguendo desideri preconfezionati che non ci “scompongano” e che ci creino l’illusione di essere liberi. Eppure, proprio perché non ci scompongono, potrebbero, al contrario, essere dannosi per la costruzione della nostra identità poiché come ci insegna il racconto di Amore e Psiche […] la vita è sostanzialmente vita desiderante e tutta la vita psichica, nel suo crescere […] è fondata sulla forza del desiderio [ quello che ci rende vulnerabili]. Insomma, la psiche umana ed il desiderio nascono insieme (G. Caselli, 2023). Non c’è io, senza desiderio.

C’è poi un punto che va chiarito riguardo ai pericoli del desiderio e al peso delle influenze esterne e mi si conceda una breve parentesi di natura antropologica. Non siamo monadi sparse nell’universo. Siamo persone che vivono sul piano diacronico e sincronico in un determinato tempo e in determinati luoghi e che naturalizzano, fin dalla nascita, atteggiamenti, modi di pensare, modi di agire, modi di desiderare. Non saremo mai scollegati dal mondo che ci circonda e dalle influenze che ci hanno “tirato su”. La domanda allora sorge spontanea: quindi qualsiasi desiderio sarà sempre influenzato, in una certa misura, dall’esterno? La risposta è sì. Ma in quale misura? Sarà possibile sperimentare un desiderio libero?

Una trattazione chiara, coerente, attuale che prendendo le mosse dalla Grecia antica vuole comunicare l’urgenza del recupero del desiderio come pratica etica che non ha nulla a che fare con teorie morali, con la religione e con la virtù. Un’etica coraggiosa che può dipanarsi anche dal peccato.

Una trattazione commovente.

Un libro utile agli insegnanti, utile agli studenti; utile ai frequentatori assidui di “non-luoghi”, ai clienti compulsivi di Amazon e ai fruitori di social. Il che, in buona sostanza, vorrebbe dire tutti noi.

 

Sesso – uno scherzo della natura

di Susi Ferrarello

(California State University – East Bay)

traduzione di Miriam Borgia

tratto dal blog psychologytogay.com

 

“Sesso” – una parola che si trova ovunque e può indicare qualunque cosa.

Pochi giorni fa mi trovavo un bar e ho sentito un ragazzo dire al suo amico “Hmmm…il tuo caffè è proprio sexy”.

Un caffé, sul serio?

Da italiana, rimango sempre colpita dall’uso esteso di questo termine. Ricordo ancora la sensazione di panico che ho provato quando un mio collega l’ha utilizzata durante un mio intervento ad una conferenza: descriveva il mio articolo come “sexy”. Cosa? Ho pensato, arrossendo e sorridendo nervosamente.

Ora lo capisco. Questa parola è oggi sinonimo di tutto ciò che è piccante, intrigante, vitale, dinamico.

 

L’etimologia

Ma se ripercorriamo le sue origini, questa parola così “sexy” è nata in un polveroso ufficio burocratico. “Sex”, dal latino sexus, deriva dal verbo secare, cioè “dividere o tagliare”, ed è correlato a “sezione”, ovvero a ciò che è diviso. Il latino utilizzava questa parola per indicare la qualità dell’essere maschio o femmina per suddividere la popolazione e censirla.

Tuttavia, l’uso contemporaneo di questa parola è piuttosto recente. D. H. Lawrence, nel 1929, fu il primo ad averla utilizzata in tal senso.

1000 modi per dire “ti voglio!”

Quindi, quali sono le parole che i Greci e i Romani utilizzavano per riferirsi all’amore sessuale?

Di certo, i Greci, più che i Romani, non erano a corto di parole quando si trattava di dire “ti amo” o, in questo caso, “ti desidero.”

Il verbo agape indicava un amore spirituale e incondizionato; stergoto indicava l’affetto; phileo, invece, un tipo di amore mentale relativo piuttosto all’amicizia; erao, infine, per l’amore intimo – quel tipo di amore accompagnato dal desiderio passionale.

È così affascinante! Nel mondo greco Eros indica la natura, è quel potere naturale che si impone sull’esistenza umana e ci richiama verso ciò di cui il nostro corpo necessita per stare in armonia con la natura, o meglio per essere un tutt’uno con la Natura.

Un esempio calzante: il satiro

Il satiro, metà umano e metà animale – stando alle descrizioni di Aristofane – era dotato di un’energia sessuale illimitata che cercava di soddisfare in qualunque modo e con “partners”, per così dire, animati e inanimati. Se ti capita di aggirarti in un museo sbadigliando e provato dal dolore alla schiena, osserva meglio i dipinti: sono come una doccia fredda.

Quei vasi erano le riviste per adulti dell’antichità. Piacevano così tanto ai Greci che su uno di questi vasi, custodito a Palermo (V, 651), si può notare un gruppo di satiri che si accoppiano con anfore e persino i vasi stessi. Il filologo Lissarague spiega questa scelta piuttosto discutibile sostenendo che l’anfora del vino era l’accessorio necessario del kōmos (un rituale per bevuta) e del simposio. Vino e sesso sono ciò che rende felice un satiro! Così il famoso detto “Afrodite kai Dionysos met’allelon eisi”, “Afrodite e Dioniso sono insieme”.

Certo, i satiri amavano anche le donne; quest’ultime, però, non ricambiavano affatto (il che spiega le anfore.) Come scriveva MacNally, il rapporto tra satiri e menadi (le seguaci di Dioniso, che erano, per definizione, un po’ eccentriche) iniziò amichevolmente tra il 550 e il 500 a.C., e poi, come molti rapporti amichevoli, “mutò” tra il 500 e il 470, diventando palesemente ostile dopo il 470. Le menadi, secondo Plutarco (Virtuous Women 12.249 sgg.), erano inviolabili – soprattutto, immagino, se si trattava di un branco di mezze capre che si avvicinavano a loro.

Ebbene, nonostante ciò, i satiri non si scoraggiavano: amavano anche gli uomini, naturalmente, e in questo caso avevano più successo. A differenza del resto della società greca, la differenza di età non li preoccupava affatto. Non importava se il ragazzo, l’amato, era più giovane (in effetti, di regola, lo preferivano così). C’è una tazza a Berlino (1964.4) – un’altra “rivista per adulti” – che mostra un gruppo di cinque satiri in piena frenesia erotica.

A loro difesa, i satiri non erano soli in questo desiderio travolgente. C’erano esseri umani che ne condividevano quella fame, e i più noti erano filosofi e poeti: entrambi disprezzavano Eros ma al contempo lo trovavano irresistibile. Nel suo Saggio erotico Pausania chiamava questa raffinata classe di gentiluomini “mostri di appetito”.

Socrate e il sesso

In particolare, la cricca di Socrate e dei suoi seguaci ha avuto molto da dire sull’argomento. Senofonte, il secondo più famoso discepolo di Socrate, racconta una conversazione che il filosofo ebbe con lui su un ragazzo particolarmente sexy. Socrate era irritato con lui perché stava usando la sua bellezza per sfruttare le persone, e per di più il giovane Critobolo, il suo discepolo preferito. Il ragazzo gli aveva infatti rubato un bacio e Socrate ne rimase così “filosoficamente” arrabbiato che lo invitò calorosamente a lasciare la città per un anno. Il suo bacio, borbottò Socrate, era velenoso come il morso di un ragno e ordinò a Senofonte di evitarlo ad ogni costo.

Socrate, d’accordo con Platone e Aristotele, considerava il piacere erotico divertente e necessario, ma occorreva maneggiarlo con cura. Il sesso puro è per le bestie, o per le mezze-bestie – i satiri –. I satiri sono stati inventati proprio per mostrare alla gente quanto fosse strambo un uomo completamente convertito alla natura. La passione bestiale – come scrisse Aristotele, il pensatore super equilibrato che si innamorò perdutamente del virile re Alessandro Magno (Plutarco, Le vite parallele) – è “serva e brutale”.

Il sesso, qualcosa di insidioso

Saffo – poetessa meravigliosa – definiva l’eros una “cosa insidiosa”. Conosceva benissimo l’amore erotico. In Afrodite immortale dalla mente scintillante scriveva:

“Se corre ora, seguirà più tardi, / Se rifiuta i regali, li darà. / Se non ama ora, lo farà presto Amore contro la sua volontà. ”

“Amore contro la sua volontà”. Mi sembra chiaro: ami qualcuno? Aspetta. Nessuno può resistere alla passione di essere amato. L’amore è più forte di qualsiasi cosa. Alcuni secoli dopo in Inferno, V, 103, Dante scriverà “Amor ch’ha nullo amato, amar perdona” aggiungendo, tre righe dopo, “Amor condusse noi ad una morte certa” (v. 106). “L’amore è natura e la natura è morte. Questa è l’equazione. Non puoi resistere alla tua natura, ma in qualche modo devi trovare un modo per farlo.”

