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Heidegger interprete di Hölderlin

 

La contemporaneità di un poeta non è nel contenuto, ma talvolta è malgrado il contenuto, quasi a suo dispetto
M. Cvetaeva Il poeta e il tempo

   

I. “Il più grande lirico tedesco dopo Goethe”

Il XIX secolo ha partorito una generazione ardente,

audace e focosa, sorgendo dalle zolle aperte d’Europa, fa impeto contemporaneamente da tutte le direzioni incontro all’aurora della libertà nuova […]. Uno, uno solo della sacra schiera, il più puro, rimane ancora  a lungo sulla terra senza più Dei: Hölderlin; ma la sorte lo ha trattato nel modo più strano. Il suo labbro fiorisce ancora, il suo corpo che invecchia brancola ancora sulla terra tedesca […] ma i suoi sensi […] si annebbiano in un sogno senza fine […]. Gli Dei gelosi non hanno ucciso colui che ha spiato i loro segreti, ma si sono limitati ad accecargli lo spirito […]. Un velo s’è steso a oscurargli la parola e l’anima […]. E quando, un giorno, egli si stende pianamente e muore, questa morte silenziosa non suscita nel mondo tedesco maggior rumore d’una foglia d’autunno che scenda incerta a terra […]. Il messaggio eroico di quest’ultimo, di questo puro tra i più puri della sacra schiera, resta non letto, non ascoltato per una generazione intera [ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, trad. it. a cura di A. Oberdorfer, Sperling & Kupfer, Milano 1934, pp. 25 e ss.[/ref].

Con queste suggestive parole Stephan Zweig racconta rapidamente la vita di Friedrich Hölderlin (1770-1843), “il più grande lirico tedesco dopo Goethe, un romantico che visse fuori dei confini del romanticismo vero e proprio”[ref]L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1971, vol. II, tomo III, p. 707 s.[/ref], colui che ha avuto la presunzione di servire soltanto l’arte e non vita, gli Dei e non gli uomini; un poeta che ha sperimentato la sofferenza tipica di una grande anima che geme e si sdegna di fronte alla brutalità spirituale che la sua epoca nutriva: “Ombroso, angosciato, tormentato, conscio della forza del suo spirito solo per soffrirne imponentemente […]. Diffidente, suscettibile[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 38 s.[/ref]”, egli sceglie di ‘dar gloria a ciò che eccelle’, nella consapevolezza che questa missione lo priverà di molte gioie: “Hölderlin è della razza di coloro cui non è dato di posare in un luogo […]. Incomincia, inavvertito, il “mirabile desiderio dell’abisso”, quell’attrazione misteriosa che cerca la sua propria profondità”[ref]Ivi, p. 84 s.[/ref]. In una lettera del 1798 Hölderlin scrive:

Vorrei vivere per l’arte alla quale appartiene il mio cuore, e invece debbo faticare tra gli uomini, tanto che spesso sono assai stanco di vivere…non sarei il primo che naufraga; molti, nati per essere poeti, ne sono periti. Non viviamo nel clima della poesia[ref]Lettera di Hölderlin in K. Jaspers, Genio e follia, trad. it. a cura di U. Galimberti, Rusconi, Milano 1990, p. 135.[/ref].

Hölderlin è un poeta ‘moderno’: in lui lo sradicamento esistenziale convive con quello intellettuale. È un poeta che non fa del suo “poetico” la conquista dell’autonomia estetica romantica, piuttosto consegna a questo “poetico” la dimensione religiosa, facendone la sua missione:

Nessun poeta tedesco ha creduto mai come Hölderlin nella poesia e nella divina origine di essa, nessuno ne ha difeso con tanto fanatismo l’incondizionatezza, l’incontaminatezza da ogni cosa terrena […]. La poesia […] è per Hölderlin il senso della vita […]. Essa colma l’abisso che c’è tra il sopra e il sotto dello spirito, fra gli dei e gli uomini[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 49.[/ref].

È intorno al 1930 che Martin Heidegger si avvicina alla poesia di Hölderlin, incontro questo che durerà per tutta la vita del filosofo. In una lettera del 31 Dicembre 1934 all’amica Elisabeth Blochmann, Heidegger scrive:

Nella mattina in cui Lei leggeva Hölderlin (6. XI) ho iniziato il mio corso, e ho letto dei passi proprio dalla lettera dell’1.I.1799. E ieri ho chiuso il corso con quella impressionante lettera del 4. XII. 1801 […]. Hö[derlin] ha pre-istituito la miseria – che ha un rinnovato inizio – del nostro esserci storico, affinché essa ci attenda. E la nostra miseria è la mancanza di miseria, l’impotenza a un’esperienza originaria della problematicità dell’esserci. E l’angoscia di fronte all’interrogare giace sull’Occidente; esilia i popoli in sentieri invecchiati e li ricaccia in fretta in dimore ormai decrepite[ref]M. Heidegger/E. Blochmann, Carteggio 1918-1969, trad. it. a cura di R. Brusotti, Il Melangolo, Genova 1991, p. 135 s.[/ref].

Nel 1936 egli è a Roma, su invito di Giovanni Gentile, con una conferenza su Hölderlin e l’essenza della poesia, in cui si dedica ampiamente all’interpretazione delle tesi capitali che animano la concezione poetica del lirico e che diverranno tema privilegiato della riflessione sul pensiero poetante: il dominio della poesia come luogo del linguaggio, la poesia come fondamento dell’essere e come suprema necessità del pensare. Su questo scenario di indagine ermeneutica si inseriscono i chiarimenti sulle liriche di Hölderlin: del 1939 è l’esegesi di Come quando al dì di festa, in cui il tema privilegiato è il rapporto che lega la Natura al poeta; del 1943 sono invece i testi nati dalle “delucidazioni” intorno alle poesie Rammemorazione e Ritorno a casa, i cui motivi di fondo tornano ad essere quelli del rapporto tra il Sacro e il poeta, della reciproca implicazione tra il linguaggio e il poeta, e della rammemorazione. Sarà proprio attraverso le meditazioni su Hölderlin che Heidegger approfondirà il suo congedo dall’estetica in vista dell’ontologia dell’arte.

Hölderlin gode di un primato indiscusso sugli altri poeti che Heidegger prende in esame (Hebel, Rilke, Trakl e George)[ref]Sul senso dell’interpretazione heideggeriana dei poeti sopra citati si rimanda a L. Amoroso, Quando domandare è (cor-)rispondere, in “Teoria”, n. 1, 1982, pp. 75 e ss.; L. Amoroso, Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenber & Sellier, Torino 1993; f. de alessi, Heidegger lettore dei poeti, Rosenberg & Sellier, Torino 1991; e. mirri, La resurrezione estetica del pensare, Bulzoni, Roma 1976; e. oberti,  Lineamenti di un’estetica di Heidegger in un saggio su Rilke, in “Rivista di filosofia neoscolastica”, n. 46, 1954, pp. 555 e ss.; g. vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Casale Monferrato 1989; g. vattimo, Heidegger e la poesia come tramonto del linguaggio, in Aa. Vv., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979, pp. 290 e ss.      [/ref]; il suo avvicinamento alla figura del lirico tedesco sorge da una necessità del pensiero heideggeriano che è quella di ricevere una parola adeguata per dire ciò che il linguaggio metafisico non è in grado di nominare. Proprio come colui che ricerca, Heidegger accoglie le sollecitazioni, gli aiuti hölderliniani per riscattare l’esperienza del linguaggio di Sein und Zeit[ref]Cfr. L. Amoroso, Nuovi movimenti del “colloquio” Heidegger-Hölderlin, in “Rivista di Estetica”, n. 5, 1980, pp. 97 e ss; E. Landolt, L’essere come ritmo o poesia nell’interpretazione heideggeriana di Hölderlin, in “Sicolorum Gymnasium,  1967, pp. 32 e ss.[/ref]. In questa ambiziosa operazione di ricerca ed accoglienza dell’aiuto proveniente dalla parola poetica, Heidegger sembra “utilizzare” il poeta, asservendo le intuizione filosofiche di questo alle maglie dell’ontologia; così, si staglia sullo sfondo della meditazione heideggeriana il merito hölderliniano di aver saputo intuire l’esito della metafisica occidentale nei termini di estremo oblio dell’essere e di erramento del pensare, presagendo la fine di un’epoca ed inaugurando l’aurora di un secondo inizio, quello del pensiero poetante: “Hölderlin, poetando è arrivato più lontano di tutti nell’epoca in cui il pensiero ancora una volta mirava a conoscere in modo assoluto l’intera storia accaduta”[ref]M. Heidegger, Contributi alla filosofia (dall’Evento), trad. it. a cura di F. Volpi e A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007, p. 213.[/ref].

Il senso ed il limite dell’interpretazione heideggeriana di Hölderlin è stato oggetto dibattuto a lungo da tanta parte della critica filosofica, sotto il duplice riguardo sia di una considerazione limitante dell’esegesi heideggeriana, sia di una considerazione tesa ad evidenziarne i meriti. Proprio alla luce dell’abbondante letteratura critica sul tema e da un ripensamento della prospettiva heideggeriana intorno ad Hölderlin, è evidente che Heidegger costruisca intorno al poeta una cornice ermeneutica che risulta forzata dalle necessità imposte dalla domanda sul senso dell’essere. A beneficio di un recupero ontologico della Seinsfrage, Heidegger non esita a mettere quasi in secondo piano quegli elementi che sono essenziali invece per comprendere tutta la portata estetica e teoretica insieme del lirico tedesco. Così prende forma nel “poetico pensare” del filosofo un’immagine di Hölderlin carente di elementi essenziali, come il romanticismo tedesco e l’idealismo, quali fonti privilegiate per la sua formazione lirica. Non solo: portando a compimento la riflessione romantica sul simbolo e sull’allegoria, Heidegger ne coglie il legame con il linguaggio mitopoetico[ref]Cfr. S. Givone, Heidegger e la questione romantica, in “Aut Aut”, 1989, n°. 234, pp. 59 ss.; P. Chiodi, L’estetica di Heidegger, in “Il Pensiero Critico”, 1954, n°. 9-10, p. 11.[/ref], e proprio in tal senso non si allontana molto dal progetto romantico dell’ideale poetico, né riconosce i suoi debiti nei confronti dell’idealismo tedesco[ref]In merito alla questione di un possibile debito del pensiero heideggeriano nei confronti dell’idealismo tedesco, si rimanda a V. Verra, Heidegger, Schelling e l’idealismo tedesco, in “Archivio di Filosofia”, 1974, pp. 51 ss.; P. Chiodi, L’estetica di Heidegger, cit., p. 11 s.[/ref].

II. Hölderlin fra filosofia e religione 

Tutta l’opera di Hölderlin e il suo itinerario poetico devono essere considerati alla luce della formazione dello Stift di Tubinga; in quel contesto culturale, Hölderlin integra la considerazione di Kant con le intuizioni fichtiane alla luce di uno spinozismo dal sapore platonico, permettendo così di flettere l’Uno-Tutto spinoziano attraverso una fantasia mitica che ricomprenda in unione e in armonia la vita. Di Kant egli riconosce l’essenzialità del metodo critico come momento preparatorio per il pensiero, una sorta di propedeuticità al sistema, evidenziando come essa trascenda ogni forma di sensismo[ref]Suggestiva la lettura che fornisce Stephan Zweig della frequentazione kantiana da parte del poeta: “A Weimar questo bambino va alla scuola di Fichte, di Kant, s’ingozza così disperatamente di dottrine filosofiche che lo Schiller stesso deve metterlo in guardia” (S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 72 s.) e poco oltre: “Il desiderato incontro con i Grandi si trasforma in pericolo e danno, e il libero anno di Weimar, da cui aveva sognato il compimento delle sue opere, passa quasi invano. La filosofia, ‘ospedale per poeti mancati’, non gli ha giovato” (Ivi, p. 79).[/ref]; di Fichte apprezza la profondità del suo pensiero tale da definirlo “un titano che combatte per l’umanità”[ref]G. W. F. Hegel, Epistolario, a cura di P. Manganaro, Guida, Napoli 1983, vol. I, p. 111.[/ref] e riconosce l’estrema importanza che l’opposizione Io e Non-Io riveste nel contrasto tra natura e libertà; di Spinoza, la cui conoscenza gli proveniva soprattutto dall’allora diffusa circolazione delle Lettere sulla dottrina di Spinoza di Jacobi, rileggeva nell’elemento dell’Uno-Tutto non tanto la sostanza infinita onnicomprensiva, quanto piuttosto il sentimento di fondo che lo legava sin dalla giovinezza alla natura ed alle sue potenze; di Platone apprezza le riflessioni sul bello, che tuttavia assumono in Hölderlin il sapore del tragico, e sull’importanza del mito all’interno della sua speculazione: il platonismo che egli abbraccia non è più quello della scissione tra idea e realtà, ma quello per il quale l’idea permea tutta la realtà. Proprio ciò lo sollecita a pensare a una fondazione della “mitologia della ragione”, in cui il mito diviene il punto di unione tra logos e poiesis; elevandosi oltre la simbologia allegorica, il mito produce una forma di spiritualità nuova, in cui persino gli dei stessi sono chiamata ad esistere come potenze originarie e non come semplici concetti. Potenze mitiche e mistiche ad un tempo, di cui tuttavia i poeti non sanno più riconoscerne l’identità:

Freddi ipocriti, non parlate degli Dei. Non siete voi intelligenti? Dunque non credete nel Dio del sole, in quello delle tempeste o del mare. La terra è una cosa morta: come dirle “Io ti ringrazio”? Rassicuratevi o Dei! Voi date la bellezza al canto anche se del vostro nome l’anima è fuggita e si è dispersa. Quando si richiede un grande nome si pensa a te, Natura madre[ref]F. Hölderlin, I poeti ipocriti, in Le Liriche, trad. it. a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1993, p. 409.[/ref].

Gli dei hölderliniani vivono con il poeta in una profonda intimità, al pari della Natura. Nell’Iperione, “il sogno fanciullesco d’un mondo ultraterreno, dell’invisibile patria terrena degli dei”[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 90.[/ref], egli svilupperà la sua concezione della Natura che riesce a superare la morte restituendo alla vita un’armonia perduta, redimendola dalla sua finitudine:

O felice natura! Non mi so render conto di ciò che avviene in me quando levo lo sguardo verso la tua bellezza, ma tutte le gioie del cielo sono nelle lacrime che io verso per la tua bellezza, come l’amante per la sua amata. Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto quando le delicate onde del vento giocano intorno al mio petto. Perduto nell’ampio azzurro del cielo, levo lo sguardo su verso l’etra e giù verso il mare sacro e mi sembra che uno spirito fraterno mi apra le braccia e che il dolore della solitudine si sciolga nella vita della divinità. Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei; questo è il cielo per l’uomo. Essere uno con tutto ciò che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, al tutto della natura, questo è il punto più alto del pensiero e della gioia, è la sacra cima del monte, è il luogo dell’eterna calma, dove il meriggio perde la sua afa, il tuono la sua voce e il mare che freme e spumeggia assomiglia all’onde di un campo di grano[ref]F. Hölderlin, Iperione, trad. it. a cura di G. V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 1981, p. 29.[/ref].

L’animo di Iperione vive in piena sintonia con la Natura, partecipando delle gioie e dei dolori del protagonista. Di questa immagine della Natura gli dei sono presenze reali, che partecipano anch’esse alle vicende del giovane:

Diotima è morta […]. E tu, mio caro Bellarmino, domandi quale sia il mio stato d’animo, mentre ti racconto tutto questo. Ottimo amico, sono calmo perché non voglio avere nulla di meglio di quanto hanno gli dei. Non deve ogni cosa soffrire? E tanto più soffrire quanto più uno eccelle? Non soffre la natura sacra? O mia divinità! Per tanto tempo non mi fu possibile comprendere che tu, beata come sei, potessi soffrire. Ma la voluttà che non soffre è sonno e, senza morte, non c’è vita […]. E ora dimmi, dove troverò ancora rifugio? Ieri salii lassù sull’Etna. Mi ricordai del grande siciliano che, un giorno, stanco di contare le ore, fidandosi dell’anima del mondo e pieno di ardimentoso desiderio di vita, si precipitò nelle splendide fiamme; e un freddo motteggiatore lo irrise dicendo che il freddo poeta aveva dovuto scaldarsi al fuoco. Quanto volentieri avrei preso su di me il peso di questa derisione[ref]Ivi, pp. 168 e ss.[/ref].

La consapevolezza di questa Natura porta il poeta a vivere lo spazio come manifestazione della sua sacralità: “Tutto ciò che può essere nominato si trova all’interno di essa. Essa è l’autentico e l’essenziale, il sacro Tutto al di là di cui non vi è più nulla”[ref]R. Guardini, Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, trad. it. a cura di L. Tieck e G. Colombi, Morcelliana, Brescia 1995, vol. I, p. 179.[/ref]. In questa dimensione della Natura, la Jonia e Jena non sono poi così distanti: la Germania è davvero il luogo in cui si compie e si consuma l’esistenza del poeta, o se si vuole, la patria più immediata rispetto alla amata Grecia. E proprio la Grecia per lui non è soltanto terra, popolo, cultura, dei, quanto la realizzazione dell’attesa del futuro avveniente. È dalla Grecia che si attende il compimento della promessa del ritorno degli dei, è dalla Grecia che si attende la nuova aurora. In ciò risiede l’appartenenza di Hölderlin alla grecità, “non meno di Esiodo e di Pindaro”[ref]A. Caracciolo, Prefazione in W. F. Otto, Theophania. Lo spirito della religione greca antica, trad. it. a cura di A. Caracciolo e M. Perotti Caracciolo, Il Melangolo, Genova 1983, p. 17.[/ref].

Hölderlin così riattiva il legame con la Natura, quella “corrispondenza d’amorosi sensi” di cui la sua anima è interamente pervasa. Tuttavia, questa “religione della Natura”, in cui gli dei sono il baricentro da cui si espande il luminoso, gradatamente inizia ad abbracciare ed includere in sé anche l’elemento cristiano, dapprima rimosso e poi presente attraverso la mediazione della figura centrale di Cristo: “Quanto alla religione, si rese sempre più chiaramente conto dell’abisso che divideva la sua poetica religione della natura dal cristianesimo; ma al cristianesimo e in particolare alla figura di Cristo rimase poi sempre disperatamente attaccato”[ref]L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, cit., vol. II, tomo III, p. 709.[/ref].

III. La figura di Cristo nell’estetica hölderliniana e la missione del poeta

Hölderlin fu educato dalla madre al pietismo, ma non visse le dottrine e le figure cristiane come espressione immediata della sua vita religiosa, poiché non erano da lui considerate sufficientemente valide ed idonee per realizzare la sua missione di poeta attraverso la loro mediazione. Il pietismo esercitò una certa influenza sulla formazione spirituale del poeta[ref]A. Giannatiempo Quinzio, Influssi pietistici e istanze escatologiche nella poesia di Friedrich Hölderlin, in “Bailamme”, 1993, n°. 14, pp. 143 e ss.[/ref], in particolar modo quell’isolamento spirituale che lo condusse a vivere la religione in solitudine. Il Dio della tradizione cristiana non era in grado di raccogliere entro sé gli elementi che Hölderlin riteneva essenziali per la Volksreligion: il religioso, il popolo e il mondo. Egli “prende le distanze dal messaggio cristiano, trovando l’adeguata espressione della sua esperienza nell’antico mondo degli dei o in numi di creazione originale”[ref]R. Guardini, Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, trad. it. a cura di L. Tieck e G. Colombi, Morcelliana, Brescia 1995, vol. I, p. 243. Seguendo l’intuizione di Guardini il rapporto di Hölderlin con il cristianesimo conosce tre fasi articolate in un iniziale periodo di religiosità giovanile, a cui segue la crisi per poi tornare ad appropriarsi della figura del Cristo.[/ref]. Solo in un secondo momento avvertirà l’esigenza di introdurre la figura di Cristo, che acquisterà progressivamente una potenza di sintesi sempre maggiore fino ad entrare in conflitto con gli dei olimpici. Così, dopo un periodo di rifiuto e di distanza dal cristianesimo, la figura di Cristo affiora nella poetica  e si staglia in tutto il suo spessore.

Ma chi è il Cristo di cui parla questo romantico? Sin dal tempo di Tubinga, Hölderlin – insieme a Schelling e Hegel – vede nella figura di Cristo una possibile flessione dell’Uno-Tutto attraverso la quale leggere l’avvento del “Regno di Dio” e della “Chiesa invisibile”. Seguendo l’articolato e complesso itinerario del poeta, dalla formazione teologica dello Stift fino alle ultime liriche in cui il suo spirito era ancora presente a se stesso, il Cristo di cui egli parla non è semplicemente il Gesù storico, dal momento che Hölderlin gli riconosce gli attributi di “Dio” e di “semidio”; attraverso l’uso di questi attributi il suo intento non è quello di sottolineare la kenosis del Dio fatto uomo, quanto piuttosto differenziarlo dal Dio padre. Il poeta riconosce in Cristo una divinità e tuttavia lo colloca nello “splendido trifoglio”, accanto a Eracle e Dioniso; egli è l’ultimo dio, il dio a venire, “colui che visse presentemente in mezzo agli uomini, lasciò a coloro che sono abbandonati nella notte la consolazione e la promessa del ritorno”[ref]H. G. Gadamer, Interpretazioni di poeti, trad. it. dei cap. I e II a cura di M. Bonola e dei cap. III e IV a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1980, p. 17.[/ref]. Cristo è il signore dell’epoca futura[ref]Cfr. M. Frank, Il dio a venire. Lezioni sulla nuova mitologia, trad. it. a cura di F. Cuniberto, Einaudi, Torino 1994, pp. 238 ss.[/ref], Egli ha dei tratti che rimandano alla seconda potenza schellinghiana come termine che permette il ritorno alla pienezza dell’unione tra il Padre e lo Spirito[ref]Cfr. F. W. J. Schelling, Filosofia della rivelazione, trad. it. a cura di A. Bausola, Rusconi, Milano 1997, pp. 928 ss.[/ref]; nella terza stesura de L’Unico, Hölderlin scrive:

Cristo però si destina da solo. Ercole è come i prìncipi, Bacco è spirito di comunione. Cristo però è la fine[ref]F. Hölderlin, L’Unico, in Le liriche, cit., p. 965. Cfr. anche R. Guardini, Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, cit., vol. II, pp. 716 ss.[/ref].

Cristo è il momento di passaggio, è “presenza nel destino storico dell’Occidente”[ref]H. G. Gadamer, Interpretazioni di poeti, cit., p. 16.[/ref].

Il fatto di essere la fine lo distingue dai due fratelli. Eracle è nel tempo primo; è lottatore, vincitore di potenze avverse, ordinatore del caos, fondatore, sofferente e dominatore allo stesso tempo. Dioniso supera le divisioni dell’esistenza attraverso la potenza che tutto unifica dell’ebbrezza e della trasformazione. Cristo, invece, viene quando il giorno del mondo volge al termine e “si fa sera”. Indica la notte che incombe e vi istituisce  una “promessa”: la celebrazione della “gratitudine”, l’Eucarestia, affinché dia forza ai disposti a credere, li educa a intendere finché viene la soluzione […] la mondanizzazione del Regno di Dio biblico[ref]R. Guardini, Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, cit., vol. II, p. 719 s.[/ref].

Cristo entra nella poesia di Hölderlin proprio come assenza, come colui che deve tornare, come “presenza dell’assente nella sua assenza”. Come la intende Hölderlin, la poesia è il risolversi della materia in spirito, una sorta di sospensione della legge di gravità della materia. La sua poesia “non vuole essere mai plastica, ma sempre soltanto luminosa […], non vuole far vedere, descrivendo, qualche cosa di reale sopra la terra, ma portare intuitivamente nei cieli qualche cosa di non sensibile, qualche cosa del sentimento spirituale”[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 110 s.[/ref]. La poesia diviene in tal senso una sorta di specchio per la filosofia e ciò segnerebbe il confine che divide Hölderlin dall’idealismo tedesco, quello spartiacque per il quale la sua opera non può far parte dell’idealismo tedesco in toto. Egli vuole risignificare in profondità la poesia, vuole riconferirle una dignità superiore, riconducendola alla sua funzione originaria: educatrice dell’umanità[ref]Cfr. F. Hölderlin, Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco, in Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 162.[/ref]. In questa grandiosa operazione di restituzione del proprium alla poesia, Hölderlin compie un vero itinerario filosofico all’interno del poetare, che lo porta a vedere nella poesia l’essenza di ogni sapere, non in ultimo l’essenza stessa della religione, compiendo un itinerario speculare e nel contempo differente a quello hegeliano – come si vedrà più oltre – per il quale “ogni religione sarebbe per sua essenza poetica”[ref]F. Hölderlin, Sulla religione, in Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 61.[/ref]. È in tal senso che la poesia acquista una dimensione fondativa rispetto al reale e alla religione, dimensione che proprio Heidegger ha avuto il merito di sottolineare. Come osserva Cornelio Fabro,

se l’essenza dell’arte è la Dichtung, l’essenza del Dichtung è la fondazione [Stiftung] della verità, la quale va intesa nel triplice senso di donare [Schenken], fondare o radicare [Gründen] e iniziare [Anfangen]. È anzitutto donare, perché se la verità e la realtà dell’arte è opera, non è deducibile da ciò che già è e precede ma è profusione [Ueberfluss], e quindi una donazione. È radicare, perché il progetto poetizzante della verità che si pone in opera non è lasciato nel vuoto, ma è rivolto all’umanità futura, cioè storica secondo il duplice orientamento del Mondo e della Terra, è un prendere e un creare, non nel senso del soggettivismo moderno, ma in quello del porre il fondamento fondante ed in questo senso si può dire anche del nulla, perché trascende ciò che è dato. È iniziare, in quanto non è mediato da altro, e quindi comporta un salto [Sprung]: così è sempre l’origine [Ursprung] in cui precisamente si pone il fondamento della nuova opera e si mantiene in qualche modo nascosta anche la fine: quindi non va scambiato con la primitività nel senso abituale[ref]C. Fabro, Ontologia dell’arte nell’ultimo Heidegger, in “Giornale Critico della Filosofia Italiana”, n.° 31, 1952, p. 354[/ref].

Nel verso “ciò che resta lo fondano i poeti” è racchiuso tutto il senso della missione hölderliniana: i poeti fondano ciò che è destinato a durare nel quadro della dialettica tra l’eterno e l’effimero, lo fondando a partire dal poetare che dona fondamento all’ente. In base a questa determinazione del poetare, Heidegger scrive:

La poesia è istituzione attraverso la parola e nella parola. Che cos’è che viene così istituito? Ciò che resta stabile. Ma ciò che è stabile può mai venir istituito? Non è già sempre presente? No! Proprio lo stabile deve essere fissato, lottando contro il travolgimento; il semplice deve venir strappato alla confusione, la misura deve venir preposta allo smisurato. Deve venir all’aperto ciò che regge e pervade l’ente nel suo insieme[ref]M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 49.[/ref].

Cos’è che resta alla cura del poeta?

Il poeta nomina gli dei e tutte le cose in ciò che esse sono. Questo nominare non consiste nel fatto che qualcosa di già noto prima verrebbe soltanto provvisto di un nome, ma, invece, quando il poeta dice la parola essenziale, l’ente riceve solo allora, attraverso questo nominare, la nomina a essere ciò che è. Così viene riconosciuto in quanto ente. La poesia è istituzione in parola (worthaft) dell’essere. Ciò resta non viene perciò mai attinto da quanto è caduco […]. Il dire del poeta è istituzione non solo nel senso della libera donazione, ma anche al tempo stesso nel senso della fondazione dell’esserci umano sul suo fondamento[ref]Ivi, p. 50.[/ref].

È legittimo intendere questo primato della poesia come atto di fondazione del reale rispetto alla filosofia proprio nei termini di una flessione del problema del fondamento verso la direzione individuata dall’ontologia dell’arte. Heidegger aveva già affrontato tale tema nel corso delle lezioni tenute durante il semestre invernale 1955/1956 all’Università di Friburgo, lezioni confluite poi nel bel testo Il principio di ragione, dove il tema del fondamento, oltrepassando l’esito metafisico, può essere salvaguardato nell’orizzonte della poesia[ref]Cfr. M. Heidegger, Il principio di ragione, trad. it. a cura di G. Gurisatti e F. Volpi, Adelphi, Milano 1991, pp. 72 e ss.; M. Heidegger, Dell’essenza del fondamento, in Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, pp. 93 e ss.[/ref]. Egli suggerisce di pensare la fondazione operata dalla poesia anche in rapporto alla temporalità dell’esistenza del Dasein, realizzando tuttavia uno svuotamento dell’eternità a favore dell’accadere esistentivo. Ciò sembra essere distante dalla effettiva volontà di Hölderlin che nell’atto di fondazione del reale consegna alla poesia altresì la possibilità di eternizzare il mondo rispetto ai limiti dell’esistenza. La parola del poeta fonda qualcosa che è destinato a rimanere, poiché essa è trascendente. La parola che fonda è così consegnata dal poeta/vate alla storia proprio nel passaggio che va da un’epoca all’altra, in quanto essa risiede nella stabilità, nello stesso perdurare che legittima la fondazione di ciò che resta. Mi sembra corretto vedere in questa volontà da parte del poeta tedesco l’annunciarsi di un itinerario speculativo che vuole affidare alla poesia il compito fino ad allora assolto dalla religione, proprio come ciò che dà esistenza al mondo. Questa volontà prende forma fin dagli appunti giovanili ed è contenuta ne Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco; qui infatti si legge:

Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo dell’immaginazione e dell’arte: è questo di cui abbiamo bisogno! […] Se non daremo alle idee una forma estetica, cioè mitologica, esse non avranno interesse per il popolo, e viceversa: se la mitologia non è razionale, il filosofo ne deve provare vergogna. E così alla fine coloro che sono illuminati e coloro che non lo sono, si uniranno: la mitologia deve diventare filosofica, così da rendere il popolo razionale, e la filosofia deve diventare mitologica, così da rendere sensibili i filosofi […]. E potremmo sperare allora in un armonico sviluppo di ogni capacità, nel singolo come nella totalità degli individui. Nessuna capacità sarà più repressa; finalmente regnerà una grande libertà e uguaglianza degli spiriti! Uno spirito superiore inviato dal cielo dovrà fondare tra noi questa nuova religione; sarà l’estrema, la più alta opera dell’uomo![ref]F. Hölderlin, Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco, in Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 162 s.[/ref]

Mentre gli amici degli anni dello Stift (Schelling ed Hegel) avvertono fondamentale sanare la scissione, il dissidio, la lacerazione, quella che Hegel chiamerà “l’infelicità della coscienza”, Hölderlin invece sa che tale scissione è insanabile poiché essa è ciò che caratterizza l’anima stessa dell’uomo. Il poeta non accetta nessuna mediazione concettuale, nessuna Aufhebung, e rinuncia dapprincipio ad ogni forma di mediazione dialettica[ref]O. Pöggeler, Hölderlin, Schelling und Hegel bei Heidegger, in “Heidegger Studien”, vol. 28, 1993, pp. 320 e ss.[/ref];

Hölderlin incontra i concetti fondamentali dell’idealismo filosofico e se ne impossessa; ma poiché questi concetti in lui si radicano in altre premesse spirituali, essi assumono per lui un altro significato e per così dire un altro colore, rispetto a quelli che possiedono per i fondatori della speculazione idealistica[ref]E. Cassirer, Hölderlin e l’idealismo tedesco, trad. it. a cura di A. Mecacci, Donzelli, Roma 2001, p. 30.[/ref].

IV. La bellezza che accoglie la scissione

È all’interno di questa “infelicità consapevole”, di questa accettazione del dolore e della lacerazione come termini inconciliabili, che nasce la categoria estetica del bello, la quale trova la sua più compiuta formulazione nell’Iperione, a cui Hölderlin lavora tra il 1792, nella forma di abbozzo preliminare, e il 1797. Proprio in questo romanzo il poeta scrive una delle pagine più belle e ricche di spunti filosofici per comprendere la sua derivazione dall’idealismo e nel contempo il suo oltrepassamento:

La prima creatura della bellezza umana e della bellezza divina è l’arte. In essa l’uomo divino si ringiovanisce e si rinnova. Vuole prendere coscienza di sé, per questo egli si colloca di fronte alla propria bellezza. In tal modo l’uomo si creò i suoi dei. Perché in principio l’uomo e i suoi dei erano una cosa sola, quando ignota a se stessa, esisteva l’eterna bellezza […]. La seconda creatura della bellezza è la religione. Religione è l’amore della bellezza. Il saggio ama proprio lei, l’infinita che tutto contiene; il popolo ne ama le creature, gli dei che gli appaiono sotto varie forme[ref]F. Hölderlin, Iperione, cit., p. 99 s.[/ref].

E nella prefazione alla penultima stesura del romanzo scrive:

Noi tutti percorriamo una traiettoria eccentrica e non vi è altra via che possa condurre dalla fanciullezza al compimento. La divina unitezza, l’essere nel significato autentico della parola, è per noi andato perduto, e doveva essere perduto per poterlo poi desiderare, riconquistare […]. Spesso per noi è come se il mondo fosse tutto e noi nulla, però anche come se noi fossimo tutto e il mondo nulla. Anche Iperione era lacerato tra questi due estremi. Porre fine all’eterno contrasto tra il nostro essere e il mondo, ristabilire la pace di tutte le paci, che è superiore a ogni ragione, riunificarci alla natura in un tutto infinito, questo è il fine di ogni nostra aspirazione […]. Non avremmo però alcun presentimento di quella pace infinita […] se quell’unificazione infinita, quell’essere, nel significato autentico del temine non fosse già presente. È presente come bellezza[ref]F. Hölderlin, “Prefazione” [alla penultima stesura dell’ ”Iperione”], in Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 54 s.[/ref].

L’ideale hölderliniano della bellezza racchiude in sé il tragico da cui non può esserne scisso. La bellezza non è serafica, non è consolatoria, bensì è conciliazione “entro la discordia stessa”[ref]F. Hölderlin, Iperione, cit., p. 178.[/ref], è ciò che rende possibile l’unione pur mantenendo la distinzione degli elementi opposti e il loro conflitto, è sottrazione della coscienza rispetto al dominio estetico, è segno del negativo. La bellezza hölderliniana sembra avere quello stesso sapore amaro scoperto da Rimbaud, se pur nella totale ed esclusiva diversità della scoperta e dell’accettazione del proprio sé: mentre Rimbaud ha dovuto sperimentare il fallimento e la dissoluzione, ha dovuto “farsi pieno di deserto” per scoprire la desolazione delle albe, Hölderlin ha dovuto “farsi pieno di dei” per riscoprire il volto mistico della natura, ha dovuto in definitiva scoprire nella bellezza il segno di un’assenza. Questa bellezza, così prossima alla soglia del nulla[ref]Cfr. L. Chiuchiù, Soglia della bellezza. Hölderlin, in “Davar”, n. 3, 2006, pp. 73 e ss.[/ref], ha in sé il tratto distintivo di questa vicinanza abissale, una porzione di negativo che forse, nemmeno nella più alta speculazione di Hegel riesce a mostrare tutta la sua portata fino a s-fondare il campo dell’estetica. Infatti, nella riflessione del pensatore di Stoccarda il negativo è pensato attraverso un alto sforzo speculativo nell’orizzonte di fondazione della dialettica, costituendone il nerbo logico oltre che reale; il negativo assume, in un primo momento, la forma della disuguaglianza dell’Io con la sua propria sostanza e, in un secondo momento, la disuguaglianza della sostanza con se stessa. All’interno dello sviluppo dello Spirito, solo nella veste del concetto il pensiero riesce a formulare un’adeguata comprensione del negativo, e tale veste è anche quella che nelle lezioni di estetica porta Hegel a parlare di Auflösung: dissoluzione”, “risoluzione”, proprio per esprimere l’esigenza dialettica del sistema per la quale l’arte, come primo momento della filosofia dello Spirito, deve essere superata, e quindi deve dissolversi, in una forma più adeguata per esprimere la vera forma dell’Assoluto. Quindi, in Hegel la portata del negativo è pur sempre funzionale alla Aufhebung che non tollera la dissoluzione, la “conciliazione entro la discordia” e che per realizzare la marcia trionfante dell’Idea assoluta è pronta a lasciare il negativo al di fuori dell’estetica. Hölderlin sembra muoversi nella direzione opposta: egli pensa il negativo interno alla bellezza proprio a partire dal tragico, il quale è la categoria più propria a determinare la doppia appartenenza che la bellezza ha verso il nulla e verso l’essere. E’ in tal senso che Hölderlin s-fonda l’estetica poiché pensa il negativo contenuto nella bellezza come sua dimensione più originaria. Egli porta la coscienza alla consapevolezza che la bellezza è estranea all’Aufhebung, che al suo posto vi è solo conciliazione entro discordia. Questo è il senso del seme tragico della poetica hölderliniana che trova la sua rappresentazione più compiuta in Empedocle. Il progetto per la stesura de La morte di Empedocle è già contenuto, in filigrana, nell’Iperione, proprio nel periodo francofortese. Empedocle sintetizza i due stati d’animo già presenti in Iperione: la venerazione per la divinità della Natura e la fuga da una vita insoddisfacente per l’uomo:

Empedocle è figlio del suo cielo, della sua epoca, della sua patria, figlio delle forti opposizioni tra natura e arte, con cui il mondo si mostrò ai suoi occhi. È l’uomo in cui quegli antagonismi si conciliano così profondamente da divenire in lui unità, abbandonando e invertendo la loro forma distintiva originaria […] Il suo destino si rappresenta in lui come conciliazione momentanea, che tuttavia è costretta a dissolversi per accrescersi[ref]F. Hölderlin, Fondamento dell’ “Empedocle”, in Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 84 e ss.[/ref].