La metafora dei due cavalli contenuta nel Fedro di Platone è una sorta di manuale d’istruzione per riuscire in questo tentativo. Per Platone, la nostra vita è sempre guidata da due cavalli, il bianco e nero, corrispondenti alla nostra passione e la nostra ragione. Non possiamo guidare solo uno dei due cavalli, o la nostra traiettoria sarebbe zoppicante. Il nostro compito è trovare il giusto equilibrio, o come diceva Aristotele, “il giusto mezzo”.

“Il desiderio raddoppiato è amore; l’amore raddoppiato è follia”

Come disse Prodico (un sofista del V secolo): “Il desiderio raddoppiato è amore; l’amore raddoppiato è follia”.

L’amore tra animali era ancora considerato “cool”, e l’amore per i vasi era ancora accettabile, ma quando si tratta di donne, attenzione!  Folle, distruttivo, pericoloso. “Il disastro memorabile”, scriveva Esiodo.

Sai qual è stata la punizione degli déi per gli uomini dopo che Prometeo ha dato loro il dono del fuoco, rubato agli immortali? La creazione della donna e dei suoi desideri! Sto ancora ridendo. Penso che questo possa darci un’idea di quanto i Greci fossero terrorizzati dalle donne!

Secondo Esiodo, dopo che Prometeo rubò il fuoco agli déi, Zeus diede inizio alla sua terribile vendetta: la creazione della donna a “somiglianza di una fanciulla timida”. Altri tre déi presero parte al complotto: Atena le insegnò l’arte domestica del ricamo e della tessitura (che noia); Afrodite le diede la persuasione e il potere di suscitare “desiderio crudele e cure divoratrici” (ora inizia a diventare interessante!); alla fine, Hermes, il dio del furto e dell’inganno, le ha dato una “mente da puttana e un carattere ingannevole… bugie e parole astute”.

L’incubo era confezionato. Questa bella creatura spaventosa, questa “trappola pura”, Pandora, fu pensata come l’antenata della “razza delle donne”, la “piaga degli uomini che mangiano il pane” (Esiodo, op. 105-120). Pandora, il prototipo delle donne, è la Natura pura, indomabile e attraente. Esiodo scrive che la sua bellezza sessuale (che ricorda il paradiso perduto) ritorna ogni primavera e che le sue passioni (distruttive come le forze inumane della natura) richiedono la “tecnologia” (sì, questa è la parola che usa!) del matrimonio per controllarla.

Insieme a Pandora c’era Helene, simbolo dell’essenziale ambiguità della donna e della bellezza sessuale divinamente incarnata nella sua protettrice Afrodite, e altrettanto distruttiva quanto la sua. Byron la chiama “l’Eva greca”, la causa della “caduta” della Grecia maschile. Homer la definisce per ben due volte “faccia da stronza”, aggiungendo anche l’onorevole aggettivo di “complotto malvagio”. Come mai? Il suo appetito sessuale non poteva essere facilmente soddisfatto e controllato dagli uomini. A volte succede…

La sua sorellastra, Klytaimestra, era un altro personaggio interessante. Incarnava – come scrive Eschilo (Oresteia) – “l’incessante scempio della passione femminile scatenata che attacca dall’interno degli ordini della famiglia e dello stato”. Era “il leone allevato come un animale domestico in casa… amante dei bambini e gioia per i vecchi”, quando era ancora giovane, ma poi contaminava la casa con il sangue, un “sacerdote della distruzione”, non appena la sua natura selvaggia affiorava.

Ti risparmierò il numero di volte che Homer la chiama “faccia da puttana”. Questa donna, guidata dalla forza più potente della femmina, un’energia sessuale amplificata da un senso di ingiustizia e disonore, ha ucciso la sua rivale Cassandra e il suo sposo Agamenone con un “cuore umano”, scrive Eschilo. Ed è persino più terribile di altre donne perché è una donna-maschio, la combinazione della “mente guidata dalla volontà dell’uomo” e della “passione sessuale della donna” che colludono per portare distruzione e morte.

Forse “la tecnologia del matrimonio” non ha funzionato così bene nel suo caso.

Tuttavia, l’elenco degli esempi spietati del potere erotico femminile è lungo. Mi fermo qui per scoraggiare ulteriori sentimenti misogini.

La parola “sesso” ha percorso una lunga strada, dall’ufficio polveroso dei burocrati assonnati fino al sangue che scorre nelle nostre vene umane.

Un anno di DAD

di Valeria Budassi, studentessa presso il Liceo Scientifico “Nomentano” di Roma

 

Nel mese di Marzo del 2020 è stato bloccato tutto a causa di un virus da molti sottovalutato, ma che ha ingenerato una pandemia ancora oggi in corso. Nessuno sapeva come affrontare la situazione, che ogni giorno si aggravava. Cosa fare? Si decise di chiudere tutto, provocando grande confusione nella vita di ognuno. Intanto la scuola che ha fatto? Questa è riuscita ad andare avanti usando la famosa DaD, la didattica a distanza, di cui tutti parlano ma che in pochi conoscono. Essa consiste nel trasferire le attività scolastiche dalla presenza al remoto, proponendo lezioni in videochiamata, compiti e test da fare su piattaforme online, ecc.

Certo, si è andati avanti, ma la mancanza di ogni contatto fisico, la diffidenza dei professori, il sentirsi all’improvviso sommersi di responsabilità non hanno fatto altro che acuire il vuoto e il senso di solitudine che la nostra generazione già sentiva pressante. Josè Saramago scrisse “la solitudine non è vivere da soli, la solitudine è non essere capaci a fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi”. Possiamo sentirci soli in mezzo a una folla di gente, accanto ad un amico e questo sentimento scaturisce dal non riuscire a sentirsi utile. Del resto un ragazzo come può sentirsi utile se è chiuso all’interno di uno schermo?

La DaD continua ad essere considerata un’arma ottima, la soluzione ad ogni problema didattico, peccato che chi l’ha vissuta affermi tutto il contrario.

Senza dubbio, la Dad è uno strumento adatto per far fronte a situazioni d’emergenza, ma solo se non durano a lungo perché nasconde molti pericoli. Innanzitutto, viene a mancare il rapporto fra studenti della stessa classe, è spaventoso pensare che alunni della prima media o del biennio al liceo non si siano mai visti di persona. Scegliere il proprio compagno di banco, scambiarsi le merende, parlare dei propri problemi e consolarsi a vicenda in caso in compiti in classe o interrogazioni, sono elementi sconosciuti a molti ragazzi e la loro mancanza ha ingenerato sofferenza in chi era abituato a vivere questi atti come propria quotidianità.  Inoltre manca il rapporto studente-professore. I docenti non si possono fidare di alcun alunno per via degli escamotages che offre il web. Anche in presenza, gli studenti sono soliti aiutarsi a vicenda durante i test, scambiandosi magari dei bigliettini contenenti dei suggerimenti, ma in questo caso chi suggerisce è internet, una fonte inesauribile e facilmente accessibile di sapere. Oltretutto, inquadrando solo alcune parti della propria stanza gli studenti riescono facilmente a consultare i propri libri di testo. Infatti si è diffusa presto l’usanza di far bendare i ragazzi durante un’interrogazione, per essere sicuri che non stessero leggendo, ma senza rendersi conto della violenza commessa.

Chi studia lo fa per avere un buon voto, chi copia lo fa per lo stesso motivo e a volte ai professori nemmeno interessa accertarsi che gli argomenti siano stati appresi, ma non perché siano cattivi insegnanti, anzi spesso succede ai migliori. Perché capita anche ai più bravi? Le risposte sono varie, ma la realtà è una: da uomini siamo passati ad essere macchine. Infatti è stato preteso dai professori di continuare a insegnare usando la Dad, senza considerare che avrebbero dovuto imparare in pochissimo tempo ad usare perfettamente programmi fino ad allora sconosciuti. Inoltre, hanno dovuto garantire una buona conoscenza degli argomenti trattati, ma allo stesso tempo tenere conto della situazione difficile vissuta dai ragazzi. Molti docenti hanno deciso di creare gruppi whatsapp con le proprie classi, altri addirittura hanno scelto di tenere il telefono acceso fino a tarda notte per essere fonte di supporto per i propri studenti. Altri invece sono crollati per il troppo peso che gravava su di loro, qualcuno non si collegava mai, qualcun altro se lo faceva si preoccupava solo delle videocamere accese, senza fare lezione ma continuando ad assegnare compiti in classe. Naturalmente, le lezioni in videochiamata non possono essere paragonate a quelle in presenza. In classe si costruiscono rapporti d’amicizia duraturi, si impara a rapportarsi con persone diverse continuamente e si viene a contatto con molteplici punti di vista su una stessa idea. Inoltre, nei migliori dei casi, si impara il valore della cultura. Philippe Daverio diceva “sono ancora convinto che la cultura salverà il mondo”.  Egli ne era convinto perché la cultura è l’unica vera garante di libertà. Ma la trasmissione della cultura non è permessa dalla DaD. La comprensione degli argomenti trattati non è mai totale, anche solo per i problemi tecnici, quali l’assenza di internet oppure microfoni o videocamere che non funzionano. Inoltre la situazione si complica trattando le materie scientifiche che necessitano un’attenzione costante da parte dello studente e pazienza e passione da parte dell’insegnate. Come si può rimanere concentrati anche solo un’ora davanti ad uno schermo in cui sono disegnate delle linee? Semplicemente non si può, anche perché i professori sono costretti a usare delle lavagnette digitali su cui è difficile scrivere.

Insomma la didattica a distanza è stata un modo per garantire lo svolgimento delle attività scolastiche durante la pandemia, ma è bene riflettere prima di considerarla come un altro modo di fare scuola. Essa può essere solamente uno strumento da usare in situazioni d’emergenza, ma non potrà mai sostituire la scuola, che è solo una, ossia quella in presenza.

La scuola ci salverà

di Ivana Zuccarello

“La scuola ci salverà” è un libro che si fa carico di una promessa: rischiarare un orizzonte fosco sulle sorti della scuola italiana nel futuro. Eppure, in questo suo ultimo lavoro, Dacia Maraini semplicemente racconta il presente, lo stato dell’arte delle scuole nelle quali è entrata da scrittrice, da studentessa, da cittadina e forse anche da madre mancata.

Il suo è un reportage giornalistico ma anche una rubrica del cuore in cui memoria, storie, testimonianze, denunce e speranze s’incrociano, per portare alla luce l’unica questione dirimente, quella che trasforma l’asserzione ottimista dell’autrice nel dubbio sottinteso di chi legge: “Ma la scuola si salverà?”

Sono in tanti oggi a chiederselo, soprattutto fra gli insegnanti che, come scrive l’autrice, sostengono la scuola spesso da soli e interamente sulle loro spalle come vecchi, ma indefessi, Sisifo. Colpisce la dimensione etica, e quindi, politica della questione affrontata con i toni tenui di chi osserva dall’alto ma ascolta dal basso; pertanto, il linguaggio è semplice e, mi piace pensare, volutamente democratico poiché quando si parla di scuola non si può che essere inclusivi.

Tre parole più di altre affiorano dagli articoli editi e inediti raccolti negli anni dalla Maraini sulle pagine del Corriere della Sera e qui pubblicati: Futuro, Etica, Affetto e, purtroppo, di esse non si trova traccia né nei Piani dell’offerta formativa degli Istituti, né nelle riforme scolastiche degli ultimi decenni.

Ad oggi, inoltre, non solo “nessuno ha mai composto una mappa dell’eccellenza scolastica, fuori dai giudizi stereotipati” ma si rischia anche che la ridondante richiesta di meritocrazia che proviene dalla società prima e dagli studenti, poi, rimanga inevasa.

L’idea della Maraini, quindi, è che la scuola come istituzione sia effettivamente ridotta in pezzi, ma che in essa resista una rete di insegnanti-servitori preparati e appassionati che, come il leggendario Colapesce, restano sommersi e in apnea a reggere il peso di fondamenta cedevoli.

Questi insegnanti poco pagati, ma soprattutto socialmente poco stimati, allora, vogliamo ringraziarli? Vogliamo formarli adeguatamente? Vogliamo pagarli meglio?

E, infine, vogliamo valutarli? Sì, perché “da un buon insegnante possono nascere decine di ragazzi ben preparati ad affrontare il futuro”, mentre un cattivo insegnante può rovinare per sempre la mente e la sensibilità culturale di generazioni di giovani.

Qui, però, siamo ben lontani dalla retorica (un po’ francese) dell’insegnante eroe e perno della società civile: emerge dalle righe dedicate dall’autrice alla sua infanzia scolastica un teatro di maschere-docenti, anche mediocri, talvolta anonimi, ma descritti con la clemenza di chi sapeva guardare altrove anche senza e nonostante la scuola.

Lo sguardo degli studenti resta, infatti, lo specchio più autentico, l’unico che occorrerebbe tenere sempre davanti; e allora ai giovani la Maraini dedica parole di un amore che è agàpe e che ci ricorda la scuola di Barbiana, soprattutto nella misura in cui dà testimonianza di alcune realtà scolastiche, a volte piccole e spesso periferiche, tutte caratterizzate dalla costruzione di un riconosciuto legame umano tra insegnanti e alunni.

Si può essere certamente tentati di accusare l’autrice di “indulgente ottimismo”, come lei stessa denuncia, perché la scuola che racconta sembra essere la panacea di tutti i mali (dal bullismo al femminicidio). Ma come si può negare che nella sostanza stessa dell’educazione stia il seme che generi una società sana? Lo sostenevano Platone e molti altri e, tuttavia, qui la questione è diversa, si tratta dell’implicita richiesta di regole, e quindi di politiche, che rimettano in sesto il sistema scolastico aldilà di ogni palingenesi pedagogica, la cui necessità è altra faccenda.

Chiudono il libro tre racconti straordinari: L’esame; Berah di Kibawa; Il bambino vestito di scuro.

Il filo rosso che li unisce è sempre la scuola, che entra a gamba tesa nel tempo dell’esistenza. Talvolta come pesante verdetto di fallimento mentre la vita ci forma altrove (L’Esame); a Kibawa, invece, dove la scuola non c’è, diventa necessaria, e il desiderio di istruzione si fa motore di un viaggio che salva la vita. Infine, venuto fuori da uno spazio-tempo che solo i libri di filosofia hanno il privilegio di rivelare Il bambino vestito di scuro, il più misterioso dei personaggi di questi racconti, sembra suggerirci che altrettanto misteriosa è la ragione che ci lega così profondamente alla scuola.

Che sia forse davvero (dal greco scholé) il tempo in cui per la prima volta siamo stati liberi?

La morte Ivàn Il’íč di Lev Tolstòj. Appunti di lettura

1
Nel primo capitolo de La morte Ivàn Il’íč di Tolstòj, nel primo dei movimenti (in senso musicale) che compongono questo sottile e misterioso racconto, non sono presenti, a rigore, né la morte né Ivàn Il’íč. La morte del protagonista è già avvenuta e, di questi, è solamente esposta – solenne, pacificata – la salma. La morte, al più, in questa sezione del racconto, è una notizia, giunta attraverso il giornale ai colleghi dello scomparso. In quanto notizia, essa genera delle reazioni individuali che si conformano alla manifestazione mondana del lutto, alle regole da mantenere in questi casi: neppure i segreti pensieri di avanzamento di carriera, che i colleghi si aspettano dalla fine di Ivàn Il’íč, si sottraggono a questa legge di conformità, a questa prevedibile ritualità.
La morte è anche un apparato, un allestimento, una recita: prevede un sistema di frasi di circostanza, una chiave di lettura del senso implicito di alcune espressioni, tanto di quelle di pena quanto di quelle di conforto, uno scambio di gesti che corrisponde ai codici di comportamento concordati e a tal punto introiettati da apparire perfettamente naturali. L’evento della morte di qualcuno, di ciascuno, è il motore di una meccanica commedia funebre a parti fisse: i colleghi, la vedova, i familiari, la servitù; il posto libero, la pensione, il cordoglio, i costi delle esequie.
La morte è anche un odore, il più terribile, il più indecoroso, ma da cui ci si allontana con rapidità, una volta espletati i riti previsti. Questo racconto è anche un balletto di personaggi che si allontanano.
Si intuisce che la morte è un grande Altrove, eppure il brulicante tumulto dei sopravvissuti, degli eredi come dei conoscenti, è dominato da un piccolo altrove, dal desiderio di non esser lì: ma si intuisce che anche questo piccolo altrove (il gioco delle carte, il teatro, l’ufficio) sia un espediente provvisorio. Non si sa bene, a pensarci, dove vorremmo stare, dal momento che, prima o poi, ogni luogo viene a noia, ogni interlocutore è di peso, ogni distrazione è sopraffatta dallo scorrere del tempo.
Ma il motivo segreto di questo primo movimento non sembra essere, o almeno non sembra soltanto, quello di una satira di costume. Si avverte un’altra necessità strutturalmente connessa alle ragioni di efficacia e persuasività del testo. Questa necessità è la distanza: il procedere da un punto lontano, quando tutto è già compiuto e irreversibile. Il procedere su una materia già fredda, inerte, come il cadavere di Ivàn Il’íč. Un cadavere non parla, un cadavere non fa smorfie. “Dall’alba della sua giovinezza l’uomo sprofonda nelle parole e nelle smorfie” scriverà Witold Gombrowicz, cinquant’anni dopo, in Ferdydurke. La prima parte del racconto tolstojano inaugura una fenomenologia (o una semiologia) delle smorfie, delle parole e dei loro sottintesi; un lavoro di primi piani (volti, schiene, mani), di inquadrature ravvicinate, allo stesso tempo proiettato davanti agli occhi del lettore come se provenisse da una remota sorgente di luce livida. È necessario che sia così, perché da questo momento in poi il piano dell’azione e dello sguardo non può che scendere, non può che calarsi nel racconto di una vicenda e accompagnarsi all’umano che di questa vicenda è emblema.