Rispetto ad Iperione, la novità di Empedocle risiede nel fatto che la sua anima è coinvolta all’interno del dissidio, di questa dialettica inconciliabile tra l’Io e il Non-Io. Forse non è errato considerare Empedocle come un eroe tragico in senso moderno poiché in lui si manifesta una lacerazione non solo morale ma anche psicologica. Di fronte a questa lacerazione egli sceglie la morte, ma non come un personaggio della tragedia greca, non come una maschera eschilea che sopporta la morte tragicamente sofferta, piuttosto egli sceglie la morte liberamente, con consapevolezza gioiosa: “La morte sola può salvare quel che c’è di sacro del poeta. Il suo intatto entusiasmo non contaminato dalla vita; solo la morte può eternare la vita in un mito”[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 103.[/ref]. La morte non è il semplice avvenimento che chiude un ciclo biologico, ma un evento che si compie in riferimento al Tutto e che, se da un lato priva l’uomo di ciò che è dato, dall’altro lo riconsegna a ciò che all’uomo  è sottratto.

Empedocle non può, o forse non vuole ulteriormente, essere parte della tensione verso l’Uno-Tutto. Empedocle è l’eroe tragico che non si accontenta della logodicea hegeliana; piuttosto, egli permane, parafrasando Hegel, all’interno della potenza del negativo. Attraverso questo personaggio Hölderlin accetta e si fa carico del travaglio del negativo, rinunciando ad ogni soluzione che tenti di conciliare gli opposti, di oltrepassare il negativo. Piuttosto, egli resta nel negativo, sperimentandolo fino in fondo come dolore, limite, assenza, portando a compimento la dialettica del sentimento, opposta ed opponentesi alla dialettica del concetto. È in questo ordine di trame emotive che forse il limite di Empedocle, quel limite per il quale egli ha scelto la morte, risiede nel fatto di non poter rendere ragione esteriormente dell’unità interiore intessuta tra il suo Io e la Natura:

sempre più si avvicina la mia ora e dai dirupi giunge sino a me il fido araldo della notte, il vento della sera, messaggero d’amore. È maturato il tempo. Palpita, giacché lo spirito sta sopra di te come astro luminoso, mentre in cielo trasmigrano le nubi senza patria, sempre in fuga. Che sento? Mi stupisco come se la mia vita cominciasse, perché tutto è diverso e solamente ora io sono… […] e tu, Natura, mi porgi il calice tremendo e spumeggiante, affinché il tuo cantore possa bere l’entusiasmo supremo! Sono felice, non cerco altrove il luogo della fine[ref]F. Hölderlin, Empedocle, trad. it. a cura di E. Pocar, Garzanti, Milano 1998, p. 127 s.[/ref].

V. Heidegger e Hölderlin

Nell’intervista rilasciata a Der Spiegel Heidegger affermava:

Il mio pensiero sta in un rapporto inaggirabile con la poesia di Hölderlin. Io non considero Hölderlin come un qualunque poeta, la cui opera gli storici della letteratura prendono in considerazione accanto a quella di molti altri. Per me Hölderlin è il poeta che indica verso il futuro, che attende il Dio[ref]M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare, trad. it. a cura di A. Manni, Guanda, Parma 1987, p. 147.[/ref].

Proprio in qualità di colui che indica,

Hölderlin non è stato scelto perché la sua opera, come fra le altre, realizzi l’essenza generale della poesia, ma unicamente perché la poesia di Hölderlin è poeticamente determinata e destinata a poetare espressamente l’essenza stessa della poesia. Hölderlin è per noi in un senso eminente il poeta del poeta[ref]M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, trad. it. a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988, p. 42.[/ref].

Egli è per Heidegger il termine necessario che fa del fondamento un tema intimo alla poesia e alla filosofia, snodo concettuale essenziale attraverso cui rendere ragione della flessione della Seinsfrage dopo l’incompiutezza di Sein und Zeit. Il poetare è in questa direzione il continuamento e l’inveramento delle posizioni contenute nell’opera del ’27. Forse il maggior merito dell’interpretazione heideggeriana è quello di aver compreso come l’essenza della poesia di Hölderlin sia storica in sommo grado. La filosofia della storia che soggiace alla sua produzione è tutta tesa a mettere in evidenza come la storia sia estrinsecazione del divino. La storia è historia signa temporum ma sotto il segno del negativo, cioè della mancanza del divino nel presente, quindi tempo di povertà; ma anche storia dei segni della presenza del divino nel tempo che viene, cioè storia dell’epifania del divino a partire da una dialettica di assenza/presenza. La storia ha un significato provvidenziale ed è storia escatologica: questo senso religioso della storia destina tutte le cose ad una loro trasformazione:

Questa dottrina è applicata da Hölderlin al compimento che deve realizzarsi nel corso della storia quando quest’ultima è giunta in un vicolo cieco. Ciò che ritorna non è più Cristo, ma la Grecia. Colui che manda non è il Padre, ma l’Etere, la forza operativa non è più lo “Pneuma di Cristo”, ma la pienezza dionisiaca dello spirito. Il nodo da sciogliere non è il peccato dell’umanità, ma l’intrinseca mancanza di sbocchi della storia[ref]R. Guardini, Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, cit., vol. I, p. 220 s.[/ref].

La fiduciosa attesa per la realizzazione dell’eschaton e il compimento non solo dell’idealizzato “Regno di Dio” di provenienza degli anni giovanili ma anche della venuta degli dei dell’età matura, e più in generale della Grecia, sono il sigillo con cui al poeta è concesso di cantare il tempo dell’attesa, il “venerdì santo poetico”. Come giustamente afferma Romano Guardini, Hölderlin non è più un’artista, ma diventa un vate[ref]Ivi, p. 7.[/ref] che vede e si commuove, in cui l’elemento visionario non va “inteso come “fenomeno psicologico”, bensì come “processo di donazione”, attraverso cui possono emergere fenomeni e connessioni altrimenti nascosti”[ref]Ivi, p. 10.[/ref]. Come vate, egli pretende fede, che si creda cioè al ritorno della Grecia, alla trasformazione della vita che “si ricolma di senso divino”. Il concetto di futuro che sottende a questa concezione della storia contiene in sé il riferimento all’eternità, a ciò che deve prepararsi per venire in eterno. Non si tratta di chiliasmo, ma di fiduciosa attesa del momento in cui “il non terreno entra nel terreno, l’eterno nel temporale, ma in modo tale di mantenere il terreno terreno ed il temporale temporale. Questo significa però che la storia e la non-storia, la terra e il cielo, l’economia escatologica e il decorso dell’esistenza si ritroveranno in uno”[ref]Ivi, p. 227.[/ref]. Proprio alla luce di questa esigenza così stringente del pensiero e della poetica di Hölderlin è allora possibile comprendere tutta la portata della missione poetica, del canto come rammemorazione, come ricordo delle promesse: “Custodire la memoria è da sempre la missione del poeta. Questa sua missione assume qui il significato di risvegliare e suscitare ciò che è assente”[ref]H. G. Gadamer, Interpretazioni di poeti, cit., p. 18.[/ref]. Nella stesura aggiuntiva della lirica L’arcipelago Hölderlin scriveva:

Ma poiché così prossimi sono gli Dei presenti debbo essere come se fossero lontani, e oscuro tra nubi deve esserci il loro nome , solo prima che il mattino splenda, prima che arda la vita del mezzogiorno li nomino per me in silenzio, perché il poeta abbia ciò che è suo, ma quando la luce celeste discende volentieri penso al passato e dico – fiorite intanto[ref]F. Hölderlin, L’arcipelago, in Le liriche, cit., p. 950.[/ref].

Come osserva Remo Bodei, “nella lontananza massima del dio dall’uomo, traspare quasi per absentiam l’unità dell’essere e la presenza del divino”[ref]R. Bodei, Hölderlin: la filosofia e il tragico, in F. Hölderlin, Sul tragico, trad. it. a cura di G. Pasquinelli e R. Bodei, Feltrinelli, Milano 1989, p. 18.[/ref]. In Vocazione del poeta si legge:

No, non la sorte e non l’ansia dell’uomo o nella casa o sotto il cielo aperto, anche se egli si adopera e se si nutre più nobilmente della belva – altro conta, cura e missione dei poeti. È l’Altissimo, a cui apparteniamo, perché nuovo nel canto e più vicino l’accolga in amicizia il cuore umano[ref]F. Hölderlin, Vocazione del poeta, in Le liriche, cit., p. 449.[/ref].

La mancanza non è solo privazione ma è anche destino storico, nominato dal poeta sulla soglia del compimento della promessa, “la sacra Memoria che serbi desta lungo le notte”[ref]F. Hölderlin, Pane e Vino, in Le liriche, cit., p. 521.[/ref]. Tutta la poesia di Hölderlin è una teofania vespertina:

Romantica è la poesia hölderliniana della natura, perché la teofania, che ne è il fulcro ed il senso, vi costituisce un breve momento, un momento che nella sua brevità appare quasi illusorio. Essa si compie sempre nell’ora del crepuscolo […]Prima che la luce svanisca del tutto, per un attimo, per un attimo solo, il nume scende misteriosamente sulla terra, sembra toccare i vertici degli alberi più alti e chi sotto gli alberi giace in mezzo ai fiori, è colmo della certezza inebriante che è scomparsa ogni distanza tra la terra e il cielo, fra gli uomini e gli dei, tanto che la lieve aura vespertina che avvolge e compenetra i sensi dei mortali, ravvivandoli dopo l’arsura meridiana, sembra concreta emanazione dell’anima invisibile e pur sempre presente dell’universo[ref]L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, cit., vol. II, tomo III, p. 713.[/ref].

Quando si avverte di nuovo la luce sulla terra, il dio abbandona il mortale e torna nel numinoso spazio dove egli abita. Gli dei vivono nell’eterna gloria che pur non avvertono: per questo si fanno vicini agli uomini, affinché essi attestino il rapimento che la gloria olimpica esercita su di loro. Gli dei hanno bisogno del cuore degli uomini, poiché attraverso questo essi sanno il loro eterno splendore.  Nel tanto noto Perché i poeti Heidegger prende le mosse proprio povertà spirituale e intellettuale dell’epoca contemporanea, pur inserendola nel solco della già tracciata critica alla metafisica:

Con la venuta e il sacrificio di Cristo ha avuto inizio, secondo la concezione storica di Hölderlin, la fine del giorno degli dei. È caduta la sera. Da quando i “tre che sono uno”: Ercole, Dioniso e Cristo, hanno lasciato il mondo, la sera del tempo mondano va verso la notte. La notte del mondo distende le sue tenebre. Ormai l’epoca è caratterizzata dall’assenza di Dio, dalla “mancanza” di Dio. La mancanza di Dio, come venne sentita da Hölderlin, non nega la persistenza di un atteggiamento cristiano verso Dio […]. La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé gli uomini e le cose […]. Ma nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora. Non solo gli dei e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza[ref]M. Heidegger, Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, cit., p. 247.[/ref].

Il compito del poeta si colloca all’inizio di un’apertura storica: il poeta si fa solo esecutore del processo storico a cui l’essere lo chiama a partecipare con la funzione di nominare questa mancanza originaria. Nell’adempimento di questo compito egli deve anche mantenere il mistero dell’origine che determina il rapporto tra essere ed uomo, facendosi carico di una vera e propria missione: egli deve fare epoca, nominando l’epoca della povertà a cui esso presiede e la modalità con cui l’essere si disvela. Suggestivamente Heidegger scrive: “Il poeta, come semidio, è l’opera degli dei e degli uomini, cioè il frutto della festa nuziale”[ref]M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 135 s.[/ref]. Per questa vicinanza che egli ha con il divino, il poeta può apparire simile ad un profeta:

I poeti possono dire ciò che, prima del loro poetare e per esso, è la poesia, solo se dicono ciò che precede ogni reale: ciò che viene [….]. I poeti, se sono nella loro essenza, sono profetici. Ma non sono “profeti” nel significato giudaico cristiano del termine […]. Essi predicono subito il dio come sicura garanzia di salvezza nella beatitudine ultraterrena. Non si sfiguri la poesia di Hölderlin con “il religioso” della “religione”, la quale è e rimane un modo romano d’interpretare il rapporto fra gli uomini e gli dei. Non si prostri l’essenza di questa missione poetica facendo del poeta un “veggente” nel senso dell’indovino. Il sacro annunciato primieramente nella poesia non fa che aprire lo spazio-tempo di un’apparizione degli dei ed indicare la località dell’abitare dell’uomo storico su questa terra[ref]Ivi, p. 136 s.[/ref].

Nella sua prossimità con il divino, il poeta rende ragione anche del Sacro. Hölderlin adopera tre distinte espressioni per nominare il Sacro: das Heilige, das Höchste ed infine der Abgrund, tre parole che vengono usate dal poeta quasi indifferentemente, sebbene l’ultima assuma un’accezione più ampia in quanto rimanda all’abisso che si cela dietro al Sacro. Nello heil risuona

quell’idea di vigore, vitalità, impeto […]. È attributo di venti, cavalli, uomini, città […] ma anche di cose […] colte […] in un istante culminante della loto potenza […]. Heilig conserva intatto questo significato in Hölderlin; etimologicamente, dunque, esso si oppone ad ogni idea di sacralità[ref]M. Cacciari, Il problema del sacro in Heidegger, in “Archivio di filosofia”, n. 1, 1989, p. 205 s.[/ref].

Questo termine assume il senso che conosciamo dalle parole del poeta a seguito di una trasformazione che lo colpisce e lo suggestiona; deve esserci qualche elemento che rapisce Hölderlin e che lo spinge a parlare di Sacro. Il Sacro non è il divino: essi sono distinti; il Sacro è ulteriore al divino, è “ ‘ciò’ da cui ek-siste”[ref]Ivi,  p. 206.[/ref], ciò che rimanda ad un’apertura originaria fondativa. La fedeltà alla verità che il Sacro rappresenta è il tratto più caratteristico della poetica di Hölderlin; in Come al dì di festa si legge:

L’attesi, l’ho veduto venire. Quello che vidi, il Sacro, sia la mia parola. La Natura più antica delle età, sopra gli Dei d’oriente e d’occidente, si è ora destata con un suono d’armi, e dall’Etere alto ai fondi abissi secondo leggi ferme, come un tempo quando la generò il sacro Caos sente in sé nuova quella che tutto crea, l’estasi ardente[ref]F. Hölderlin, Come quando al dì di festa, in Le liriche, cit., p. 571.[/ref]

Nella fedeltà alla parola di Hölderlin, il riconoscimento del Sacro conduce alla sua conservazione, la quale avviene nella rammemorazione, rimedio che lenisce l’assenza e la fuga degli dei.

Il luogo a partire dal quale il poeta deve nominare gli dei deve essere tale che coloro che vanno nominati gli restino lontani nella presenza del loro venire, restando, proprio in questo modo, coloro che vengono. Affinché questa lontananza si apra come lontananza, il poeta deve ritrarsi dalla vicinanza angustiante degli dei e “nominarli solo quietamente”[ref]M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 226.[/ref].

 In questa visione del mondo, il canto è inno all’avvenire e speranza del compimento, narrazione di una promessa che dice il ritorno.

Nessun poeta tedesco ha mai creduto come Hölderlin nella poesia e nella divina origine di essa, nessuno ne ha mai difeso con tanto fanatismo l’incondizionatezza, l’incontaminatezza di ogni cosa terrena […]. Perfino per Goethe la poesia non è che una parte della vita, mentre per Hölderlin essa è, incondizionatamente, il senso che per lui sta al di sopra della sua persona, è una necessità religiosa[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, trad. it. a cura di A. Oberdorfer, Sperling & Kupfer, Milano 1934, p. 49.[/ref].

Come suggerisce Heidegger sulla scia delle considerazioni di Bettina von Arnim,

il dio si sarebbe servito del poeta come freccia per scoccare il suo ritmo dall’arco e chi non lo percepisca e non vi si adegui non avrà mai né destino né virtù atletica da poeta e sarà troppo debole per potersi dare una forma, sia nel materiale, sia nella visione del mondo degli antichi, sia nel modo moderno di rappresentarci le nostre tendenze, e nessuna forma poetica gli si rivelerà. I poeti che riprendono scolasticamente forme date possono poi soltanto ripetere lo spirito già dato: essi si collocano come uccelli su un ramo dell’albero della lingua e vi si cullano e secondo il ritmo originario che esso ha nelle radici; ma un poeta di tal sorta non prenderà mai il volo quale aquila dello spirito, covata dalla spirito vivente della lingua[ref]M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 185.[/ref].

Forse proprio l’incondizionatezza della poesia, il vivere per la poesia, l’adempiere fino in fondo la sua “vocazione di poeta” fu una delle cause della follia che colpì Hölderlin, di quella follia “che doveva rinchiuderlo per anni come un sepolcro […] nel più puro linguaggio sofocleo e in una inesauribile ricchezza di profondi pensieri”[ref]F. Nietzsche, La mia vita, trad. it. a cura di M. Carpitella, Adelphi, Milano 1977, p. 106.[/ref].

Le tracce della malattia si manifestarono già a partire dal 1801. Nella sua patologia non c’è un crollo netto o un offuscamento della propria conoscenza di sé: tutt’altro. Se trova corrispondenza clinica l’analisi di Karl Jaspers per la quale la malattia di questo poeta è scandita da due fasi – una, intorno al 1801 che segna il passaggio dalla salute alla malattia, e un’altra, intorno al 1805-1806, per la quale si assiste allo sviluppo morboso della stessa – , proprio nel passaggio da una fase all’altra Hölderlin lotta contro l’ “accecamento” dello spirito, disciplinando se stesso per evitare che la frantumazione del sé prenda il sopravvento. Gradatamente la sua sensibilità diventa malata, “gli slanci della sua anima diventano esplosioni del corpo”[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 120.[/ref]. In una lettera del 1796, scritta al fratello, egli si paragonava ad una vecchia pianta in un vaso, caduta già una volta sulla strada e che avendo perdute le gemme, ferita alla radice, trapiantata ora in un terreno nuovo, a fatica, con attente cure, è stata salvata dal rinsecchire pur rimanendo ancora in parte avvizzita. E in un’altra missiva del 1799 scriveva: “I miei atti e le mie parole sono così spesso maldestri e assurdi, perché al pari delle oche sto con piedi piatti nell’acqua, sbattendo le ali impotenti verso il cielo greco”[ref]Lettera di Hölderlin in K. Jaspers, Genio e follia, trad. it. a cura di U. Galimberti, Rusconi, Milano 1990, p. 136.[/ref]. Questa conoscenza di sé nel periodo a cavallo della manifestazione evidente della malattia sarà sempre più chiara, così come sarà sempre più chiara la sua prigionia nella realtà. Per quarant’anni Hölderlin sarà trascinato nel vortice della pazzia, il suo sé diventerà Scardanelli; parlerà confusamente usando parole senza forma; eppure le liriche di questo periodo sono semplici, chiare, strofe brevi, generose nella descrizione; il tema privilegiato la Natura e le stagioni:

Talvolta siede al pianoforte e suona per ore e ore; ma non trova più sequenze, non ne cava una piena serie di suoni: solo un morto armonizzare, una ripetizione testarda, fanatica della stessa melodia povera e breve; e le unghie delle dita, cresciute selvaggiamente, battono spettralmente sui tasti scordati […]. Se qualcuno fa imprudentemente il nome di Hölderlin, Scardanelli scatta in un impeto d’ira. Se il colloquio si prolunga troppo il malato diventa a poco a poco inquieto e nervoso, perché lo sforzo del pensare e la tortura dell’intendere sono troppo grandi per il suo cervello stanco: e allora il visitatore lo lascia, accompagnato fino alla porta tra uno spavento d’inchini e di riverenze[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 135 s.[/ref].

* Il presente contributo è stato pubblicato per la prima volta in Estetica 2/2008, pp. 77-95 con il titolo “Ciò che resta lo fondano i poeti”. Fondamento e poesia tra Heidegger e Hölderlin. In questa sede si ripropone con delle lievi modifiche.

Bibliografia delle opere citate e di studi sul tema

M. Heidegger, Sentieri interrotti, trad. it. a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1997 M. Heidegger, Contributi alla filosofia (dall’Evento), trad. it. a cura di F. Volpi e A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007 M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, trad. it. a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988 M. Heidegger, Il principio di ragione, trad. it. a cura di G. Gurisatti e F. Volpi, Adelphi, Milano 1991 M. Heidegger, Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987 M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare, trad. it. a cura di A. Manni, Guanda, Parma 1987 M. Heidegger/E. Blochmann, Carteggio 1918-1969, trad. it. a cura di R. Brusotti, Il Melangolo, Genova 1991

F. Hölderlin, Le Liriche, trad. it. a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1993 F. Hölderlin, Iperione, trad. it. a cura di G. V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 1981 F. Hölderlin, Empedocle, trad. it. a cura di E. Pocar, Garzanti, Milano 1998 F. Hölderlin, Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996 F. Hölderlin, Sul tragico, trad. it. a cura di G. Pasquinelli e R. Bodei, Feltrinelli, Milano 1989

F. W. J. Schelling, Filosofia della rivelazione, trad. it. a cura di A. Bausola, Rusconi, Milano 1997, pp. 928 ss.

G. W. F. Hegel, Epistolario, a cura di P. Manganaro, Guida, Napoli 1983

F. Nietzsche, La mia vita, trad. it. a cura di M. Carpitella, Adelphi, Milano 1977

Aa. Vv., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979 Amoroso L., Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenber & Sellier, Torino 1993 Amoroso L., Nuovi movimenti del “colloquio” Heidegger-Hölderlin, in “Rivista di Estetica”, n. 5, 1980 Amoroso L., Quando domandare è (cor-)rispondere, in “Teoria”, n. 1, 1982 Bodei R., Hölderlin: la filosofia e il tragico, in F. Hölderlin, Sul tragico, trad. it. a cura di G. Pasquinelli e R. Bodei, Feltrinelli, Milano 1989 Bodei R., L’estetica del bello, Il Mulino, Bologna 1995 Cacciari M., Il problema del sacro in Heidegger, in “Archivio di filosofia”, n. 1, 1989 Caracciolo A., Prefazione in W. F. Otto, Theophania. Lo spirito della religione greca antica, trad. it. a cura di A. Caracciolo e M. Perotti Caracciolo, Il Melangolo, Genova 1983 Cassirer E., Hölderlin e l’idealismo tedesco, trad. it. a cura di A. Mecacci, Donzelli, Roma 2001 Chiodi P., L’estetica di Heidegger, in “Il Pensiero Critico”, 1954, n°. 9-10 Chiuchiù L., Soglia della bellezza. Hölderlin, in “Davar”, n. 3, 2006 Cvetaeva M., Il poeta e il tempo, trad. it. a cura di S. Vitale, Adelphi, Milano 1984 De alessi F., Heidegger lettore dei poeti, Rosenberg & Sellier, Torino 1991 Fabro C., Ontologia dell’arte nell’ultimo Heidegger, in “Giornale Critico della Filosofia Italiana”, n.° 31, 1952 Frank M., Il dio a venire. Lezioni sulla nuova mitologia, trad. it. a cura di F. Cuniberto, Einaudi, Torino 1994 Gadamer H. G., Interpretazioni di poeti, trad. it. dei cap. I e II a cura di M. Bonola e dei cap. III e IV a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1980 Giannatiempo Quinzio A., Influssi pietistici e istanze escatologiche nella poesia di Friedrich Hölderlin, in “Bailamme”, 1993, n°. 14 Givone S., Heidegger e la questione romantica, in “Aut Aut”, 1989, n°. 234 Guardini R., Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, trad. it. a cura di L. Tieck e G. Colombi, Morcelliana, Brescia 1995 Jaspers K., Genio e follia, trad. it. a cura di U. Galimberti, Rusconi, Milano 1990 Jaspers K., Genio e follia, trad. it. a cura di U. Galimberti, Rusconi, Milano 1990 Landolt  E., L’essere come ritmo o poesia nell’interpretazione heideggeriana di Hölderlin, in “Sicolorum Gymnasium,  1967 Mirri E., La resurrezione estetica del pensare, Bulzoni, Roma 1976 Mittner L., Storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1971, vol. II, tomo III Moretti G., Il poeta ferito. Hölderlin, Heidegger e la storia dell’essere, La Mandragora Editrice, 1997 Moretti G., Introduzione all’estetica del romanticismo tedesco, La Nuova Cultura 2007 Oberti E.,  Lineamenti di un’estetica di Heidegger in un saggio su Rilke, in “Rivista di filosofia neoscolastica”, n. 46, 1954 Otto W. F., Theophania. Lo spirito della religione greca antica, trad. it. a cura di A. Caracciolo e M. Perotti Caracciolo, Il Melangolo, Genova 1983 Pöggeler O., Hölderlin, Schelling und Hegel bei Heidegger, in “Heidegger Studien”, vol. 28, 1993 Vattimo G., Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Casale Monferrato 1989 Vattimo G., Heidegger e la poesia come tramonto del linguaggio, in Aa. Vv., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979 Verra V., Heidegger, Schelling e l’idealismo tedesco, in “Archivio di Filosofia”, 1974 Zweig S., La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, trad. it. a cura di A. Oberdorfer, Sperling & Kupfer, Milano 1934

VIDEO- Martin Heidegger e i Quaderni Neri

Heidegger è stato antisemita? Di che tipo di antisemitismo si tratta? La Judenfrage è davvero il cuore degli Schwarze Hefte? Che tipo di responsabilità si possono ascrivere alla filosofia di Heidegger davanti all’orrore dell’Olocausto? Perché questa ossessione solo per il “caso Heidegger” e non nei confronti di altri filosofi, dichiaratisi apertamente antisemiti e nazisti? E perché questo diffuso anti-heideggerismo di ritorno? Come collocare l’interpretazione di Heidegger nella storia della filosofia dopo la pubblicazione dei Quaderni Neri? Ha senso pronunciare ora, allo stato attuale della pubblicazione della Gesamtausgabe, giudizi definitivi o tentare ricostruzioni a posteriori? Queste sono alcune delle domande alla base del libro. Il lavoro sulle Überlegungen II-XV e sul recentissimo volume delle Anmerkungen I-V ha rappresentato un’occasione importante per praticare un’ermeneutica scrupolosa e libera da ideologie di ogni sorta; per riflettere sui molti temi contenuti nei Quaderni Neri e problematizzarne le domande radicali, rinunciando alla dicotomia delle risposte che vedono gli interpreti dividersi fra apologeti e detrattori. Ciò che è emerso da questo lavoro è che il pensiero di Heidegger, anche quello caratterizzato dalle affermazioni più abissali e dal buio della storia che le ha alimentate, è qualcosa di più dell’affaire Heidegger. Forse Gadamer non ha mai avuto torto: «Se uno è convinto di essere “contro” Heidegger – o anche se crede semplicemente di essergli “favorevole” – si rende ridicolo. Non è così semplice passare davanti al pensiero».

Heidegger e Cartesio. La trasformazione heideggeriana della soggettività cartesiana

La VI uscita di Pagine Heideggeriane ospita un paper a firma di Luca Bianchin dell’Università di Padova, in cui l’autore ricostruisce il rapporto fra Heidegger e Descartes attraverso la figura che funge da trait d’union fra i due, cioè Husserl. Attraverso un’analisi del ruolo svolto da Descartes nel pensiero di Heidegger degli anni ’20, in cui l’autore francese sembra essere il grande assente della speculazione heideggeriana, Bianchin delinea con precisione ed acribia il percorso attraverso cui Descartes diventa il polo d’interesse per la critica alla soggettività. Non solo: con estrema puntualità Luca Bianchin riesce a mettere in evidenza come l’inversione di cogito sum in sum cogito permetta a Heidegger di radicare le cogitationes nella trascendenza del soggetto  e di assumere l’espressione sum cogito in una prospettiva fenomenologica tale da poter portare alla luce ciò che lo stesso Cartesio non aveva colto. Appellandosi al reciproco richiamarsi di existere ed ego (ego sum, ego existo), Heidegger elabora un altro fondamentale elemento della costituzione ontologica del Dasein: la Jemeinigkeit.

Francesca Brencio

Heidegger e Cartesio.
La trasformazione heideggeriana della soggettività cartesiana
di
Luca Bianchin

1. La funzione di Cartesio negli anni Venti: né Husserl, né Cartesio

Straniero: Allora di questo ti voglio pregare ancora con maggiore insistenza.
Teeteto: Di che cosa?
Straniero: Non credere che io divenga quasi un parricida.[ref]Platone, Sofista, 241d.[/ref]

È singolare notare come in un testo del 1912, il cui titolo programmatico è Il problema della realtà nella filosofia moderna[ref]M. Heidegger, Il problema della realtà nella filosofia moderna, in Scritti filosofici (1912-1917), a cura di A. Babolin, La Garangola, Padova, 1972, pp. 131-148.[/ref], il nome di Cartesio non ricorra nemmeno una volta. L’omissione di Cartesio in un contesto in cui si tratta della «realtà» nell’epoca moderna stupisce se si pensa al ruolo chiave che le riflessioni heideggeriane negli anni Trenta/Quaranta  fanno assumere al filosofo francese.
Dunque, in che momento Cartesio fa la sua comparsa nei testi heideggeriani? Per quale motivo, quindi, Heidegger sente la necessità di introdurre un confronto specifico col suo pensiero quando, per esaurire l’essenza della modernità, era sufficiente un’analisi limitata a Berkeley, Kant, Hegel[ref]Cfr. ibidem.[/ref]?

La necessità che induce Heidegger a confrontarsi con la filosofia cartesiana si rintraccia nel suo progressivo distanziarsi dalle posizioni filosofiche del maestro, Husserl. Ovvero: l’abbandono e la rielaborazione della fenomenologia husserliana e la lenta conquista dell’ontologia fondamentale. Si è costretti, per soddisfare una legittima esigenza di completezza in merito alle questione trattate, a rinviare ad altri luoghi[ref]Cfr. M. Heidegger, Il problema della realtà nella filosofia moderna, in Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli, 2001; M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, ed. it. a cura di R. Cristin e A. Marini, Il melangolo, Genova, 1999 (in particolare pp. 17-164). Circa il rapporto tra Heidegger e Husserl negli anni Venti, per un primo, ma puntuale, riferimento, si veda A. Fabris, L’«ermeneutica della fatticità» nei corsi friburghesi dal 1919 al 1923, in F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 2008, pp. 59-111; C. Esposito, Il periodo di Marburgo (1923-28) ed «Essere e tempo»: dalla fenomenologia all’ontologia fondamentale, in ivi, pp. 113-166; F. Volpi, La trasformazione della fenomenologia da Husserl a Heidegger, in «Teoria», IV, 1, 1984, pp. 125-162; A. Masullo, La «cura» in Heidegger e la riforma dell’intenzionalità husserliana, in «Archivio di filosofia», LVII, 1-3, 1989, pp. 377-394. In merito al tema trattato, ovvero il rapporto tra i due pensatori visto alla luce della prospettiva assunta da Cartesio in tale confronto, si veda P.A. Rovatti, La posta in gioco. Heidegger, Husserl, il soggetto, Bompiani, Milano, 1987; R. De Biase, L’interpretazione heideggeriana di Descartes, cit., pp. 11-159; R. Morani, Soggetto e modernità, cit., pp. 244- 295.[/ref]; tuttavia, non ci si esimerà dal tracciare, seppur brevemente, il rapporto tra Husserl e Heidegger nel periodo precedente alla pubblicazione di Essere e tempo. È in tale periodo, infatti, che Cartesio subirà una vera e propria riabilitazione, arrivando Heidegger a identificarlo come il luogo, nella filosofia occidentale, nel quale avviene un’accelerazione storica colpevole di aver impedito a Husserl la completa attuazione delle potenzialità insite nella sua scoperta.

Jean-Luc Marion richiama l’attenzione su un fatto curioso: nel 1923-24, in contesti diversi, Heidegger e Husserl citavano contemporaneamente Cartesio, esprimendone pareri opposti. Se il primo ne dava una lettura (paradossalmente: fenomenologica) negativa, il secondo spendeva per il francese parole di elogio[ref]Ci si riferisce al corso heideggeriano del 1923-24 (Einführung in die phänomenologische Forschung) e alle lezioni friburghesi di Husserl, poi raccolte nell’opera Erste Philosophie (cfr. J.-L. Marion, L’‘ego’ cartesiano e le sue interpretazioni fenomenologiche: al di là della rappresentazione, in J.-R. Armogathe e G. Belgioioso [a cura di], Descartes metafisico. Interpretazioni del Novecento, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 1994, pp. 181). È giusto sottolineare i diversi riferimenti che l’analisi heideggeriana della fenomenologia andava assumendo al principio degli anni Venti: l’attenzione è riposta, infatti, soprattutto sulle Idee per una fenomenologia trascendentale e una filosofia fenomenologica, testo husserliano nel quale «l’intenzionalità viene definitivamente risolta nell’auto-fondazione di una coscienza pura e assoluta, il cui essere cioè è identificato esaurientemente in una struttura ideale o essenza idealizzata» (C. Esposito, Il periodo di Marburgo (1923-28) ed «Essere e tempo», cit., p. 125).[/ref]. Questa coincidenza deve restare tale. Pur tuttavia ci suggerisce che, proprio quando lo “scontro” tra i due tedeschi assumeva radicalità e incisività, entrambi si sentivano chiamati ad “appellarsi” alla figura di Cartesio: l’uno per attaccare le tesi dell’altro.

Se è vero che «la fenomenologia husserliana aveva […] legato il suo destino a quello dell’interpretazione di Descartes»[ref]J.-L. Marion, L’‘ego’ cartesiano e le sue interpretazioni fenomenologiche, cit., p. 183.[/ref], possiamo dedurre che Heidegger – nell’intento di indagare la radice ontologica della fenomenologia (e per lui significava analizzarne le tre scoperte fondamentali: «in primo luogo l’intenzionalità, poi l’intuizione categoriale e infine il senso autentico dell’apriori»),[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 34.[/ref] nel progetto sistematico di «un trapasso dalla prospettiva trascendentale a quella ontologico-ermeneutica»[ref]F. Volpi, La trasformazione della fenomenologia da Husserl a Heidegger, cit., p. 129.[/ref] – fosse necessariamente “costretto” ad individuare in Cartesio il punto archimedeo sul quale attuare la presa di distanza. Le strade che Heidegger indicava come percorribili erano due:

Cartesio è fenomenologo perché anticipa Husserl; la fenomenologia husserliana non è pienamente fenomenologica, perché resta prigioniera di ‘deliberazioni’ cartesiane non sottoposte a critica. Heidegger sceglie senza indugi la seconda via.[ref]J.-L. Marion, L’ego cartesiano e le sue interpretazioni fenomenologiche, cit., p. 183.[/ref]

 Se Husserl, quindi, travisa il senso generale della fenomenologia, privilegiandone l’elemento «teoretico-razionale e specialmente teoretico-conoscitivo e [quello costituito dall’idea] di una scientificità assoluta e rigorosa»[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 163.[/ref], lo fa perché «torna ad adagiarsi nella tradizione»[ref]Ivi, p. 162.[/ref]. Di quale tradizione si tratta? Appunto,

nel caso di Husserl, si tratta della recezione della tradizione cartesiana e della problematica della ragione che ne deriva.[ref]Ivi, pp. 162-163. Heidegger, inoltre, adotta maggiore precisione; criticando le quattro determinazioni della coscienza pura husserliana, come essere immanente, esser dato assolutamente nel senso dell’assoluta datità, esser dato assolutamente nel senso del “nulla re indiget ad existendum”, esser puro («ideale, cioè non reale» [ivi, p. 133]), evidenzia che «l’istanza primaria che lo guida [Husserl] è l’idea di una scienza assoluta. Questa idea: ossia che la coscienza deve essere regione di una scienza assoluta, non è semplicemente inventata, ma assilla la filosofia moderna a partire da Cartesio» (ivi, p. 134).[/ref]

Mostrato che Husserl, pur nell’intento di una generale epochè trascendentale, non riesce a svincolarsi da concetti di matrice cartesiana, resta da chiarire di cosa fosse stato allora manchevole Cartesio. Quale errore compì, tale che, dopo tre secoli, ricadde su Husserl, facendogli fallire il progetto fenomenologico?

Cartesio voleva trovare un fundamentum absolutus e inconcussum capace di fondare «la filosofia su basi nuove e più sicure»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 38. Baillet, che riorganizzò le carte cartesiane dell’inventario di Stoccolma, scrive: «Egli stesso ci dice che il 10 novembre 1619, essendo andato a letto “tutto pieno del suo entusiasmo” e tutto preso dal pensiero “di aver trovato quel giorno i fondamenti di una scienza meravigliosa” […]» (R. Cartesio, Olympica, trad. it. E. Garin, in Opere filosofiche, 4 voll., a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari, vol. I, 2009, p. 4). Non deve stupire se, invece di “filosofia”, il giovane Cartesio parla di “scienza” (‘mirabilis scientiae!): gli sforzi giovanili di Cartesio erano, infatti, volti a fondare un sapere universale che possedesse un principio (un fondamento) tanto certo ed indubitabile che da esso potesse dedursi ogni sapere: anche la filosofia (anche il soggetto pensate, anche Dio). Cfr. F. Alquié, L’idea originaria di un metodo e di una scienza universali (1619-1628), in Lezioni su Descartes. Scienza e metafisica in Descartes, a cura di T. Cavallo, ETS, Pisa, 2006, pp. 9-24.[/ref]. Pensò di scorgerlo quando, sospinto il mondo nell’abisso del dubbio, si accorse che v’era qualcosa dal quale ogni ente di cui si dubitava doveva dipendere. Cosa trovò Cartesio? Non è possibile dare una risposta univoca, ma è necessario avanzare una distinzione[ref]Questa distinzione permetterà di comprendere appieno la sottile ambivalenza che l’analisi heideggeriana mostra in questi anni. Infatti, se Heidegger impiega una serie considerevole di “energie fenomenologiche” per criticare gli esiti teoreticistici e cosalistici del pensiero cartesiano (e quelli che questo ha imposto alla filosofia a seguire – fra tutti, a Kant), contemporaneamente, con sempre misurata prudenza, indicherà alcune possibilità  interpretative da adottare nei riguardi di Cartesio, in grado di collocarlo in una “dimensione ermeneutica” nella quale esso sia capace di dialogare positivamente con presente (ovvero con l’ontologia fondamentale del Dasein).[/ref].

Prior fundamentum (absolutus): l’esistere di un qualcosa, la cui esistenza (non meglio specificata) permette il dubitare[ref]Scrive Cartesio nella Seconda Meditazione: «Ma allora, non sarò qualcosa almeno io? […] Esistevo di certo, se mi sono persuaso di qualcosa! […] non potrà [il genio maligno] mai far sì che io non sia niente, fintantoché penserò di essere qualcosa. Così […] alla fine si ha da stabilire che l’asserto io esisto è impossibile che non sia vero» (R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, trad. e intr. di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 40). Nel testo latino l’espressione «io esisto» è resa, più chiaramente, con «ego sum, ego existo» (cfr. ivi, p. 39).[/ref]. Questa esistenza è la mia esistenza (‘ego sum). La mia: di colui che dubita.
Alter fundamentum (inconcussum): nel nulla in cui io sono inserito come esistente (come indefinito ego sum), specifico la mia natura di res dubitante, cioè di res pensante. Tuttavia, poiché ciò che devo individuare è una certezza (una verità), abbisogno di una proposizione nella quale siano espresse una causalità ed una consequenzialità: cogito, ergo res cogitans sum[ref]Sono note le parole del Discorso: «E osservando che questa verità, penso dunque sono, era così salda e certa da non poter vacillare sotto l’urto di tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accettare senza scrupolo come il primo principio della filosofia che cercavo. […] conobbi così di essere una sostanza [une substance] la cui essenza o natura era esclusivamente di pensare, e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo e non dipende da alcuna causa materiale» (R. Cartesio, Discorso sul metodo, trad. it di M. Garin, intr. di T. Gregory, Laterza, Roma-Bari, 2008, pp. 44-45, corsivo mio).[/ref].

Heidegger ha chiare queste due distinzioni, e le conseguenze (gli approcci filosofici, di pensiero) da esse derivanti. Non solo. Comprende perfettamente anche l’imporsi di una sola di queste – e, quindi, di una ben determinata problematica filosofica – nella storia della filosofia post Cartesio: la linea-guida che dominerà il pensiero moderno, arrivando ad esercitare in toto la sua influenza anche nella fenomenologia husserliana, è la seconda. L’imporsi con Cartesio della “cura della conoscenza conosciuta”[ref]Con quest’espressione (Sorge um die erkannte Erkenntnis) Heidegger indica, nel primo corso marburghese del  1923-24, il carattere costitutivo della res cogitans e della coscienza husserliana, nell’intento di sottolinearne l’inconciliabile differenza con la Cura (Sorge) del Dasein (cfr. R. Morani, Soggetto e modernità. Hegel, Nietzsche, Heidegger interpreti di Cartesio, Franco Angeli, Milano, 2007, p. 255). «Affrancandosi dalle cose, la conoscenza si avvita su se stessa e si preoccupa soltanto di conseguire la propria autofondazione mediante la scoperta e la conseguente applicazione di un principio di evidenza apodittica. Funzionale a questa svolta epistemologico-teoretica risulta la nozione di verità quale incontrovertibile validità di un enunciato, una dottrina che smarrisce la sua accezione aristotelica di disvelamento e si pone sotto il rassicurante dominio del logos apofantico» (ibidem). Quest’aspetto solleva un’ulteriore questione, la cui importanza impedisce di tralasciarla: la cura della conoscenza conosciuta, per Heidegger, inizia non con Cartesio, ma con Aristotele e la sua scelta «di anteporre la dianoetica alle altre capacità della psyché» (ivi, p. 259). Cartesio, quindi, funge da “catalizzatore storico”: accelera il processo di imposizione della cura della conoscenza conosciuta fino a farle assumere «un’impronta totalizzante», ma non produce, come invece dirà in seguito Heidegger, un pensiero nuovo.[/ref], in cui è privilegiato l’elemento gnoseologico, comporta il ripresentarsi dell’“errore cartesiano”, con diverse forme, in tutta la filosofia successiva. E quest’errore, che per Heidegger è causa del naufragio fenomenologico di Husserl, è la mancata indagine ontologica della res cartesiana e quindi anche della coscienza husserliana:

Due fondamentali lacune possono essere constatate nei riguardi del problema dell’essere [nella scoperta cartesiana della res cogitans e nella ricerca fenomenologia di Husserl]: in primo luogo, si tralascia il problema dell’essere di questo ente specifico [dell’uomo]; in secondo luogo, è tralasciato il problema del senso dell’essere stesso.[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 144.[/ref]

Quindi, l’errore di Cartesio, per Heidegger, fu di sottomettere la propria intuizione (l’esistenza di un io) al peso della tradizione (la sostanzialità dell’io)[ref]«Quando Cartesio pone in generale il problema dell’essere di un ente, egli si interroga, nel senso della tradizione, sulla sostanza» (ivi, p. 209).[/ref]: quello che avrebbe dovuto fare (per giungere veramente alla conquista di un nuovo principio) era interrogarsi sul sum dell’ego, esplicitare l’ontologia di quell’esistenza allora indeterminata, indagandola nel suo essere. Invece, la dipendenza (linguistico-concettuale) dalla Scolastica lo indusse a ritenere l’io ontologicamente uguale a tutti gli altri enti – ridusse l’ego a res, più precisamente: a un ens creatum[ref]«La res cogitans è determinata ontologicamente come ens, e il senso dell’essere dell’ens è quello stabilito dall’ontologia medievale, che intende l’ens come ens creatum» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 38-39).[/ref]. Non solo, quindi, l’ontologia cartesiana è manchevole di qualsiasi originalità filosofia, ma anche la determinazione ontica dell’uomo è siffatta che non giunge ad attribuire all’ente-uomo alcun primato rispetto agli enti difformi da esso[ref]Nel corso del 1923-24, Heidegger enucleando le ragioni che certificano la corrispondenza tra il cogito e la cura della conoscenza conosciuta, si sofferma, nell’ultimo aspetto trattato, sulla «mancata interrogazione ontologica della res cogitans» (ivi, p. 276). Scrive Heidegger: «La proposizione cogito sum è il risultato nella forma del fundamentum absolutus simplex, presso cui Descartes si acquieta. […] La questione dell’essere della res cogitans è svolta una volta per tutte. Non si presenta più in Cartesio, poiché per Cartesio non si tratta di giungere da questo fundamentum […] sulla via della deductio a ulteriori proposizioni sulle connessioni dell’essere. [Da ciò consegue che] la base dell’essere è l’esse certum. Fin dall’inizio l’orientamento della ricerca è tale che non si propone affatto di porre una questione dell’essere, nel senso di manifestare liberamente ciò che indaga cosicché esso si esprima a partire dal proprio carattere d’essere. Ciò che è cercato può entrarci solo se soddisfa il senso dell’essere che gli viene attribuito dalla ricerca: essere nel senso dell’esse certum» (M. Heidegger, Einführung in die phänomenologische Forschung, cit. in R. Morani, Soggetto e modernità, cit., p. 51 n).[/ref].
Husserl eredita questi “errori” nel suo pensiero, precludendosi l’approfondimento dell’ originaria (quindi, ontologica) radice della coscienza pura. Infatti, le quattro determinazioni fondamentali che la caratterizzano, per Heidegger, «gli vengono attribuite nella misura in cui questa coscienza come coscienza pura viene posta in determinate angolazioni prospettiche»[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 135. Heidegger giustifica scrivendo: «Se la coscienza viene considerata come appresa, si può dire che è immanente; se viene considerata rispetto al suo modo di datità, si può dire che è data assolutamente. Circa il suo ruolo come essere costituente, come ciò in cui ogni altra realità si annuncia, è essere assoluto nel senso del nulla re indiget ad existundum; rispetto alla sua essenza, al suo che-cosa, è essere ideale […]» (ibidem). Cfr. ivi, pp. 129-134.[/ref], cioè «sono tali che non vengono attinte dall’ente stesso»[ref]Ivi, p. 135.[/ref], e, quindi, sono «determinazioni che determinano la regione in quanto regione, ma non riguardano l’essere della coscienza stessa»[ref]Ibidem.[/ref].
In particolare, l’omissione husserliana di una trattazione ontologica della coscienza porta la fenomenologia dinanzi ad un’aporia difficilmente solvibile, che Heidegger evidenzia quando tratta della «coscienza pura come regione propria dell’essere»:[ref]Ivi, p. 119.[/ref] se la coscienza, à la Husserl, è sempre separata, con una frattura assoluta, dalla natura reale «di qualsiasi essere umano fattuale»[ref]Ivi, p. 123. Questo, specifica Heidegger, è indicato chiaramente da «ogni percezione della cosa nella differenza fra immanenza e trascendenza» (ibidem).[/ref], ma, allo stesso tempo, in quanto «componente [dell’] unità animale»[ref]Ibidem.[/ref], è ad essa «unita realmente»[ref]Ibidem.[/ref], resta da chiedersi: com’è in generale possibile

che la coscienza pura, che deve essere separata per mezzo di una cesura assoluta da ogni trascendenza, si unifichi al tempo stesso con la realtà nell’unità di un uomo reale, che pure a sua volta si presenta come oggetto reale nel mondo? Com’è possibile che i vissuti costituiscano una regione dell’essere assoluta e pura e nello stesso tempo si verifichino nella trascendenza del mondo? Questa è l’impostazione problematica in cui si muove la rilevazione del campo fenomenologico della coscienza pura in Husserl.[ref]Ivi, p. 127.[/ref]

È evidente che si ritrova qui espressa, con altri metodi e con altri intenti filosofici, la stessa problematica espressa da Cartesio: la corrispondenza reale dell’ente oggettivo («i corpi che vediamo e tocchiamo»)[ref]R. Descartes, Meditazioni metafisiche, a cura e trad. it. di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 49.[/ref] con l’idea dell’ente stesso nella sfera del mio pensiero – ovvero della res cogitans con la res extensa[ref]Corrispondenza richiesta dalla loro originaria separazione. Si legge nei Principi: «Mi sembra anche che questo punto sia assolutamente il migliore che possiamo scegliere per conoscere la natura dell’anima, e che essa è sostanza affatto distinta dal corpo: […] per esistere, non abbiamo bisogno di estensione, di figura, di essere in qualche luogo e di nessun’altra cosa che si può attribuire al corpo, e che esistiamo per il fatto solo che pensiamo» (R. Cartesio, Principi della filosofia, trad. it. A. Tilgher, in Opere, 2 voll., 1967, a cura di E. Garin, Laterza, Bari, vol. II, 1967, p. 28). Inoltre, cfr. R. Descartes, Discorso sul metodo, cit., p. 45. [/ref]. L’essenziale richiamo fra i due autori è definitivamente chiarito da Heidegger quando dice che

certamente quello che su un livello superiore dell’analisi fenomenologica è stato enucleato come coscienza pura, è il campo che Cartesio ha in mente sotto il titolo di res cogitans, il campo complessivo delle cogitationes, mentre il mondo trascendente, il cui indice esemplare è individuato da Husserl allo stesso modo nello strato fondamentale del mondo materiale delle cose, in Cartesio è caratterizzato come res extensa.[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 126.[/ref]

Resta da esplicitare l’esito ultimo a cui Heidegger giunge. La fenomenologia, pur proponendosi di andare “alle cose stesse”, rientra «definitivamente in quella logica […] moderna di soggetto-oggetto»[ref]C. Esposito, Il periodo di Marburgo (1923-28) ed “Essere e tempo”, cit., p. 125.[/ref] colpevole di non esplicare la relazione originaria tra i due – e quindi «risulta non fenomenologica!»[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 161.[/ref]. In conclusione, poiché «il domandare fenomenologico conduce, secondo i suoi tratti più intimi, proprio alla domanda circa l’essere dell’intenzionale e soprattutto dinanzi la domanda circa il senso dell’essere in generale»[ref]Ivi, p. 166 (corsivo mio).[/ref] e poiché tale domanda non è stata ancora affrontata dalla fenomenologia, quello che si dovrà fare, per giungere ad una comprensione autentica tanto dell’essere interrogato quanto dell’essere di colui che interroga, sarà porre nuovamente la domanda sull’essere.
Porre tale domanda, e cercarle una risposta, sarà il compito di Essere e tempo.

2. ‘Essere e tempo’: dialettica della soggettività.

Ma … s’illuminano le lampade, e sul vetro tutt’a un tratto ecco apparire un frammento di viso. […] Se mi avvicino un po’ a quest’io spezzettato d’ombre che mi guarda, l’eclisso, mi abolisco, divento il caos notturno.[ref]P. Valéry, Il suono della voce umana.Variazioni su Cartesio, a cura di F. C. Papparo, Filema, Roma, 2008, p. 38.[/ref]

Nel § 8 di Essere e tempo Heidegger, tracciando lo “schema dell’opera”, annuncia il contenuto tanto dalla prima, quando dalla seconda parte. Questa non vedrà mai la luce, ma lascia chiari gli intenti: «Una distruzione fenomenologica della storia dell’ontologia sulla scorta del problema della temporalità [Temporalität]»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 56.[/ref]. La seconda sezione di questa seconda parte avrebbe dovuto lasciar spazio ad un dettagliato confronto con Cartesio, con lo scopo di studiare «il fondamento ontologico del sum […] e l’assunzione dell’ontologia medievale nella problematica della res cogitans»[ref]Ibidem.[/ref]. Pur venendo alla luce solo le prime due sezioni della prima parte, nei luoghi dell’opera in cui il confronto con Cartesio è esplicito, lo sforzo ermeneutico heideggeriano si avvale di una particolare “dialettica della soggettività” capace di mantenere, nella penetrazione fenomenologica tanto della soggettività tradizionale quanto del Dasein, la figura di Cartesio in un’ambiguità interpretativa costante.

È subito da chiarire un aspetto: le osservazioni su Cartesio sono, quasi sempre, negative[ref]Questa presa di posizione drastica non è, invece, riscontrabile nei riguardi di altri pensatori. Nel § 8, parlando di Kant, Heidegger non esita a riconoscere che fu «il primo e l’unico che percorse un tratto di strada nel senso della ricerca della dimensione della temporalità» (ivi, p. 37). Inoltre, se esso abbandona questa ricerca lo fa perché «accetta dogmaticamente la posizione di Cartesio. […] Per effetto dell’assunzione della posizione ontologica di Cartesio, Kant omette una cosa essenziale: l’ontologia dell’Esserci» (ivi, p. 38).[/ref], collocandosi in terreni di confronto caratterizzati da una forte dinamica distruttiva – terreni nei quali Heidegger si sforza di prendere (apertamente) distanza dagli assunti cartesiani.
Tuttavia, al di là degli intenti programmaticamente dichiarati da Heidegger, si tenterà di mostrare come, offuscato dalla maestosa critica distruttiva, in Essere e tempo vi sia anche un tentativo (sempre prudente) di riappropriarsi di alcune energie racchiuse nel pensiero cartesiano, e mai espresse. Alla critica dell’omissione della mondità del mondo da parte di Cartesio, si farà seguire una breve analisi volta e mostrare il “volto di Giano” dell’interpretazione heideggeriana.

2.1. L’omissione cartesiana della mondità del mondo[ref]Tale critica si trova già, praticamente identica, nel § 22 dei Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., pp. 208-226). Tuttavia, poiché le ragioni che inducono Heidegger a confrontarsi con Cartesio sul terreno della mondità del mondo dipendono e dalla configurazione dell’analitica esistenziale del Dasein e dalla piena maturazione del suo progetto ontologico, e poiché questi aspetti trovano come luogo principe d’espressione Essere e tempo, si è preferito analizzare tale confronto in questo paragrafo.[/ref]

Se nei Prolegomeni alla storia del concetto di tempo Heidegger aveva già individuato l’aporia insolvibile alla quale giungeva la fenomenologia husserliana accettando l’assoluta separazione tra la coscienza intenzionale e l’oggetto intenzionato, tale che si sarebbe richiesta una “fuoriuscita” da una «“sfera interna” [ad] un’altra, “diversa ed esterna”»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 82.[/ref], in Essere e tempo dichiara l’insolvibilità di tale rapporto declinandolo nei termini di Esserci e mondo[ref]Se in precedenza si trattava di “assecondare” la fenomenologia, seguendola nel suo lacunoso terreno teoretico-gnoseologico, ora Heidegger “aggira” la problematica soggetto-oggetto affrontandola fin da subito dal punto di vista ontologico, ovvero esplicitandola nell’analitica esistenziale dell’Esserci.[/ref].
Affrontando, nel § 13, il problema della «conoscenza del mondo» Heidegger afferma

che ancor oggi il conoscere è assunto come una “relazione tra soggetto e oggetto”, il che è tanto “vero” quanto vuoto. Soggetto e oggetto non coincidono con Esserci e mondo.[ref]Ivi, p. 81. La drasticità con cui Heidegger nega tale raffronto è indicata ancor meglio da una nota a margine nella sua copia personale di Essere e tempo, accanto alla frase qui citata. Scrive: «Certo che no! Così poco che già con la combinazione risulta fatale anche la repellenza» (ibidem).[/ref]

Questa coincidenza è tanto meno opportuna, quanto più la tradizione filosofica si è impegnata a trovare nella relazione conoscitiva un “ponte” che, in diversi modi, fosse in grado di collegare le sponde, altrimenti separate, di soggetto e oggetto.
Tuttavia, lo ripetiamo, l’oscurità caratteristica del rapporto conoscitivo è causata dalla mancata posizione del problema ontologico. Solo ora è possibile capire fino in fondo la portata rivoluzionaria della posizione heideggeriana.

Trattare ontologicamente la relazione problematica, “enigmatica” tra soggetto e oggetto, tra uomo e mondo significa paradossalmente chiarire in primo luogo, e soprattutto, «perché mai il conoscere sia tale da costituire un simile enigma»[ref]Ivi, p. 82.[/ref], ovvero, se nel conoscere il rapporto tra uomo, in termini di Esserci, e mondo sia siffatto da portare inevitabilmente ad aporie di stampo teoreticistico o, piuttosto, non debba risolversi positivamente in una coappartenenza originaria di entrambi.
Infatti, dopo aver chiarito la costituzione fondamentale dell’Esserci come essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein)[ref]In particolare, Heidegger distingue i tre momenti che compongono la formula essere-nel-mondo, pur presentandola da subito come un «fenomeno unitario» (ibidem): «1) “nel mondo”: in ordine a questo momento occorre indagare la struttura ontologica del “mondo” e determinare l’idea di mondità come tale […]. 2) L’ente che è sempre nel modo dell’essere-nel-mondo […]. 3) L’in-essere come tale […]» (ivi, p. 73-74). Di particolare importanza sono le brevi considerazioni sull’in-essere proposte da Heidegger nel § 12 (cfr. ivi, p. 74), poiché introducono al “problema” della «conoscenza del mondo» (ivi, pp. 81), presentato come una «esemplificazione dell’in-essere attraverso un modo in esso fondato» (ibidem). La trattazione dell’in-essere come tale è svolta nel capitolo quinto della prima sezione (cfr. ivi, pp. 163-220).[/ref], Heidegger scrive:

Il conoscere è un modo di essere dell’Esserci in quanto essere-nel-mondo e […] ha la sua fondazione ontica in questa costituzione ontologica.[ref]Ivi, p. 82.[/ref]

Cadono i “ponti”. La necessità di trovare un legame tra un “dentro” e un “fuori” viene meno, se si comprende che «nel dirigersi verso … e nel cogliere, l’Esserci non esce da una sua sfera interiore, in cui sarebbe dapprima incapsulato»[ref]Ivi, p. 84.[/ref], ma che, in quanto Esser-ci, nella sua apertura «è cooriginariamente svelato rispetto al mondo […]»[ref]Ivi, p. 244.[/ref].
Non si tratta, quindi, nell’atto conoscitivo del mondo, di “uscire”, poiché l’Esserci è «già sempre “fuori” presso l’ente che incontra in un mondo già sempre scoperto»[ref]Ivi, p. 84.[/ref].

Nel § 43, contenuto nel sesto capitolo della prima sezione, Heidegger esplicita ulteriormente la questione, rapportandola al problema della realtà come essere del “mondo esterno” e della conseguente necessità di poterlo dimostrare. Dopo aver ribadito, stravolgendo una frase di Kant, che «“lo scandalo della filosofia” non consiste nel fatto che finora questa dimostrazione non è ancora stata data, ma nel fatto che tali dimostrazioni continuino ad essere richieste e tentate»[ref]Ivi, p. 249. [/ref], Heidegger, con tagliente chiarezza, afferma:

Il problema non è quello di dimostrare che e come sussista un “mondo esterno”, ma di spiegare perché l’Esserci, in quanto essere-nel-mondo, abbia la tendenza a relegare nel nulla il “mondo esterno” mediante una riduzione “gnoseologica”, per doverlo poi dimostrare come sussistente. La causa di tutto ciò sta nella deiezione dell’Esserci e nel conseguente smarrimento della comprensione primaria dell’essere mediante la sua interpretazione come semplice-presenza. All’interno di questo orientamento ontologico, l’impostazione “critica” del problema trova come realtà semplicemente-presente innanzi tutto e unicamente certa solo la mera “interiorità”. Dopo aver infranto il fenomeno originario dell’essere-nel-mondo, si cerca di gettare un ponte fra i suoi tronconi che rimangono, il soggetto isolato e il “mondo”.[ref]Ivi, p. 251. [/ref]

Quando Heidegger scrive queste righe si riferisce, come testimoniano le citazioni poco precedenti, a Kant[ref]«L’aggrovigliarsi dei problemi, la confusione fra ciò che si vuol dimostrare, ciò che è dimostrato e ciò con cui la dimostrazione è condotta si rivela nella “Confutazione all’idealismo” di Kant» (ivi, p. 247).[/ref]. Tuttavia non pare improbabile, ma, anzi, quasi inevitabile, viste le premesse tratte dai corsi marburghesi precedenti al 1927, estendere queste considerazioni anche alla posizione di Cartesio (come non ricordare, inoltre, che proprio la sesta delle Meditazioni aveva titolo L’esistenza delle cose materiali, e la distinzione reale della mente dal corpo?)[ref]R. Descartes, Meditazioni metafisiche, cit., p. 119.[/ref].

Non è un caso, quindi, che Cartesio compaia nei §§ 19-21 del terzo capitolo della prima sezione, interamente dedicatigli. Il titolo del punto B del terzo capitolo, in cui sono compresi i suddetti paragrafi, è fin troppo chiaro: «Contrapposizione dell’analisi della mondità all’interpretazione del mondo in Cartesio»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 115. Corsivo mio.[/ref]. Si tratta, dunque, da parte di Heidegger di opporre all’analisi ontologica del mondo, il cui significato genuino è tratto a partire dall’analitica esistenziale dell’Esserci, un contro esempio «negativo»[ref]Ibidem.[/ref] che possa mostrare «perché l’Esserci, nel modo di essere della conoscenza del mondo, salta onticamente e ontologicamente il fenomeno della mondità»[ref]Ivi, p. 88.[/ref].

Heidegger avanza subito una distinzione. Il termine substantia, pur indicando nel suo significato generale l’«essere di un ente che è in se stesso»[ref]Ivi, p. 116.[/ref], veicola due concetti fondamentali, di natura diversa: da un lato, l’essere di un ente che è in quanto sostanza, ovvero la sostanzialità, dall’altro, l’ente stesso, cioè una determinata sostanza. In seguito, relaziona tale distinzione alla teoria cartesiana della res corporea, chiedendosi se sia possibile determinare, a partire dai testi cartesiani, la sostanzialità della res corporea[ref]«La determinazione ontologica della res corporea richiede l’esplicazione della sostanza, cioè della sostanzialità di questo ente in quanto è una sostanza» (ibidem). Si legge nei Principi: «Ma poiché tra le cose create alcune son di tale natura da non poter esistere senza alcune altre, noi le distinguiamo da quelle che non hanno bisogno che del concorso ordinario di Dio, chiamando queste sostanze, e quelle, qualità o attributi di queste sostanze» (R. Cartesio, Principi della filosofia, cit., p. 52).[/ref].
Ogni sostanza possiede degli “attributi”: proprietà specifiche della sostanza stessa capaci di esprimerne «l’essenza della sostanzialità»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 116.[/ref]. L’attributo che esprime la sostanzialità della sostanza corporea è rintracciato da Heidegger nell’extensio: «L’essere della res corporea è l’extensio»[ref]Ivi, p. 118.[/ref].

Individuata qual è la sostanzialità (l’essere) della res corporea, Heidegger prosegue cercando di verificarne la legittimità dei fondamenti ontologici. Sennonché, Heidegger, richiamandosi ai Principi («Ma quando si tratta di sapere se qualcuna di queste sostanze esiste veramente, cioè se essa è attualmente nel mondo, non basta che esita in questo modo perché noi la percepiamo […]. Bisogna, oltre di questo, che essa abbia alcuni attributi»)[ref]R. Cartesio, Principi della filosofia, cit., p. 52 (corsivo mio). La citazione, riportata in latino, è in M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 120.[/ref], sottolinea l’ambiguità in cui cade vittima Cartesio, riconoscendo nell’estensione la sostanzialità della sostanza corporea e insieme dichiarando la sostanzialità inaccessibile in se stessa a partire sa se stessa, ma coglibile solo tramite un suo attributo.
Stando così le cose, è evidente per Heidegger che Cartesio confonde il principale attributo della res corporea, ovvero l’extensio[ref]Si legge nel 53 dei Principi: «Ma, benché ogni attributo sia sufficiente per far conoscere la sostanza, ve n’ha tuttavia uno in ognuna, che costituisce la sua natura o essenza, e dal quale tutti gli altri dipendono. Cioè l’estensione […] costituisce la natura della sostanze corporea; ed il pensiero costituisce la natura della sostanza pensante» (R. Cartesio, Principi alla filosofia, cit., pp. 52-53). [/ref], con il suo carattere dell’essere, in un’ambiguità generale che gli impedisce di comprendere l’autentica sostanzialità della sostanza corporea. Heidegger, quindi, può conclude asserendo che

in questa determinazione della sostanza in base a un ente sostanziale sta la ragione del doppio significato del termine. Si mira alla sostanzialità e la si intende come una qualità ontica della sostanza. Poiché l’ontico sottende l’ontologico, l’espressione substantia è intesa ora in senso ontologico, ora in senso ontico, ma per lo più in un senso confusamente ontico-ontologico.[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 121.[/ref]

Cartesio omette la trattazione autentica della mondità del mondo, credendo di aver trovato nell’estensione l’essere dell’ente. Ciò che più di ogni cosa lo ostacola nell’elaborare un’ontologia del mondo è, per Heidegger, «il predominio incontrastato dell’ontologia tradizionale»[ref]Ivi, p. 123.[/ref], la quale è soprattutto: «essere = semplice-presenza costante»[ref]Ibidem. Il ragionamento heideggeriano può così esser riassunto: è importante stabilire una via d’accesso privilegiata al fenomeno della mondità; tale via è ricavata da Cartesio «nel conoscere, l’intellectio» (ivi, p. 122); tale conoscere è inteso «nel senso del conoscere fisico-matematico» (ibidem); nel rapporto conoscitivo matematico, l’ente conosciuto è «caratterizzato dall’esser sempre ciò che è. Ne deriva che si assumerà come essere autentico dell’ente che si esperisce nel mondo quello di cui si potrà dimostrare il carattere di permanenza costante […]. È autenticamente ciò che permane perennemente» (ibidem).[/ref].
Dunque, di contro ad ogni sottolineatura del carattere matematico del pensiero cartesiano, che pur è presente, Heidegger tuttavia riconosce come

ciò che determina l’ontologia del mondo [come extensio] non è in primo luogo il ricorso a una scienza casualmente privilegiata, la matematica, ma l’assunto ontologico fondamentale dell’essere come semplice-presenza costante.[ref]Ivi, p. 123. Un passo del § 43 recita: «Se l’espressione “realtà” significa, come infatti significa, l’essere dell’ente (res) semplicemente-presente dentro il mondo, l’analisi di questo modo di essere dovrà attenersi al seguente principio: l’ente che è dentro il mondo, l’ente intramondano, è determinabile ontologicamente solo se è stato chiarito il fenomeno dell’intramondanità. Ma quest’ultima si fonda nel fenomeno del mondo, il quale, da parte sua, in quanto momento essenziale della struttura dell’essere-nel-mondo, rientra nella costituzione fondamentale dell’Esserci. L’essere-nel-mondo, a sua volta, è legato ontologicamente a quella totalità strutturale dell’essere dell’Esserci che fu caratterizzata come Cura. Sono questi i fondamenti e gli orizzonti la cui chiarificazione rende possibile l’analisi della realtà. Solo in questo contesto diviene comprensibile ontologicamente il carattere dell’in-sé» (ivi, pp. 253-254). Inoltre, si sottolinea, come già fatto, la dipendenza, anche qui espressa, di Cartesio con la tradizione. Solo che, questa volta, l’accento è posto da Heidegger più che sull’influenza esercitata dalla scolastica nel caratterizzazione la res come ens creatum, su Parmenide, ovvero sull’«inizio di quella tradizione ontologica […] che restò per noi decisiva» (ivi, pp. 127-128).[/ref]

Di fronte a tutte queste “mancanze” di Cartesio, inaspettatamente Heidegger non indietreggia voltando bruscamente le spalle ad ogni contenuto speculativo presente nei testi cartesiani, ma tenta un recupero in extremis di alcune posizioni filosofiche di fondo.
Due tentativi di recupero, in verità: il primo, più evidente ed esplicito, in relazione alla mondità del mondo e il secondo, estremamente più prudente, nella relazione cogito sum/res cogitans.

2.2. “ … mi sono state rivolte solo due obiezioni degne di nota”

Forse stupisce, considerato il percorso heideggeriano precedente ad Essere e tempo, che Heidegger, nei capitoli dedicati a Cartesio, là dove impiega il maggior numero di energie per realizzare il suo progetto distruttivo, si impegni, seppur timidamente, in una valorizzazione degli sforzi cartesiani di individuare un carattere dell’ente-mondo quanto più vicino a costituirne l’essere.
Heidegger, sorprendentemente, sostiene che nelle Meditazioni Cartesio non fosse solo preoccupato di «porre il problema “dell’io e del mondo” ma pretendesse risolverlo in modo radicale»[ref]Ivi, p. 125. Subito dopo, però, Heidegger chiarisce: «Se poi il suo orientamento ontologico di fondo sulla tradizione, alieno da ogni critica positiva e fedele, gli abbia reso impossibile scoprire una problematica ontologica dell’Esserci ordinaria e gli abbia inevitabilmente precluso l’accesso al fenomeno del mondo, provocando il capovolgimento dell’ontologia del “mondo” nell’ontologia di un determinato ente intramondano, tutto questo è quanto la discussione ora fatta intendeva dimostrare» (ibidem).[/ref].

Heidegger individua tale tentativo cartesiano di risolvere radicalmente il problema del rapporto uomo-mondo, senza ridurlo immediatamente ad una relazione gnoseologica tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, nella fondazione da parte della res extensa di tutte «le determinazioni che si presentano come qualità, ma che, “in fondo”, sono modificazioni quantitative dei modi dell’extensio stessa»[ref]Ivi, pp. 125-126, corsivo mio.[/ref]. Da queste “qualità” derivano poi, secondo Cartesio, delle qualità specifiche[ref]«Come il bello, il brutto, l’adatto, il non adatto, il conveniente e il non conveniente» (ibidem).[/ref], categorizzabili come «predicati di valore non quantificabili, in virtù dei quali le cose, dapprima soltanto materiali, vengono fornite di valore»[ref]Ibidem, corsivo mio.[/ref].

In questa caratterizzazione qualitativa e non quantitativa basata su quell’ente «che fonda nel suo essere ogni altro ente, cioè la natura materiale»[ref]Ivi, p. 125.[/ref], Heidegger vede prender forma la configurazione di quest’ente stesso come «mezzo utilizzabile»[ref]Ivi, p. 126.[/ref].
In chiusa al § 21, Heidegger scrive:

Se tuttavia si ricorda che la spazialità contribuisce evidentemente a costituire l’ente intramondano, diviene alla fine possibile un “salvataggio” dell’analisi cartesiana del “mondo”. Concependo il termini radicali l’extensio come praesuppostium di ogni determinazione della res corporea, Cartesio ha preparato la comprensione di un a priori il cui contenuto sarà fissato più rigorosamente da Kant. Entro certi limiti l’analisi dell’‘extensio’ resta indipendente dalla omissione di un’interpretazione esplicita dell’essere dell’ente stesso. L’assunzione dell’extensio come determinazione fondamentale del “mondo” ha un suo diritto fenomenologico […] [ref]Ivi, p. 128. In realtà Heidegger osserva grande cautela nell’attribuire meriti a Cartesio; infatti, dopo aver chiarito la possibilità che l’assunzione cartesiana dell’estensione  come sostanzialità della sostanza materiale si dia come fondamento per la costituzione dell’ente intramondano – attraverso la derivazione, dall’extensio, di proprietà di valore –, ricorda che Cartesio, «in verità, […] non colse l’essere della sostanza» (ivi, p. 127), in quanto, come detto prima, l’extensio è, di questa, un attributo – il principale, ma tale da non costituirne l’essere, comunque inaccessibile. Inoltre, Cartesio non riesce a svincolarsi dall’ontologia tradizionale che intende l’essere come semplice-presenza, e anche nella formulazione dei predicati di valore (i quali dovrebbero introdurre ad una definizione dell’ente intramondano, e quindi avvicinarsi ad una caratterizzazione della mondità del mondo), i valori stessi «sono determinazioni semplicemente-presenti di una data cosa. L’aggiunta di predicati di valore non può affatto fornire alcuna nuova spiegazione sull’essere dei “beni”, ma non fa che presupporre, anche per essi, il modo di essere della semplice-presenza» (ivi, p. 126). La conclusione a cui giunge Heidegger non può che essere coerente con il quadro programmatico generale di Essere e tempo e con le considerazioni fin qui svolte: «[…] il ricorso a essa [l’extensio] non rende possibile la comprensione ontologica della spazialità del mondo e della spazialità, scoperta per prima, dell’ente che si incontra innanzi tutto nel mondo-ambiente, e tanto meno la spazialità dell’Esserci stesso» (ivi, p. 128).[/ref]

Heidegger, quindi, pur consapevole che le posizioni cartesiane non possono in alcun modo (almeno nei loro punti essenziali) accordarsi al suo progetto filosofico, in quanto a respingersi vicendevolmente sono le stesse fondamenta ontologiche, tenta una valorizzazione proprio di queste posizioni, che pur si impegna a distruggere.
Il luogo in cui Heidegger, però, rischia “il tutto per tutto” è la distinzione tra res cogitans ed ego cogito, nel tentativo di condurle a due diverse modalità d’essere dell’Esserci.

Seguendo l’accurata analisi di Roberto Morani[ref]Di notevole spessore ermeneutico sono le considerazioni di Morani (qui richiamate) in merito al duplice atteggiamento di Heidegger nei confronti delle posizioni cartesiane. Cfr. R. Morani, Heidegger, Cartesio e la questione del soggetto, in Soggetto e modernità, cit., pp. 243-361. In particolare, sono rilevanti, per questi riguardi, le pagine conclusive del par. 3.2.3. (cfr. ivi, pp. 278-281), quelle del par. 3.2.4. (cfr. ivi, pp. 293-295) e, infine, l’intero punto ‘c’ del par. 3.2.5. (cfr. ivi, pp. 308-320).[/ref], si nota che, già a partire dagli anni Venti, Heidegger «instaura un duplice movimento di demarcazione e di riappropriazione della soggettività cartesiana, più precisamente di distacco dalla res cogitans e di presa di possesso dell’ego sum, in quanto anticipazione del Dasein»[ref]Ivi, p. 308.[/ref].
Non si può, quindi, guidati da questi suggerimenti interpretativi, restare indifferenti a quanto scritto da Heidegger in chiusura del punto ‘b’ del § 43:

Se il cogito dovesse servire come punto di partenza dell’analitica esistenziale dell’Esserci, esso dovrebbe non solo essere invertito, ma altresì sottoposto ad una nuova verifica ontologico-fenomenologica del suo contenuto.[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 256. Corsivo mio.[/ref]

Due aspetti di questa frase lasciano sconcertati.
Il primo: nello sforzo heideggeriano di formulare un’analitica dell’Esserci, capace di evidenziarne le forme autentiche e quelle deiette, con lo scopo di prendere da queste ultime le distanze – che si traduce nel congedo di una «soggettività autocentrata [in favore di] una figura eterocentrica del soggetto»[ref]R. Morani, Soggetto e modernità, cit., p. 257.[/ref] – Heidegger, dopo aver chiaramente criticato Cartesio per le sue omissioni ontologiche, arriva a ipotizzare che il cogito possa tradursi positivamente nel punto di partenza dell’analitica esistenziale stessa[ref]«Il fatto stesso che Heidegger lo riproponga [il cogito …] deve essere soprattutto inteso come la cauta e circospetta ammissione, prudentemente dissimulata dal periodo ipotetico, dello stretto legame fra l’ego e il Dasein, dell’assunzione entro il proprio pensiero dell’eredità cartesiana» (ivi, p. 309).[/ref].
Il secondo: non solo il cogito cartesiano viene, per un breve momento, investito di una dignità tale da presentarlo come momento preparatorio dell’analisi sull’Esserci, ma se ne auspica anche una rilettura fenomenologica capace di tradurre le sue potenzialità inespresse e di portare a manifestazione ciò che in esso non si è (ancora) manifestato. Heidegger, quindi, spiega in cosa consisterebbe questa «nuova verifica» e continua scrivendo:

La prima parte diverrebbe allora il sum e precisamente nel senso di: io-sono-in-un-mondo. In quanto tale, io «io sono» nella possibilità di esser-per diversi comportamenti (cogitaziones) quali modi di esser-presso l’ente intramondano.[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 256.[/ref]

L’inversione di cogito sum in sum cogito permette a Heidegger di «radicare le cogitationes nella trascendenza del soggetto»[ref]R. Morani, Soggetto e modernità, cit., p. 310.[/ref], e assumere l’espressione sum cogito in una prospettiva fenomenologica tale da poter portare alla luce ciò che lo stesso Cartesio non aveva colto. Le potenzialità inespresse del cogito sono sì riconosciute da Heidegger che, se possibile, si spinge oltre.
Richiamandosi alla distinzione, esaminata in precedenza, che sussiste nella formulazione cartesiana di un soggetto pensante – tale che si avrebbe, in un primo momento, l’esistenza di un io e, successivamente, la determinazione di questo ego come res cogitans – Heidegger, dopo aver recuperato positivamente la formula sum cogito, cerca di guadagnare, appellandosi al reciproco richiamarsi di existere ed egoego sum, ego existo»), un altro fondamentale elemento della costituzione ontologica del Dasein: la Jemeinigkeit. Scrive Morani:

Declinando l’essere alla prima persona, per non confonderlo con una proprietà necessaria e neutra posseduta da una sostanza, Cartesio opera la conversione egologica dell’ontologia e pertanto determina, almeno auroralmente l’essere del sum.[ref]Ivi, p. 312.[/ref]

Assunte queste considerazioni, sembrerebbe che Heidegger veda nella soggettività cartesiana, al di là di tutto, un precoce (e positivo) presentarsi di alcune fra le caratteristiche ontologiche più importanti dell’Esserci. Tuttavia, per quanto l’importanza di queste osservazioni sia sempre minata da un’ambiguità di fondo, ci sono almeno due aspetti che non possono non essere rilevati; aspetti che fanno emergere, contro lo sforzo heideggeriano di recupero, la ben più tenace forza con cui Heidegger si distanzia da Cartesio.