2
Quello che si diceva del giovane Ivàn: la phénix de la famille.
La medaglia appesa alla catenella che decora il suo nuovo abito da funzionario: Respice finem, recita il motto inciso sopra.
Essere portatori di equivoci (e ironici) segni di appartenenza. Alla morte.

3
La vita di Ivàn Il’íč, ci viene detto, era stata delle più semplici e delle più orribili. È uno di quei procedimenti tolstojani che ci sembra a prima vista del tutto evidente, ma conserva (ed è bene che sia così) un fondo di ambiguità. Cosa vi è di veramente orribile in una vita comune? Da dove nasce e in quale punto di un’esistenza normale, come quella del quieto giudice istruttore, può dirsi che questo orrore germini e si manifesti? Un velo di calcolata incertezza è sospeso tanto per chi legga questo racconto per la prima volta quanto per chi lo abbia assimilato in più occasioni e ne abbia introiettato le valenze filosofiche e morali. Si intuisce che la cifra di questo orrore stia proprio nella normalità (e quindi nella sua esemplarità da Everyman in veste borghese) di Ivàn Il’íč, ovvero nel sistema fittizio di convenzioni su cui questa normalità poggia, ma non possiamo essere sicuri che l’orrore non si riferisca anche alla sua malattia, alle forme della sua sofferenza e alla sua conseguente iscrizione alla categoria dei reietti, se non alla definitiva disperazione e all’abisso spirituale in cui il protagonista precipita fino a pochi secondi dal suo estremo respiro. E se orribile fosse la condizione umana tout-court, determinata sempre e soltanto da scelte irrevocabili, da strade non prese, da occasioni perdute?

4
Il colpo subìto al fianco, perno narrativo che sconvolge la vita del protagonista e fa ruotare l’intera vicenda, raggiunge Ivàn Il’íč al culmine della sua carriera, di una carriera tutto sommato modesta che dà accesso a un tranquillo benessere e a un sistema di utili relazioni sociali. È probabile che l’ultimo (e insperato) avanzamento di carriera sia, più o meno, il traguardo professionale più alto a cui il protagonista possa aspirare. Anche la cura di Ivàn Il’íč nell’arredare personalmente l’ ambìto appartamento pietroburghese rivela che, per costui, questa non possa che essere la dimora definitiva. Ecco perché la sua angoscia è tanto più elementare e orribile. Se il protagonista avesse consapevolezza di poter aspirare a più alti successi, a una maggiore gloria, la sua disperazione sarebbe da attribuire al pensiero di quanto gli resti da fare: verrebbe proiettata così su uno sfondo quasi eroico. Ma il pensiero di Ivàn Il’íč è tutto rivolto a una posizione conseguita e, mano a mano che il decorso della sua malattia procede, i sentimenti del protagonista si orientano più al passato che al futuro. Al futuro è demandata la speranza di una guarigione. Possiamo chiamarla speranza ma anche superstizione: in entrambi i casi, si tratta di sentimenti ancorati alla duplice e ossessiva decifrazione degli arcani medici e dei segnali del corpo.

5
Di cosa muore infine Ivàn Il’íč? Neppure di questo abbiamo particolare certezza. Egli urta con violenza contro un mobile. Dai giorni successivi, che coincidono con l’arrivo e l’insediamento del resto della famiglia nella nuova abitazione, cominciano a manifestarsi i segni del malessere. Un colpo violento, uno stato morboso e i molteplici consulti dei dottori. Le contraddizioni dei responsi, i silenzi. Le analisi. Forse il rene mobile, forse l’intestino cieco. L’attenersi disincantato alle prescrizioni e all’ottimismo incontrovertibile della scienza medica.
Non è possibile sapere di cosa muoia. Non dobbiamo saperlo. Se lo sapessimo con certezza, saremmo portati a pensare che a noi non può accadere. Che potremmo morire in molti modi ma non di quella malattia. Attiveremmo dei meccanismi di difesa, ci sentiremmo affidati al mondo dei sani, confortati dal fatto di esserlo o di essere un po’ meno malati del protagonista. L’incertezza delle diagnosi è un espediente narrativo, certo un po’ crudele. È quell’opacità che frustra nel lettore il desiderio di trasparenza: quella trasparenza (è la malattia della letteratura contemporanea) che trasforma i lettori in moralizzatori con l’istinto dei voyeurs.

6
Si legge e si accredita un po’ ovunque che Gerasim, il servo che tiene sollevate le gambe di Ivàn Il’íč, per offrirgli un notturno sollievo, sia l’unico personaggio positivo del racconto. Di Gerasim sappiamo che è un servo contadino trasferito in città, è giovane, è sano, è ben pasciuto. Appare di sfuggita nel primo capitolo, si intrattiene con Ivàn Il’íč nelle fasi in cui la malattia isola costui dal contesto familiare e sociale, gli offre la propria opera con pazienza e gaia generosità. Non appare né è nominato nell’ultimo capitolo. Non sappiamo nulla della sua vita e della sua famiglia, non sappiamo come morirà, se anche lui in mezzo a brucianti sofferenze fisiche e morali o se accompagnato dalla stessa mitezza manifestata nei confronti del suo padrone. È un personaggio letterario, del resto. Vive per il tempo esatto in cui rimane in scena. Ci piace perché è giovane, perché è del popolo. Tolstoj arriva sull’orlo preciso di una descrizione di Gerasim venata di populismo (nell’accezione storica del termine), ma per fortuna se ne trattiene. L’idealizzazione appartiene più allo sguardo del lettore che dell’autore.

7
Philippe Ariès, in Storia della morte in Occidente, cita il racconto di Tolstòj come documento di storia della mentalità, come attestazione di un passaggio decisivo nella percezione di malattia e morte nella società occidentale moderna. A proposito della condizione del malato, illumina: “A poco a poco egli [Ivàn Il’íč] viene spogliato della sua responsabilità, della sua capacità a riflettere, a osservare, a decidere, è condannato alla puerilità.”

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Capire il mistero de La morte di Ivàn Il’íč. Avvertire come ogni singola frase del racconto, ogni snodo, ogni dialogo, ogni personaggio compongano un emblema complessivo della condizione umana, ma senza intenzioni edificanti. Avere anzi l’impressione che, a coglierne tutte le implicazioni (ma dopo quante letture?), la coscienza di un lettore autentico non possa non comprendere qualcosa di necessario e terribile e trarne le inevitabili conseguenze. Ma comprendere cosa? Probabilmente che la morte eccede ogni elaborazione concettuale e ogni espressione linguistica. Probabilmente che anche un racconto perfetto, come quello che abbiamo sotto gli occhi, può arrivare sino a una soglia, farsi massa critica della soglia stessa ma non può riuscire a superarla. Ivàn Il’íč è vivo, fino al punto conclusivo del racconto. Poi comincia l’oltre della pagina bianca. Può la letteratura, può l’arte sottrarsi ai suoi stessi principi costitutivi? Per natura la rappresentazione non può accedere all’Irrappresentabile: deve accontentarsi di emblemi, metafore, finzioni. È come se il racconto avesse due lati, uno aperto verso la vita (e il morire che le è connesso) e uno verso la morte. Il primo brulica di parole, speranze, intenzioni, dolore, inconcludenza, successi, rimpianti. Il secondo è privo di immagini, di parole, di pensieri, eppure la sua semplice evocazione basta a mettere in scacco le pretese di autenticità del primo. Eppure, direbbe Vladimir Jankélévitch, “è la morte a dar senso alla vita, proprio sottraendole tale senso. Essa è il non-senso che dà un senso negando questo senso”.

9
Le prugne francesi, “crude e grinzose” dell’infanzia di Ivàn Il’íč. Verrebbe da associare quel ricordo al professor Isak Borg, al posto delle fragole e all’ultima sequenza dell’omonimo film di Ingmar Bergman. L’infanzia come radice di tutte le possibilità. E aggiungo: non di ciò che è dolce ma di ciò che è acerbo sono fatte le promesse dell’infanzia. La fresca asprezza di un frutto come nucleo originario di tutte le promesse destinate a fallire.

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I quattro movimenti musicali di questo racconto. L’esordio con la notizia della morte e le esequie. Il riepilogo della tranquilla e convenzionale vita del nostro eroe. L’insorgere dei sintomi della malattia e la progressiva consapevolezza della fondamentale finzione dell’esistenza. E infine: i tre giorni (con evidente corrispondenza cristologica) dell’agonia.
Il suono di questa agonia è un ululato ininterrotto. Questo suono sgretola le strutture del linguaggio e dei suoi significati, è il correlativo fisico (ma di segno opposto) della voce interiore che ha interrogato Ivàn Il’íč nelle ultime settimane della sua malattia, smontandone convinzioni e illusioni. Dentro all’urlo dell’uomo parole e intenzioni si deformano (“Voleva ancora dire «perdonami» [in russo: prostì], ma disse «lascia andare» [in russo: propustì]”), subiscono una torsione dentro la quale non è escluso che sia nascosta la vera natura del linguaggio. Questo urlo è quanto di più lucido e vitale e sconveniente il malato possa compiere. È sconveniente perché non lascia in pace gli altri abitanti della casa, ne turba il decoro; è necessario perché guida il morente a una nuova e decisiva consapevolezza. Doppio è il viatico a questa consapevolezza: prima, la visione del figlio, disperato e inerme di fronte al dolore del padre, di quel figlio così simile a lui da adolescente. E poi, quell’ È finita, pronunciato da qualcuno sopra di lui, che dà luogo all’ultimo malinteso: quell’ È finita la morte, la morte non esiste, che Ivàn Il’íč pronuncia dentro di sé. Malinteso benefico, ma pur sempre malinteso, a conferma dell’inadeguatezza di quel linguaggio che è pure l’unico modo che l’individuo ha per testimoniare la sua presenza e la sua giustificazione al mondo.

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Si possono portare alcune visioni verso estreme conseguenze. “È come una vita tra le quinte” scrive Franz Kafka in un frammento. E poi evoca la possibilità di un’evasione, attraverso fondali e attrezzi di scena, fino al vicolo adiacente al teatro “stretto, umido, buio”: il Vicolo del Teatro, appunto. Esso è reale e ha “tutte le profondità del vero”. Eppure, si può notare, esso è talmente vicino al Teatro da portarne ancora il nome. E chi ci può assicurare, aggiungo, che dal teatro non si sia evasi verso una finzione ancora più reale? O che dal vicolo non si possa evadere verso un’altra realtà ancora più profonda e da questa verso un’altra ancora?

12
Vi dovrebbe essere un quinto movimento, da qualche parte, oltre il punto finale del racconto. Ma già l’espressione “da qualche parte” risulta incongrua rispetto alla morte intesa come alterità assoluta e irrappresentabile. Bisognerebbe immaginarlo come il silenzio, mai udito da alcuno, che sovrasta una terra di nessuno dopo la furia del combattimento. Ma anche questa è solo una metafora.

Testo di riferimento utilizzato: Lev Tolstòj, La morte Ivàn Il’íč e altri racconti, a cura di Igor Sibaldi, Mondadori, Milano, 1999.
Altri autori citati
Witold Gombrowicz, Ferdydurke, a cura di F. M. Cataluccio, trad. I. Salvatori e M. Mari, Il Saggiatore, Milano 2020
Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, trad. Simona Vigezzi, Rizzoli, Milano 1978
Vladimir Jankélévitch, Pensare la morte?, a cura di Enrica Lisciani-Petrini, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995
Franz Kafka, Frammenti e scritti vari, trad. Italo A. Chiusano e Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1989

Lettera ai miei docenti

di Anna – Studentessa liceale

9/03/2020, data fondamentale da ricordare poiché l’istituzione scolastica italiana si è fermata a causa dell’emergenza sanitaria più problematica del ventunesimo secolo.
Siamo stati tutti catapultati in una situazione di indubbio disagio, in cui nessuno sapeva come comportarsi e come sfruttare al meglio i molteplici (forse troppi) strumenti telematici che ci erano prospettati. Timore e totale disorientamento segnavano intere giornate passate in isolamento. Noi studenti abbiamo unito le forze e attinto alle nostre risorse per continuare il percorso scolastico al quale abbiamo, pur sempre, diritto, rivoluzionando il concetto classico di “scuola”, mettendo in discussione tutti i valori precedentemente acquisiti.
La domanda che sto per porvi richiede, per la risposta, un profondo esame di coscienza, la più sincera presa d’atto degli effetti delle decisioni prese: vi siete mai soffermati ad analizzare lo stress emotivo, e altrettanto psicologico, a cui siamo stati sottoposti?
La didattica a distanza ci ha segnato particolarmente, ma la peggiore esperienza è stata, ed è tutt’ora, la mancanza di comprensione da parte di persone che consideravamo quasi alla stregua di “modelli di vita”.
Sin da bambina, ero incuriosita da tutto ciò che mi circondava, dalle matite colorate che mia mamma riponeva nel mio zaino ogni mattina, alle singole storie che la mia insegnate era solita raccontare. La scuola è sempre stato un luogo in cui, ai miei occhi, era assente l’ignoranza (il male peggiore che possa esistere, a parer mio) e, soprattutto, la paura di essere incompresi.
15/09/2020, il Governo italiano afferma di aver lavorato incessantemente durante il periodo estivo ed è pronto a riaprire le scuole della penisola. Risultato? Tempo due mesi e sono stati costretti a richiudere; siamo punto e a capo. Sorpresi? Neanche noi.
Eravamo convinti di saper lavorare con questa dannata DAD, eppure riscontriamo gli stessi, identici problemi iniziali: scarsa connessione, problemi tecnici di ogni tipo, diminuzione della concentrazione e della voglia di continuare con questa, permettetemi di dirlo, inutile modalità. Ripeto, siete sorpresi?
Abbiamo difficoltà a farvi capire che ci sentiamo lasciati quasi allo sbando, quei “modelli di vita” di cui parlavo hanno ormai come unico obiettivo quello di farci ingurgitare più nozioni possibili, per poi farcele recitare a loro piacimento.
Eravamo coscienti di entrare in una scuola dove non c’è posto per la pigrizia e la non curanza per gli studi, certo, ma se avessimo saputo che il livello di comprensione umana sarebbe stato praticamente nullo, illustri professori, avremmo riconsiderato le nostre scelte. Non fraintendeteci, siamo fieri del percorso che abbiamo intrapreso ed essendo giunti quasi al termine di questa esperienza, non vogliamo lasciare questo ambiente così come lo abbiamo trovato. Proprio per questo vi chiediamo, ora, in questo momento così delicato, di seguirci nell’essere il cambiamento in cui tutti noi, ancora, crediamo.
La scuola non può essere un luogo in cui ansie e paure regnano sovrane, ma un posto in cui la curiosità non trova confini e l’educazione e il rispetto per il prossimo devono essere all’ordine del giorno.
Cercate di comprendere le nostre necessità, senza annientare le nostre capacità personali, e vi assicuro che non ci sarà spazio per future incomprensioni, poiché, con la giusta benevolenza, non avranno modo né luogo di esistere.

Un’indagine sul rapporto tra i giovani e la filosofia. Sull’utilità e il danno della filosofia per la vita.

Autorità –  Tecnica – Virus: una riflessione sconsolata

di Bruno Montanari

Questa che stiamo vivendo è una condizione che ha un suo radicamento profondo, al quale la società italiana non ha fatto attenzione, per la ragione che non aveva motivo di farne dato un qualche benessere e la sostanziale libertà in cui è vissuta dagli anni del dopoguerra in poi. Con gli anni ’90, per ogni cosa che si doveva fare o non si poteva fare si è detto che “c’era l’Europa”, la BCE; poi sono venuti i sovranismi, i populismi e via discorrendo. Tutte cose che, in maniera più o meno visibile, creavano la pratica, individuale e collettiva, e l’audience dei media nelle loro forme, cartacee, digitali, eteree, … . La “gente” si è conformata al modello tecnologico-comunicativo e non ha mai prestato attenzione più di tanto alle sue conseguenze; anzi, non si è accorta che le conseguenze nel frattempo si producevano nelle abitudini relazionali di ciascuno di noi. Di recente un certo allarme in Italia è stato sollecitato dai migranti; allarme contenuto dentro i vaneggiamenti più o meno rumorosi di una perenne campagna elettorale. Non è senza significato come la malattia del sondaggismo elettorale, che, se non altro, dovrebbe essere indizio di una grande attenzione alla partecipazione politica quotidiana del cittadino, si accompagni invece all’alta percentuale di astensionismo che incide sul significato rappresentativo delle percentuali che vengono rilevate. Una sorta di strabismo di cui nessuno parla. Come nessuno sottolinea la pochezza culturale della classe dirigente nel suo complesso, che non conosce le regole giuridiche di cui è innervata la politica in uno Stato di diritto; non le conosce o, anche quando potrebbe, le ignora, tanto ormai per il cittadino comune le Istituzioni non contano più. Anzi, non si sa bene neppure quali siano e quale sia loro competenza.