La prima questione da rilevare è il riferimento dell’ego sum con la Jemeinigkeit. Se è vero che Heidegger, implicitamente, cerca di avvicinare questi due fenomeni, sottolineandone la somiglianza nel riferimento dell’io all’essere, è anche (e soprattutto) vero che questi si esprimono in modi totalmente diversi nei due autori. Se per Cartesio, il fatto di esistere (che lui fosse esistito) è «impossibile che non sia vero»[ref]R. Descartes, Meditazioni Metafisiche, cit., p. 41.[/ref], per Heidegger l’essere dell’Esserci è, sì, «sempre mio»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 60.[/ref], ma in una modalità d’essere che l’essenza, ovvero l’esistenza «di questo ente consiste nel suo aver-da-essere»[ref]Ibidem.[/ref].

L’indubitabilità di esserci (di esistere) riscontrabile in Cartesio, nella quale ego e sum sono legati indissolubilmente da una conoscenza di tipo teoretico-matematica, non è per Heidegger assolutamente accostabile al fenomeno autentico dell’Esserci, il quale «comprende sempre se stesso in base alla sua esistenza, cioè in base a una possibilità che ha di essere o non essere se stesso»[ref]Ivi, p. 25. Corsivo mio. Dirà anche Heidegger: «L’essere di questo ente è sempre mio. Nell’essere che è proprio di esso, questo ente stesso si rapporta al proprio essere. Come ente di questo essere, esso è rimesso al suo aver-da-essere» (ivi, p. 60). Cfr. M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, a cura di F.-W. von Herrmann, ed. it. a cura di A. Fabris, intr. di C. Angelino, Il melangolo, Genova, 1988, pp. 147-150.[/ref].
Il secondo aspetto che induce Heidegger a dissociarsi dalla posizioni cartesiane è rintracciabile nella ricaduta sostanzialistica dell’ego: nel passaggio dall’ego sum alla res cogitans Cartesio smarrisce per sempre tanto il (possibile) positivo riferimento di ego ed esse, quanto la possibilità di fondare un’ontologia svincolata dalle determinazioni imposte dalla Scolastica.

Nel § 6 Heidegger, scrivendo che Cartesio «lascia indeterminato […] il modo di essere della res cogitans»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 38.[/ref], specifica che «non poteva che omettere il problema dell’essere [poiché] conduce le sue indagini fondamentali nel senso di un’applicazione dell’ontologia medievale»[ref]Ibidem.[/ref], quindi restando ancorato ad una visione che concepisce «l’ente […] nel suo essere come “presenzialità”»[ref]Ivi, p. 39.[/ref].

Per concludere, si può dire che l’interpretazione heideggeriana di Cartesio si presenta, all’interno di Essere e tempo, duplice: al progetto di «distruzione fenomenologica» dell’ontologia cartesiana[ref]Forse, a ben guardare, sarebbe più opportuno parlare di non-ontologia cartesiana, per due motivi: primo, perché Cartesio, come sottolineato continuamente da Heidegger già nel corso del 1925, non si pone né il problema dell’essere dell’uomo, né il problema dell’essere in generale; secondo, perché, se in Cartesio è riscontrabile un’ontologia, essa non è assunta come problematica specifica del suo filosofare, ma assimilata passivamente dalla Scolastica.[/ref], segue un tentativo, seppur debole, di recuperare alcune funzionalità del pensiero cartesiano. È interessante notare il diverso atteggiamento adottato da Heidegger, nei confronti del filosofo francese, negli anni Trenta/Quaranta e quello negli anni marburghesi fino al 1927. Se le riflessioni del “secondo” Heidegger sembravano circoscrivere Cartesio in un ben delineato hic et nunc storico, nel quale non poteva dialogare se non, necessariamente, con Nietzsche, ora Heidegger pare “liberare” Cartesio da qualsivoglia necessità storica, e, tramite una serrato confronto col suo pensiero, porlo in sinergia col Dasein.

Tale accostamento Cartesio-Dasein, infine, sembra essere costitutivamente diverso da quello Cartesio-Nietzsche. Se, in quest’ultimo, Heidegger “paralizza” i due pensatori, facendo convergere i loro rispettivi pensieri in un continuum storico nel quale si svela la necessità del fondamento, ora la soggettività cartesiana e l’analitica dell’Esserci sono complici di una dialettica capace di far “rimbalzare” il passato nel presente, reinvestito, quindi, della sua natura di possibilità[ref]A tal proposito, risulta esemplificativo il tentativo heideggeriano di individuare, all’interno della storia della filosofia occidentale, i sedimenti della cura della conoscenza conosciuta, col fine di mostrare come l’esito teoreticistico a cui giunge la fenomenologia husserliana non sia inevitabile, necessitato da alcunché: «Con il ritorno a Cartesio e con l’esplorazione della storicità della Sorge um die erkannte Erkenntnis, Heidegger si propone di sottrarre all’oggi all’oggi il suo carattere violento di dato indiscutibile e autoevidente: denunciare le radici storiche della configurazione cognitiva, osservativa e scientifica della cura equivale a strappare al presente il volto implacabile della necessità» (R. Morani, Soggetto e modernità, cit., p. 259): questa logica, che nel primo Heidegger si impone diffusamente, è successivamente oscurata dalla nuova struttura ontologica che domina l’operazione ermeneutica del Nietzsche.[/ref].

Luca Bianchin si è laureato all’Università degli Studi di Padova, discutendo con il professor Giovanni Gurisatti una tesi dal titolo Il pudore del pensiero. Una ricostruzione filosofica del percorso intellettuale di Franco Volpi (2014). Nel 2012 pubblica, insieme a un gruppo di studenti e docenti dell’Università di Padova, un volume collettaneo contente gli atti di un seminario svoltosi nel 2011 a Conco (Filosofia&Montagna [a cura di], Montagne mute, discepoli silenziosi. Percorsi di filosofia della montagna, il Poligrafo, Padova, 2012).

Bibliografia

1) Opere di Renato Cartesio citate e di riferimento (in ordine cronologico):

Discours de la méthode, (1637), trad. it. di M. Garin Discorso sul metodo, intr. di T. Gregory, Laterza, Roma-Bari, 2008;

Meditationes de prima philosophia, (1641), trad. it. di S. Landucci Meditazioni metafisiche, a cura di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari, 2009;

Meditationes de prima philosophia. Objectiones cum responsionibus authoris, (1642), trad. it. di A. Tilgher Meditazioni metafisiche. Obbiezioni e risposte, in Opere, 2 voll., 1967, a cura di E. Garin, Laterza, Bari, vol. I, 1967;

Principia philosophiae, (1644), trad. it. di A. Tilgher Principi della filosofia, in Opere, cit., vol. II, 1967, pp. 5-369;

Regulae ad directionem ingenii, (1701), trad. it. di G. Galli Regole per la guida dell’intelligenza, in Opere filosofiche, 4 voll., a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari, vol. I, 2009, pp. 15-94;

Tutte le lettere. 1619-1650, ed. it. a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Bologna, 2009.

2) Opere di Martin Heidegger citate e di riferimento (in ordine cronologico):

Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einführung in die phänomenologische Forschung, (1921-22), trad. it. di M. De Carolis Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli, 1990;

Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, (1925), a cura di R. Cristin e A. Marini Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, il Melangolo, Genova, 1999;

Sein und Zeit, (1927), nuova ed. it. di F. Volpi sulla vers. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2010;

Die Grundprobleme der Phänomenologie, (1927), trad. it. di A. Fabris I problemi fondamentali della fenomenologia, a cura di A. Fabris, intr. di C. Angiolini, Il melangolo, Genova, 1988;

Aus der letzten Marburger Vorlesung, (1928), trad. it. di F. Volpi Dall’ultimo corso di lezioni a Marburgo, in Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1987, pp. 35-57;

Was ist Metaphysik?, (1929), trad. it. di F. Volpi Che cos’è metafisica?, in Che cos’è metafisica?, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 2001, pp. 35-67;

Vom Wesen des Grundes, (1929), trad. it. di F. Volpi Dell’essenza del fondamento, in Segnavia, cit., pp. 79-131;

Die Frage nach dem Ding. Zu Kants Lehre von den transzendentalen Grundsätzen, (1935-1936), trad. it. di V. Vitiello, La questione della cosa. La dottrina kantiana dei principi trascendentali, cura di V. Vitiello, Guida, Napoli, 1989;

Wer ist Nietzsches Zarathustra?, (1953), in Vorträge und Aufsätze, trad. it. di G. Vattimo Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?, in Saggi e discorsi, cit., pp. 5-27;

Die Frage nach der Technik, (1953), in Vorträge und Aufsätze, trad. it. di G. Vattimo La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, cit., pp. 5-27;

Zur Seinsfrage, (1955), trad. it. di F. Volpi La questione dell’essere, in Oltre la linea, a cura di F.

3) Opere sul rapporto fra Martin Heidegger e Renato Cartesio citate e di riferimento (in ordine alfabetico):

DE BIASE R., L’interpretazione heideggeriana di Descartes. Origini e problemi, Guida, Napoli, 2005;

MARION J.-L., L’‘ego’ cartesiano e le sue interpretazioni fenomenologiche: al di là della rappresentazione, in J.-R Armogathe e G. Belgioioso (a cura di), Descartes metafisico. Interpretazioni del Novecento, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 1994, pp. 179-193;

MESSINESE L., Heidegger e la filosofia dell’epoca moderna, Pontificia Università Lateranense, Roma, 2000;

MORANI R., Soggetto e modernità. Hegel, Nietzsche, Heidegger interpreti di Cartesio, Franco Angeli, Milano, 2007;

ROVATTI P.A., La posta in gioco. Heidegger, Husserl, il soggetto, Bompiani, Milano, 1987;

RICCI. R., Da Heidegger a Marion: riflessioni sulla metafisica cartesiana come onto-teo-logia, in «Discipline filosofiche», I, 1, 1991, pp. 151-173;

ROSSI A., ‘Cogito’ e coscienza. Heidegger interprete di Descartes, in «Giornale di metafisica», XXV, 1, 2003, pp. 47-63;

ZANARDO S.,         Il legame del dono, Vita e Pensiero, Milano, 2007.

4) Studi su Renato Cartesio citati o di riferimento (in ordine alfabetico):

ALQUIÉ F., Lezioni su Descartes. Scienza e metafisica in Descartes, a cura di T. Cavallo, Edizioni ETS, 2006;

BERTACCO D., Descartes e la questione della tecnica, presentazione di G. Brianese, il Poligrafo, Padova, 2003;

CRAPULLI G., Introduzione a Descartes, Laterza, Roma-Bari, 2005;

GARIN E., La vita e le opere di Cartesio. Notizia biobliografica, in Cartesio. Opere, cit., vol. I, pp. VII-CLXXXVI;

LOJACONO E., Le letture delle Meditazioni di Jean-Luc Marion, in J.-R Armogathe e G. Belgioioso (a cura di) Descartes metafisico, cit., pp. 129-151;

MARION J.-L., Il prisma metafisico di Descartes. Costituzioni e limiti dell’onto-teo-logia nel pensiero cartesiano, trad. it. F. C. Papparo, Guerrini e Associati, Milano, 1998;

VALÉRY P., Il suono della voce umana. Variazioni su Cartesio, a cura di F. C. Papparo, Filema, Roma, 2008.

5) Studi su Martin Heidegger citati o di riferimento (in ordine alfabetico):

MASULLO A., La «cura» in Heidegger e la riforma dell’intenzionalità husserliana, in «Archivio di filosofia», LVII, 1-3, 1989, pp. 377-394;

VITIELLO V., Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla ‘Überwindung der Metaphysik’ alla ‘Daseinsanalyse’, Argalìa, Urbino, 1976;

VITIELLO V., Utopia del nichilismo. Tra Nietzsche e Heidegger, Guida, Napoli, 1983;

VOLPI F., (a cura di), Guida a Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 2008;

VOLPI F., ‘Itinerarium mentis in nihilum’. Heidegger e l’ascesi del pensiero, in «Archivio di filosofia», LVII, 1-3, 1989, pp. 239-264;

VOLPI F., La trasformazione della fenomenologia da Husserl ad Heidegger, in «Teoria», IV, 1, 1984, pp. 125-162.

6) Altre opere citate o di riferimento (in ordine alfabetico):

PLATONE Sofista, intr., trad. it. e note di F. Fronterotta, BUR, Milano, 2008.

Quell’ostinato domandare. Heidegger e i Quaderni Neri

“La filosofia non può scadere nel giornalismo e le divisioni manichee non servono a nulla” così dichiara Francesca Brencio in una sua intervista per Filosofia in Movimento, “L’uso ideologico di Heidegger, a destra come a sinistra, è quanto di più lontano dal suo pensiero”

È da poco stata pubblicata per il quotidiano indipendente online Lettera43  un’intervista a Francesca Brencio, ricercatrice della Western Sydney University e membro del TORCH della University of Oxford, attualmente a Freiburg per terminare il suo post-doc, curatrice del volume La pietà del pensiero. Heidegger e i Quaderni Neri. Filosofia in Movimento l’ha incontrata in occasione della presentazione romana del volume, svoltasi il 4 Dicembre, e ne è nato un dialogo ricco di stimoli. 

F. Della Sala: Dottoressa Brencio, grazie per concederci questa intervista, sapendo soprattutto quanto è ricalcitrante dall’apparire sui giornali e nei media. Lei collabora con Filosofia in Movimento in qualità di responsabile di Pagine Heideggeriane, una sezione ricca di contributi volti ad approfondire il pensiero di Martin Heidegger e ha da poco curato un corposo volume sui Quaderni Neri. Dopo sei mesi dall’uscita del libro, cosa pensa del “caso Heidegger”?

F. Brencio: Penso che Heidegger rimanga la più grossa “patata bollente” della storia della filosofia del XX secolo e questo egli stesso lo sapeva, come appunta in uno dei fogli che sono stati editati nel primo volume della Gesamtausgabe (l’opera completa della sue opere n.d.r.): è Heidegger stesso a definirsi così, “una patata bollente”.  La ricezione degli Hefte, sia in Germania sia altrove, rende chiaro un fatto: c’è un assunto che non si problematizza, che si prende per vero e dal quale ne discendono molteplici interpretazioni, le quali spesso generano una notevole confusione. L’assunto è che Heidegger è stato antisemita. Da esso ne discende che anche tutta la sua filosofia è antisemita e per questo andrebbe rimossa dalla storia della filosofia, così come qualche interprete americano ha suggerito. Dopo quasi due anni di lavoro sugli Schwarze Hefte, la mia posizione è che questo assunto non solo non è dimostrato in modo rigoroso, sistematico e coerente attraverso un uso consapevole delle fonti, cioè delle opere di Heidegger attualmente pubblicate, ma anche che, volendo e dovendo collocare le proposizioni in cui Heidegger parla degli ebrei, occorre farlo in modo ermeneuticamente corretto, evitando la tentazione di costruire interpretazioni che si basino su petitio principii e che alimentino solo le convinzioni personali dell’interpretans. Questi taccuini di pensieri, proprio per il loro carattere a-sistematico, sono estremamente facili da depredare: si può facilmente costruire un’interpretazione attingendo in modo sparso alle oltre 1900 pagine di questi primi quattro volumi per proporre la propria interpretazione. Se considera che poi sono stati redatti da un uomo che è stato sostenitore del nazismo per un certo periodo della sua vita, il cerchio si chiude alla perfezione. Heidegger è stato nazista, scopriamo dai Quaderni che è stato anche antisemita e il processo mediatico si imbastisce subito.  A me sembra che la questione non solo sia più complessa, ma anche che ciò che si dà per certo, ai miei occhi non lo è. E su questo punto voglio essere chiara: non sto negando la presenza di proposizioni che hanno un sapore antisemita, o più esattamente antigiudaico – non indugio sulla distinzione concettuale fra questi due termini, voglio credere che partiamo dalla comune conoscenza della differenza di queste parole – bensì quel che io e gli altri studiosi che hanno contribuito a scrivere il volume sui Quaderni Neri abbiamo fatto è stato indagare e capire se filologicamente, ermeneuticamente e teoreticamente quei passaggi possano autorizzarci a parlare di antisemitismo nella filosofia dell’autore. Siamo partiti tutti da una domanda comune: alcuni fatti biografici che riguardano l’uomo Heidegger sono chiari, sono altrettanto chiare anche le implicazioni filosofiche che questi fatti hanno generato nel suo pensiero? Per giungere ad una posizione così netta come si è letto in questi 21 mesi in varie sedi, si sarebbe dovuto in primis mappare la presenza di alcuni elementi e la cornice concettuale in cui essi sono presenti sia nella Gesamtausgabe che nei fogli extra Nachlass per poter arrivare a delle conclusioni così perentorie, ma questa operazione non è stata fatta. Si sono estrapolate delle frasi il cui senso è di una complessità abissale, perché iscritto all’interno della domanda sul senso dell’essere e sulla metafisica occidentale in cui la matrice giudaico-cristiana è chiamata in causa come varco per l’oblio dell’essere, e le si sono consegnate al lettore, sia curioso che esperto, insieme ad un’immagine foriera di pregiudizi. Forse occorreva una maggior prudenza. Una cosa che mi ha colpita, ad esempio, è il fatto che qualora non si condivida l’assunto fondamentale, cioè che Heidegger è stato un antisemita e la sua filosofia sic et simpliciter sia pervasa da antisemitismo, si finisca sotto la buffa etichetta di conservatori, di apologeti, creando così dicotomicamente una significativa frattura: o si conviene sull’antisemitismo o si è apologeti. Tertium non datur. Ecco, ai miei occhi questa divisione manichea non solo non aiuta a capire e a capirsi, ma non risolve nemmeno la questione.

F. Della Sala: Secondo Lei perché si sta dedicando tutta questa attenzione esclusivamente ad Heidegger quando, se il problema fosse davvero una presunta responsabilità della filosofia all’ecatombe nazi-fascista, si può disporre di una lista assai più lunga di pensatori (non solo tedeschi) che, in modo ben più diretto di Heidegger, non nascondono né le loro simpatie politiche né il loro antisemitismo?

F. Brencio: Questa è un’ottima osservazione di cui io stessa parlo nell’Introduzione a La pietà del pensiero. L’attenzione all’ “affair Heidegger” è abbastanza naïve: non è la prima volta che accade e credo, purtroppo, che non sarà nemmeno l’ultima. Credo che la ragione ultima, o forse prossima a quella ultima, è che Heidegger non è un autore che si piega a niente e che non lascia spazio per alcun valore ultimo a cui aggrapparsi in modo fondazionalista. Questo suo essere completamente libero da ogni tentativo ideologico, lo rende un pensatore scomodo, fra i più scomodi del XX secolo. Per questo un attento conoscitore del suo pensiero dovrebbe sapere che un uso ideologico del pensiero heideggeriano non solo è quanto di più lontano dal suo contenuto, ma è anche un’operazione tendenziosa. Heidegger non pensava per valori e non era nemmeno un fautore del nichilismo, anzi: ha dedicato buona parte della sua esistenza a combattere il nichilismo, ma allo stesso tempo ha anche messo in guardia contro una filosofia che si basi sui valori – potrei citarle dei brani dal Nietzsche o dal corso su Schelling o da quello su Kant per darle esempi di ciò. Spesso e da più parti è stato accusato anche di questo, di non pensare per valori. È proprio nel volume 94 degli Hefte che egli scrive della necessità di andare contro tutto, di rischiare tutto, per tentare un pensiero che sia davvero libero. Mi torna in mente la Arendt quando dice che pensare per valori è quanto di più pericoloso si possa fare perché da un momento all’altro i valori possono essere sostituiti proprio con altri valori che ai primi si possono opporre. Lei diceva che dobbiamo pensare senza ringhiera (denken ohne Geländer) perché la ringhiera, cioè i valori, ci possono essere sostituiti senza preavviso e se non sappiamo pensare senza, potremmo rischiare nuovamente di smettere di interrogarci su ciò che facciamo perché siamo certi di essere aggrappati ad una sicura ringhiera – questa la lezione che lei imparò dal processo ad Eichmann e dal totalitarismo.  

F. Della Sala: Nel tentativo di provare l’antisemitismo di Heidegger si è smesso di rivolgere l’attenzione ad un aspetto altrettanto determinante: perché Heidegger – almeno per un breve momento – ha pensato di tesserarsi al NSDP? C’è in questo avvicinamento una motivazione schiettamente filosofica? 

F. Brencio: Per rispondere alla sua domanda vorrei partire da un dato storico squisitamente italiano: nella sola Italia al momento dell’insediamento del fascismo, solo una manciata di professori universitari – circa 15 su oltre 1200 – si rifiutò espressamente di prestare giuramento al fascismo. Costoro ebbero come conseguenze non solo la perdita della cattedra ma anche ripercussioni politiche e personali importanti. Molti accademici vicini alla sinistra aderirono al giuramento auspicando di poter svolgere una politica antifascista mantenendo la cattedra, così come la maggior parte dei cattolici, il quali su suggerimento di Papa Pio XI , prestarono giuramento “con riserva interiore”. Vi fu anche chi prestò fede al giuramento, come Guido Calogero e Luigi Einaudi, su invito di Benedetto Croce, in modo da poter rimanere all’interno dell’università per continuare a insegnare in spirito di libertà e aderendo al manifesto dell’antifascismo, ma furono pur sempre meno di una sessantina di intellettuali. La stragrande maggioranza del mondo accademico ed intellettuale italiano, pur con riserve di forma a cui non seguirono, se non in casi eccezionali, riserve sostanziali, aderirono al fascismo e giurarono fedeltà ad esso – così come giurò fedeltà Heidegger al regime nazista al momento dell’assunzione dell’incarico di Rettore dell’Università di Freiburg. Non solo: in tutti i Quaderni Neri, dal volume 94 al 97, assistiamo ad un crescendo di affermazioni di Heidegger sul suo legame con il partito, sugli anni del rettorato e sul possesso della tessera del partito. In quelle pagine, che volutamente sono state fatte passare sotto silenzio da qualche interprete, Heidegger parla di quegli anni e di quei fatti come di un errore, e torna con insistenza su questi temi, senza farsi sconti di alcuna sorta. Le critiche che muove al regime, ad Hitler, al razzismo come un principio barbarico, sono state taciute fino ad oggi. Queste affermazioni sono in piena sintonia con i pensieri già pubblicati in altre opere: sia nei Beiträge zur Philosophie, che nel primo volume della Gesamtausgabe, che nelle lettere (a Jaspers, alla Arendt, a Marcuse, solo per citarne alcuni) Heidegger torna sulla questione del suo tesseramento al partito e lo fa con chiarezza, senza sollevarsi da alcuna responsabilità. Quanto al silenzio di Heidegger, anche in questo caso, non vorrei ripetermi, ma è proprio nei carteggi, editati quasi tutti in lingua italiana, ad eccezione di quello con Löwith e di qualche altro con i famigliari, che Heidegger non tace nulla della sua adesione al nazismo. Nella lettera dell’8 aprile 1950 scrive a Jaspers di essersi comportato come un bambino che sognava qualcosa di insperato dal regime; in una lettera a Marcuse dice chiaramente le ragioni di quello che è conosciuto come il “silenzio” di Heidegger. Ora gli Hefte forniscono al lettore l’occasione di capire se davvero Heidegger sia stato in silenzio o no, ma di questo non si parla. Così come non si parla del fatto che dopo nove mesi di rettorato, subito dopo le dimissioni, veniva spiato dai servizi segreti del partito, non poteva pubblicare le sue opere e era altamente inviso dai vertici della dirigenza del partito. A me sembra che Heidegger debba essere demonizzato, sempre e comunque: o per ragioni politiche, o per ragioni filosofiche – noto il pregiudizio che lo vede interessarsi all’essere piuttosto che all’uomo – o in nome di una filosofia che non si fondi sui valori, sulla vita, sulla persona etc. L’essenziale è che lo si demonizzi, magari arricchendo la sua immagine di pensatore arcano con tinte fosche e linguaggio “heideggerese”.

F. Della Sala: Che relazione vede fra la Seinsgeschichte e l’antisemitismo? Come spiegherebbe la storia dell’essere? 

F. Brencio: Quello di Seinsgeschichte è uno dei concetti più difficili dell’ontologia heideggeriana, dal momento che, dopo l’interruzione linguistica di Sein und Zeit, egli si trova a dover pensare come uscire da quella stessa metafisica che ha obliato il senso dell’essere. Ecco allora che intorno al 1930 inizia ad introdurre il carattere della storicità dell’essere. E’ proprio nei Beiträge zur Philosopie che Heidegger compie un passaggio fondamentale per la sua filosofia, passaggio che è essenziale per comprendere quanto espresso nei Quaderni Neri. Questo passaggio sta nel formulare la domanda sull’essere (Seinsfrage) non più nei termini dell’analitica esistenziale  – come accadeva in Sein und Zeit – ma in quelli di storia dell’essere. Da ora Heidegger parlerà di storicità dell’essere (Seinsgeschichtlichkeit) come del luogo in cui l’essenza dell’essere si dispiega attraverso l’Ereignis. Con i Contributi si assiste ad una vera e propria fenomenologia dell’essere che si manifesta per tappe storiche, per figure epocali, sino ad arrivare all’Ereignis.  Il passaggio che dall’opera del 1927 – Essere e tempo – arriva agli scritti della metà degli anni’30 delinea uno slittamento della medesima domanda (quella sull’essere) che parte dal senso per arrivare alla verità e infine al luogo, dando vita ad una vera e propria topologia dell’essere. Heidegger non usa mai l’espressione “storia dell’essere” per indicare la storia dell’umanità, del genere umano nella sua interezza e questo chiarimento va costantemente ricordato anche quando negli Hefte si leggono delle affermazioni su questo tema. È nel Nietzsche, opera che raccoglie le lezioni tenute all’Università di Freiburg fra il 1936 e il 1940, che troviamo questa preziosa indicazione, che aiuterà a comprendere le affermazioni contenute nei Quaderni Neri in relazione all’elemento ebraico. In quest’opera egli scrive che la storia dell’essere non è né la storia dell’uomo e di una umanità né la storia del riferimento umano all’ente e all’essere. La storia dell’essere è l’essere stesso e soltanto esso. E sempre nel Nietzsche Heidegger continua dicendo che il coinvolgimento dell’uomo nella storia dell’essere è tale solo in funzione della fondazione dell’ente e solo di volta in volta nel modo in cui egli (l’uomo) «assume, perde, trascura, libera, sonda o prodiga la sua essenza». Per Heidegger l’uomo non appartiene alla storia dell’essere in vista del suo sussistere, agire o operare, ma solo perché egli può arrischiare la propria essenza e in tal modo rendere manifesto l’Ereignis. Proprio alle luce di queste brevi considerazioni su ciò che la storia dell’essere è, non mi azzarderei a pensare ad un antisemitismo che entri in essa, dal momento che proprio l’elemento più strettamente umano non appartiene alla storicità dell’essere, né avanzerei ipotesi per le quali la storia dell’essere possa essere ridotta ad una filosofia della storia o ad una narrazione. Quindi, per rispondere alla sua domanda, il nesso fra storia dell’essere e antisemitismo non solo per me non è chiaro, così come è stato posto fino ad oggi, ma direi anche non pertinente. Quando Heidegger nelle Überlegungen XIV dice che la questione del ruolo dell’ebraismo mondiale non è razziale, bensì è metafisica sta dando un’indicazione metodologica chiara che non dovrebbe essere scambiata per una qualche forma di antisemitismo metafisico o ontologico: egli sta accennando a quella matrice metafisica che accomuna giudaismo e cristianesimo nell’oblio dell’essere. Un elemento ad esempio di cui si parla pochissimo in relazione ai Quaderni Neri è la dura critica al cattolicesimo ed al cristianesimo, critica che viene declinata in un crescendo di affermazioni dal volume 94 al volume 97 degli Hefte: alcuni attacchi di Heidegger alle conversioni forzate sui pagani, o altri diretti ai gesuiti, fanno saltare dalla sedia, e di questo ho reso ragione nel mio lavoro. E’ mia convinzione che la critica al cristianesimo, così come essa emerge dai Quaderni, potrebbe inaugurare una dimensione teoretica che apre a questioni di maggior rilevanza rispetto alla relazione fra Seinsfrage e fede, e si spinge molto più avanti di quanto fino ad oggi gli interpreti abbiano considerato.

F. Della Sala: Nella sua Appendice a La pietà del Pensiero, Lei lavora sul volume più recente dei Quaderni Neri, il 97, in cui è contenuta la famosa espressione sull’autostermininio degli ebrei. Davvero Heidegger ha sostenuto che gli ebrei si sono annientati o, anche in questo caso, attraverso un’indagine ermeneutica più profonda è possibile risalire ad un significato differente ? 

F. Brencio: La mia interpretazione è molto diversa da quanto lei afferma. Se ha la pazienza di seguire il testo heideggeriano magari le posso indicare una chiave ermeneutica diversa. Nelle Anmerkungen, cioè il volume 97 della Gesamtausgabe, Heidegger continua a sviluppare un concetto esposto anche nei quaderni precedenti, cioè quello in base al quale lo spazio-tempo dell’occidente è quello della metafisica e la sua origine consiste nell’elemento cristiano, il quale a sua volta proviene dalla matrice giudaica, cioè da quello che egli chiamerà  l’elemento ebraico in senso metafisico. Se la metafisica occidentale si fonda sulla matrice giudaico-cristiana che ha aperto il varco per l’oblio dell’essere a vantaggio di una rappresentazione di questo basata sulla semplice-presenza o su un valore religioso – penso all’inversione di segno fra la concezione parmenidea dell’essere e a quella neoscolastica, ad esempio, l’essere diventa Dio, il rapporto fra ente e essere primo viene declinato in una nuova concezione, creazionista –, allora la distruzione di quella matrice è la medesima distruzione di quell’elemento originario, cioè dell’elemento ebraico. In questa essenza giudeo-cristiana egli annovera anche la Machenschaft, la tecnica, la modernità tutta, il destino del nichilismo occidentale che nei campi di concentramento manifesta solo la porzione più esigua di tutta la sua portata distruttiva. Non azzarderei mai un’interpretazione che spieghi il passaggio sull’auto-nientificazione dell’elemento ebraico nei termini di un auto-sterminio degli ebrei attraverso l’abisso dell’Olocausto, come se essi si fossero auto-sterminati, e men che mai lo confonderei con una qualche forma di negazionismo di natura politica. Qui Heidegger sta facendo un discorso metafisico che ci porta indietro nei secoli, cioè ci sta invitando a guardare alla concezione della mathesis universalis con occhi diversi, cosa che già nei Beiträge aveva invitato a fare. L’auto-nientificazione è una sorta di implosione della matrice giudaico cristiana su cui si regge tutta la metafisica occidentale. Tre sono le sequenze che aiutano a comprendere questa riflessione così densa e problematica e tutte e tre sono poste consecutivamente. L’autodistruzione dello spazio-tempo della metafisica occidentale si compie come una sorta di implosione dell’essenza giudaico-cristiana. La distruzione della Machenschaft è una forma di questo auto-annientamento di cui Heidegger aveva già parlato in qualche passaggio prima: il più alto livello della tecnica è già ora raggiunto dal momento che può solo consegnarsi all’auto-distruzione. Si consuma così l’essenza storico destinale dell’essere, cioè la sua cifra metafisica, o detto altrimenti, la sua rappresentazione giudeo-cristiana. Ecco perché Heidegger scriverà che «la catastrofe dell’essere è la sua escatologia». 

F. Della Sala: Dunque, cosa raccomanderebbe al lettore italiano?

F. Brencio: Di leggere sempre tutto ciò che viene pubblicato, sempre. Solo così si può pensare con la propria testa. Alla fine la prova con i testi scritti dall’autore, chiunque esso sia, è la cartina tornasole di noi interpreti. Il prossimo mese è atteso, ad esempio, un libro che ritengo dirimente sul molto clamore che la ricezione degli Hefte ha suscitato, quello scritto dal prof. Von Herrmann e dal Prof. Alfieri. Sarà un testo prezioso perché corredato da una sezione di inediti di Heidegger e forse potrà aiutare a riportare le cose al loro peso specifico. Gadamer diceva che se uno è convinto di essere a favore o contro Heidegger si rende ridicolo perché non è così facile passare davanti al pensiero e credo fermamente che avesse ragione. Anche di questo mi sono proposta di rendere ragione nel mio nuovo libro sui Quaderni Neri, in Primavera in uscita in Italia…ma avremo modo di parlare ancora di queste cose in un’altra occasione. Grazie. 

F. Della Sala: Grazie a Lei per questo dialogo.

pietà

L’intervista è stata realizzata a seguito del convengo “I quaderni neri di Martin Heidegger” tenutosi il 4 Dicembre a Roma

Politica e Ontologia. Heidegger e il corso del semestre estivo del’34

La V uscita di Pagine Heideggeriane ospita un paper di Mattia Tritarelli, dottorando dell’Università degli Studi di Perugia. Lo scopo dello scritto qui pubblicato è quello di portare alla luce i nessi tematici che legano la questione politica all’ontologia di Heidegger nel contesto del corso del semestre estivo del 1934, cioè verificare se effettivamente Heidegger sia arrivato a mutuare la propria nozione di “politico” direttamente dall’ideologia del partito nazionalsocialista. Per poter raggiungere lo scopo indicato, l’autore si confronta con quanti hanno sostenuto una simile posizione, in particolar modo Emmanuel Faye, cercando di individuare la coerenza di un siffatto procedere teoretico con l’impostazione heideggeriana, e quelle forzature che sono estranee al pensiero del filosofo tedesco, nel tentativo di riportare la categoria del “politico” alla sua corretta relazione con l’ontologia.

Francesca Brencio

Politica ed ontologia.
Heidegger e il corso del semestre estivo del’34

di
Mattia Tritarelli

 

I. Introduzione

La questione della compromissione di Martin Heidegger con il regime nazista non si è mai estinta sin dalla sua sollevazione: dall’allontanamento dall’insegnamento del dopoguerra, passando per la pubblicazione dell’intervista postuma, fino agli studi di Victor Farias e Hugo Ott con le relative repliche, per arrivare alla pubblicazione odierna dei cosiddetti “quaderni neri”[ref] La recente pubblicazione dei quattro volumi che compongono i “quaderni neri”, annotazioni e appunti lasciati da Heidegger ad una pubblicazione postuma, ha coagulato il recente dibattito internazionale su Heidegger, rinvigorendo la questione del suo presunto antisemitismo. Tra i numerosi studi che stanno fiorendo a riguardo segnaliamo: P. TRAWNY, Heidegger und der Mythos des jüdischen Weltverschwörung, Klostermann, Frankfurt a. M. 2014; D. DI CESARE, Heidegger e gli ebrei. I Quaderni neri, Bollati-Boringhieri, Torino 2014; A. FABRIS (a cura di), Metafisica e antisemitismo. I «Quaderni neri» di Heidegger tra filosofia e politica, ETS, Pisa 2014; F. BRENCIO (a cura di), La pietà del pensiero. Heidegger e i Quaderni Neri, Aguaplano – Officina del Libro, Passignano s. T. 2015[/ref]. In estrema sintesi si è avuto modo di vedere lo schierarsi di due fazioni opposte: inquisitori ed apologeti. I primi hanno creduto d’individuare un’inammissibile concussione nazionalsocialista del filosofo tedesco, adducendone il carattere ‘mistico’ e ‘totalitario’; mentre i secondi hanno tentato in tutti i modi di rivalutare la sua responsabilità politica. Il presente articolo intende rimanere fuori da questo schema bipartito, che troppo spesso finisce per riempire pagine di giornali e scema nella cronaca. Non verrà affrontata neppure la questione dei “quaderni neri”, dato che nostra convinzione è che una valutazione dei contenuti di quelle annotazioni non possa esimersi da un serio confronto preliminare con la filosofia che ne è a fondamento, nonché con la sua conseguente opzione politica.
Ciò che ci proponiamo nel presente articolo è di verificare se le categorie politiche messe in campo da Heidegger scaturiscano da un’adesione all’ideologia di partito, o in alternativa, se la loro genesi sia da rintracciare nel centro pulsante della sua stessa filosofia.
La separazione dell’opera dalla biografia del filosofo di Meßkirch ha prodotto conseguenze deleterie – paragonabili alla vulgata storiografica dell’esistenzialismo del cosiddetto primo Heidegger –, che sono andate ad unirsi all’idea di svolta [Kehre] come cesura epocale della sua biografia. Con il graduale emergere delle fonti relative all’impegno del ’33, si è avuto buon gioco nell’accostarle al fantomatico esistenzialismo di Essere e tempo, denunciando l’instabilità morale e politica del filosofo, il suo pensiero inconsistente ed inefficace, fino all’ipotesi di una sua conversione ideologica [ref] Le posizioni sono state rispettivamente sostenute da Karl Löwith e Jürgen Habermas. Se per l’allievo di Heidegger «egli è nazionalsocialista già per quel radicalismo col quale fonda la libertà dell’esistenza propria di ciascuno, ovvero esistenza tedesca, sullo stato di rivelazione del nulla» (K.LÖWITH, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, tr. it. di E.Grillo, il Saggiatore, Milano 1995, p.66); per Habermas «a partire dal 1929, comincia una trasformazione della teoria in ideologia» (J.HABERMAS, Il filosofo e il nazista, tr. it. di P.Amari, in Micromega 1988 n.3, p. 103). [/ref]. A queste posizioni si sono aggiunti gli studi, il primo fazioso ed acritico di Victor Farias, il secondo ponderato e filologicamente rigoroso di Hugo Ott, che hanno arricchito la mole di fatti e aneddoti intorno Heidegger[ref]Mentre Farias afferma drasticamente che «Martin Heidegger optò per la linea rappresentata da Ernst Röhm e dalle sue SA, cercando di dare con il proprio pensiero una struttura filosofica a tale variante del nazionalsocialismo» (V.FARIAS, Heidegger e il nazismo, tr. P.Amari, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p.5); Ott lascia aperto uno spiraglio per una autonomia del filosofo tedesco, affermando che «Heidegger sovrappone a quello reale il proprio concetto di nazionalsocialismo, che non aveva nulla a che vedere con l’effettiva prospettiva del nazionalsocialismo» (H. OTT, Martin Heidegger: sentieri biografici, tr. it. di F. Cassinari, Sugarco Edizioni, Milano 1988, p.187) [/ref]. A sollevarlo da questi imbarazzi sono state invocate dapprima la sua inettitudine politica, infine la necessaria separazione tra filosofia e scelta politica[ref]Paradigmatica a questo riguardo la biografia di Rüdiger Safranski, secondo cui per il pensatore tedesco si consumerebbe una tragica rottura con la realtà: «Vediamo dunque uno Heidegger tutto preso nel suo sogno di una storia dell’essere; le sue mosse sul palcoscenico della politica sono quelle di un filosofo sognatore» (R.SAFRANSKI, Heidegger e il suo tempo, tri. it. di N.Curcio, Tea, Milano 2001, p.286) [/ref].
Tra gli studi recenti sulla vexata quaestio sul rapporto tra Heidegger e il nazismo merita una menzione il discusso libro di Emmanuel Faye “Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia”[ref]E. FAYE, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, a cura di L. Profeti, L’asino d’oro, Roma 2012[/ref]. Esso sembrerebbe rintracciare un nuovo capo d’accusa. La tesi principale del volume appare risolutoria quanto estrema:

l’unico “contributo” heideggeriano alla filosofia consiste nell’aver dedicato tutte le sue forze, in molte maniere, a introdurvi i principi stessi del nazismo celandosi dietro termini come “verità” ed “essere”, che in lui sono filosofici solo in apparenza[ref]Ivi, p.394[/ref]

La posizione è chiara e monolitica: lo studio di Faye dei seminari e dei corsi heideggeriani tenuti tra il ’33 ed il ’35 – a cui rimanda il titolo originale dell’opera francese – non farebbe che confermare, se non radicalizzare, il credo nazista del filosofo di Meßkirch. Le analisi condotte nel testo hanno un intento ben più radicale di una mera ricognizione biografica:

È per questo che, attraverso i testi portati alla luce e le dimostrazioni proposte, abbiamo voluto mostrare la realtà dell’impresa alla quale egli si è dedicato, cioè l’introduzione, nella filosofia, del contenuto stesso del nazismo e dell’hitlerismo. [ref]Ivi, p.1[/ref]

L’intento del presente articolo è di verificare se effettivamente Heidegger sia arrivato a mutuare la propria nozione di politico direttamente dall’ideologia del partito, oppure, se in alternativa, possano finalmente essere delegittimate posizioni radicali come quella assunta dall’autore francese. Ciò che è necessario far notare sin da subito, infatti, è come nel testo di Faye non sia neanche prospettata una possibile autonomia politica del filosofo tedesco. Complotto, revisionismo e negazionismo, teoria razziale, se non distruzione ed inebetimento filosofico sarebbero le istanze inoculate nel pensiero occidentale da Martin Heidegger.
Qual è il metodo d’indagine adottato dal testo di Faye per argomentare queste accuse così gravi? Attraverso una massiccia raccolta di autori nazisti, le cui citazioni costituiscono una parte cospicua del testo, l’autore passa, per via di più sostituzioni, a leggere i testi heideggeriani per lasciarne emergere affinità, coincidenze e sovrapposizioni terminologiche e contenutistiche. La lettura del contesto socio-politico finisce così per imporsi ad ogni autonomia intratestuale dei documenti d’archivio[ref]Un recentissimo contributo di Thomas Sheehan ha posto l’accento sulle molteplici forzature ed argomentazioni tendenziose su cui sarebbe basato il testo di Faye, cfr. M.SHEEHAN, Emmanuel Faye: the introduction of fraud into philosophy?, in http://enowning.blogspot.de/2015/04/thomas-sheehan-on-faye-and-fraud.html. L’articolo, che è stato occasionato da un diverbio tra i due studiosi, passa in rassegna i ragionamenti forzati e le imprecisioni usati nel lavoro di Faye per argomentare la sua tesi di fondo. Giudicando il testo dell’autore francese ricco di approssimazioni, Sheehan, attraverso una lettura ampiamente documentata, denuncia: in primo luogo, l’inconsistenza del preteso antisemitismo di Essere e tempo, che sarebbe basato su di un’argomentazione costruita su dei passaggi sconnessi; in secondo luogo, le traduzioni rimaneggiate e una riscrittura delle citazioni heideggeriane. Accuse gravissime a cui Faye ha tentato di difendersi inutilmente con una lettera aperta indirizzata contro il professore di Stanford. Per un quadro della discussione tra i due autori, attualmente ancora in corso, si veda M.SHEEHAN, Emmanuel Faye: the introduction of fraud into philosophy?, cit., ∫1-2.[/ref].Raccogliamo brevemente il lessico heideggeriano di base. Secondo Faye Heidegger effettuerebbe un recupero della nozione di comunità razziale da Ludwig Ferdinand Clauß: «Della comunità di popolo come di una comunità di razza»[ref]E. FAYE, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, cit., p.33. A questo proposito Sheehan mostra come Faye faccia coincidere il significato della parola Umwelt – usata da Heidegger in Essere e tempo e da Clauß nell’Anima nordica -, esclusivamente accostando i testi ed attuando delle deduzioni assolutamente improprie, cf. M.SHEEHAN, Emmanuel Faye: the introduction of fraud into philosophy?, p.11-13.[/ref]; così come mutuerebbe da Erik Rothacker il “pensiero razziale” espresso dalla radice germanica[ref]E. FAYE, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia,, cit., p.40[/ref]. Secondo la stessa direttrice passerebbe a rielaborare il concetto di lavoro grazie al confronto con Ernst Jünger: il lavoro esprimerebbe così il conio del nuovo popolo di lavoratori del ’33, per cui «Heidegger precisa nettamente il significato nazista che ormai è del concetto di lavoro»[ref]Ivi, p.116[/ref]. La nozione di popolo, indisgiungibile da quella di razza, sarebbe assunta direttamente dallo stesso Hitler: «D’ora in poi non si potrà più negare che l’uso razzista della parola Volk viene accettato da Heidegger senza l’ombra di una riserva e in mezzo ai diversi significati ammissibili»[ref]Ivi, p.152[/ref]. In maniera analoga, parlando dello stato come essere fondamentale del popolo, Heidegger finirebbe per recuperare l’istanza genuina dell’hitlerismo: «La concezione della nazione espressa nel seminario di Heidegger è appunto la stessa che troviamo nel Mein Kampf»[ref]Ivi, p.182[/ref]. Cercando di formulare un giudizio riassuntivo: «Il punto fondamentale è che “l’essere politico dell’uomo”, per Heidegger come per tutti i nazionalsocialisti, ha consistenza solo come popolo, mai come individuo»[ref]Ivi, p.184[/ref]. La politica totale finisce per sovrastare ogni campo, compresa l’ontologia.
Questo meccanismo interpretativo, che lascia imporre il contesto in cui Heidegger venne a trovarsi sull’autore stesso, finendo per neutralizzarne le categorie politiche, non lascia possibilità di riserve; se non per il fatto che tende ad incepparsi, fino ad imbattersi in delle vere e proprie contraddizioni (attribuite all’autore, se non ad errori o sue oscurità). Una volta tolte dal contesto di formulazione originaria, dalla coerenza interna del corso o del seminario in cui sono formulate, le sentenze heideggeriane non presentano più resistenze all’ermeneutica inquisitoria. Lo scopo di una contro-lettura dei testi presi in considerazione da Faye è quello di lasciar riemergere la coerenza interna del pensiero heideggeriano, che sembrerebbe avere come termini di paragone il pensiero fenomenologico piuttosto che il Mein Kampf, la politica aristotelica anziché una politica di potenza.
Il tentativo di Faye nei fatti si rivela fondato su un’argomentazione fallace, che solo una volta smascherata lascia aperta la domanda sulla coerenza del pensiero e del linguaggio politico heideggeriano. Piuttosto che assumere la prospettiva secondo cui politica ed ontologia non possano venir scisse né sovrapposte, così da discolpare o condannare allo stesso tempo il filosofo tedesco, dovremmo incominciare a chiarirne l’effettivo rapporto.
Una lettura contrastiva di tutti i corsi ed i seminari presi in considerazione da Faye sarebbe più che istruttiva; tuttavia, per tentare un passo in questa direzione, scegliamo di presentare nelle sue linee fondamentali il corso del semestre estivo 1934 Logica e linguaggio[ref]M.HEIDEGGER, Logica e linguaggio, tr. it. di U. Ugazio, Marinotti, Milano 2008[/ref]. Il corso rimane sicuramente il più istruttivo tra quelli presi in considerazione per almeno due ordini di motivi: in primo luogo Heidegger, durante il suo svolgimento, presenta le proprie definizioni politiche in maniera pressoché sistematica; mentre in secondo luogo, esso è il primo corso tenuto dopo le dimissioni dal rettorato friburghese. Le lezioni assumeranno così un ruolo paradigmatico, passando a ridefinire termini fondamentali come “popolo”, “uomo” e “storia”, sulla scorta della speculazione presentata in Essere e tempo.

II. L’introduzione al corso del ’34: temporalità e storicità nell’esperienza inautentica

Quando Heidegger si accinge a tenere il corso del semestre estivo del 1934 aveva già presentato le proprie dimissioni dalla carica di rettore dell’Università di Friburgo. In seguito i suoi dissensi con i professori più intransigenti – tra cui Ernst Krieck -, andarono inasprendosi a causa dell’accelerazione del processo di allineamento dell’ateneo friburghese alla politica di partito.
Mentre da programma accademico era stato annunciato il corso “Lo stato e la scienza”, nella prima ora di lezione Heidegger ne comunicò il cambiamento di argomento. L’esordio stesso del corso ne fissa il compito principale: determinare la struttura e la provenienza della logica odierna, con lo scopo di scuoterla e metterne in discussione il rapporto con il linguaggio. La domanda guida, che mira all’essenza del linguaggio, viene condotta attraverso lo smascheramento dell’imposizione della logica sull’asserzione per mezzo della grammatica. La questione preliminare è stabilire come la lingua sia connessa al tema dell’essere, e se essa non possa essere disgiunta dall’impostazione logicista a cui sembra definitivamente essere assegnata.
L’interrogazione intraprende da subito un moto vorticoso sino a trasformarsi in una vera e propria argomentazione circolare. Cerchiamo di seguirne il percorso principale.
Una prima analisi condotta sullo statuto del linguaggio ci induce a considerare la lingua, non come semplice raccolta di lemmi contenuti stabilmente nel vocabolario, bensì come colloquio che accade in maniera necessaria tra gli uomini. Per questo, secondo Heidegger, per mirare all’essenza del linguaggio dovremmo preliminarmente passare ad indagare la questione dell’essere dell’uomo in quanto colui che parla. Il corso subisce così il suo primo apparente slittamento.
Che cos’è l’uomo? Da subito viene notato come il modo di porre la questione possa risultare a questo punto determinante. Allo scopo di evitare di scadere in un’oggettivazione che definisca in anticipo che cosa sia l’uomo, il filosofo porta a chiederci più genuinamente chi esso sia. Heidegger presenta il motivo che sta a fondamento di questo slittamento rivolgendosi all’interrogante:

«La domanda preliminare poggia sull’uomo come se-stesso. La risposta rimanda l’interrogante al suo se-stesso. Gli interrogati siamo noi stessi. Quando l’interrogante chiede chi sia l’uomo come se-stesso diviene egli stesso il cercato»[ref]Ivi, p.54. Ogni autentica interrogazione non può non prendere in considerazione il protagonista stesso del domandare. Il se-stesso [Selbst] è una figura centrale che compariva già in Essere e tempo e che sta ad indicare il “soggetto fenomenologico” nella sua medesimezza, non esclusivamente a partire dalla sua presenza: «La domanda sul Chi deve trovare risposta nella esibizione fenomenica di un determinato modo di essere dell’Esserci. Se l’Esserci è se-stesso soltanto esistendo, la stabilità e la possibile “instabilità” del se-stesso richiedono una posizione ontologico-esistenziale della domanda quale unica via d’accesso adeguata alla corrispondente problematica» (M.HEIDEGGER, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi & C., Milano 2005, pp.147-148). [/ref]Per Faye l’intento di questo spostamento dell’indagine non mira che alla distruzione di ogni nozione di umanità, alla falsificazione della domanda intorno l’umano, che comporterebbe un’assoluta deresponsabilizzazione[ref]A questo proposito l’articolo di Sheehan mostra come la tesi sia sostenuta alla luce di una lettura viziata del ∫74 di Essere e tempo, il cui argomento è il richiamo all’autenticità dell’Esserci nella sua storicità, in rapporto alla comunità. «Ma Faye maltratta questa distinzione piuttosto ovvia ed importante. Egli afferma che il ∫74 ingloberebbe gli individui in una comunità fascista organica, un’affermazione che egli può fare esclusivamente perché non legge questa sezione attentamente o per intero» «But Faye rides roughshod over this quite obvious and important distinction. He says that SZ §74 swallows up individuals in a fascistoid organic community, a claim that Faye can make only because he has not read this section carefully or as a whole» (M.SHEEHAN, Emmanuel Faye: the introduction of fraud into philosophy?, cit., p.16).[/ref]. Heidegger, al contrario, avverte gli ascoltatori che di questa ipseità [Selbstheit][ref]L’ipseità del se-stesso è la medesimezza grazie alla quale l’ente che interroga il proprio essere, riconosce l’interrogazione come propria, rispondente al se-stesso. Da qui il suo rapporto necessario con la cura del proprio essere autentico: «L’ipseità deve esser esistenzialmente rintracciata soltanto nel poter-essere-se-stesso autentico, cioè nell’autenticità dell’essere dell’Esserci in quanto cura. In base a essa si spiega la stabilità del se-stesso, cioè la presunta permanenza del soggetto» (M.HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., p.383)[/ref] non si può avere un concetto già dato – vertendo essa piuttosto sul preconcettuale –, in quanto anticiperemmo fatalmente l’interrogazione. Siamo alla prima acquisizione del corso: come ente che domanda e su cui verte la domanda del suo proprio essere, l’Esserci questiona se-stesso.

Lo scopo di questo nuovo orientamento della domanda sull’uomo è il rinvenire di una posizione fenomenologica fondamentale. Cercando di anticipare tanto una considerazione psicologica, quanto una sociologica – entrambe determinate da una definizione preconcetta di uomo -, Heidegger sta mirando all’essere dell’ente che interroga se stesso, cioè il Dasein. A partire da ciò l’interrogazione investe i tedeschi in quanto popolo che si sta interrogando, in quanto noi. Ma da dove scaturisce il noi come collettività, se non più da una serie numerica, da una semplice somma algebrica di io isolati? L’interrogazione è stata così formulata affinché fosse possibile domandarsi di volta in volta intorno l’essere del noi-stessi, senza vincolarlo ad una risposta comunitaria predeterminata, evitando con ciò ogni ricorso alla nozione di massa[ref]La massificazione sarà uno dei frutti dell’età contemporanea dominata dalla macchinazione. Heidegger presenterà il suo tempo come l’era della mobilitazione totale, come oblio del problema dell’essere a favore dell’ente. Secondo quanto scriverà qualche anno più tardi nei Contributi alla filosofia, l’occultamento e l’abbandono dell’essere si manifesterebbero nel calcolo, nell’accellerazione e nella centralità della massa. «Ciò che è comune a molti e a tutti è appunto per i “molti”: è ciò che essi conoscono come eccellente; ne deriva un’esigenza di calcolo e la celerità a disporre a loro volta i binari e la cornice per ciò che ha il carattere della massa» (M.HEIDEGGER, Contributi alla filosofia (Dall’evento), tri. it. di A.Iadicicco, Adelphi, Milano 2007, p.140). Per quanto riguarda la massa si vedano nella stessa opera anche ∫14 e ∫25.[/ref].

Né la prima persona singolare, né quella plurale, possono ricevere per Heidegger una preminenza nell’interrogazione[ref]Proprio a questo punto del corso Heidegger ci avverte che abbiamo guadagnato una posizione dirimente nei confronti della soggettività. Leggiamo infatti che il Selbst detiene il primato tanto sull’io quanto sul noi, essendone a fondamento. Tanto l’egoità quanto il noi comunitario si basano sull’ipseità; che si possa sostenere il contrario è dovuto secondo Heidegger alla valutazione del ‘34 come il tempo del noi, succeduto al dominio liberale dell’io moderno.[/ref]. Giunti a questo punto del ragionamento, il filosofo può portare a rispondere i propri studenti alla domanda sul noi:

«”Chi siamo noi-stessi?”: noi stiamo nell’essere del popolo, il nostro essere se-stesso è il popolo»[ref]Ivi, p.84[/ref].

La domanda sull’uomo ci trascina inavvertitamente alla questione del popolo. Il noi-stessi si colloca nella risposta che ognuno per proprio conto, in quanto interrogante, dovrebbe assumere e far propria. Il corso fornisce un’indicazione specifica: «Una decisione intorno a chi siamo noi stessi è stata già presa, siamo cioè il popolo»[ref]Ivi, p.87[/ref]. Ciò sta a significare che il popolo [das Volk] è tale in forza della decisione [Entscheidung]: esso non riceve la propria determinazione dall’alto, e non ha neanche un valore in potenza che si tratterebbe di attuare mediante la volontà. Come bisogna leggere quest’ultima affermazione, se, come viene fatto notare, quello tedesco è un popolo che si sta interrogando e non il popolo?
Siamo arrivati ad un primo svincolo decisivo del corso, che ci ha portato ad affrontare gradualmente una serie di questioni concatenate. Sulla base della riposta fornita sul popolo in quanto decisione, dobbiamo ora a trattare due questioni intermedie: esse vertono rispettivamente su cosa sia un popolo e che cosa stia qui a significare decisione.
Che cos’è un popolo secondo Heidegger? Faye non ne ha dubbi:

D’ora in poi non si potrà più negare che l’uso razzista della parola Volk viene accettato da Heidegger senza l’ombra di una riserva e in mezzo ai significati ammissibili[ref]E. FAYE, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, p.152. Secondo Faye sarebbe proprio sarebbe proprio Hitler ad ispirare la teoria statuale heideggeriana: «Heidegger fa dunque sua senza riserve l’espressione centrale del Mein Kampf, quella del völkischer Staat» (Ivi, p.215)[/ref]

Heidegger sembra intendere la parola in tutt’altro modo. Possiamo dimostrarlo illustrando le definizioni comuni – e perciò inautentiche – con le quali può essere determinato un popolo. Proseguendo la lettura del corso apprendiamo che il popolo può venir definito secondo tre criteri.
In primo luogo può essere inteso meramente come l’insieme degli abitanti di un territorio: «la popolazione costituisce il corpo [Körper] del popolo, l’insieme degli abitanti di uno stato»[ref]M.HEIDEGGER, Logica e linguaggio, cit., p.75[/ref]. Secondo questa prospettiva il popolo è considerato alla stregua di una massa censita, costituente una risorsa vivente in base alle sue membra. Proprio su questa base «spesso usiamo il termine “popolo” anche nel senso di “razza” [Rasse]»[ref]Ivi, p.95[/ref], riducendo il popolo alla sua materialità. Questa è la definizione biologica del popolo secondo la razza, secondo il sangue.

In secondo luogo, il popolo può essere preso semplicemente sotto un punto di vista sentimentale, in quanto anima [Seele]. «Popolo è inteso qui nel suo comportamento psichico – come anima»[ref]Ivi, p.97[/ref]. In questo modo una popolazione si definisce anche in virtù della propria identità romantica ricavata dalla tradizione, determinazione secondo cui sarebbe il diritto del territorio a radicare l’anima popolare nell’insediamento ed a stabilirne i caratteri. Questa è per Heidegger l’intesa antropologico-culturale del popolo.
In terzo luogo, il popolo arriva a coincidere con lo spirito [Geist]. «Ovunque sia questione di suddividere, di stabilire un ordine con leggi proprie, di decidere, il popolo è qualcosa di storico, di commisurato alla volontà, di spirituale: il popolo è spirito»[ref]Ivi, p.98 [/ref]. Secondo tale prospettiva esso è qualcosa di storicamente determinato, direttamente commisurato alla sua potenza spirituale. Questo è il popolo da un punto di vista di una filosofia della storia.
Giungiamo così ad un’altra tappa fondamentale della nostra ridefinizione linguistica. Proprio in riferimento alle definizioni appena proposte, secondo Faye comincerebbe «una lunga indagine sulla nozione di popolo, senza che nessuna di queste tre determinazioni sia rifiutata»[ref]Ivi, p.151[/ref]. Esattamente all’opposto, ciò è proprio quanto Heidegger sta cercando di dimostrare, ricusando le tre definizioni precedentemente abbozzate. Se non venisse meno la loro verità non avrebbe senso la distinzione approntata da Heidegger tra autenticità e inautenticità, l’argomentazione si ribalterebbe finendo per assumere ciò che si sta presentando appositamente in maniera negativa. Veniamo infatti nuovamente redarguiti, poiché nel corso delle analisi appena compiute abbiamo di nuovo mancato la domanda. Stiamo nuovamente questionando su cosa sia un popolo e non su chi esso sia.

Per questo motivo precedente, avevamo trasformato la domanda sul che-cosa in una domanda sul chi. Volevamo volgere le spalle alle rappresentazioni nelle quali l’uomo è fatto consistere nella connessione di corpo, anima e spirito.[ref]Ivi, p.99 [/ref]

I tre modi di determinazione di un popolo precedentemente abbozzati provengono tutti da una medesima origine, e cioè dalla considerazione dell’uomo come costrutto di corpo-anima-spirito [Leib-Seele-Geist]; ne consegue che solo una volta reimpostata la domanda sull’uomo sarà possibile formulare quella sul popolo in maniera autentica.
Per continuare a sondare la risposta sul popolo siamo subito rimandati alla seconda domanda intermedia, su che cosa s’intenda per “decidere”. La nostra comprensione quotidiana vuole che la decisione risponda ad un aut-aut, consista cioè in una possibilità esistenziale, in una scelta che ci si prospetterebbe tra due alternative. Al contrario, ed in maniera autentica, Heidegger presenta la scelta a partire dal suo sostenimento. Essa arriva a definire uno status: la decisione si dà solo ed esclusivamente nella continuità del suo accadere, nel mantenimento della scelta che corrisponde alla necessità della sua continuità. A questo proposito essa è appannaggio esclusivo dell’uomo in quanto egli rimane da sempre e inevitabilmente aperto alla decisione, sia che esso scelga o meno. Solo ed esclusivamente l’essere ferrati nell’apertura-decidente permette perciò il dischiudersi di un accadere[ref]«Questa apertura eminente, autentica, attestata nell’Esserci stesso dalla sua coscienza, cioè il tacito e pronto all’angoscia autoprogettarsi nel più proprio esser-colpevole, è ciò che chiamiamo decisione», e perciò «il decidersi, è in primo luogo, l’aprente progettare e determinare le possibilità di volta in volta effettive» (M.HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., pp. 354-355)[/ref]. L’apertura decidente [Erschlossenheit] dell’Esserci è il nuovo sguardo sull’agire: dal momento che ci decidiamo per qualcosa rimaniamo aperti alla decisione stessa determinandoci. «Siamo aperti-decidenti a qualcosa – questo indica che ciò al quale siamo aperti-decidenti ci sta stabilmente davanti determinando tutto il nostro essere»[ref]M.HEIDEGGER, Logica e linguaggio, cit., p.111 [/ref].
Non avremmo raggiunto granché se l’esito di questo domandare ci avesse portato a quello che sembra un cieco volontarismo. A tal proposito leggiamo che questo decidere perde ogni carattere d’immediatezza, esso non rimane legato al volere presente, quanto piuttosto si inserisce all’interno di una discussione temporale. Esclusivamente in virtù della decisione ci inseriamo nella temporalità venendo così ad aprirsi la dimensione della storicità:

Nell’apertura-decidente, l’uomo è anzi rinviato all’accadere futuro. L’apertura-decidente è essa stessa un accadere che, afferrando preliminarmente quell’accadere, contribuisce stabilmente a determinare ogni accadere. [ref]Ivi., p.112 [/ref]

È proprio a questo punto che l’indagine investe lo statuto della storia. Riguardo l’essenza della storicità è necessario fornire sin da subito dei distinguo in base al tempo, poiché non assegniamo un carattere propriamente storico ad ogni trascorrere. Per comprendere come non ogni decorso temporale ottenga il diritto di essere storia, in quanto non tutto ciò che trapassa milita nella storia, dobbiamo necessariamente far riferimento all’accadere della decisione dell’uomo. La storia non è una mera successione di avvenimenti ordinata in manuali scolastici, incasellata secondo nessi di causa-effetto; piuttosto, e in maniera autentica, essa è determinabile esclusivamente a partire dall’essere dell’uomo. Si apre una dimensione storica esclusivamente in presenza dell’accadere: in quanto l’accadere resta nel sapere legato ad una volontà, ne conserva una notizia che è possibile render nota. Un effetto fisico, un animale, una cosa presi nella loro autonomia possono avere un processo, un movimento ma non accedono nell’ambito dell’accadere storico in maniera indipendente. Al contrario, sono la consapevolezza, l’intenzionalità e la volontarietà che permettono alla notizia dell’accadere di essere conservata e resa nota. Ciò è cruciale dato che «con questo sbarramento, determiniamo la storia come essere dell’uomo»[ref]Ivi., p.122. Secondo le scelte del traduttore: Geschichte è tradotto qui con “storia”, e sta ad indicare la storicità autentica del dar notizia della “storiografia” [Geschichtskunde]; mentre Historie, che indica la notizia riferita all’accadere della storia, è lasciato non tradotto. Invece la “scienza storica” inautentica traduce la Geschichtswissenschaft, che in quanto scienza, ordina razionalmente la notizia come oggetto. Per quanto riguarda la distinzione tra le due maniere di trattare la storia che stiamo per andare ad affrontare cfr. M.HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., §74-§76. [/ref].
Siamo giunti all’ennesimo punto di svolta. Esattamente in questa parte del corso Heidegger indica infatti che siamo pronti ad effettuare una rotazione delle questioni fin qui poste, a rivolgerci nuovamente ad esse per passare ad un’indagine autentica. Il punto di torsione che permette di rivolgerci al percorso compiuto, rivelandone il carattere circolare-interpretativo, viene individuato nella ricomprensione della temporalità.
Durante il percorso dell’interrogazione siamo giunti al cospetto della storia e ne abbiamo fatto il carattere esclusivo dell’Esserci. La domanda sulla storia è abitualmente la domanda sul passato. Possiamo ora considerare i fatti in relazione a due modelli temporali: secondo lo scorrere degli attimi, oppure in base alla decisione dell’Esserci. Se il tempo individuato è quello di matrice aristotelica, dell’incedere dei momenti – il susseguirsi del movimento nel tempo dell’orologio -, allora il passato è qualcosa che non-è-più; esso è un trapassato, un qualcosa di compiuto in quanto trascorso. In alternativa, se il tempo è quello misurato sulla decisione dell’Esserci, esso si rivela un già-stato che perdura nel suo continuo farsi essenza, un provenire-verso della progettualità[ref]Heidegger distingue la considerazione canonica del tempo, risalente alla fisica aristotelica, dalla temporalità [Zeitlichkeit] della costituzione ontologica dell’Esserci. Temporalità che rivela la maniera autentica della cura, il rapportarsi dell’Esserci al proprio essere. A questi due modi di comprensione del tempo, il primo deiettivo ed il secondo autentico, nel disegno di Essere e tempo avrebbe dovuto aggiungersi la trattazione del tempo in relazione all’Essere [Temporalität]. Per la distinzione tra tempo inautentico e Zeitlichkeit cfr. M.HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., p.396 ss.[/ref]. Mentre la prima temporalità, secondo il filosofo tedesco, è quella vigente nella metafisica occidentale sul modello aristotelico del movimento, la seconda modalità attraverso la quale è possibile trattare il passato, calibrato sull’accadere riguardante l’Esserci nella decisione, declina un nuovo modo di stare nel tempo e nella storia.

Heidegger passa ad indicare, a seconda delle due temporalità che abbiamo appena tracciato, due maniere fondamentali di trattare la storia. La scienza storica [Geschitewissenschaft] inautentica – basata sulla temporalità aristotelica-, considera la storia come un oggetto compiuto – che non è più -; essa configura gli eventi e li ordina in un’esposizione lineare secondo una linea tematica. La seconda modalità di fare storia, in quanto storiografia [Geschichtskunde – Historie], determina al contrario e di volta in volta il modo con cui un’epoca sta nella storia autenticamente. A questa seconda maniera di trattare la storia pertiene il mantenere la notizia (historia), tenuta salda a partire dall’accadere. Dal momento che è il nostro rapportarci al tempo a determinare la conseguente scienza storica, è una rinnovata discussione sulla temporalità a determinare la modalità dell’accadere dell’Esserci nella storia, la sua maniera di essere nella storia.
L’alternativa che si profila è tra un’ipostatizzazione del passato, che porta ad una forma d’ignavia storica che ci inchioda ad un atteggiamento constatativo, ed una considerazione dell’essere dell’uomo nel suo continuo essenziale maturare storico, indissolubilmente legato al carattere della decisione. La triplice canonica scansione temporale passato-presente-futuro subisce così un nuovo orientamento. Seguendo il carattere della decisione Heidegger arriva ad affermare qualcosa che ad una prima lettura può sembrarci contraddittorio. Il nostro essere nella storia, il farsi essenza da cose antecedenti, si determina a partire dal nostro futuro che s’impone come tradizione. La contraddizione risulterà solo apparente se per tradizione non intendiamo un passato immobile, da reiterare o restaurare, bensì un continuo farsi in-carico (tradere – liefern). Se quanto ereditiamo non è un patrimonio statico, ma ciò a partire da cui muoviamo, allora solo dopo aver assunto il nostro tratto antecedente potremo stare saldi nel nostro essere proprio: ciò significa farsi-essenza dal già-stato in direzione del futuro. Alla stregua di tale considerazione ci è possibile comprendere come il nostro essere anticipatamente gettati, sia subito a partire da un esser-già-stato tendente al futuro: è il tempo originariamente unico ed autentico. Focalizziamo così nel cuore del corso l’unica questione di Essere e tempo, ovvero il modo d’essere temporale dell’Esserci in rapporto all’Essere.

«Non ci è più possibile comprendere noi stessi come qualcosa che compare nel tempo, dobbiamo esperirci come quelli che facendosi essenza da cose antecedenti, estendendo la presa oltre se stessi si determinano a partire dal futuro, ossia però come quelli che sono essi stessi il tempo», poiché «Siamo noi stessi il maturarsi del tempo [zeitigen]»[ref]Ivi, pp.168-169: «Questo fenomeno unitario dell’avvenire essente-stato e presentante lo chiamiamo Zeitigung. […] La Zeitigung si rivela come il senso della Cura autentica. […] L’unità originaria della struttura della Cura è costituita dalla Zeitigung» (ET, p.387-388). [/ref]

Tutte le domande che ci siamo posti lungo il corso delle lezioni sono inserite in questo accadere temporale che noi siamo, pertanto, le risposte di cui ci siamo forniti andranno riformulate alla luce di una temporalità autentica. Quel che ci aspetta è dunque di riaffrontare le questioni passate in rassegna durante la prima parte delle lezioni, alla luce dell’autentico accadere temporale dell’Esserci, all’interno del suo effettivo maturare. Esclusivamente dopo aver assunto la nostra temporalità originaria ci riconosciamo come noi-stessi nella decisione, in quanto interroganti: ci appropriamo dell’accadere autentico, come popolo e come uomini, e, proprio rispondendo, siamo responsabili nel nostro proprio essere. Questa è propriamente la struttura della cura.

III. L’esperienza autentica di uomo, popolo e storia

Nel proseguo del corso dovremo ripercorrere la serie questioni che si erano, ad un primo tempo, presentate come inautentiche. Intraprendendo il cammino a ritroso, senza mai perdere di vista la temporalità dell’essere dell’uomo, sarà necessario mettere in luce i caratteri della nostra costituzione fondamentale. A questo proposito «facciamo esperienza del tempo solo e soprattutto se portiamo all’esperienza noi stessi nella nostra determinazione»[ref]M.HEIDEGGER, Logica e linguaggio, cit., p.177 [/ref]. In cosa consiste il nostro essere determinati? Esso si articola secondo Heidegger in tre significati reciproci: il binomio carico-mandato, il lavoro e la tonalità emotiva.
Il primo momento recettivo della nostra determinazione risiede nel nostro trovarci necessariamente impegnati nella tradizione. L’incarico [Auftrag], come determinazione ereditata del nostro essere, ci è destinato anticipatamente alla luce del nostro mandato [Sendung]; perciò siamo inevitabilmente interpellati ad una risposta responsabile nei confronti del mandato – ciò che ci è trasmesso. Abbiamo precedentemente detto che il nostro farsi-essenza procede dall’essere già-stato, ed ora ci appare chiaro come l’accostamento incarico-mandato, stimolando il nostro domandare alla risposta necessaria, illumini la nostra essenza storica costituendola in anticipo. Siamo necessariamente gettati nell’ente sempre a partire-da.
Questo carattere non rimane una constatazione erudita ed inoperosa, dal momento che la realizzazione di una sua replica passa attraverso una decisione. Scopriamo così cosa Heidegger intenda per lavoro, il secondo carattere della nostra determinazione. Lavorare è ricevere e portare all’opera la nostra determinazione [ins Werk setzen][ref]«Ricavare la nostra determinazione, mettere e portare in opera a seconda della sfera del produrre – significa lavorare» (M.HEIDEGGER, Logica e linguaggio, cit., p.180). Coerentemente Heidegger si esprime nella stessa maniera durante il discorso d’immatricolazione tenuto nel novembre 1933: «Tuttavia l’essenziale dell’essenza del lavoro non sta nell’attuarsi di un atteggiamento, e non sta nel suo risultato, bensì in ciò che in esso propriamente accade, e cioè: l’uomo, come lavorante, si confronta con l’intero dell’ente» (M.HEIDEGGER, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita, tr.it. di N.Curcio, Il Melangolo, Genova 2005, p.191). Sulla stessa riga il servizio al lavoro era stato richiamato come uno dei servizi eminenti dello studente, durante il discorso di rettorato (M.HEIDEGGER, L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il rettorato 1933/34, cit., p.25).[/ref]. Il lavoro non è un’attività del soggetto che si ripercuote su un oggetto ad esso estraneo, bensì si rivela l’operatività stessa della nostra essenza, l’efficienza del nostro agire. Agendo in direzione di una progettualità ci situiamo in un presente tra un essere già-stato e un futuro. Il lavoro si realizza come produzione della Bestimmung.