Quanto poi al livello geo-politico ci troviamo di fronte ad una Europa non politica, dominata dallo spread; dominata cioè da chi presta i soldi, distinguendo, per premiare o punire, i virtuosi dagli spendaccioni; un’Europa stretta e strapazzata tra gli Stati Uniti, la Russia, la agognata egemonia mediterranea della Turchia e la costante e gravissima crisi che attraversa i paesi arabi. Un’Europa drammaticamente incapace di una qualsiasi politica internazionale. E poi la Cina: una dittatura all’interno e uno spregiudicato capitalismo all’esterno, per mezzo di una politica dei prezzi favorita dal bassissimo costo del lavoro.

E poi c’è tutta la questione epocale legata all’ “antropocene”, che alla “gente” arriva sotto la forma della questione climatica, sulla quale peraltro c’è chi fa delle speculazioni negative interessate, e l’inquinamento. Il tutto, nella pratica ordinaria, si risolve nelle “domeniche a piedi”, che ovviamente non risolvono un bel niente. Insomma, ancora abitudine mentale alla superficialità, estemporaneità e semplice immediatezza delle soluzioni; senza parlare del tasso di incompetenza che le sostiene.

Un panorama estremamente preoccupante, ma che viene divulgato dai media all’interno di un pensiero costruito attraverso una sorta di “gioco delle parti”, il cui fine è raccontare, anche litigare apparentemente (il gioco delle parti, appunto), per attrarre e soddisfare un  uditorio senza invece educarlo ad una comprensione critica della realtà, proprio perché attraverso un racconto ed una polemica pilotati si fornisce a priori al fruitore medio il quadro delle affermazioni possibili, tra le quali egli deve limitarsi a scegliere. Insomma, i processi informativi e comunicativi propongono idee, anche diverse ma già confezionate secondo standard facilmente fruibili, che il destinatario deve scegliere come un prodotto al supermercato. Conseguenza: disabitudine a pensare con la propria testa e disattenzione alle cose serie, poiché tanto la vita di ogni giorno prosegue senza scosse e ognuno può continuare a vivere anche il giorno dopo, nell’agio o anche nel disagio, la vita che ha vissuto fino a quel momento, dove tutto si tiene in un generico e “liquido” equilibrio dove è facile ignorare, se si vuole, i dolori, i disagi, i drammi privati e pubblici che attraversano la società ed il genere umano in ogni parte del mondo.  

Insomma abbiamo vissuto (mi limito all’Italia) in una condizione di assoluta superficialità mentale, solleticando il proprio IO con l’ausilio di tutti gli strumenti che il progresso tecnologico ha messo a disposizione di tutti, indipendentemente dalle capacità di comprensione critica delle quali ciascun cittadino fosse dotato, per età e per condizione socio-economico-culturale. Si è venuto a creare quella che ho più volte definito una situazione di individualismo egoistico di massa.

Il Coronavirus ha cambiato la scena, con una progressione impressionante. L’Europa ha mostrato tutti i suoi limiti e la sua soggezione ai poteri finanziari: dalla affermazione della Lagarde alla divisione su quali misure adottare per far fronte alla crisi produttiva dei paesi colpiti. Crisi produttiva che significa crisi del lavoro, delle fabbriche, dei sistemi professionali collaterali, delle attività artigianali poste in essere da persone singole o con i familiari, degli apparati amministrativi incapaci, per cattiva abitudine e formazione, a fronteggiare situazioni emergenziali, e così via. D’altra parte, la non ricostruzione dopo i terremoti l’aveva fatto ben vedere, ma i più potevano ignorarlo, perché lì il male non era contagioso. Il Coronavirus, invece, è contagioso e non riusciamo ad ignorarlo. C’è poi la non qualità né autorevolezza pubblica della classe politica, che abituata alla campagna elettorale permanente, costruita solo per andare al governo, non ha sviluppato alcuna capacità di governo, a cominciare dal reclutamento delle persone, e abituando il cittadino destinatario a confondere la politica con il diventare semplice “seguace” dell’uno o dell’altro personaggio, mediaticamente più esposto e attraente. Classe politica che ora si trova a fronteggiare a livello interno (ma, ovviamente, non solo) una situazione che non si può far passare sotto silenzio. Allora, la risposta che appare più semplice, anche perché è l’unica che sembra potersi dare, sia per l’obiettiva e inedita difficoltà delle situazioni alle quali questa generazione di decisori non è formata, sia per la ingovernabilità dei comportamenti delle persone, in quanto collettività “liquida”, consiste nel pomparne la pericolosità al massimo grado, in modo da terrorizzare i governati. Ciò consente, infatti, di adottare, secondo il modello della semplificazione, provvedimenti puramente interdittivi e restrittivi, che colpiscono la libertà delle persone senza tentare, invece, di indurle a ragionare, e che mettono a terra l’economia di un paese. Il tutto, senza mostrare di avere la dovuta attenzione a come il protrarsi del “tempo”, oltre l’immediato, inciderà sulla tenuta psicologica dell’ambiente umano cui quei provvedimenti si dirigono. 

E’ una operazione che tocca due profili. Quello interno della tenuta dello Stato costituzionale di diritto, poiché per l’urgenza si opera con provvedimenti di discutibile configurazione giuridica; inoltre si registra, almeno in Italia, una foga decisoria che porta a trascurare le competenze costituzionali delle varie istituzioni: Sindaci, Governatori, Governo ognuno va per conto suo su oggetti che colpiscono beni della persona costituzionalmente garantiti. Faccio un esempio: può un Sindaco emanare una ordinanza con la quale si ricorre ai droni per controllare lo spostamento delle persone; qui non in questione la privacy, ma il diritto costituzionale di libertà, sul quale solo un atto con i crismi della costituzionalità può incidere. Ma non sembra che i media sottolineino questa stortura del sistema; anzi la declassano ad una violazione della privacy, che in una simile drammatica situazione si può tollerare e che, in fondo, non è dissimile dalla “normale” interferenza nella vita privata cui ci hanno abituati i dispositivi di localizzazione dei cellulari.

Insomma, la drammaticità del contagio sta mettendo a nudo la debolezza e la incompetenza più o meno consapevole delle istituzioni, l’arroganza di potere propria degli occupanti e, infine, l’assoluta ingovernabilità delle persone che non conoscono più il vivere insieme. Soprattutto ciò che è emerge è la disabitudine ad un qualcosa che dovrebbe essere assolutamente evidente: e cioè che ognuno di noi è un IO e allo stesso tempo un TU. Infatti ogni IO è un TU per l’IO dell’altro. Quindi occuparsi del TU da parte di ciascuno di noi in quanto IO, dovrebbe essere una questione di “vantaggio interessato” prima ancora che di solidarietà etica. I soli che stanno dando prova di vera dedizione sociale sono colo che sono più esposti al  pericolo: i sanitari; a questi occorre aggiungere quelle istituzioni sociali, del cosiddetto “terzo settore”, che hanno sempre colmato i vuoti della amministrazione pubblica.

La situazione che ho rapidamente descritto, dove la dimensione sociale, fatte le eccezioni che ho sopra ricordato, mostra la superficialità in cui siamo vissuti negli anni che abbiamo alle spalle e la governabilità si traduce in un potere esercitato in modo contraddittorio con quello che dovrebbe essere il costume sociale di un paese democratico-liberale, determina un evaporare della politica e della sua capacità progettuale, unitamente ad una subordinazione degli Stati alla finanza. C’è, allora, da chiedersi: cui prodest

Se guardiamo alla globalizzazione tecnologico-finanziaria, il cui prodest riguarda quest’ultima. La finanza è strutturalmente contro-interessata alla politica, nel concetto che le è proprio; il fine assoluto della finanza è, infatti, il guadagno speculativo, che per natura è privo di scrupoli sociali e la cui realizzazione si materializza nella immediatezza (la scommessa). Il potere tecnologico-finanziario ha bisogno, per affermarsi, di strutture di governo politico nazionali o sovranazionale deboli e sufficientemente autoritarie (basti vedere la deriva autoritaria in importanti paesi), compatibili soprattutto con la funzione di guida delle tecnocrazie.

Questo mi sembra lo scenario, la cui drammaticità è fuori discussione. La via di uscita, se la si può immaginare, consiste nella acquisizione della “lezione “ che la storia ha impartito alla cosiddetta “società liquida”, affinché ciascuno di noi raggiunga una maturità comportamentale che si attui attraverso la consapevolezza che solo il saper “stare insieme”, la capacità del dialogare e del guardarsi negli occhi può raggiungere, contro ogni apparenza immediata di gratificazione individualistica. Occorre tornare a “ragionare”, emancipandosi dalla abitudine a seguire in modo acritico quel mondo di rumori verbali che il mondo dei media, nel loro insieme, diffonde ad un ritmo frenetico e incontrollato.  

LABORATORIO DI POESIA VISIVA CON LAMBERTO PIGNOTTI

Progetto PCTO a cura di Kappabit s.r.l. e Filosofia in movimento

Il progetto s’inserisce nell’ambito della rassegna Pubblicittà: percorsi sinestetici tra parola e immagine, promosso da Kappabit in partnership con FiM. Tema centrale dell’iniziativa è, come si può facilmente evincere dal titolo, il rapporto tra parola e immagine, indagato a partire dall’esperienza della Neoavanguardia italiana, nella fattispecie della Poesia Visiva. L’argomento viene approcciato da diversi punti di vista, coinvolgendo i più vari ambiti di ricerca (filosofia, arti visive, sociologia e teatro) in un fitto calendario di eventi costellato da incontri, workshop, azioni artistiche ed eventi sul territorio.

In questo contesto, il progetto PCTO che qui s’illustra mira a coinvolgere gli studenti all’interno di percorsi di apprendimento e sviluppo dello spirito critico attraverso un programma di attività costituito da lezioni e workshop, tutti incentrati sull’esperienza della Poesia Visiva.

La Poesia Visiva è, più che una tendenza artistica, una variegata esperienza di contaminazione fra linguaggi: la simultanea presenza di scrittura e di immagini su una superficie. Interagendo, la parola si fa segno visivo e l’immagine assume una dimensione mentale. Infatti, proprio negli anni Sessanta, in cui domina l’arte concettuale, questa ricerca prende corpo in molti gruppi e in parti diverse del mondo (oltre che in Europa, in Brasile Argentina e Giappone). Il più numeroso e vivace è stato quello italiano, con base Firenze dal 1963. Maggiori esponenti Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini, Ugo Carrega, Emilio Isgrò, Luciano Ori, Luca Maria Patella, Nanni Balestrini, Sarenco. I precedenti storici sono in avventure sperimentali delle avanguardie del primo Novecento: Apollinaire con i Calligrammes, futuristi come Marinetti e Cangiullo con le Tavole Parolibere. Ma inserzioni di scrittura sono frequenti già nei quadri cubisti e futuristi. Il principio ispiratore è quello di attivare gli scambi tra i cinque sensi (sinestesia): infatti al movimento partecipano autori che realizzano installazioni sonore, spartiti musicali[1].

Il valore aggiunto del progetto è rappresentato dal coinvolgimento attivo nell’ambito delle attività PCTO di colui che unanimemente è considerato il padre della Poesia Visiva: Lamberto Pignotti[2].

Gli alunni coinvolti nel progetto avranno, infatti, l’opportunità d’interagire direttamente con il Maestro Pignotti, il quale, oltre a determinare l’indirizzo delle attività da svolgere, ne coordinerà in prima persona lo svolgimento.

Tale opportunità è resa possibile dallo stabile rapporto di collaborazione instauratosi tra Pignotti e la Kappabit, che, oltre a rappresentare il fondamento sul quale la stessa rassegna Pubblicittà: percorsi sinestetici tra parola e immagine è basata, nell’anno in corso ha dato vita anche a una mostra personale dell’artista ospitata dalla Galleria CONTACT artecontemporanea[3] e alla pubblicazione per le Edizioni Kappabit dei volumi Lamberto Pignotti. Controverso – Arte per fraintenditori, a cura di

Gaia Bobò (ISBN 9788894361827) e LESSICO RESISTENTE – La Poesia visiva e la critica alla società dell’immagine, In un dialogo con Lamberto Pignotti, di Antonio Cecere (ISBN 9788894361872).

Il fulcro delle attività previste dal progetto PCTO è costituito dall’analisi del rapporto tra parola e immagine quale passaggio critico dello sviluppo culturale della nostra società. Oggi la conoscenza è fortemente condizionata dalle nuove tecnologie e il Gruppo 70, fondato da Lamberto Pignotti, attraverso la Poesia Visiva, aveva compreso, molto prima di Guy Debord, la natura della società dello spettacolo. Pignotti ha scritto, prima di Edgar Morin, un’analisi circa l’influenza che il linguaggio pubblicitario ha avuto sullo sviluppo del linguaggio politico nel corso del Novecento. Per queste ragioni, Pignotti è senza alcun dubbio l’intellettuale più autorevole con il quale si possa intraprendere un percorso come quello definito da questo progetto.

Oltre a Lamberto Pignotti, saranno coinvolti nelle attività anche Marco Contini[4] e Gaia Bobò[5].

Fasi del progetto

Il progetto si articola in tre momenti che prevedono diverse modalità di partecipazione per gli studenti:

  1. Introduzione alla Poesia Visiva e preparazione degli studenti al lavoro per il workshop, a cura di Marco Contini.
  • Lavoro di raccolta dei materiali necessari allo svolgimento del workshop: in base alle indicazioni ricevute dal Tutor aziendale, gli studenti dovranno ricercare immagini e titoli su quotidiani, periodici e magazine (cartacei e on line) a loro scelta e, in seguito, operare tra questi una selezione in base ai criteri che saranno loro indicati.
  • Workshop presso la Galleria CONTACT artecontemporanea, a cura di Lamberto Pignotti (coadiuvato da Gaia Bobò e Marco Contini). Il workshop si articolerà in due fasi:
  • Nella prima fase gli studenti dovranno illustrare i criteri utilizzati nella selezione dei materiali e argomentare le loro scelte. Si procederà dunque all’utilizzo dei materiali raccolti per la produzione di alcune opere di Poesia Visiva, attraverso l’utilizzo del paradosso e del nonsense quali potenti stimoli per la riflessione, utili a rivelare sia la debolezza della nostra capacità di discernimento sia i limiti di alcuni strumenti intellettuali per il ragionamento.
  • In una fase successiva, si approfondirà l’approccio sinestetico. Si partirà con la trattazione teorica, anche attraverso la disamina di alcuni esempi tratti dall’attività artistica di Pignotti (chewing poem, drink poem, doce stilnovo, l’odore del tempo), per proseguire attraverso con l’applicazione pratica per mezzo del metodo esperienziale (ovvero, lavorando prima sulla percezione e, in seguito, sulla riflessione).

[1] Fonte: https://www.collezionedatiffany.com/glossary/poesia-visiva/

[2] Lamberto Pignotti nasce nel 1926 a Firenze. Qui si laurea e risiede fino al 1968, anno in cui si trasferisce a Roma. Nei primi anni Sessanta concepisce e teorizza le prime forme di “poesia tecnologica” e “poesia visiva”, di cui cura nel 1965 la prima antologia. Nel 1963 dà vita, con altri artisti e critici, al “Gruppo 70” e partecipa pochi mesi dopo alla formazione del “Gruppo 63”. Dal 1971 al 1996 ha portato avanti, prima come professore alla Facoltà di Architettura di Firenze e poi al DAMS della Facoltà di Lettere di Bologna, dei corsi sugli svariati rapporti fra avanguardie, mass-media e new-media. Tra le più recenti mostre personali si ricordano: La poesia ve lo dice prima, la poesia ve lo dice meglio, Opere dal 1945 al 2010, Fondazione Berardelli, Brescia, 2010; Poesia visiva tra figura e scrittura, CSAC, Università di Parma, 2012; Cinquant’anni di inquietudine. La poesia visiva di Lamberto Pignotti, Galleria Clivio, Milano, 2016; Verso libero e indipendente, Centre Pompidou, Parigi 2018. Vive e lavora a Roma.

[3] http://kappab.it/?qr=217Z

[4] Esperto di tecnologia dell’informazione e della comunicazione, specializzato in editoria elettronica multimediale, con oltre vent’anni di esperienza sul campo. Fondatore, CEO e responsabile delle attività editoriali della Kappabit, nonché direttore della Galleria CONTACT artecontemporanea.