Il terzo elemento costituente la determinazione è la Stimmung: la tonalità emotiva[ref]«La tonalità emotiva ha già sempre aperto l’essere-nel-mondo nella sua totalità, rendendo solo così possibile un dirigersi verso…L’essere in una tonalità emotiva non importa alcun riferimento primario alla psiche; non è uno stato interiore che poi in modo enigmatico si esteriorizzerebbe per colorire di sé cose e persone. […] Alla situazione emotiva è esistenzialmente connessa un’aprente remissione al mondo in cui possiamo incontrare ciò che ci procura affezioni» (M.HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., p.169,171). Per quanto riguarda la Stimmung in Essere e tempo cfr. anche §29 e §68b.[/ref]. Essa, in quanto tonalità fondamentale ci pervade da capo a fondo e ci determina intonandoci all’ente. Riferendoci alla Stimmung dobbiamo escludere ogni riferimento ad un flaccido sentimentalismo che si rispecchierebbe in stati comportamentali, inchiodati al vissuto di uno stato d’animo. Dato che è da sempre attraverso una tonalità che ci apriamo all’ente, essa influenza e caratterizza necessariamente ed immediatamente tale apertura, non possiamo accantonarla per una pretesa di un’oggettività scialba e fittizia.
Abbiamo già avuto modo di vedere, come, in senso inautentico, questa triplice determinazione non venga affatto rispettata. La domanda elusiva intorno l’uomo lo riduce alla sua mera oggettualità, alla sua mera presenza, così che possa rientrare nell’ambito delle scienze umane che ne mancano completamente lo statuto temporale. Ritornando a domandarci in senso autentico chi sia l’uomo, possiamo finalmente passare a connotarlo esaustivamente secondo la sua triplice autentica determinazione.
Riuniamo i tre caratteri della determinazione. Una volta sottratta la tonalità emotiva alla sua psicologizzazione in vissuti, diverrà possibile intenderla come esperienza decisiva; in necessario riferimento ad essa ci immettiamo nell’ente, esponendoci all’essere sempre secondo un’intonazione. La nostra determinazione si rivela efficace nel lavoro: l’operare dell’uomo nell’ente che ci si è aperto. L’uomo è costantemente rinviato alle cose, da sempre aperte nel mondo. Se la Stimmung ci situa emotivamente ed il lavoro ci immette operativamente nell’ente, manca ancora una linea unitaria che connetta i momenti in un unico intreccio. La traccia guida è fornita dal plesso incarico-mandato, cosicché ogni lavoro scaturisce da un compito ed è legato a quel che sopraggiunge, sempre nel rapporto all’ente sostenuto da una tonalità[ref]Ivi, p.217[/ref]. L’uomo viene a trovarsi immesso in una tradizione, dato che egli non è mai senza presupposti: la sua situatività [Befindlichkeit] è già di per sé ricevente, in quanto l’Esserci è da sempre aperto in maniera determinata. Portando a sintesi il ragionamento:

Questo senso triplice-unico di quel che chiamiamo determinazione ci consente innanzitutto di cogliere incarico e mandato, lavoro e tonalità emotiva nella loro unità commisurata all’accadere, di cogliere egualmente anche il tempo come potenza originaria che dispone il nostro essere e lo determina in sé come accadere.[ref]Ivi, p.183[/ref]

La determinazione, considerata in maniera unitaria, rappresenta la nostra completa storicità, coincidente con la nostra propria maturazione temporale. Siamo storicamente in virtù della nostra determinazione, e viceversa, siamo noi stessi in quanto esposti all’ente temporalmente. Questo intreccio corrisponde al nostro essere nel tempo – esposti all’ente nell’apertura – nel modo in cui ne va del nostro essere proprio. La nostra maturazione temporale [zeitigen] coincide con la cura del nostro proprio essere: essa dispiega il nostro farsi-essenza. Proprio quella che è presentata come la maturazione temporale viene a dispiegarsi tra il passato come già-stato, il presente situato nella tonalità emotiva e operante nel lavoro, nel continuo rinvio al futuro in virtù della decisione. L’indagine sull’uomo viene così a ricomporsi, acquistando un carattere unitario.

IV. Tentativo di una messa in discussione del concetto di politico

Solo dopo aver chiarito la domanda intorno l’uomo Heidegger nomina per la prima volta lo stato. Egli lo fa dopo aver riannodato i capi delle analisi fin qui compiute e portando a conclusione il corso, fornendo una risposta all’interrogazione intorno al popolo.

«L’ente originariamente unitario che regge esser-esposto, rinvio, tradizione e carico può essere solo quel che chiamiamo un “popolo”»[ref]Ivi, p.219[/ref]

Dato che il popolo è da subito un determinato popolo, lo stato non potrà essere legato ad una definizione concettuale frutto di un’astrazione del diritto, bensì esso rivela la propria politicità in riferimento al proprio Esserci. Se assumiamo la cura in sé come cura della determinazione, allora possiamo arrivare a riaccorpare le analisi affermando che «Lo stato è l’essere storico del popolo»[ref]Ivi.p.230[/ref]. La definizione raggiunta è decisiva:

Lo stato sussiste solo se e finché accade l’affermazione della volontà di signoria che scaturisce da mandato e carico e che all’inverso diventa lavoro e opera. L’uomo, il popolo, il tempo, la storia, l’essere, lo Stato – non sono concetti astratti che servono come oggetti per esercizi definitori, ma il comportamento essenziale è sempre un decidersi storico, ossia un decidersi già-stato-futuro[ref]Ivi, p.230. Per quanto riguarda l’utilizzo di questo concetto di stato durante il periodo di rettorato si veda in particolare M.HEIDEGGER, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita, tr.it. di N.Curcio, Il Melangolo, Genova 2005, pp. 188, 302).[/ref]

Una volta guadagnata questa prima ricomprensione destrutturante dello stato, è necessario notare come le sostituzioni terminologiche adottate nell’opera di Faye siano assolutamente fuori strada[ref]Ciò che è peggio è che Faye cerchi di confermare la sua tesi effettuando una vera e propria manomissione dei testi heideggeriani per cercare di estorcerne una confessione. Nel suo articolo Sheehan passa in rassegna i maggiori interventi arbitrari compiuti dal francese: alterazione del testo per mezzo di una traduzione faziosa, come nella Lettera sull’umanismo; forzatura del testo ad un’interpretazione insostenibile, come in occasione di un commento ad un corso dedicato al Reno di Hölderlin; riscrittura integrale di alcuni passi, come nel caso di un’affermazione contenuta nell’intervista allo Spiegel. Per quanto riguarda queste tre denunce si veda rispettivamente M.SHEEHAN, Emmanuel Faye: the introduction of fraud into philosophy?, pp.23, 25-26, 28-30.[/ref]. Secondo quest’ultimo proprio i corsi tenuti durante il rettorato

ci rivelano fino a che punto il ‘filosofico’ e il politico siano per lui un’unica cosa, e come Heidegger posizioni il politico, inteso nel senso più radicalmente nazista, nel cuore stesso del ‘filosofico’[ref]E. FAYE, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, cit., p.8[/ref]

Il tema è cruciale. Che la nozione di politico venga a trovarsi, assieme alla storicità, nel cuore della speculazione heideggeriana, è attestato dalla ridefinizione dell’essenza dello stato; ciò che non è vero invece è che Heidegger ricavi ed usi le proprie categorie politiche a partire da una dottrina di partito. L’intento della presentazione del corso del ’34 era proprio quello di mettere in discussione la genesi dei suoi “concetti” dall’hitlerismo, per lasciarli sgorgare direttamente dall’ontologia del ’27.
Per cercare parziali conferme di questa lettura facciamo un breve riferimento a due seminari contemporanei al corso analizzato. Con questi ragguagli tentiamo di effettuare direttamente una messa in discussione del concetto di politico, per come Heidegger l’ha creduto di determinare, e sulla base del quale ha sostenuto le sue affermazioni e scelte politiche.
Sulla scorta delle affermazioni compiute nel corso del ’34 non sarà difficile comprendere come Heidegger possa asserire in un seminario dello stesso anno che «Per determinare l’essenza del politico, bisogna prima di tutto ritornare all’essenza dello Stato»[ref]«Für die Bestimmung des Wesens des Politischen ist der Rückgang auf das Wesen des Staates des Allererste» (M.HEIDEGGER, Hegel, über den Staat, seminario invernale 1934-35, protocollo del seminario conservato al Deutsches Literaturarchiv di Marbach, reportatio di W.Hallwachs, f. 78r, tri.it. in E. FAYE, Heidegger, L’introduzione del nazismo nella filosofia, cit., p.326)[/ref]. Tuttavia, se lo stato poggia sulle nozioni di popolo e storia, che a loro volta sono fondate sulla triplice determinazione dell’esserci, sembriamo trovarci di fronte ad una giustapposizione tra politica ed ontologia.

Una seconda citazione, che può servirci da guida e sciogliere ogni ulteriore riserva, è tratta da un seminario del 1933. Essa porta a compimento ed allo stesso tempo inserisce su di una traiettoria lineare tutte le questioni affrontate nel corso del ’34. Nel seminario viene affermato che:

Il politico, come possibilità fondamentale e modo d’essere distintivo dell’uomo, è – come dicevamo – il fondamento sul quale lo Stato è. L’essere dello Stato è ancorato nell’essere politico degli uomini che, in quanto popolo, portano questo Stato, si decidono per esso.[ref]«Das Politische als Grundmöglichkeit und ausgezeichnete Seinsweise des Menschen ist – wie wir sagte -, der Grund, auf dem der Staat ist. Das Sein des Staates liegt verankert im politischen Sein der Menschen, die als Volk diesen Staat tragen, die sich für ihn entscheiden» (M.HEIDEGGER, Über Wesen und Begriff von Natur, Geschichte und Staat, seminario invernale 1933-34, protocollo conservato al Deutsches Literaturarchiv di Marbach, appunti di I.Schroth settima sessione §1, tri.it in E. FAYE, Heidegger, L’introduzione del nazismo nella filosofia, cit., p.183).[/ref]

L’intima responsabilità e l’estrema decisione intorno al proprio essere – in quanto cura della storicità – sono a fondamento del politico. A partire da ciò: «La forma, la costituzione dello Stato è un’espressione essenziale del senso che il popolo vuole dare al suo essere»[ref]«So ist denn auch die Form, die Verfassung des Staates wesentlicher Ausdruck dessen, was das Volk sich als Sinn setzt für sein Sein» (M.HEIDEGGER, M.HEIDEGGER, Ueber Wesen und Begriff von Natur, Geschichte und Staat, cit., settima sessione §12, tri.it in E. FAYE, Heidegger, L’introduzione del nazismo nella filosofia, cit., p.204).[/ref]. Questo accadere nella decisione rende impossibile ogni corto circuito tra essere e stato, dato che il secondo scaturisce dal primo determinandolo e non viene mai a sovrapporglisi.

Tornando brevemente alle affermazioni con le quali abbiamo esordito nel presente scritto, a questo punto siamo in grado di scansare alcune delle incomprensioni che si sono venute a creare in seguito alla separazione tra il pensiero e la politica di Martin Heidegger. Il testo di Faye ci ha mostrato a proposito, come, una volta disconosciuta ogni autonomia del concetto di politico del filosofo tedesco, sarebbe facile distorcerne e interpretarne erroneamente le affermazioni politiche. Alla luce di questa procedura interpretativa diviene possibile lasciar imporre il contesto sull’autore, assumere la scelta del ’33 come evento dirimente e lasciar fagocitare l’autore dall’ideologia. Il nostro tentativo, al contrario, è stato quello di accennare ad un terreno d’autonomia del “linguaggio politico” heideggeriano.
Posto che Heidegger usi le medesime espressioni della fraseologia ideologica, senza tuttavia condividerne i significati, né tanto meno i referenti, la questione che ci si presenta è la seguente: in che rapporto stanno le stesse parole pronunciate dal filosofo e dagli ideologi del partito? A questo livello il pensiero impatta la storia e ne rivela la sua inevitabile attualità.
Il quadro storico-culturale nel quale il pensiero di Heidegger è venuto a maturare è quello della crisi di inizio secolo, dalla prima guerra mondiale, all’agonia della Repubblica di Weimar, del contemporaneo dilagare del movimento comunista. La sua posizione risulta perfettamente inscrivibile nella schiera di coloro che mossero critiche radicali alla Weltanschauung liberale, all’appiattimento borghese, alla crescente burocratizzazione dell’università tedesca, e non da ultimo al modello comunista. Tutti questi fenomeni rappresentavano agli occhi del filosofo una via impropria assunta dalla modernità per la Germania. Mann, Spengler, Jünger, Jaspers e Schmitt sono solo alcuni degli autori con i quali Heidegger condivide il sentimento di una rottura epocale della storia, un anti-modernismo viscerale, che con ben altre tinte sarà propugnato anche da Hitler stesso[ref]In questa direzione si muove lo studio di Domenico Losurdo, secondo cui l’heideggerismo non sarebbe che una delle forme assunte dall’ideologia della guerra tedesca. Per quanto riguarda invece il rapporto tra Heidegger ed il nazismo, lo studioso italiano matura una posizione ben più critica rispetto a quella di Faye, arrivando ad affermare che «a tale proposito, possiamo tentare di concludere: la denuncia della modernità è al tempo stesso motivo d’incontro col nazismo e terreno per un confronto critico con esso» D.LOSURDO, La comunità, la morte, l’Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p.130).[/ref]. Tuttavia, appiattire ogni posizione su di un’altra – come avviene nel lavoro di Faye, significherebbe compiere una semplificazione spropositata.

Prima di abbandonarsi a sentenze inappellabili è necessario chiarire come la posizione politica di Heidegger non sia stata figlia della foga dell’attimo e come, allo stesso tempo, sia arrivato ad imboccare una strada sbagliata come quella del ‘33. Se il filosofo tedesco matura la propria nozione di politico e di socialismo-nazionale a partire dalla propria speculazione, possiamo ipotizzare che è solo perché egli credette che il partito salito al potere nel ’33 avesse potuto rappresentare l’anima del “sovvertimento dell’Esserci tedesco”. Questa scelta è da egli stesso riconosciuta come il suo errore capitale, la sua colpa[ref]«Il rettorato fu un tentativo di vedere, nel movimento che era diventato potere, al di là di tutte le insufficienze e grossolanità, qualcosa di più vivo e proteso verso un orizzonte più ampio che forse un giorno avrebbe potuto condurre ad un ripensamento dell’essenza storica dei tedeschi. Non si deve negare che io allora credetti a tali possibilità e rinuncia alla vocazione più autentica del pensiero per un compito e un dovere pubblico. Né va sminuito ciò che provocò una vera e propria mancanza nell’espletamento di tale compito. Solo che, in tali prospettive, non si colse ciò che aveva determinato l’assunzione di quell’ufficio» (M.HEIDEGGER, L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il rettorato 1933/34, tr.it di C.Angelino, Il Melangolo, Genova 1988, p.51).[/ref]. Sebbene Heidegger non contragga alcun debito di sorta con l’ideologia e con le parole del partito – pur condividendone il retroscena storico -, è comunque fondamentale, per comprendere a fondo il suo errore politico, spiegare come i due linguaggi possano essere arrivati a sovrapporsi[ref]Una delle posizioni orientate a porre i giusti distinguo è quella sostenuta dallo storico Ernst Nolte, che riconosce il rischio di appiattire la complessa situazione politica che caratterizza gli anni della presa di potere del regime. Secondo lo storico «Nel 1933-34 ci potevano quindi essere ancora diverse concezioni di “nazionalsocialismo” e non è accettabile che tutte vengano sussunte ex eventu all’interno di quella hitleriana» (E. NOLTE, Martin Heidegger tra politica e storia, tr.it di N.Curcio, Laterza, Roma-Bari 1994, p.160-161)[/ref].
La compromissione con il partito e gli insanabili attriti che con esso emergeranno a seguito di credenze inconciliabili, sono due facce della stessa medaglia. Come ci ha mostrato il lavoro di Faye, inserire un autore nel proprio contesto d’appartenenza, forzandolo in logiche che non gli sono proprie, significa disconoscerne la peculiare posizione e piegarne arbitrariamente il pensiero. Che la riflessione di Heidegger, lungi dall’essere una teoresi rarefatta, sia bensì radicata nella realtà e frutto del proprio tempo, non può più lasciar scandalizzati, ciononostante non è lecito negare al suo pensiero ogni autonomia.

Mattia Tritarelli (1988) ha conseguito la laurea magistrale in “Filosofia ed etica delle relazioni” presso l’Università degli Studi di Perugia sotto la guida del Prof. Flavio Cuniberto, con una tesi dal titolo Heidegger e la Kehre. L’emergere del linguaggio nei corsi dei primi anni ’30. Attualmente sta svolgendo il dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Perugia con un progetto di ricerca sul rapporto tra il pensiero di Heidegger ed Hegel.

Bibliografia delle opere citate

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Ib., L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il rettorato 1933/34, tr.it di C.Angelino, Il Melangolo, Genova 1988
Ib., Logica e linguaggio, tr. it. di U.Ugazio, Marinotti, Milano 2008
Ib., Contributi alla filosofia (Dall’evento), tri. it. di A.Iadicicco, Adelphi, Milano 2007
A. DENKER,  H. ZABOROWSKI, Heidegger-Jahrbuch 4. Heidegger und der Nationalsozialismus, voll. 2, Alber Verlag, Freiburg/München 2009;
P. BOURDIEU, Führer della filosofia? L’ontologia politica di Martin Heidegger, tr. it. a cura di G. De Michele, Il Mulino, Bologna 1989;
F. BRENCIO (a cura di), La pietà del pensiero. Heidegger e i Quaderni Neri, Aguaplano – Officina del Libro, Passignano s. T. 2015;
D. DI CESARE, Heidegger e gli ebrei. I Quaderni neri, Bollati-Boringhieri, Torino 2014;
J. DERRIDA, De l’esprit: Heidegger et la question, Editions Galilée, Paris 1987;
A. FABRIS (a cura di), Metafisica e antisemitismo. I «Quaderni neri» di Heidegger tra filosofia e politica, ETS, Pisa 2014;
E. FAYE, Heidegger, L’introduzione del nazismo nella filosofia, a cura di L.Profeti, L’asino d’oro, Roma 2012;
V.FARIAS, Heidegger e il nazismo, tr. P.Amari, Bollati Boringhieri, Torino 1988;
F.FÉDIER, Venire a maggiore decenza, in M.HEIDEGGER, Scritti politici, tr.it. di M.Borghi e G.Zaccaria, Piemme, Casale Monferrato 1998;
F.FÉDIER, Heidegger e la politica. Anatomia di uno scandalo, tr.it. di M.Borghi, EGEA, Milano 1993;
J.HABERMAS, Il filosofo e il nazista, tr. it. di P.Amari, in Micromega 1988 n.3;
D.LOSURDO, La comunità, la morte, l’Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 1991;
K.LÖWITH, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, tr. it. di E.Grillo, il Saggiatore, Milano 1995;
E. NOLTE, Martin Heidegger tra politica e storia, tr.it di N.Curcio, Laterza, Roma-Bari 1994
H. OTT, Martin Heidegger: sentieri biografici, tr. It. Di F. Cassinari, Sugarco Edizioni, Milano 1988;
O. PÖGGELER, Der Denkweg Martin Heideggers, Neske, Pfullingen 1990;
R.SAFRANSKI, Heidegger e il suo tempo, tri. It. di N.Curcio, Tea, Milano 2001;
M.SHEEHAN, Emmanuel Faye: the introduction of fraud into philosophy?, http://enowning.blogspot.de/2015/04/thomas-sheehan-on-faye-and-fraud.html
P. TRAWNY, Heidegger und der Mythos des jüdischen Weltverschwörung, Klostermann, Frankfurt a. M. 2014;

VIDEO – Il nazismo in Heidegger

 

Il recente dibattito sugli Schwarze Hefte di Heidegger ha richiamato l’attenzione del mondo accademico e della stampa in direzione della delicata questione dell’antisemitismo, sollevando la domanda circa le responsabilità che il filosofo tedesco potrebbe avere nei confronti dell’Olocausto. Gianni Vattimo propone, per Pagine Heideggeriane, una ricca panoramica su alcuni dei punti più problematici che ruotano intorno al “caso Heidegger”.

Il rifiuto e l’oltrepassamento: la Seinsfrage e la passione per la libertà

di
Francesca Brencio

 

Non si raggiunge la cosa del pensiero mettendo in giro una serie di chiacchiere sulla “verità dell’essere” e sulla “storia dell’essere”. […]
Anche se non sono destinate all’eternità, le cose che hanno importanza arrivano ancora in tempo anche se arrivano all’ultima ora.
M. Heidegger

 

I. La domanda sul senso dell’essere e l’ostinazione heideggeriana

Nel 1962 Heidegger scrive:

Nietzsche sapeva bene che cos’è la filosofia. Questo sapere è raro. Solo i grandi pensatori lo posseggono nel modo più puro, nella forma di un costante domandare. La domanda fondamentale, in quanto domanda che fonda in modo autentico, in quanto domanda sull’essenza dell’essere, non è sviluppata come tale nella storia della filosofia. […] La domanda posta chiede che cos’è l’ente. Chiamiamo questa tradizionale “domanda capitale” [Hauptfrage] della filosofia occidentale la domanda guida [Leitfrage].Ma essa è soltanto la penultima domanda. Quella ultima, e cioè la prima, chiede: che cosa è l’essere stesso? Chiamiamo questa domanda, da sviluppare e da fondare per prima, la domanda fondamentale [Grundfrage] della filosofia, perché in essa soltanto la filosofia domanda del fondamento dell’essere in quanto fondamento e al tempo stesso cerca di ottenere, domandando, il proprio fondamento e si sfonda. Prima che questa domanda sia posta espressamente, la filosofia, se vuole fondarsi, deve sempre mettersi al sicuro percorrendo la via di una teoria della conoscenza o della coscienza, deve sempre restare su un cammino che, per così dire, si muove nello spazio antistante la filosofia e non gira al suo centro. La domanda fondamentale rimane estranea a Nietzsche come alla storia del pensiero a lui precedente[ref]M. Heidegger, Nietzsche, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, pp. 31-77.[/ref].

La domanda fondamentale è la domanda sul senso dell’essere, è «il pensiero più grave della filosofia perché è il suo pensiero più intimo e più esteriore allo stesso tempo. È il pensiero con il quale essa sta e cade»[ref]Ibidemp. 34.[/ref]. Lo scopo dichiarato di Essere e tempo è quello di «riproporre il problema sul senso dell’essere (Die frage nach dem Sinn von Sein)»[ref]M. Heidegger,, Essere e tempo, trad. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 14.[/ref], problema che compare come un filo d’Arianna in tutta la meditazione del filosofo tedesco e che appare come l’unica domanda fondamentale della filosofia. Sein und Zeit inizia con una epigrafe che Heidegger prende a prestito dal Sofista di Platone, in cui Socrate dice ad un sofista: «È chiaro infatti che voi da tempo siete familiari con ciò che intendete quando usate l’espressione essente; anche noi credemmo un giorno di comprenderlo senz’altro, ma ora siamo caduti nella perplessità»[ref]Ivi.[/ref]. Heidegger scrive subito dopo:

È dunque necessario riproporre il problema sul senso dell’essere […]. Lo scopo del presente lavoro è quello dell’elaborazione del problema del senso dell’ “essere”. Il suo traguardo provvisorio è l’interpretazione del tempo come orizzonte possibile di ogni comprensione dell’essere in generale[ref]Ivi.[/ref].

Il problema sul senso dell’essere si inscrive nel pensiero heideggeriano non come un problema filosofico tra molteplici problemi filosofici, ma come il problema per eccellenza della filosofia. Riproporre la Seinsfrage significa riformulare il problema della comprensione dell’essere stesso, oltrepassando la metafisica ed il suo pensare rappresentazionalistico che ha contribuito ad obliare la domanda fondamentale della filosofia.

La centralità di questo domandare, che solo l’esserci (il Dasein) riesce a porre in atto, chiama in causa tutta la storia della filosofia occidentale e della metafisica, la quale deve essere oltrepassata perché incapace di rispondere alla domanda fondamentale: che cos’è l’essere? Tale incapacità non è soltanto la caratteristica più propria del pensiero filosofico occidentale, ma si accompagna all’oblio dell’essere da parte della metafisica stessa, in modo destinale. E’ proprio il destino dell’essere che annovera, fra le sue molteplici figure, quella dell’oblio, creando una vera e propria fenomenologia dell’essere che progressivamente, nel corso della storia, manifesta ed occulta se stesso, facendo sì che «la questione dell’essere rimane sempre la questione dell’ente»[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 284.[/ref].

Già in Essere e tempo Heidegger scriveva:

Benché la rinascita della metafisica sia un vanto del nostro tempo, il problema dell’essere è oggi dimenticato. Si crede infatti di potersi sottrarre ad una rinnovata γιγαντομαχία περί τῆς οὐσίας. Eppure non si tratta di un problema qualsiasi[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 53.[/ref].

La metafisica occidentale oblia la differenza ontologica e crea una sovrapposizione fra essere ed ente. Il tratto della semplice presenza, come caratteristica tipica con cui la metafisica pensa l’essere, è la grande impasse in cui tutta la filosofia è incappata.

L’interpretazione antica dell’essere dell’ente trae il suo orientamento dal “mondo” e dalla “natura” nel senso più ampio e che, di fatto, essa ricava dal “tempo” la sua comprensione dell’essere. La prova (…) di ciò è la determinazione del senso dell’essere come παρουσία, o di ουσία, che ha il significato ontologico-temporale di “presenzialità”. L’ente è concepito nel suo essere come “presenzialità”, cioè viene compreso in riferimento ad un determinato modo del tempo, il presente[ref]Ibidem, p. 44.[/ref].

Concependo l’essere come semplice presenza[ref]Cfr. M. Heidegger, Seminario di Zäringhen (1973)in Seminari, trad. it. a cura di M. Bonola, Adelphi, Milano 1992, p. 176.[/ref], la filosofia occidentale si ostina nel suo ambito con l’intenzione di spiegarlo senza capire che l’essere non si lascia rappresentare come un oggetto:

Finché la filosofia non fa che precludersi costantemente la possibilità di accedere alla cosa del pensiero, cioè alla verità dell’essere, essa è assicurata contro il pericolo di infrangersi sulla durezza della sua cosa. Per questo c’è un abisso tra il “filosofare” sul naufragio e un pensiero che davvero naufraga[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 296.[/ref].

Tesa a questa comprensione oggettivata di ciò che l’essere “rappresenta”, la metafisica occidentale oblia la differenza ontologica che la domanda sul senso dell’essere reclama, impedendo la reale comprensione di ciò che l’essere è; infatti, «l’essere stesso può illuminare – aprire la differenza in esso custodita di essere ed essente nella sua verità solo quando la differenza stessa espressamente accade»[ref]M. Heidegger, L’oltrepassamento della metafisica (1946), in Saggi e discorsi, trad. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 50.[/ref].

II. L’essere ed i “pensatori iniziali” 

Che cos’è l’essere di cui Heidegger parla?

Esso è se stesso […]. L’essere non è né un Dio né un fondamento del mondo[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 284.[/ref].

Come si legge nei verbali del seminario di Zurigo (1951)[ref]Cfr. M. Heidegger, Seminario di Zurigo, in Seminari, cit., pp. 206-207.[/ref], essere e Dio non sono identici; in Proscritto a “Che cos’è metafisica?” Heidegger dice che l’essere non è un prodotto del pensiero, ma il pensiero essenziale è un evento dell’essere[ref]M. Heidegger, Proscritto a “Che cos’è metafisica?”, in Segnavia, ed. cit., p. 262.[/ref], e nella Lettera sull’umanesimo Heidegger continua affermando che «in quanto tale l’essere è misterioso, la semplice vicinanza di un dominare non invadente»[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, ed. cit., p. 286.[/ref].

È molto difficile trovare delle definizioni positive dell’essere nell’opera heideggeriana, poiché esso è per lo più definito attraverso via negationis. Ciò che colpisce della definizione che Heidegger dà dell’essere è la sua non concettualizzabilità, la sua inoggettivabilità, cioè il suo non ridursi ad oggetto, ad ente, a semplice-presenza[ref]Cfr. M. Marassi, Presenza e differenza. Heidegger e l’unità originaria, in AA. VV., La differenza e l’origine, Centro di Ricerche di Metafisica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Milano 1987, pp. 302-351.[/ref]. E proprio questo non ridursi a semplice-presenza fa dell’essere il fondamento infondato del discorso heideggeriano. Tuttavia tale non ridursi a concetto (di ciò che l’essere rappresenta) e il suo non ridursi ad oggetto non sono sinonimo di una insignificanza dal momento che non occorre confondere il senso [Sinn] con il significato [Bedeutung], cioè con ciò che è articolabile in una definizione.

La riflessione che Heidegger compie sul senso dell’essere conduce ad una via verso i pensatori iniziali dal momento che nelle loro parole è celato il senso più profondo della domanda: «La parola del pensiero iniziale custodisce “ciò che è oscuro”»[ref]M. Heidegger, Eraclito, trad. it. a cura di F. Camera, Mursia, Milano 1993, p. 26.[/ref]. In questa parola è contenuto, pensato e nominato l’essere, sebbene essa rimanga per l’uomo contemporaneo, figlio della tecnica e della metafisica occidentali, la parola più estranea ed inascoltata.

Heidegger inizia proprio dal pensiero greco. A tal proposito Gadamer ha osservato che, pur avendo il pensiero greco svolto sempre un ruolo privilegiato di confronto con la filosofia tedesca, tuttavia egli osserva che «con Heidegger viene introdotto qualcosa di nuovo, una nuova prossimità e una nuova interrogazione critica degli esordi greci del filosofare»[ref]H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, traduzione italiana a cura di R. Cristin e (solo per il cap. VIII) di G. Moretto, Marietti, Casale Monferrato 1987, p. 125.[/ref]. L’insistenza heideggeriana sulla necessità di tornare ai pensatori dell’inizio non va intesa come un ritorno sic et simpliciter ai Greci o ai presocratici, bensì deve essere compreso come un ritrovare nelle loro parole ciò che caratterizza la storia dell’essere entro cui noi ci inscriviamo, come “l’impensato”.

Cos’è questo impensato?

Nel corso del seminario tenuto a Friburgo nel semestre inverale del 1966/67, in collaborazione con Eugen Fink, Heidegger disse: «Faccio una proposta: l’impensato è l’ ἀλεθήια. Sull’ ἀλεθήια in quanto ἀλεθήια in tutta la storia greca non c’è nulla»[ref]M. Heidegger/ E. Fink, Colloquio intorno ad Eraclito (1977), trad. it. a cura di M. Nobile, Coliseum, Milano 1992, p. 301.[/ref]. L’ ἀλεθήια è forse la dimensione più propria con cui definire l’essere: essa è la svelatezza che si occulta, il non nascondimento (Unverborgenheit), l’apparizione fugace e nascosta; è il mostrarsi-occultarsi di ciò che l’essere è. L’ ἀλεθήια non ha nulla a che fare con il concetto di verità: piuttosto si configura come ciò che abbraccia convenientemente τἀ εόντα, non è una vuota apertura, ma il disvelamento che circonda l’εόν. L’ ἀλεθήια attesta che prima della verità del giudizio vi è quella delle cose, della loro presenza e del loro essere accanto all’uomo[ref]Cfr. C. Fabro, Ontologia dell’arte nell’ultimo Heidegger, in “Giornale critico della filosofia italiana”, n. 31, 1952, p. 345 e s.[/ref].

Nel § 44b di Sein und Zeit, in relazione all’ ἀλεθήια si dice: «La traduzione con la parola verità, e più ancora le definizioni concettuali teoretiche di questa espressione, velano il senso di ciò che i greci, come comprensione prefilosofica, posero ovviamente a base dell’uso terminologico di ἀλεθήια. ἀλεθήια, pensata in quanto ἀλεθήια, non ha nulla a che fare con “verità”, ma significa disvelamento. Ciò che ho detto allora in Sein und Zeit va già in questa direzione. L’ ἀλεθήια come disvelamento mi ha sempre tenuto occupato, ma si frapponeva sempre la “verità”. L’ ἀλεθήια come disvelamento va nella direzione di ciò che è la Lichtung»[ref]M. Heidegger / E. Fink,  Dialogo intorno Eraclito, cit., p. 301.[/ref].

In una prima fase del suo pensiero (fino agli anni ’30), in questo contesto interpretativo, il pensiero greco è interpretato in maniera monolitica: Parmenide è chiamato in causa da Heidegger come l’iniziatore del predominio della considerazione ontica su quella ontologica, inaugurando la strada della soggettività, ed Aristotele come colui che porterà a termine questo predominio con l’ ουσία. Tuttavia, intorno agli anni ’30 l’interpretazione della grecità muta di segno in Heidegger tanto che egli non parlerà più di pensiero dell’inizio in termini uniformi bensì leggerà in esso delle dicotomie, arrivando ad individuare alcuni filosofi che hanno pensato l’origine (l’essere) ed altri che hanno aperto la strada alla metafisica come oblio dell’essere. In questa nuova cornice interpretativa, tra i pensatori dell’origine capaci di aver pensato l’essere,  ora Heidegger annovera proprio Parmenide nei termini di colui che ha custodito l’essere nella enigmaticità delle sue parole. È da qui che egli attingerà per formulare il discorso sull’ ἀλεθήια. Tra coloro, invece, che hanno inaugurato la strada della metafisica come oblio dell’essere Heidegger pone Platone ed Aristotele[ref]Cfr. L. Ruggiu, Heidegger e Parmenide, in AA. VV., Heidegger e la metafisica, Marietti, Casale Monferrato 1991, pp. 49-81.[/ref].

A tal proposito Gadamer dice: «Tutte le successive pubblicazioni di Heidegger concernenti il suo rapporto con i Greci, iniziate con il saggio su Anassimandro apparso in Sentieri interrotti, non condividono più nella stessa misura la fusione di orizzonti che negli studi precedenti era stata spinta fin quasi all’identificazione»[ref]H. G.Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., pp. 126-127.[/ref]. Heidegger intese il rapporto con i Greci non solo come un ripercorrere la storia della filosofia compresa nei termini di apparizione ed oblio dell’essere, ma anche (e soprattutto) come un colloquio profondo ed intimo. Egli «nei Greci trovò fin dall’inizio i suoi veri interlocutori. Essi richiedevano a lui costantemente di pensare in modo ancora più greco e di trovare e “ripetere” in loro il suo proprio interrogare»[ref]Ibidem, p. 126.[/ref]. Se è vero che Heidegger usava i testi presocratici con una certa violenza[ref]Ibidem, p. 128.[/ref], è altresì vero che fu dallo studio di Aristotele[ref]Ivi.[/ref] che l’esperienza iniziale del pensiero greco gli si rivelò in tutta la sua portata; proprio Aristotele gli servì come alleato contro Platone e contro le sue posizioni[ref]Cfr. H. G.Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., pp. 71-82.[/ref]:

Hegel dice della filosofia dei Greci: “In essa si può trovare soddisfazione solo fino a un certo grado” e cioè la soddisfazione dell’impulso dello spirito alla certezza assoluta. Questo giudizio di Hegel su ciò che è insoddisfacente della filosofia greca è pronunciato a partire dal compimento della filosofia. Nell’orizzonte dell’idealismo speculativo, la filosofia dei greci rimane nel “non ancora” del compimento. Se però ora prestiamo attenzione all’enigma dell’ ἀλεθήια che domina sull’inizio della filosofia greca e sul corso dell’intera filosofia, allora anche al nostro pensiero la filosofia dei greci si mostra in un “non ancora”. Solo che questo “non ancora” è il “non ancora” dell’impensato, non un “non ancora” che non ci soddisfa, ma un “non ancora” al quale noi non bastiamo e che non soddisfiamo[ref]M. Heidegger, Hegel e i Greci, in Segnavia, cit., p. 391.[/ref].

Un altro termine attraverso il quale Heidegger tenta di spiegare l’essere è offerto dalla φύσις. Essa indica “ciò che sboccia da sé”, esprimendo la spontaneità dell’aprirsi, della presenza indipendente della soggettività. La φύσις è una delle figure dominanti del weg heideggeriano:

Nella Fisica, Aristotele concepisce la φύσις come l’enticità di un particolare ambito dell’ente, quello degli enti naturali […]. Se non che il trattato che compare nel libro G della Metafisica […] dice esattamente il contrario: la φύσις (l’essere dell’ente come tale nella sua totalità) è φύσις τις – una certa qual φύσις […]. in questo inizio l’essere è pensato come φύσις [ref]M. Heidegger, Sull’essenza e sul concetto della φύσις, in Segnavia, cit., p. 253 e s.[/ref].

 Se la φύσις ha qualche possibilità di nominare l’essere nei termini di “la presenza di ciò che appare”[ref]Cfr. M. Heidegger, Che cosa significa pensare? (1952), trad. it. a cura di U. M. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1972, vol. II, pp. 93 e ss.[/ref], il suo “sbocciare” genera la molteplicità degli enti – attraverso quello stesso procedimento che Eraclito chiamava πόλεμος – e tramite questi appare entificata. La φύσις porta l’essere al di là della metafisica; la sua caratteristica è duplice: essa è l’Aufgehen, il dispiegarsi, e la Beraubung, il trattenere in sé.

III. Dal non-nascondimento alla correttezza, verso il fondamento

La riduzione metafisica dell’essenzialità dell’essere è fatta risalire ai pensatori successivi ai presocratici, a coloro che hanno interpretato la verità come conformità tra la sintesi del conoscere e la sintesi dell’ente. Platone, secondo Heidegger, ha interpretato il concetto di svelatezza, di non nascondimento, cioè il concetto di ἀλεθήια, come “correttezza” (ὀρθότης), attribuendo così al non nascondimento una dimensione ontica, oggettiva[ref]Cfr. M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia. Sezione di “Problemi della Logica” (1984), trad. it. a cura di U. M. Ugazio, Mursia, Milano 1988, pp. 48-51.[/ref]. Se la svelatezza si fa correttezza, essa è spinta tra la molteplicità degli enti e la verità non è più la manifestazione di ciò che si nasconde, ma il corretto riferimento tra ciò che nel mondo sensibile si percepisce e l’idea corrispondente nell’Iperuranio; è così che la verità si pone sotto il giogo dell’idea – e con essa anche il linguaggio[ref]Cfr. U Galimberti, Linguaggio e civiltà. Il linguaggio occidentale nella lettura di Heidegger e Jaspers, Mursia, Milano 1977, pp. 125 e ss.[/ref] – e l’essere sotto quello del dover essere, cioè dei valori che ne determinano la bontà. Ma la verità così intesa non fa altro che trascrivere in termini di semplice-presenza ciò che in realtà non lo è, facendo diventare l’essere una παρουσία dell’ente stesso.

Anche Aristotele e Tommaso d’Aquino sono da Heidegger considerati come interpreti della verità nei termini di ὀμοίωσις; è stato Aristotele a dire che «il vero e il falso non sono nelle cose […] ma solo nel pensiero»[ref]Aristotele, Metafisica, trad. it. a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1993, E4, 1027b, 25-27, p. 281.[/ref] aprendo la strada al principio dell’adeguatio intellectus et rei, che nel medioevo ha trovato tanta fortuna e che ha avuto la sua formulazione più compiuta con Tommaso[ref]Cfr. Tommaso d’Aquino, Liber de veritate catholicae fidei contra errorem infidelium, in Summa contra gentiles, Marietti, Casale Monferrato 1961, vol. II, libro I, cap. 4, pp. 5 e ss.[/ref]. Questo principio, che ormai ha totalmente dimenticato e abbandonato l’originarietà dell’ ἀλεθήια, nel pensiero moderno sarà preso da Cartesio come incipit della Regula VIII nell’opera Regulae; lì si legge: «Veritatem proprie vel falsitatem non nisi in solo intellectum esse posse»[ref]R. Descartes, Regulae ad directionem ingenii, in Discorso sul metodo. Regole per la ricerca della verità, trad. it. a cura di G. Galli, Laterza, Bari 1968, p. 33.[/ref]. E’ così che il non nascondimento della verità viene smarrito lungo la via del pensiero occidentale, delineando la verità nei termini di conformità (Übereinstimmung) del conoscere, cioè di rapporto fra l’atto predicativo con l’oggetto del giudizio. La cosa, per essere detta vera, deve uscire allo scoperto, deve venir fuori dal nascondimento e porsi nella sintesi di soggetto e predicato. Così concepita, la verità diventa una specie di aggiunta dell’essere in ambito logico (nei termini di conformità del giudizio) o in ambito metafisico (nei termini di conformità alle idee separate o in Dio).

Su questa via, fatta di sovrapposizioni e smarrimenti, si pone anche la definizione del pensare non più come νοεῖν o come λέγειν, ma come l’attività sintetica a priori del soggetto, che in Kant trova il suo magistrale compimento come con-cepire. A pensiero diventato ormai rappresentazione e giudizio è conforme il principio omne ens habet rationem; nihil est sine ratione: nessun ente si sottrae alla legge del fondamento. Proprio la riflessione sul fondamento conduce Heidegger a tornare a Leibniz e lo conduce a porsi una domanda: il principio di ragion sufficiente ha una ragione? Il principio di ragione parla della totalità dell’essente: esso dice omne ens, quindi parla dell’essente nella sua totalità, dunque dell’essere.

Bisogna ora veder il fatto che, e il senso in cui, qualcosa come il fondamento appartiene all’essenza dell’essere. Essere e fondamento si coappartanegono. Dalla sua appartenenza all’essere in quanto essere, il fondamento riceve la sua essenza. Viceversa, è dall’essenza del fondamento che l’essere domina in quanto essere. Fondamento ed essere sono lo stesso, ma non l’identico, come indica già la differenza tra i termini “essere” e “fondamento”. L’essere è nella sua essenza fondamento. Per questo l’essere non può avere ancora un ulteriore fondamento che dovrebbe fondarlo. Quindi il fondamento rimane via (Weg, ab) dall’essere. Nel senso di un tale rimanere-via (Ab-bleiben) del fondamento dall’essere, l’essere “è” il fondo abissale, l’Ab-grund. In quanto l’essere come tale è in sé fondante, rimane esso stesso privo di fondamento. L’essere non rientra nel dominio della tesi del fondamento, bensì solo l’ente[ref]M. Heidegger, Il principio di ragione (1957), trad. it. a cura di F. Volpi e G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1991, p. 94.[/ref].

 Heidegger insiste costantemente sulla differenza che separa il versante logico del principium rationis da quello ontico del medesimo e fa discendere la logica dalla metafisica, conferendo a quest’ultima un primato sulla prima. Come lo aveva pensato Leibniz, il principio di ragione aveva una topologia tale da caratterizzarsi in tre livelli: quello della soggettività, quello gnoseologico e quello divino (Dio), fondamento infinito dei primi due. Secondo Heidegger tra il principium rationis e Dio esiste una circolarità: il principio è valido in quanto esiste Dio che lo conferma e lo concretizza; e Dio esiste proprio perché il principio è valido. Si è in presenza di un principio che si muove in circolo ed il cui orizzonte di rimando è quello ontico-teologico, ma non ontologico.

Il principio di ragione costituisce per Heidegger il primo pilastro della metafisica e altresì la prima formulazione della differenza ontologica. Il principio di ragione rimane fuori dal luogo originario di indagine: esso sta sulla soglia, non al suo interno, facendo sì che il problema dell’essere rimane è senza fondamento. Tuttavia, c’è anche un senso ulteriore per il quale l’essere è senza fondamento e, se si vuole, tale senso è quello che più da vicino caratterizza la meditazione heideggeriana:  l’essere in quanto tale è senza fondamento, cioè Ab-Grund, in quanto non fondato. L’essere è detto Ab-Grund invece proprio mentre si predica (nel senso di predicato) il suo essere la stessa cosa con il Grund. Il principio di ragion sufficiente non vale per l’essere perché l’essere stesso è la ragione di se medesimo: esso è co-originario al fondamento e nello stesso tempo come radicalmente differente ad esso. L’essere è un abisso senza fondo che la metafisica non è riuscita a pensare.

IV. Il fondamento – ovvero della libertà

Il problema del principio di ragion sufficiente è strettamente legato al tema del fondamento, che tanto spazio ha occupato nella speculazione heideggeriana, e alla questione del rapporto tra essere ed ente, con il conseguente accento sulla libertà dell’uomo – cioè sulla libertà del Dasein. Il fondamento secondo Heidegger non va trovato nel principio di ragione, poiché esso è pre-logico:

Il “principio di ragione”, come “principio supremo”, sembra escludere fin dall’inizio che vi sia un problema del fondamento. Ma il “principio di ragione” dice qualcosa sul fondamento come tale? Come principio supremo, svela forse l’essenza del fondamento? Nella sua formulazione più comune e più breve, il principio dice: nihil est sine ratione, niente è senza fondamento, mentre nella sua formulazione positiva: omne ens habet rationem, ogni ente ha un fondamento. Il principio fa un’asserzione sull’ente, e precisamente in riferimento a qualcosa come il suo “fondamento”. Ma in che cosa consista l’essenza del fondamento, in questo principio non è specificato. Anzi per questo principio, l’essenza del fondamento è presupposta come una “rappresentazione” per sé evidente. Ma anche per un altro verso il “supremo” principio di ragione fa uso dell’essenza non chiarita del fondamento; infatti il carattere specifico di principio di questo principio in quanto principio “fondamentale”, principium grande (Leibniz), può essere determinato in modo originario soltanto in riferimento all’essenza del fondamento. Occorre pertanto mettere in questione il “principio di ragione” sia per il modo in cui si pone, sia per il “contenuto” che pone, se si vuole che, al di là di una “rappresentazione” indeterminata e generica, l’essenza del fondamento diventi un problema […]. Anche se non getta alcuna luce sul fondamento come tale, il principio di ragione può tuttavia servire come punto di partenza per una prima connotazione del problema del fondamento[ref]M. Heidegger, L’essenza del fondamento, in Segnavia, cit., pp. 82-84[/ref].

 Sull’essenza del fondamento fu pubblicato due anni dopo Essere e Tempo (quindi nel 1929, lo stesso anno in cui egli pronunciò il discorso d’apertura per quell’anno accademico all’Università di Freiburg, la prolusione Che cos’è metafisica?), e in quell’opera Heidegger partì dall’analisi del principio di ragion sufficiente di Leibniz, o se si vuole, dal principio di causalità, per discutere nuovamente della differenza ontologica. Prendendo le distanze dalla tradizione filosofica per la quale il vero sapere si configura come sapere di cause (vere scire est per causas scire), Heidegger si interessa del fondamento della differenza ontologica chiamando in causa la trascendenza dell’esserci: «Il problema dell’essenza del fondamento diventa il problema della trascendenza»[ref]Ibidem, p. 91.[/ref]. La trascendenza indica, in questo contesto, ciò che vi è di più proprio dell’essere umano, come ciò che lo costituisce e fonda ogni possibile comportamento e atteggiamento. La trascendenza è, in altre parole, ciò che costituisce l’ipseità (Selbstheit)[ref]Cfr. Ibidem, p. 95[/ref], ciò che pone l’esserci nella condizione di oltrepassare costantemente la natura[ref]Cfr. Ibidem, p. 95-97[/ref], gli enti intramondani e il mondo[ref]Cfr. Ibidem, p. 99-118, con particolare attenzione alla nota 59 presente nell’edizione Adelphi (p. 118).[/ref] (che Heidegger chiama “l’in vista di”) per affermare la propria libertà.
Scrive Heidegger:

L’oltrepassamento verso il mondo è la libertà stessa. Ne consegue che la trascendenza non si imbatte nell’ “in vista di” (il mondo – n.d.a.) come in un valore o in un fine per sé sussistenti, ma è la libertà, proprio in quanto libertà, a pro[ref]Corsivo di Heidegger nell’edizione Adelphi.[/ref]-porre a se stessa l’ “in vista di” […]. Solo la libertà può lasciare che all’esserci  un mondo si imponga (walten) e si faccia mondo (welten)[ref]Anche qui corsivo di Heidegger, come nella riga seguente.[/ref]. Il mondo, infatti, non è mai, ma si fa mondo[ref]Ibidem, p 120.[/ref].

L’esserci non è fondato né autofondato: non è un Io alla maniera idealistica capace di concepire e porre il non-io e la realtà tutta. Piuttosto, l’esserci è la trascendenza stessa che si manifesta attraverso il suo superamento e, per mezzo di essa, fa il mondo, lo rende possibile.  Come Sein und Zeit aveva già chiarito, allorquando Heidegger spiegava la deiezione, l’essere-per-la-morte e la progettualità, l’esserci  reclama una libertà appassionata ed affrancata dal mondo la quale, solo e proprio in virtù di tale affrancamento, permette al mondo di essere possibile. La libertà dell’esserci (cioè dell’uomo), corre costantemente il rischio di essere smarrita e di far vacillare l’esserci nelle sue scelte, di imprigionare il mondo in una realtà che esautori la possibilità della sua esistenza, una libertà che ammette al suo interno lo smarrimento e l’errore. In antitesi con la tesi sartriana per la quale l’uomo è condannato alla libertà, Heidegger afferma che è la libertà ad avere l’uomo. Come già indicato in Sein und Zeit insegna, l’uomo  è un esserci che “ha da essere”, l’unico ente capace di progettarsi e di farsi carico del proprio “poter essere”, cioè della propria libertà, parola che nello scritto del ’27 è prudentemente evitata e sostituita con sinonimi: «apertura», «risolutezza» o «progetto». Solo con il confronto con Kant e con Schelling (durante il corso tenuto nel 1936) Heidegger maturerà un’interpretazione della libertà nei termini di un fenomeno generato dalla coappartenenza di essere e uomo, sia nei termini di  «libertà da» ma anche di «libertà per».

In tal senso, la libertà quale emerge dallo scritto del ’29, è ancora più originaria di ogni decisione che spetta al Dasein poiché il suo Grund è nell’Abgrund, cioè nello stesso fondamento che le viene tolto. La libertà dell’esserci può essere esperita e compresa nella sua autentica abissalità:

La libertà come trascendenza non è tuttavia solo una particolare “specie” di fondamento, ma l’origine del fondamento in generale. La libertà è libertà di fondamento (Freiheit zum Grunde)[ref] Ibidem, p. 121 – corsivo di Heidegger.[/ref].

In questo senso l’ontologia si fa strumento di conoscenza della finitezza dell’uomo e si flette in direzione di una nuova soggettività che fa del trascendentale kantiano un momento da superare[ref]Cfr. F. Brencio, Scritti su Heidegger, Aracne, Roma 2013.[/ref]. La citazione contenuta in Sein und Zeit che recita “Più in alto della realtà si trova la possibilità” (Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit) sembra indicare proprio l’apertura ad una dimensione della soggettività ancora più radicalmente libera di quanto la Daseinsanalyse indichi; forse questo è quanto due anni dopo, nel Kantbuch, egli affiderà al primato dell’immaginazione trascendentale sull’intelletto.

Il Kantbuch di Heidegger, infatti, ripropone la domanda sull’essere al fine di comprendere correttamente il suo rapporto con il tempo, ripensando radicalmente la finitezza dell’essere dell’esserci e mettendo in questione questa stessa in quanto possibilità per lo svelamento della finitezza dell’essere stesso. Heidegger intende andare oltre Kant: questo significa concretamente radicalizzare la struttura trascendentale della soggettività, piegandola alle esigenze speculative del suo pensiero. In Kant e il problema della metafisica (1929) Heidegger vuole liberare i germi potenziali che costituiscono la possibilità della conoscenza ontologica, cioè la trascendenza dell’esserci. Come è noto, con questa sua impostazione speculativa egli critica la posizione postkantiana della scuola di Marburgo e più in generale la tendenza a far confluire e dissolvere l’estetica trascendentale nella logica trascendentale. Heidegger legge la Critica della ragione pura come una tematizzazione della ragione umana finita: questo significa contrapporre alla lettura dei marburghesi un ripensamento fenomenologico. Per riassumere, si può affermare che tra pensiero ed intuizione occorre che ci sia una intrinseca affinità affinché il pensiero possa unirsi all’intuizione stessa, quindi una sintesi che permetta all’oggetto di divenire manifesto; Heidegger nomina questo processo sintetico “sintesi veritativa” (veritative Synthesis): una sintesi capace di integrare al suo interno la sintesi predicativa e la sintesi apofantica. La sintesi veritativa è il rendere manifesto in qualità di oggetto l’ente incontrato, mostrarlo nella sua verità: l’oggetto, in quanto Gegen-stand, può darsi esclusivamente per la conoscenza finita. Conoscere ciò che si mostra significa nella lettura hiedeggeriana conoscere il fenomeno, ovvero conoscere l’ente stesso, la cosa in sé.

Questa lettura fenomenologica del fenomeno implica una rielaborazione mutata del concetto stesso di fenomeno: in esso non si conosce solo l’oggetto ma l’ente stesso, o meglio, in generale la finitezza. L’esserci, in quanto finito, comprende il suo proprio essere progettandolo nell’orizzonte temporale di trascendenza e in questa progettualità si rivela la stessa finitezza irradiandosi nella libertà. Proprio a partire da questa finitezza, il Dasein ridesta l’originaria domanda metafisica producendo un’inversione nell’algebra della conoscenza: l’ontologia si manifesta come ratio cognoscendi della finitezza e la finitezza come la ratio essendi dell’ontologia.

V. La soggettività moderna: il rifiuto e lo smarrimento

Nel pensiero metafisico accade la riflessione sull’ente e sulla sua conoscibilità: il pensiero diventa quindi un pensiero dell’ente e non più dell’essere. Questa caratteristica è ancora più accentuata nell’epoca moderna dove la certezza del rappresentare l’ente costituisce la verità intorno all’ente. È con Cartesio che inizia l’interpretazione dell’uomo come subjectum[ref]Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri Interrotti, cit., pp. 84 e ss.; inoltre, M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 129 e ss.[/ref], la quale  crea un’antropologia del pensiero in base a cui sull’uomo – inteso come soggetto (subjectum) e non come oggetto (ὑποκείμενον) – si fonda ogni altro ente e da esso trae il proprio principio di legittimazione. La parola subjectum pretende di tradurre il greco ὑποκείμενον ma in realtà tradisce il senso più profondo contenuto in questa parola. Per il greci, ὑποκείμενον indicava

ciò che sta al fondo e che precede ogni determinazione […]. L’interpretazione occidentale dell’essere dell’ente comincia con l’assunzione di termini greci nel pensiero romano-latino; ὑποκείμενον diviene subjectum, ὑποστάσις diviene substantia, συμβεβηκός diviene accidens. Questa traduzione latina dei termini greci non è per nulla quel processo “innocuo” che è ancor oggi ritenuto. Dietro questa traduzione letterale si nasconde il tradursi in un modo di pensare diverso dalla sperimentazione greca dell’essere […], la mancanza di base del pensiero occidentale incomincia proprio con questo genere di traduzione[ref]M. Heidegger, L’origini dell’opera d’arte, in Sentieri Interrotti, cit., p. 8 e s.[/ref]

Il subjectum, la certezza fondamentale, è l’oggettività; l’essere soggetto dell’uomo, in quanto essere pensante è posta al servizio del subjectum:

In quanto subjectum l’uomo è la co-agitatio dell’ego. L’uomo fonda se stesso come criterio di ogni misura con cui viene misurato e commisurato (calcolato) ciò che deve valere come certo […], come vero […], come essente[ref]M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri Interrotti, cit., p. 92.[/ref].

La co-agitatio dell’io è la coscientia, che però è già in se stessa un volere, un velle; la co-agitatio rappresenta la volontà nella sua essenza. Nell’opera del 1962, il Nietzsche, si legge:

Nella metafisica moderna ciò si manifesta nel fatto che la certezza di tutto l’essere e tutta la verità viene fondata sull’autocoscienza del singolo io: ego cogito ergo sum. Il trovarsi lì nel proprio stato, il cogito me cogitare, dà luogo anche al primo “oggetto” assicurato nel suo essere. Io stesso e i miei stati siamo l’ente primo e autentico[ref]Ivi, p. 91 e s.[/ref].

La metafisica moderna inizia a concepire l’io, il soggetto, come la certezza fondamentale su cui si articola tutto il discorso filosofico; l’io diventa così il nucleo tematico che garantisce la fondazione autentica di ogni discorso teoretico; l’antropologia pretende di trascrivere in termini di ad essa consoni (il cogito di Cartesio, l’Io penso di Kant, la volontà di Schelling e Schopenhauer, la volontà di potenza di Nietzsche) tutto il discorso ontologico.

La filosofia è diventata antropologia, e su questa via si è trasformata in una preda per la discendenza della metafisica, cioè per la fisica intesa nel suo senso più vasto, che comprende la fisica della vita e dell’uomo, la biologia e la psicologia. Divenuta antropologia, la filosofia stessa perisce a causa della metafisica[ref]M. Heidegger, L’oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, cit., p. 56.[/ref].

Sin dagli anni ’30 Heidegger sviluppa nei suoi corsi universitari un lavoro storiografico volto a delineare la storia della metafisica come storia dell’oblio dell’essere; passando attraverso Cartesio, Leibniz, Kant, l’idealismo tedesco (Schelling ed Hegel) e Nietzsche, Heidegger legge tutta la storia della filosofia occidentale come storia della metafisica, cioè come storia del lungo oblio dell’essere. È con lo studio di Schelling e con la sua metafisica della volontà che Heidegger legge la filosofia a seguire come uno sviluppo del passaggio dalla co-agitatio dell’io alla volontà di potenza nietzscheana. Proprio Nietzsche è considerato da Heidegger come colui che porta a compimento la metafisica occidentale rimanendo tuttavia anche egli inscritto all’interno di questa storia.

            E’ su queste preliminari considerazioni interpretative che va compresa anche la questione dell’umanesimo. Nel 1946 Heidegger scrisse una lettera all’amico Jean Beaufret, pubblicata l’anno successivo (1947) e conosciuta come Lettera sull’umanesimo. Questa lettera è considerata da molti come una specie di riabilitazione teoretica della figura di Heidegger dopo i fatti inerenti al rettorato del 1933 ed è ricca di riflessioni su molteplici temi. La lettera nasce da una domanda posta ad Heidegger dall’amico Beaufret su come fosse ancora possibile trovare un senso del termine umanesimo. La risposta a questa domanda inizia con una presa di posizione da parte di Heidegger nei riguardi della tecnica e dell’agire, per poi arrivare a domandare se sia necessario ancora attribuire una qualche valenza al termine umanesimo. Heidegger è dell’avviso che la tradizione latina e quella umanistica in particolare abbiano solo accentuato il carattere di povertà della Seinsfrage, cioè abbiano ancora una volta posto la domanda sull’ente e non sull’essere, ponendo al centro della riflessione filosofica la moderna antropologia.
Scrive Heidegger:

Ogni umanesimo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una metafisica del genere. È metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che già presuppone, sapendolo o non sapendolo, l’interpretazione dell’ente, senza porre il problema della verità dell’essere[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 275.[/ref].

Heidegger critica senza indugio ogni sorta di umanesimo poiché in esso ciò che il pensiero domanda è ancora l’essere dell’ente e non l’essere tout court, facendo sì che l’umanesimo si inscriva ancora all’interno della metafisica e come tale sia degno di essere oltrepassato.

L’oblio dell’essere e della differenza ontologica, che anche nella Lettera viene nominato, rimane interno all’essere stesso e destinale alla sua storia, poiché l’oblio dell’essere è un momento della storia dell’essere stesso. In tal senso Heidegger insiste sul fatto che lo scandalo della filosofia moderna non sia tanto nel fatto che essa non pensi l’essere nella modalità che più le appartiene – dal momento che l’oblio stesso è una modalità della storia dell’essere – ma che essa non rammenti questi oblio. In tal senso, la filosofia moderna dimentica la propria dimenticanza, dimentica cioè di dimenticare, ed il dimenticato (in questo caso la differenza ontologica) non viene richiesto come contenuto del dimenticare, ma rimane al di là della stessa dimenticanza. È in virtù dell’oblio dell’oblio, della dimenticanza della dimenticanza che il pensiero dell’essere diventa il pensiero più sconosciuto della filosofia moderna[ref]Si vedano a tal proposito i preziosi volumi Überlegungen II-VIÜberlegungen VII-XI e Überlegungen XII-XV, a cura di P. Trawny, Klostermann, Frankfurt a. M., 2014, in cui Heidegger torna con insistenza sul tema dell’oblio dell’essere, del destino della filosofia occidentale, della necessità di una filosofia inattuale, della centralità della Seinsfrage ed argomenti simili, con ampi passaggi su Nietzsche, Leibniz, Aristotele, Husserl, ed altri ancora. L’importanza di questi tre testi eccede di gran lunga il tema dell’antisemitismo e dell’adesione al nazismo, che sembrano essere i soli ad aver catalizzato l’attenzione degli interpreti di Heidegger. La loro ricchezza e complessità dovrebbe configurarsi come la fonte principale su cui insistere per capire il pensiero di Heidegger nel corso della sua formazione. Sui temi sovra menzionati – l’adesione al nazionalsocialismo da parte di Heidegger, il suo antisemitismo, e la politica – se ne renderà ragione nelle prossime uscite. [/ref].

L’ultima figura attraverso la quale Heidegger penserà l’essere è quella dell’Ereignis ma di essa si tratterà altrove.

 

Bibliografia delle opere citate

Opere di Martin Heidegger:
Essere e tempo, trad. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976;
Nietzsche, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994;
Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987;
Saggi e discorsi, trad. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976;
Seminari, trad. it. a cura di M. Bonola, Adelphi, Milano 1992;
Eraclito, trad. it. a cura di F. Camera, Mursia, Milano 1993;
Che cosa significa pensare? (1952), trad. it. a cura di U. M. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1972, vol. II
Domande fondamentali della filosofia. Sezione di “Problemi della Logica” (1984), trad. it. a cura di U. M. Ugazio, Mursia, Milano 1988;
Il principio di ragione, trad. it. a cura di F. Volpi e G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1991;
Sentieri Interrotti, trad. it. a cura di P. Chiodo, La Nuova Italia, Firenze 1997;
Überlegungen II-VI, Überlegungen VII-XI e Überlegungen XII-XV, a cura di P. Trawny, Klostermann, Frankfurt a. M., 2014;
M. Heidegger/E. Fink, Colloquio intorno ad Eraclito (1977), trad. it. a cura di M. Nobile, Coliseum, Milano 1992, p. 301.

Altre opere citate e studi sul tema:

AA. VV., Heidegger e la phénoménologie, Vrin, Paris 1990
Aristotele, Metafisica, trad. it. a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1993
F. Brencio, Scritti su Heidegger, Aracne, Roma 2013
F. Chiereghin, Einführung, Ueberwindung, Verwindung: tre modi di rapportarsi alla metafisica in Heidegger, in AA. VV., La metafisica e il problema del suo superamento, a cura di Scuola di Perfezionamento in Filosofia dell’Università degli Studi di Padova, Libreria Gregoriana, Padova 1985
P. Chiodi, L’ultimo Heidegger, Taylor, Torino 1960
G. Chiurazzi, Hegel, Heidegger e la grammatica dell’essere, Laterza, Roma-Bari 1996
A. Colombo, Martin Heidegger. Il ritorno all’essere, Il Mulino, Bologna 1964
R. Descartes, Regulae ad directionem ingenii, in Discorso sul metodo. Regole per la ricerca della verità, trad. it. a cura di G. Galli, Laterza, Bari 1968
C. Fabro, Ontologia dell’arte nell’ultimo Heidegger, in “Giornale critico della filosofia italiana”, n. 31, 1952
Id., Dell’essere, dell’ente, del nulla, in Tomismo e pensiero moderno, Libreria Editrice della Pontificia Università Lateranense, Roma 1969
G. FIGAL, Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, Il Melangolo, Genova 2007
U. Galimberti, Linguaggio e civiltà. Il linguaggio occidentale nella lettura di Heidegger e Jaspers, Mursia, Milano 1977
H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger (1983), trad. it. a cura di R. Cristin e (solo per il cap. VIII) di G. Moretto, Marietti, Casale Monferrato 1987
J. B. Lotz, Identità e differenza in un confronto critico con Heidegger, in AA. VV., La differenza e l’origine, Edizioni del Centro di Ricerche di Metafisica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Milano 1987
J. Malpas, The Trascendental Heidegger, Stanford Univ. Press 2007;
M. Marassi, Presenza e differenza. Heidegger e l’unità originaria, in AA. VV., La differenza e l’origine, Centro di Ricerche di Metafisica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Milano 1987
J. L. Marion, L’essere e la rivendicazione, in AA. VV., Heidegger e la metafisica, a cura di M. Ruggenini, Marietti, Casale Monferrato 1991
A. Massolo, Heidegger e la fondazione kantiana, in Ricerche sulla logica hegeliana, Marzocco, Firenze 1950
R. Morani, Essere, fondamento e abisso. Heidegger e la questione del nulla, Mimesis Edizioni, Milano 2010
L. Pareyson, Heidegger: la libertà e il nulla, in “Annuario filosofico”, n. 5, 1989
P. Rebernik, Heidegger interprete di Kant. Finitezza e fondazione della metafisica, ETS, Pisa 2006
M. Ruggenini, L’uomo e la differenza, in “Archivio di Filosofia”, n°. 1-3, 1989
L. Ruggiu, Heidegger e Parmenide, in AA. VV., Heidegger e la metafisica, Marietti, Casale Monferrato 1991
Tommaso d’Aquino, Liber de veritate catholicae fidei contra errorem infidelium, in Summa contra gentiles, Marietti, Casale Monferrato 1961, vol. II.
G. Vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Casale Monferrato 1989
C. Vigna, Sulla metafisica di Heidegger, in AA. VV., Heidegger e la metafisica, a cura di M. Ruggenini, Marietti, Casale Monferrato 1991
P. Vinci, Soggetto e tempo. Heidegger interprete di Kant, Bagatto Editore, 1988
V. Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Argalia, Urbino 1976
F. Volpi, Alle origini della concezione heideggeriana dell’essere: il trattato Vom Sein di Carl Braig, in “Rivista critica di storia della filosofia”, n. 35, 1980

Possibilità e finitezza

di

Francesca Brencio

 

L’esserci è sempre in qualche modo diretto verso…in cammino
M. Heidegger

Sein und Zeit inizia con una dichiarazione di intenti: subito dopo l’epigrafe tratta dal Sofista di Platone, Heidegger scrive:

È dunque necessario riproporre il problema sul senso dell’essere (die Frage nach dem Sinn von Sein) […]. Lo scopo del presente lavoro è quello dell’elaborazione del problema del senso dell’“essere”. Il suo traguardo provvisorio è l’interpretazione del tempo come orizzonte possibile di ogni comprensione dell’essere in generale[ref]M. Heidegger, Essere e tempo (1927), trad. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 14.[/ref].

 Se l’intento dell’opera del ’27 è quello di proporre una ricerca sul senso dell’essere, tuttavia in quella sede Heidegger analizza la struttura dell’esserci in quanto unico ente in grado di porsi la domanda sul senso dell’essere. Il tentativo di auto comprensione dell’esserci – e quindi tutta l’analitica esistenziale  –  si iscrive all’interno di quella fatticità dell’esserci che determina in modo originario la soggettività.
Il corso di lezioni tenute nel semestre estivo del 1923 fu intitolato da Heidegger proprio Ermeneutica della fatticità ed in questo corso egli fornì il primo orizzonte per la comprensione dell’essere, cioè l’effettività, la quale si configura come «la denominazione per il carattere di essere del “nostro” “proprio” esserci»[ref]M. Heidegger, Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, trad. it. a cura di G. Auletta, Guida, Napoli 1998, p.17.[/ref]. L’ermeneutica della fatticità è l’autointerpretazione della fatticità dell’esserci, cioè l’interpretazione – ma anche comunicazione – del carattere ontologico dell’esserci. Questa comprensione, è il passo preliminare e fondamentale per la comprensione dell’essere. Eppure, come nota Gadamer a proposito dell’espressione “ermeneutica della fatticità”,

bisogna rendersi conto che è come dire un ferro di legno, una contraddizione in termini. Infatti la parola fatticità significa proprio la resistenza irremovibile opposta dal fattuale a qualsiasi afferrare e comprendere […]. La comprensione dell’essere che contraddistingue l’esserci umano, in quanto egli si interroga circa il senso dell’essere, è anche in sommo grado un paradosso […]. L’esserci umano, interrogandosi sul senso del proprio essere, si vede piuttosto confrontato con l’inconcettualizzabilità della sua propria esistenza[ref]H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., p. 48 e s.[/ref].

La fatticità, così come Heidegger la pone, non può essere scissa in alcun modo dalla storicità dell’esserci, in quanto costituzione ontologica della temporalizzazione dell’esserci stesso. Il comprendersi nel proprio essere è per l’esserci, cioè per l’uomo, un sapere, nella propria autocomprensione, di non essere padrone di se stesso, di «ritrovarsi in mezzo all’essente e di doversi accettare come si ritrova»[ref]H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., p. 87.[/ref].

 Dunque, per rispondere alla domanda “che cos’è l’essere?”, Heidegger parte dalla domanda di che cosa (e non chi)[ref]«Il termine “Esserci” […] esprime l’essere e non il che cosa, come accade invece quando si dice pane, casa, albero», M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 64 e s.[/ref] sia l’esserci; parte, in altri termini, dalla riproposizione della domanda kantiana, chi è l’uomo?, tentando di oltrepassare il versante gnoseologico in vista di un orizzonte più ampio. Il primo passo in direzione dell’ontologia è dunque una chiarificazione del senso dell’esistenza, cioè del modo d’essere dell’esserci:

Quell’essere stesso verso cui l’Esserci può comportarsi in un modo o nell’altro e verso cui sempre in qualche modo si comporta, noi lo chiamiamo esistenza. e poiché la determinazione dell’essenza di questo ente non può non avere luogo mediante l’indicazione della quiddità di un contenuto reale, in quanto la sua essenza consiste piuttosto nell’aver sempre da essere il suo essere in quanto suo, è stato scelto il termine Esserci, quale pura espressione di essere, per designare questo ente[ref]M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 28 e s.[/ref].

L’esserci ha sempre da essere il suo essere, cioè deve autodeterminarsi:

L’essenza di questo ente consiste nel suo aver-da-essere. L’essenza (essentia) di questo ente, per quanto in generale si può parlare di essa, deve essere intesa a partire dal suo essere (existentia). Ecco perché l’ontologia ha il compito di mostrare che, se noi scegliamo per l’essere di questo ente la designazione di esistenza, questo termine non ha e non può avere il significato ontologico del termine tradizionale existentia […].L’Esserci è sempre la sua possibilità, ed esso non l’ “ha” semplicemente a titolo di proprietà posseduta da parte di una semplice presenza […]. L’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza. Questo ente può, nel suo essere, o “scegliersi”, conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo “apparentemente”[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 64 e s.[/ref].

È nella Lettera sull’umanesimo che Heidegger puntualizza come l’esistenza di cui si parla in Essere e tempo «non si identifica con il concetto tradizionale di existentia, che significa realtà a differenza di essentia intesa come possibilità»[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 278.[/ref]. L’esserci è dunque sempre la sua possibilità in quanto poter essere (Seinkönnen).

Il termine Dasein usato da Heidegger indica, quindi,  l’uomo nella sua singolarità come problema aperto per la sua stessa comprensione. Questo termine riscatta l’usura linguistica di cui la parola “uomo” è stata inficiata. «Allorchè parlò di “esserci”, Heidegger non usò semplicemente un vocabolo nuovo e di elementare potenza denominativa, con il quale sostituire i concetti di soggettività, autocoscienza ed ego trascendentale»[ref]H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., p. 109.[/ref], ma si spinse oltre la metafisica greca per la comprensione dell’essere.

L’uomo dispiega la sua essenza in modo da essere il “ci” (Da), cioè la radura dell’essere. Questo “essere” del “ci”, e solo questo, ha il carattere fondamentale dell’e-sistenza, cioè dell’e-statico stare-dentro (das ek-statische Innestehen) nella verità dell’essere[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 278 s.[/ref].

Dasein significa essere-il-Da, cioè essere-il-Ci. Tale Ci è la consapevolezza che il possibile è sempre tale in relazione a qualcosa che va oltrepassato. Nel Ci, futuro e passato  sono sempre la propria storia, il proprio essere, il proprio progetto; il Ci è l’accadere stesso della realizzazione della possibilità che l’esserci sceglie; il Ci traduce in termini ontici per il Dasein ciò che la Lichtung traduce per l’essere: la “radura”.

La realizzazione autentica che l’assunzione del compito di essere il proprio Ci impone è la decisione anticipatrice: l’essere-per-la-morte. Il Dasein è anche già sempre la sua morte; essa è la possibilità più autentica attraverso la quale il Dasein sovrasta se stesso; la morte non è una semplice-presenza, ma una possibilità dell’essere dell’esserci. La decisione anticipatrice dischiude davanti al Dasein l’angoscia: essa pone l’Esserci davanti all’angoscia. «L’essere-per-la-morte è essenzialmente angoscia»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 323.[/ref]. Ma davanti a questa angoscia, la quale si configura come la determinazione della situazione emotiva più propria dell’Esserci, come lo sguardo disincantato di fronte all’inautenticità dell’esistenza, il Dasein concede a se stesso la possibilità di una «libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia: LA LIBERTA’ PER LA MORTE»[ref]Ibidem.[/ref]. La decisione anticipatrice rappresenta così, al tempo stesso, il punto di contatto tra il livello esistenziale e quello esistentivo: attraverso la comprensione ontologica della propria fine, l’Esserci può realizzare consapevolmente l’esistenza autentica.

L’essere-per-la-morte riesce a rovesciare l’ordine della temporalità quotidiana, scandito dalla tripartizione presente, passato, futuro. Tale rovesciamento si realizza in un duplice movimento, quello dell’anticipazione e quello del ritorno al presente fondando un nuovo margine di temporalità: quella autentica, all’interno della quale esperire la progettualità, la libertà e la storicità dell’Esserci stesso. Solo attraverso la decisione anticipatrice il Dasein si appropria della cifra ontologica che lo costituisce: la finitudine[ref]Cfr. su questo tema G. Strummiello, L’altro inizio del pensiero. I Beiträge zur Philosophie di M. Heidegger, Levante, Bari 1995, pp. 182 ss.[/ref]. Per Heidegger la libertà per la morte non è negatività[ref]Cfr. F. Chiereghin, Dialettica dell’assoluto e ontologia della soggettività in Hegel. Dall’ideale giovanile alla Fenomenologia dello spirito, Edizioni di Verifiche, Trento 1980, pp. 94 ss.[/ref],  al pari di quanto invece è ad esempio per Hegel, piuttosto è la libertà dell’Esserci esperita a partire dalla finitezza che trascende se stessa verso l’essere; per Heidegger la morte addita verso una trascendenza che abbraccia la totalità del finito e che nel finito vuole rimanere ancorata. La declinazione heideggeriana del tema della morte la connota all’interno della finitezza, del regno esclusivo dell’Esserci, rifuggendo ogni tentativo dialettico[ref]Sul problema della morte in Heidegger Cfr. U. M. Ugazio, Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Mursia, Milano 1976; V. Vitiello, Heidegger. Il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Mataphysik alla Daseinsanalyse, Argalia, Urbino 1976, pp. 398 ss.; G. Morpurgo Tagliabue, Le strutture del trascendentale, Bocca, Milano 1951, in particolare pp. 251 ss. [/ref].