[5] Curatrice indipendente laureata in Comunicazione e Valorizzazione del Patrimonio Artistico Contemporaneo presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Recentemente ha curato l’esposizione “Controverso. Arte per Fraintenditori” di Lamberto Pignotti presso la Galleria CONTACT artecontemporanea nonché il catalogo dell’omonima mostra (Edizioni

Kappabit, 2019). Come autrice pubblica regolarmente per Exibart; ha inoltre scritto per le riviste di settore Inside Art e Rivista Segno. Per Filosofia in Movimento è curatrice della pagina “Lamberto Pignotti, Arte per Fraintenditori” (http://filosofiainmovimento.it/arte/arte-per-fraintenditori/).

La scuola italiana come la vorrebbe EDUSCOPIO. Aziendalistica, liberistica, competitiva, dominata dalle leggi del mercato

 

di Francesco Sirleto

 

“La scuola è aperta a tutti” (art. 34 della Costituzione italiana).

“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (Art. 3 della Costituzione italiana).

“ … Altri hanno in odio l’eguaglianza. Un preside a Firenze ha detto a una signora: “Non si preoccupi, lo mandi da me. La mia è la scuola meno unificata d’Italia”. Giocare il popolo sovrano è facile. Basta raccogliere in una sezione i ragazzi “per bene”. Non importa conoscerli personalmente. Si guarda pagella, età, luogo di residenza (campagna, città), luogo d’origine (nord, sud), professione del padre, raccomandazioni. Così vivranno nelle stessa scuola due, tre, quattro medie diverse. La A è la “Media Vecchia”. Quella che fila bene. I professori più stimati se la leticano. Un certo tipo di genitori si dà da fare per metterci il bambino. La B è già un po’ meno e così via. Tutta gente onorata. Il preside e i professori non fanno per sé, fanno per la Cultura. Neanche quei genitori fanno per sé. Fanno per l’Avvenire del bambino. Farsi strada a gomitate non sta bene, ma se si fa per lui, diventa un dovere sano” (da Lettera ad una professoressa, di don Lorenzo Milani e i ragazzi di Barbiana, 1967).

 

 

In Italia, Paese nel quale tutti sono in disaccordo su tutto e nel quale si discute e si litiga continuamente (fino ad arrivare agli insulti più tremendi), vi è almeno una cosa che suscita, improvvisamente e come per magia, un consenso universale: l’annuale classifica “delle scuole migliori d’Italia” di EDUSCOPIO (indagine promossa, finanziata e supportata, anche con grande battage pubblicitario, dalla benemerita Fondazione Agnelli, si sa un’autentica indiscussa autorità – non si capisce tuttavia per quali meriti speciali – nel campo della promozione dell’istruzione e della cultura). Di fronte all’annuale classifica pubblicata da Eduscopio tutte le diatribe, tutte le polemiche, tutte le interminabili querelles che caratterizzano il dibattito pubblico in Italia, cessano, immediatamente, come “per incantamento”. Non ci sono più Destra e Sinistra, Conservatori e Progressisti, Liberisti e Statalisti, juventini e interisti, romanisti e laziali, al cospetto del Verbo emanato da Eduscopio. Siamo tutti egualmente consenzienti, tutti egualmente sulla stessa barca, tutti lestissimi a sottoscrivere, senza il benché minimo dubbio, il valore indiscusso e incontrovertibilmente scientifico dei risultati dell’indagine Eduscopio. Anche la stampa, sia quella tradizionale (cartacea o televisiva), sia quella più innovativa (quella che ritrovi sul web), quella stampa che si divide su tutto, quella stampa prontissima a mettere cartesianamente in dubbio l’universo mondo, di fronte a questo nuovo Evangelo, si genuflette senza alcuna eccezione e senza che sulle sue ormai pallide guance appaia il benché minimo rossore.

Come, infatti, non dare ragione e non consentire alle sapienti parole che accompagnano, a mo’ di illustrazione, le tabelle e i numeri nei quali si dipanano e si sviluppano gli esisti della insostituibile ricerca sul campo realizzata annualmente da Eduscopio? “Eduscopio è utile – così troviamo scritto in questa preziosa relazione – perché consente allo studente (allo studente? Quale studente? Quello impegnato nell’ultimo anno della media inferiore?) di comparare le scuole dell’indirizzo di studio che interessa nell’area dove risiede (ad esempio, aggiungiamo noi, nell’area tra Tor Bella Monaca e Tor Sapienza, oppure nell’area tra Borgata Ottavia e Primavalle), sulla base di come queste preparano per l’università o per il mondo del lavoro dopo il diploma. Ha successo perché le informazioni che contiene sono frutto di analisi accurate a partire da grandi banche dati (certo, di fronte a “banche dati”, come puoi nutrire il benché minimo dubbio o perplessità?), perciò oggettive e affidabili (anche l’oste, quando parla del proprio vino, lo definisce oggettivo e affidabile). Inoltre, è di facile consultazione e aiuta chi non si accontenta del “passa parola” e, in modo particolare, quelle famiglie che non possono contare su reti sociali e culturali forti”. Quindi, deducendo da queste ultime parole, dobbiamo presumere che l’indagine EDUSCOPIO si rivolge principalmente a quelle famiglie socialmente e culturalmente svantaggiate? Le famiglie residenti nelle periferie delle grandi città? Questa, a mio avviso, è la rivelazione più impressionante del nuovo Evangelo.

Deve essermi sfuggito, evidentemente, un fenomeno noto soltanto agli organizzatori di Eduscopio, quel fenomeno che, da quando la Fondazione Agnelli ha cominciato a pubblicare i risultati dell’indagine “sulle migliori scuole d’Italia” ha visto migliaia e migliaia di genitori dei quartieri periferici delle grandi città (genitori che, ovviamente, “non possono contare su reti sociali e culturali forti”) fare la fila, nei mesi invernali, davanti alle segreterie di scuole famose del centro (es.: Tasso, Visconti, Virgilio, Righi, ecc.), per iscrivervi i loro pargoli tredicenni, ansiosi, questi ultimi, di frequentare per cinque anni una scuola che assicuri loro un vero, autentico, successo, tanto negli studi universitari quanto nel mondo del lavoro (se, putacaso, non avessero voglia di proseguire gli studi dopo l’agognato diploma di maturità).

Gli organizzatori di Eduscopio ci garantiscono inoltre che “Le analisi e i confronti di Eduscopio si riferiscono a due compiti educativi fondamentali: 1) la capacità dei licei e istituti tecnici di preparare e orientare gli studenti a un successivo passaggio agli studi universitari; 2) la capacità di istituti tecnici e istituti professionali di preparare l’ingresso nel mondo del lavoro per quanti, dopo il diploma, non intendono andare all’università e vogliono subito trovare un impiego”. A questo proposito devo confessare una mia grave carenza: ignoravo, infatti, che i suddetti compiti rientrassero tra i compiti educativi fondamentali. Ero infatti convinto che tali compiti rientrassero nel novero delle conoscenze e, in generale, del complessivo bagaglio culturale che la scuola è chiamata a fornire ai suoi giovani utenti. Al contrario, ero convinto che i compiti educativi fondamentali consistessero nella formazione dello studente alla cittadinanza attiva, nella trasmissione e nell’acquisizione di quei valori che sono alla base della convivenza civile e che sono inscritti, a lettere di fuoco, nei principi fondamentali della Costituzione: libertà, democrazia, solidarietà, apertura alle diversità e alla molteplicità delle culture, spirito critico e orientamento alla ricerca, e così via. Evidentemente mi sbagliavo, oppure sono portatore (ormai insano) di una visione del mondo e di una cultura  retrò, stantia insomma. Una persona che ancora crede che una buona scuola si vede dalla capacità che essa dimostra di aiutare i propri alunni (soprattutto quelli più svantaggiati e che presentano una molteplicità di problemi) ad affrontare e, possibilmente, a rimuovere tutti quegli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza di tutti i cittadini. Ero, e rimango, convinto altresì che la scuola, essendo aperta a tutti, debba necessariamente essere la scuola dell’inclusione, misurandosi quotidianamente con i problemi, con le difficoltà, con gli svantaggi (psicologici, sociali, a volte fisici) che moltissimi alunni, soprattutto coloro che non possono contare su “reti sociali e culturali forti”, si portano dietro anche all’interno delle mura scolastiche. C’è però un’altra possibilità: che a sbagliarsi siano tanto gli organizzatori di EDUSCOPIO (portatori di una visione aziendalistica, liberistica, competitiva, per la quale ciò che conta non è il riferimento ai valori costituzionali, quanto piuttosto le leggi ferree del Mercato, leggi indiscutibili perché naturali) quanto coloro che prendono per oro colato gli esiti delle indagini EDUSCOPIO, senza preoccuparsi delle premesse – niente affatto scientifiche, ma molto ideologiche (nel senso negativo del termine, vale a dire “falsa coscienza”) – sulle quali vengono realizzate simili operazioni.