Il Ci manifesta la sua cooriginaria apertura al “non” dell’ente e al “non” del non essere iscritto in esso nell’angoscia. Proprio nella percezione dell’angoscia, quale situazione emotiva fondamentale e primaria dell’Esserci, quest’ultimo sperimenta il davanti-a-che del proprio essere nel mondo come tale; nello spaesamento che segue all’angoscia, quel “non sentirsi a casa propria in nessun luogo” «si rivela il niente»[ref]M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 67.[/ref], ma «non come ente, e tanto meno come oggetto»[ref]M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 69. Cfr. a tal proposito G. Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino 1982.[/ref]. Se questo Ci dell’esserci è ciò che, come Heidegger afferma, permette all’esserci di abitare presso la radura dell’essere, è altresì ciò che lo conduce verso l’appropriazione della sua negatività, cioè della negatività di cui l’esserci è cifra vivente. Questa è la negatività radicale riposta al fondo dell’esistenza: fondo, poiché essa è il Grund dell’essere dell’esserci.

La riflessione intorno alla negazione (il “non”) ed al vasto problema del nulla è introdotta nell’opera del 1927 attraverso il concetto di colpevolezza dell’esserci. «L’idea di “colpevole” porta con sé il carattere del non»[ref] M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 343.[/ref]: cioè, tale idea è determinata da un “non”, l’ «essere fondamento di una nullità»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 343.[/ref]. Questo originario “non” ravvisato da Heidegger è il segno della costitutiva esistenziale gettatezza dell’esserci, per la quale «l’Esserci […] è, come tale, una nullità di se stesso. Ma “nullità” non significa affatto non esser-presente, insussistenza; essa concerne un “non” che è costitutivo dell’essere dell’Esserci, del suo essere gettato»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 345.[/ref]. La deiezione (Verfallen) costituisce la prova più lampante dell’esistenzialità dell’esserci e ne rivela la quotidiana relazione con il mondo.

Il “non” quale costitutivo dell’essere dell’esserci è ciò che indica come il fondamento di questo stesso essere non è riposto nell’esserci, ma altrove. Il non essere fondamento del proprio essere consente all’esserci la sua specifica progettualità, cioè la “non” fondatezza dell’essere dell’esserci fa sperimentare a questo esserci la nullità del suo essere e del suo progetto, senza con ciò indicare un’assenza di valore o un’insignificanza interna all’esserci stesso ed alla propria progettualità. Piuttosto, la «nullità […] fa parte dell’essere-libero dell’Esserci per le sue possibilità esistentive. Ma la libertà è solo nella scelta di una possibilità, cioè nel sopportare di non-aver-scelto e di non-poter-scegliere le altre»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 345.[/ref]. La nullità di cui parla Heidegger è una nullità esistenziale che permette lo sviluppo della libertà autentica; questa nullità non ha il carattere della privazione o della manchevolezza, ma costituisce una positività il cui valore ontologico essenziale «resta ancora oscuro»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 346.[/ref].

Da questa critica all’ontologia tradizionale emerge in filigrana uno dei tratti più caratteristici della heideggeriana Daseinsanalyse: l’esserci ha in sé il negativo, un “non” originario che si costituisce come potenziale positività in quanto permette la determinazione dell’effettivo realizzarsi della libertà esistenziale. Come scriverà più tardi nei Beiträge zur Philosophie, l’esserci è “abissale”, poiché il fondo di negatività che gli è proprio e che lo costituisce è ciò che assegna il compito di «mantener fermo l’abisso e con ciò l’essenza dell’essere. Questo mantenere fermo l’abisso appartiene all’essenza dell’Esserci, in quanto fondazione della verità dell’essere»[ref]«[Das nichtendgültige Wissen] hält den Abgrund una damit das Wesen des Seyns gerade fest. Dieses Festhalten des Abgrundes gehört zum Wesen des Das-seins als der Gründung der Wahreit des Seyns» (M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (vom Ereignis), Klostermann, Frankfurt am Main, 1989, p. 460, trad. mia).[/ref]. Considerando l’essenziale fenditura negativa che abita la struttura dell’esserci Heidegger pensa quest’ultimo come “pastore dell’essere e luogotenente del nulla”, come rimando alla reciproca verità che permette la coappartenenza di essere e niente.

È nell’ampia indagine sulla Befindlinchkeit[ref]Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 172 ss. In particolar modo si ricordi quanto afferma Heidegger: «La tonalità emotiva porta l’Esserci dinanzi al “che” del suo “Ci”, che gli sta di fronte come un enigma impenetrabile» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 174).[/ref] che emerge l’apertura esistentiva del Ci dell’esserci, rivelando l’ente nella sua totalità e che quindi permette di sperimentare cosa il nulla sia davanti all’esserci: non un qualcosa determinato, ma il progressivo dileguare della determinabilità dell’essere presente. Così, nell’angoscia la totalità dell’ente vacilla: in questo suo vacillare, l’ente nella totalità del suo essere si dilegua. Questo dileguare dell’ente è l’essenza del niente: la nientificazione (Nichtung).

Essa non è un annientamento dell’ente, e neppure scaturisce da una negazione. La nientificazione non è nemmeno commisurabile all’annientamento o alla negazione. È il niente stesso che nientifica. Il nientificare non è un’occorrenza qualsiasi, ma in quanto è un rinviare, respingendolo, all’ente nella sua totalità che si dilegua, esso rivela questo ente, nella sua piena e fino allora nascosta estraneità, come l’assolutamente altro – rispetto al niente[ref]M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 70.[/ref].

Il niente di cui fa esperienza l’esserci non è un mero nulla, ma piuttosto una potenza che lascia l’esserci «tenuto immerso nel niente»[ref]M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 70.[/ref]. Il nulla è originario rispetto alla costituzione dell’esserci, più originario dell’essere stesso e permette a questo sia il suo puro essere sia la sua propria libertà[ref]Cfr. M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 71.[/ref].

La libertà dell’esserci è il suo abisso senza fondo: nella sua essenziale natura trascendente, la libertà dell’esserci pone questo essere nella possibilità più ampia e lo reclama alla scelta del proprio progetto autentico. Nel Denkweg heideggeriano sono il confronto con Kant e con Schelling (nel corso del 1936) a permettere l’approfondimento della speculazione sulla libertà, già inaugurata con Essere e tempo. La «libertà da» e la «libertà per» sono le due determinazioni con cui Heidegger pensa alla libertà come fondo abissale della possibilità dell’esserci di avere da essere.

L’unità dei tre elementi – la fatticità, l’esistenzialità e la deiezione – è rappresentata dalla cura (die Sorge), la quale rivela l’essere dell’esserci:

L’esistere è sempre effettivo. L’esistenzialità è sempre determinata in modo essenziale dalla effettività […]. L’esistere effettivo dell’Esserci non è soltanto […] un gettato poter-essere-nel-mondo, ma è anche già sempre immedesimato con un mondo di cui si prende cura […]. La Cura non caratterizza però la sola esistenzialità, separata dalla effettività e dalla deiezione, ma abbraccia l’unità di queste determinazioni d’essere[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 240 e s.[/ref].

Tra gli interpreti di Heidegger, c’è stato chi ha sottolineato la derivazione husserliana del concetto di cura, evidenziando come essa traduca, a partire dal terreno dell’affettività, l’intenzionalità di Husserl, come ad esempio De Waelhens[ref]Cfr. A. De Waelhens, La philosophie de Martin Heidegger, Publications Universitaires, Lovanio 1955.[/ref]. Nel corso del 1927 intitolato Die Grundprobleme der Phanomenologie, effettivamente si viene definendo il concetto heideggeriano di cura a partire dal concreto soggetto dell’esistenza, il Dasein, e non da un qualsiasi soggetto logico. Già in questo corso emerge come la soggettività sia essenzialmente cura e lo sia nella dimensione tipica dell’esistenza: il “fatto della vita umana” è il trascendersi da parte del Dasein nel mondo, cioè il essere già presso le cose e il suo prendersene cura. L’esistenza del Dasein assume il segno dell’affettività e non più di una funzione logica, bensì di un essere che vive, sente, è attraversato dal mondo perché nel mondo trova il proprio posto. «Heidegger ritiene di aver riportato l’intenzionalità dall’immanenza dell’astratta idealità riflessiva […] alla trascendenza del fattuale esistere immediato, la quale invece è assoluta perché è originaria»[ref]A. Masullo, La “cura” in Heidegger e la riforma della intenzionalità husserliana, in “Archivio di filosofia”, a. XVII, 1989, p. 384.[/ref].

Non solo: nel corso svolto nel 1925, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs,  Heidegger, definendo la cura come accesso alla concreta pienezza dell’esser-ci, ovvero del fenomeno l’uomo , pronuncia un giudizio di insufficienza nei riguardi dell’intenzionalità husserliana, la quale solo “frammentariamente” e da un punto di vista “esterno”, rende ragione del fenomeno dell’esistenza del Dasein. Il punto in cui le due prospettive – quella husserliana e quella heideggeriana – si scontrano è la nozione di l’esistenza a partire dall’ “ek”: esso allude all’essere dell’uomo come uno stare-fuori-di-sé, un essere pienamente esposto – o arrischiato, parafrasando Rilke – che gli consente di stare-fuori nella verità dell’Essere. «La attualità dell’esser-ci, concepita da Heidegger, è segnata dall’ “ek” nel senso che l’umanità dell’uomo vi è pensata come l’uscita dall’insignificanza della contingenza ontica e l’ingresso nella pienezza significativa della necessità ontologica»[ref]A. Masullo, La “cura” in Heidegger e la riforma della intenzionalità husserliana, cit., p. 385 e s.[/ref]. Nella comprensione della radice “ek” si gioca la comprensione della soggettività nella speculazione del maestro Husserl e del giovane assistente Heidegger. Con il passaggio dall’intenzionalità alla cura, l’orizzonte trascendentale lascia il posto a quello affettivo quale cifra originaria della soggettività.

Questo passaggio non solo conduce a soppiantare la fenomenologia a favore di un’ermeneutica della fatticità che comprenda l’esistenza come un continuo uscir-fuori di sé – uscire fuori di sé che non ambisce a soggiornare presso l’essere per rimanervi, quanto un continuo movimento di uscita del sé – ma anche a fare della possibilità del soggiornare nel mondo il versante ontico in cui si dispiega la cura.

Bibliografia delle opere citate

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Id., Segnavia, traduzione italiana a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987;
Id., Beiträge zur Philosophie (vom Ereignis), Klostermann, Frankfurt am Main, 1989;
Chiereghin F., Dialettica dell’assoluto e ontologia della soggettività in Hegel. Dall’ideale giovanile alla Fenomenologia dello spirito, Edizioni di Verifiche, Trento 1980;
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Gadamer H. G., I sentieri di Heidegger,
Masullo A., La “cura” in Heidegger e la riforma della intenzionalità husserliana, in “Archivio di filosofia”, XVII, 1989.
Morpurgo Tagliabue G., Le strutture del trascendentale, Bocca, Milano 1951;
Strummiello G., L’altro inizio del pensiero. I Beiträge zur Philosophie di M. Heidegger, Levante, Bari 1995;
Ugazio U. M., Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Mursia, Milano 1976;
Vitiello V., Heidegger. Il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Mataphysik alla Daseinsanalyse, Argalia, Urbino 1976.

La filosofia e il suo inizio

Si inaugura l’uscita di Pagine Heideggeriane con un estratto da “Che cos’è la Filosofia?” di Martin Heidegger, nell’edizione citata in nota.

 

Che cos’è la filosofia? [ref]M. Heidegger, Che cos’è la filosofia?, trad. it. a cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1997[/ref]

M. Heidegger

 

Con questa domanda tocchiamo un tema molto vasto, cioè esteso. Perché vasto, sembra destinato a restare indeterminato. Perché indeterminato, può essere trattato dai punti di vista più diversi. In ogni caso giungeremo comunque a qualche risultato. Tuttavia, dal momento che nella trattazione di questo tema tanto ampio tutte le considerazioni possibili si intrecciano vicendevolmente, possiamo incorrere nel rischio che il nostro colloquio non attinga il raccoglimento meditativo che la questione richiede.

Dobbiamo perciò cercare di determinare in modo più preciso la domanda. Così facendo daremo una direzione stabile al nostro colloquio; lo porremo perciò stesso su un cammino. Dico: su un cammino. Infatti diamo per scontato che non si tratta certamente dell’unico cammino. Un problema resta comunque aperto, se il cammino che io qui di seguito indicherò è in verità tale da consentirci di porre la domanda e di darle una risposta.

Se diamo per scontato di poter trovare un cammino per determinare  con maggior esattezza la domanda, sorge immediatamente, contro il tema del nostro colloquio, un”obiezione difficilmente evitabile. Domandandoci infatti: che cos’è la filosofia, noi parliamo sulla filosofia. Ponendo la domanda in questi termini, ci collochiamo in una zona che si trova al di sopra e quindi al di fuori della filosofia. Ma lo scopo della nostra domanda è piuttosto quello di penetrare nella filosofia, di prendervi dimora e di comportarci nel modo che le è proprio, vale a dire di filosofare. Il cammino del nostro colloquio non deve perciò avere soltanto una direzione chiara, ma deve al tempo stesso far si che tale direzione ci dia la certezza di muoverci all’interno della filosofia e non di girarvi intorno restandone fuori.

Il cammino che dobbiamo percorrere deve perciò essere di tal natura e muoversi in una direzione siffatta che ciò di cui la filosofia tratta ci riguardi direttamente, ci tocchi e in verità ci tocchi nella nostra essenza.

Ma in tal guisa non diventa la filosofia qualcosa che ha a che fare con il mondo degli affetti e dei sentimenti?

«Con i buoni sentimenti si fa la cattiva letteratura ››. «C’est avec les beaux sentiments que l’on fait la mauvaise littérature ››[ref]André Gide, Dostoevskij, tr. it. di Maria Marocchin, Milano 1946.[/ref]. Questo  motto di André Gide non vale solo per la letteratura ma anche, a maggior ragione, per la filosofia. I sentimenti, anche i più belli, non appartengono alla filosofia. Dei sentimenti si suol dire che sono qualcosa di irrazionale. La filosofia, per contro, non solo è qualcosa di razionale ma rivendica a sé per sua natura il governo della ragione. Con questa affermazione abbiamo già in qualche modo inavvertitamente deciso su ciò che la filosofia è. Abbiamo sopravanzato con una risposta la nostra domanda. Del resto, chiunque considera giusta l’affermazione che la filosofia è una questione della ragione. Ma forse tale affermazione è una risposta affrettata e precipitosa alla domanda: che cos’è la filosofia? Poiché infatti ad essa possiamo  contrapporre nuove domande. Che cos’è la ratio, la ragione? Dove e grazie a chi si è deciso che cos’è la ragione? Non è la ragione stessa ad aver affermato la propria signoria sulla filosofia? Se “ si “, con quale diritto? Se “ no ”, da dove riceve la sua missione e il suo ruolo? Se ciò che s’intende per ragione è stato determinato inizialmente ed esclusivamente dalla filosofia e all’interno del suo processo storico, non vi è alcun valido motivo per spacciare in partenza la filosofia come una questione esclusiva della ragione. Nel momento stesso in cui mettiamo in dubbio la caratterizzazione della filosofia come comportamento razionale, allo stesso modo dobbiamo anche dubitare dell’altra affermazione secondo cui la filosofia apparterrebbe al dominio dell’irrazionale. Infatti chi pretende di determinare la filosofia come irrazionale,  assume il razionale a norma della sua definizione e lo fa in modo tale da presupporre nuovamente come di per sé evidente ciò che la ragione è.

Se al contrario ci richiamiamo alla possibilità che ciò a cui si riferisce la filosofia riguarda noi uomini nella nostra essenza e ci tocca, allora potrebbe verificarsi il caso che un modo siffatto di essere toccati non abbia nulla a che fare con ciò che abitualmente s’intende per affetti e sentimenti, in breve, per irrazionale.

Da quanto si è detto, possiamo innanzitutto desumere questo solo punto: è necessaria un’attenzione più scrupolosa se vogliamo arrìschiarci ad iniziare un colloquio che ha per titolo «che cos’è la filosofia?››.

Per prima cosa dobbiamo cercare di porre la questione su un cammino chiaramente orientato, per non vagabondare fra rappresentazioni della filosofia arbitrarie ed occasionali. Ma come trovare un cammino siffatto, su cui poter determinare la nostra domanda senza correre rischi?

Il cammino cui vorrei ora accennare ci sta  immediatamente davanti. E solo perché è il più vicino lo troviamo con tanta difficoltà e, una volta trovatolo, ci muoviamo pur sempre in esso in modo maldestro. Ci chiediamo: che cos’è la filosofia? Abbiamo già pronunciato a sufficienza la parola filosofia. Ma se non utilizziamo più tale parola come un termine scontato, se invece ascoltiamo la parola “ filosofia ” a partire dalla sua origine, allora essa suona φιλοσοφία. A questo punto la parola “ filosofia ” parla greco. La parola greca, in quanto greca, è un cammino. Questo cammino, per un verso, ci sta di fronte poiché la parola da lungo tempo si è rivolta a noi precedendoci; ma si trova, per altro verso, già alle nostre spalle poiché da sempre abbiamo associato e pronunciato tale parola. La parola greca φιλοσοφία è perciò un cammino su cui camminiamo. Eppure conosciamo molto confusamente questo cammino, anche se sulla filosofia greca possediamo e possiamo divulgare innumerevoli conoscenze storiografiche. La parola φιλοσοφία ci dice che la filosofia è qualcosa che innanzitutto determina l’esistenza del mondo greco. Non solo. La φιλοσοφία determina anche l’intimo fondamento della nostra storia europea occidentale. Questo modo di dire sovente ripetuto, “ filosofia eu-ropea occidentale “, è in verità una tautologia. Perché? Perché la “ filosofia “, nella sua essenza, è greca – e greco significa qui: la filosofia è, quanto all’origine della sua essenza, di tale natura che per dispiegarsi ha fatto innanzitutto appello al mondo greco e di esso si è valsa.

Ma l’essenza originariamente greca della filosofia nell’epoca della sua signoria moderna ed europea è stata guidata e dominata da rappresentazioni provenienti dal cristianesimo. Il predominio di tali rappresentazioni ha nel Medioevo il suo terreno di mediazione. Tuttavia non si può dire che grazie a ciò la filosofia sia divenuta cristiana, cioè una questione propria della fede nella rivelazione e nell’autorità della Chiesa. L’affermazione: la filosofia è greca nella sua essenza non dice nient’altro che questo: l’occidente e l’Europa, e solo essi, sono nel loro più intimo processo storico, originariamente “ filosofici ”. Questo fatto è attestato e dimostrato dal sorgere e dal predominare delle scienze. Se esse sono oggi in grado di dare la propria impronta specifica alla storia dell’uomo sull’intero pianeta, ciò accade perché traggono origine dal più intimo processo storico europeo occidentale, cioè da quello filosofico.

Riflettiamo per un attimo su ciò che significa caratterizzare un’epoca della storia umana come “ era atomica ”. L’energia atomica, scoperta e liberata dalle scienze, viene presentata come la potenza che deve determinare il cammino della storia. Eppure non ci sarebbero mai state scienze se la filosofia non le avesse precedute e anticipate. Ma la filosofia è: ἡ φιλοσοφία Questa parola greca vincola il nostro colloquio ad una tradizione storica. Poiché questa tradizione resta unica, è anche perciò stesso univoca. La tradizione che il nome (φιλοσοφία ci comunica, quella tradizione che la parola storica φιλοσοφία nomina, rende per noi libera la direzione di un cammino percorrendo il quale ci domandiamo: che cos’è la filosofia? La tradizione non ci consegna ad una potenza coercitiva, proveniente dal passato e dall’irrevocabile. Tramandare, délivrer, significa mettere in li-bertà cioè porre nella libertà del dialogo con ciò-che-è-stato. Se ascoltiamo veramente la parola filosofia, e altrettanto veramente meditiamo ciò che abbiamo ascoltato, essa ci convoca nella storia dell’origine greca della filosofia. La parola φιλοσοφία viene per cosi  dire a coincidere con l’atto di nascita della nostra storia, possiamo aggiungere: con l’atto di nascita dell’epoca presente della storia universale che si suole chiamare era atomica. Conseguentemente non possiamo porre la domanda: che cos’è la filosofia, senza affidarci a un dialogo col pensiero del mondo greco.

Ma non solo è greco, quanto alla sua origine, l’oggetto della nostra domanda, la filosofia; è greco altresì il modo in cui la domanda è posta, il modo in cui ancor oggi, in generale, si pongono domande.

Domandiamo: che cos’è ciò…? Questo in greco suona τί ἐστιν? Tuttavia la domanda che si chiede che cosa sia qualcosa pare destinata a restare polisensa. Possiamo chiederci: che cos’è quella cosa laggiù nella lontananza? Riceviamo una risposta: un albero. La risposta consiste nell’assegnare il suo nome ad una cosa che non conosciamo esattamente.

Possiamo porre la domanda in modo ancora più ampio: che cos’è ciò che chiamiamo “albero”? Con questa domanda ci avviciniamo già al greco τί ἐστιν. Si tratta di quella forma del domandare che Socrate, Platone e Aristotele hanno sviluppato. Essi domandano per esempio: che cos’è ciò – il bello? Che cos’è ciò – la conoscenza? Che cos’è ciò – la natura? Che cos’è ciò – il movimento?

Dobbiamo ora concentrare la nostra attenzione sul fatto che nelle domande sopra citate non viene cercata soltanto una più esatta delimitazione di ciò che è natura, movimento, bellezza, ma viene contemporaneamente data un’interpretazione di ciò che significa il “ che cosa “, del senso in cui va compreso il τί. Il significato del “ che cosa “, del quid est, del τὸ quid, viene indicato col termine quidditas, in tedesco die Washeit. Tuttavia la quidditas è stata determinata in modi diversi nelle diverse epoche della filosofia.

 

Letteratura critica di riferimento sul tema “Heidegger e la filosofia”

AA. VV., Heidegger e la metafisica, trad. it. a cura di M. Nobile, Marietti, Casale Monferrato 1991
AA. VV., Guida a Heidegger, a cura di F. Volpi, Laterza, Bari 1997
AA. VV., Eredità di Heidegger, Transeuropea, Bologna 1978
AA. VV., Studi heideggeriani, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983
ALTENBERND JOHNSON P., On Heidegger (Wadsworth Philosophers Series), Wadsworth Publishing, 1999
AMOROSO L., Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg & Sellier, Torino 1993
BRENCIO F., Scritti su Heidegger, Aracne Editrice, Roma 2013
CARACCIOLO A., Studi heideggeriani, Tilgher, Genova 1989
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DREYFUS H.L. and WRATHALL M. A., (eds.), 2002, Heidegger Reexamined (4 Volumes), London: Routledge
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GADAMER H. G., Heideggers Wege. Studien zum Spätwerk, Mohr, Tübingen 1983; I sentieri di Heidegger, trad. it. a cura di R.Cristin e G. Moretto, Marietti, Casale Monferrato 1987
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RICHARDSON W. J., 1963, Heidegger: Through Phenomenology to Thought, The Hague, Netherlands: Martinus Nijhoff Publishing
SCHULTZ W., Über den philosophiegeschichtlichen Ort Martin Heideggers, in Heidegger. Perspektiven zur Deutung Seines Werks, hrsg. von O. Pöggeler, Köln, Berlin 1970
SEVERINO E., Heidegger e la metafisica, Adelphi, Milano 1994
VATTIMO G., Introduzione a Heidegger,   Laterza, Bari 1992

Martin Heidegger e il nostro tempo

di
Francesca Brencio

Numquam se plus agere quam nihil cum ageret, numquam minus solum esse quam cum solus esset Catone

Pagine heideggeriane è un progetto che nasce con l’intenzione di fornire uno strumento per l’approfondimento del pensiero di Martin Heidegger, fornendo una selezione di testi del filosofo tedesco selezionati per temi, affiancati da una letteratura critica ragionata sia italiana sia straniera, che offra al lettore delle indicazioni bibliografiche iniziali con cui approfondire lo studio di questo pensatore.

Heidegger è un filosofo molto discusso, nel bene e nel male, uno degli ultimi esponenti del pensiero che ha riproposto i grandi interrogativi della metafisica nutrendo l’ambizione di oltrepassarla: fortemente critico verso un uso disincantato della tecnica, spesso tacciato di esser più incline a pensare all’essere che non all’uomo, implicato nei fatti politici della Germania nazista, assertore della fine della filosofia e della necessità di un pensiero poetante. Capita così che Heidegger diventi o il maggior esponente del nichilismo nell’epoca contemporanea, o uno dei più genuini pensatori che abbiano tematizzato problemi teologici nel dibattito corrente; o, ancora, che diventi un intellettuale al servizio di un’ideologia.

Eppure Heidegger è molto più di questo.

Karl Löwith non ha mai risparmiato ad Heidegger nessuna critica; egli scrive esplicitamente, all’inizio della seconda edizione dell’opera Saggi su Heidegger, che l’intento del libro era quello di rompere il silenzio e l’aura che attorniava la figura del “maestro” Heidegger da parte di tutti coloro che se ne ritenevano discepoli. Eppure, proprio Löwith ce lo racconta così: « In lui, soprattutto, è all’opera l’energia originaria, tenace e concentrata di un sapere teso nella sua intensità e di una meditazione che tutto penetra del suo elemento, espunge il consunto schematismo di ogni nostro vecchio concetto, e rimette in questione criticamente tutta la tradizione del pensiero filosofico, indagandone passo a passo la fonte e la portata» [ref] K. LÖWITH, Saggi su Heidegger, trad. it. a cura di C. Cases e A. Mazzoni, Einaudi, Torino 1966, p. 124. [/ref].

Il pensiero di Heidegger ha percorso un’onda sinusoidale ricca di momenti diversi: è passato da una fiorente fortuna ad una «(relativa) “disgrazia” in cui pare essere caduto, perlomeno nell’ambito di una certa cultura accademica» [ref] P. D. BUBBIO, Bentornato Heidegger, prefazione a F. BRENCIO, Scritti su Heidegger, Aracne, Roma 2013, p. 17. [/ref]. Ridicolizzato dalla filosofia analitica, a causa della sua “oscurità” e “confusione”, nell’ambito della filosofia continentale ha conosciuto una vera autorevolezza: «Considerato il “padre nobile” dell’ermeneutica filosofica contemporanea, eletto a punto di riferimento imprescindibile da Gadamer, ed enormemente apprezzato dalla scuola fenomenologica francese, Heidegger ha mantenuto una posizione di assoluto rilievo per tutta la seconda metà del ventesimo secolo. Ma sul finire del secolo, qualcosa è cambiato anche in quel contesto. Da una parte, l’ideale del prospettivismo, avanzato da un’ermeneutica considerata come la nuova koiné del nostro tempo (secondo la celebre definizione di Gianni Vattimo), sembrava aver esaurito la sua forza propulsiva. Dall’altra, una filosofia analitica sempre più aggressiva sbarcava anche in Europa […]. E così, nel giro di qualche anno, anche nelle università del continente europeo […] Heidegger è stato messo da parte. Secondo alcuni era, semplicemente, “passato di moda”; mentre secondo altri il suo pensiero era stato eccessivamente sopravvalutato, e ora giustamente lo si ridimensionava» [ref] Ibidem, p. 17 e s. [/ref].

La filosofia, purtroppo, è soggetta alle mode come ogni altro prodotto dell’uomo e così anche Heidegger è stato l’oggetto della dea bendata. Eppure credo che insistere oggi sulla necessità di avvicinarsi al suo pensiero, accogliendone soprattutto gli interrogativi sia l’aspetto più stimolante. Se è vero, come scriveva Hegel, che la filosofia è il nostro tempo appreso col pensiero, allora “saper stare” dentro le domande heideggeriane rimane una delle vie privilegiate di accesso alla filosofia, accesso che impone l’onesta abitudine di dismettere il vezzo delle etichette per andare incontro ad una comprensione critica della sua filosofia. Forse Gadamer non era poi tanto lontano dal vero quando scriveva: «Se uno è convinto di essere “contro” Heidegger – o anche se si crede semplicemente di essergli “favorevole” – si renderebbe ridicolo. Non è così semplice passare davanti al pensiero» [ref] H. G. GADAMER, I sentieri di Heidegger, trad. it. a cura di R. Cristin e (solo per il cap. 8) G. Moretto, Marietti, Casale Monferrato 1987, p. 98. [/ref]. A prescindere dalla posizione di pensiero che si voglia assumere davanti ad Heidegger, non si può negare che egli si sia inserito nella filosofia andando a toccare i nodi concettuali più problematici e delicati del nostro patrimonio teoretico.

La ricchezza della speculazione heideggeriana non può facilmente essere semplificata. Tuttavia, se fra tutti gli interrogativi che si diramano dal suo procedere ne dovessimo rintracciare uno che funga da bussola con cui addentrarsi al suo interno, questo potrebbe essere il seguente: come può l’uomo, un essere finito, mortale, consegnato al tempo, comprendere se stesso (l’essere dell’esserci) e il mondo che abita non semplicemente come essere della mancanza ma facendo della sua propria finitezza il punto di forza del suo essere, del suo esistere, del suo fare? E da questo interrogativo, ancora altri non meno importanti: come può inverare la sua propria vita attraverso un esistere autentico? Come può far sì che le sue molteplici capacità non si trasformino in maglie pericolose che riducano la sua libertà? Come può questo stesso essere recuperare un senso sacro del mondo e nel mondo in un’epoca che vive nella povertà di tutte le povertà? Cosa ha da dire la filosofia a questo uomo? In che modo la filosofia può dialogare con le scienze umane?

Forse ci saranno studiosi che sosterranno che non è Heidegger il pensatore adeguato a rispondere a questi interrogativi, soprattutto allorquando essi, pur essendo posti sul terreno della filosofia, chiamano in causa anche altre discipline che si occupano dell’uomo, e forse, a loro modo di vedere, le argomentazioni portate potrebbero essere valide, anche se cuique interpretandi usu suo. Tuttavia Heidegger è ancora in grado di offrire validi concetti con cui rispondere a queste domande e porne delle nuove.

Questo “stare” nella domanda heideggeriana è lo strumento con cui interrogare il nostro tempo e il nostro spazio, rendendoci interpreti attenti e critici contro ogni soluzione prêt-à-porter del pensiero. Usando un’espressione che spesso torna nelle opere del filosofo tedesco, “il soggiorno” presso le domande è un permanere in esse attraverso l’esercizio della critica: non è un avvitarsi negli interrogativi attraverso i virtuosismi della riflessione filosofica, ma un verificare la fondatezza delle domande riconducendole a quelle essenziali e per questo originarie, cioè le domande ultime. Heidegger incalza l’interlocutore, a oltre trent’anni dalla sua morte, con le domande sulle cose ultime, sulla fondazione del mondo e procede per disvelarle, per toglierle dal loro nascondimento, operazione questa che si realizza nella penombra dell’esercizio ermeneutico in cui la parola è sempre Lichtung.

Proprio la parola della filosofia heideggeriana esige uno sforzo da parte del lettore, sovente disabituato ad un linguaggio che procede per metafore, che trae linfa dalla poesia, che prende a prestito – a volte anche impropriamente, come ricorda Gadamer – le parole guida del pensiero greco o che si avventura per le vette della metafisica. La parola che Heidegger affida alla filosofia reclama aderenza alla cosa di cui parla, cifra questa che connota in modo inequivocabile lo stile dell’autore. Tale aderenza può essere compresa attraverso tre significati. È l’aderenza alla cosa: la parola aderisce alla cosa, ne diventa non semplicemente segno fonetico ma ne accoglie l’esistenza allo stesso modo di come la terra (Boden) accoglie i viventi. È l’aderenza alla terra: la parola aderisce alla terra del Baden, ai suoni tipici della Mundart permettendo alla concretezza delle cose di diventare tangibile solo con il nominarle, senza scadere tuttavia in una specie di sentimentalismo ombelicale. Infine, è aderenza al pensiero: la parola non è meramente uno strumento con cui parlare e dare forma al pensiero ma testimonia quella meditazione sull’essere che ha impegnato Heidegger per tutta la sua esistenza; così l’incompiutezza linguistica di Essere e tempo segna già agli albori della sua storia la ricerca del linguaggio capace di nominare le cose, capace di dire l’essere, capace di far abitare il mondo poeticamente, rifuggendo da ogni ingenuo romanticismo.

In una conferenza del 1965 dal titolo La fine del pensiero nella forma della filosofia – pubblicata nel 1984 da Hermann Heidegger con il titolo La questione della determinazione della “cosa” del pensiero – Heidegger disse: «La filosofia è giunta alla sua fine […]. Nella fine della filosofia si compie quella direttiva che, sin dal suo inizio, il pensiero filosofico segue lungo il cammino della propria storia. Alla fine della filosofia il problema dell’ultima possibilità del suo pensiero diviene affare serio» [ref] M. HEIDEGGER, Filosofia e cibernetica, trad. it. a cura di A. Fabris, ETS, Pisa 1988, pp. 30-34. [/ref]. La questione dell’ultima possibilità della filosofia è dunque l’orizzonte di senso in cui siamo chiamati a pensare. Forse può apparire una deriva nichilista quella di chiamare in causa la fine della filosofia in un momento storico in cui vari dibattiti animano la scena teoretica italiana e non solo: penso al dibattito sul nuovo realismo, alla querelle fra filosofia analitica e continentale, all’attenzione manifestata negli ultimi anni da parte della filosofia per tutti i viventi sollevando la “questione animale”, alla rinascita di studi verso i classici. Altresì si tradirebbe il senso genuino di questa espressione se ci lasciassimo facilmente ingannare dalle parole e considerassimo la “fine della filosofia” in un puro senso negativo, come un mero cessare, come il venir a mancare di un processo, se non addirittura come impotenza e incapacità. Se così fosse, a questa nota espressione heideggeriana spetterebbe lo stesso destino che è toccato alla famosa espressione hegeliana intorno alla “morte dell’arte” – espressione questa, è bene ricordarlo, mai usata da Hegel, bensì coniata da Benedetto Croce al fine di indicare il ruolo dell’arte all’interno del sistema, cioè la sua Auflösung [ref] Cfr. D. FORMAGGIO, La “morte dell’arte” e l’Estetica, Il Mulino, Bologna 1983 [/ref].  Proprio per capire cosa si intende con questa “fine della filosofia”  occorre tornare alla riflessione compiuta da Heidegger sulla metafisica occidentale e sull’oblio dell’essere da essa realizzato, al compimento che realizza sin dalla sua fondazione, cioè alla Grundfrage. E’ in questa direzione che va interpretata questa espressione. «La fine della filosofia si mostra come il trionfo della dominante fondazione di un mondo tecnico-scientifico e dell’ordinamento sociale conforme a questo mondo» [ref] M. HEIDEGGER, La fine della filosofia e il compito del pensare, in E. MIRRI, Il pensare poetante, trad. it. a cura di E. Mirri, C. L. E. U. P., Perugia, pp. 144-148. [/ref]. Avremo modo di leggere le pagine dell’autore sulla questione dell’oltrepassamento della metafisica e dell’oblio dell’essere, così come quelle sulla questione della tecnica e del pensiero poetante. Tuttavia, in questa sede introduttiva, mi sembra utile ribadire l’importanza delle indicazioni heideggeriane sulla possibilità della filosofia nel nostro tempo, tempo in cui «l’uomo, che non è più né il “figlio di Dio”, né il “fine della natura”, né il “soggetto della storia” [. . . ] bensì è l’esistente in cui l’essere si espone come fare senso [. . . ]. L’uomo non è più il significato del senso [. . . ] ma è il suo significante [. . . ] perché ne indica e ne apre il compito» [ref] J. L. NANCY, Sull’agire. Heidegger e l’etica, trad. it. a cura di A. Moscati, Cronopio, Palermo 2005, p. 32. [/ref]. Dopo la fine dei sistemi forti, cioè di quelle speculazioni in grado di spiegare, giustificare e fondare la realtà more geometrico, dopo la “morte di Dio” che ha occupato un posto privilegiato nella speculazione novecentesca – teorizzazione hegeliana, aforisma nietzscheano, visione del mondo, impasse metafisica contro cui il filosofare stesso si è imbattuto e ha dovuto rimettersi in discussione per cercare di rispondere all’interrogativo che nasceva dal vuoto occupato dal fondamento – dopo l’inaugurazione del post-moderno come scenario storico in cui si consumano e si interpretano le scienze che parlano dell’uomo e sull’uomo, il compito del significante “uomo” è rimesso in questione nello spazio della filosofia e del suo fare, creando nuovi orizzonti di senso, o per usare un’espressione evocativa di Bloch, utopie irrealizzate, da intendersi non come fughe nell’irreale, bensì  come scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione. Pertanto, ogni declinazione della domanda sul senso del Dasein è un “angolo di mondo” che Heidegger ci invita a comprendere per poterlo abitare. Attraverso la sua speculazione, egli ha voltato le spalle alla coscienza dell’idealismo tedesco in direzione dell’effettività dell’esistere dell’uomo: l’esserci è posto sempre come mio “esserci” e non cede il passo all’io generico di cartesiana provenienza, ma si radica nel terreno del “qui e ora”, della progettualità (futuro) e della rammemorazione (passato). Questa costante attenzione all’esistenza singola, finita, concreta, manifestata sin dall’ultimo corso universitario a Freiburg nel 1923 [ref] Cfr. M. HEIDEGGER, Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, trad. it. a cura di G. Auletta, Guida, Napoli 1998. [/ref], non solo collidono con quella interpretazione di Heidegger che lo vede uno studioso più interessato all’essere che non all’uomo, ma soprattutto gettano luce sulla possibilità di una riscoperta della sua filosofia in termini d’esistenza. L’algebra dello spirito si inverte e dalle profondità dell’essere siamo prepotentemente richiamati ad una visione fenomenica dell’esistente, dell’uomo, nella sua finitezza e trascendenza.