Heidegger interprete di Hölderlin

 

La contemporaneità di un poeta non è nel contenuto, ma talvolta è malgrado il contenuto, quasi a suo dispetto
M. Cvetaeva Il poeta e il tempo

   

I. “Il più grande lirico tedesco dopo Goethe”

Il XIX secolo ha partorito una generazione ardente,

audace e focosa, sorgendo dalle zolle aperte d’Europa, fa impeto contemporaneamente da tutte le direzioni incontro all’aurora della libertà nuova […]. Uno, uno solo della sacra schiera, il più puro, rimane ancora  a lungo sulla terra senza più Dei: Hölderlin; ma la sorte lo ha trattato nel modo più strano. Il suo labbro fiorisce ancora, il suo corpo che invecchia brancola ancora sulla terra tedesca […] ma i suoi sensi […] si annebbiano in un sogno senza fine […]. Gli Dei gelosi non hanno ucciso colui che ha spiato i loro segreti, ma si sono limitati ad accecargli lo spirito […]. Un velo s’è steso a oscurargli la parola e l’anima […]. E quando, un giorno, egli si stende pianamente e muore, questa morte silenziosa non suscita nel mondo tedesco maggior rumore d’una foglia d’autunno che scenda incerta a terra […]. Il messaggio eroico di quest’ultimo, di questo puro tra i più puri della sacra schiera, resta non letto, non ascoltato per una generazione intera [ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, trad. it. a cura di A. Oberdorfer, Sperling & Kupfer, Milano 1934, pp. 25 e ss.[/ref].

Con queste suggestive parole Stephan Zweig racconta rapidamente la vita di Friedrich Hölderlin (1770-1843), “il più grande lirico tedesco dopo Goethe, un romantico che visse fuori dei confini del romanticismo vero e proprio”[ref]L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1971, vol. II, tomo III, p. 707 s.[/ref], colui che ha avuto la presunzione di servire soltanto l’arte e non vita, gli Dei e non gli uomini; un poeta che ha sperimentato la sofferenza tipica di una grande anima che geme e si sdegna di fronte alla brutalità spirituale che la sua epoca nutriva: “Ombroso, angosciato, tormentato, conscio della forza del suo spirito solo per soffrirne imponentemente […]. Diffidente, suscettibile[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 38 s.[/ref]”, egli sceglie di ‘dar gloria a ciò che eccelle’, nella consapevolezza che questa missione lo priverà di molte gioie: “Hölderlin è della razza di coloro cui non è dato di posare in un luogo […]. Incomincia, inavvertito, il “mirabile desiderio dell’abisso”, quell’attrazione misteriosa che cerca la sua propria profondità”[ref]Ivi, p. 84 s.[/ref]. In una lettera del 1798 Hölderlin scrive:

Vorrei vivere per l’arte alla quale appartiene il mio cuore, e invece debbo faticare tra gli uomini, tanto che spesso sono assai stanco di vivere…non sarei il primo che naufraga; molti, nati per essere poeti, ne sono periti. Non viviamo nel clima della poesia[ref]Lettera di Hölderlin in K. Jaspers, Genio e follia, trad. it. a cura di U. Galimberti, Rusconi, Milano 1990, p. 135.[/ref].

Hölderlin è un poeta ‘moderno’: in lui lo sradicamento esistenziale convive con quello intellettuale. È un poeta che non fa del suo “poetico” la conquista dell’autonomia estetica romantica, piuttosto consegna a questo “poetico” la dimensione religiosa, facendone la sua missione:

Nessun poeta tedesco ha creduto mai come Hölderlin nella poesia e nella divina origine di essa, nessuno ne ha difeso con tanto fanatismo l’incondizionatezza, l’incontaminatezza da ogni cosa terrena […]. La poesia […] è per Hölderlin il senso della vita […]. Essa colma l’abisso che c’è tra il sopra e il sotto dello spirito, fra gli dei e gli uomini[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 49.[/ref].

È intorno al 1930 che Martin Heidegger si avvicina alla poesia di Hölderlin, incontro questo che durerà per tutta la vita del filosofo. In una lettera del 31 Dicembre 1934 all’amica Elisabeth Blochmann, Heidegger scrive:

Nella mattina in cui Lei leggeva Hölderlin (6. XI) ho iniziato il mio corso, e ho letto dei passi proprio dalla lettera dell’1.I.1799. E ieri ho chiuso il corso con quella impressionante lettera del 4. XII. 1801 […]. Hö[derlin] ha pre-istituito la miseria – che ha un rinnovato inizio – del nostro esserci storico, affinché essa ci attenda. E la nostra miseria è la mancanza di miseria, l’impotenza a un’esperienza originaria della problematicità dell’esserci. E l’angoscia di fronte all’interrogare giace sull’Occidente; esilia i popoli in sentieri invecchiati e li ricaccia in fretta in dimore ormai decrepite[ref]M. Heidegger/E. Blochmann, Carteggio 1918-1969, trad. it. a cura di R. Brusotti, Il Melangolo, Genova 1991, p. 135 s.[/ref].

Nel 1936 egli è a Roma, su invito di Giovanni Gentile, con una conferenza su Hölderlin e l’essenza della poesia, in cui si dedica ampiamente all’interpretazione delle tesi capitali che animano la concezione poetica del lirico e che diverranno tema privilegiato della riflessione sul pensiero poetante: il dominio della poesia come luogo del linguaggio, la poesia come fondamento dell’essere e come suprema necessità del pensare. Su questo scenario di indagine ermeneutica si inseriscono i chiarimenti sulle liriche di Hölderlin: del 1939 è l’esegesi di Come quando al dì di festa, in cui il tema privilegiato è il rapporto che lega la Natura al poeta; del 1943 sono invece i testi nati dalle “delucidazioni” intorno alle poesie Rammemorazione e Ritorno a casa, i cui motivi di fondo tornano ad essere quelli del rapporto tra il Sacro e il poeta, della reciproca implicazione tra il linguaggio e il poeta, e della rammemorazione. Sarà proprio attraverso le meditazioni su Hölderlin che Heidegger approfondirà il suo congedo dall’estetica in vista dell’ontologia dell’arte.

Hölderlin gode di un primato indiscusso sugli altri poeti che Heidegger prende in esame (Hebel, Rilke, Trakl e George)[ref]Sul senso dell’interpretazione heideggeriana dei poeti sopra citati si rimanda a L. Amoroso, Quando domandare è (cor-)rispondere, in “Teoria”, n. 1, 1982, pp. 75 e ss.; L. Amoroso, Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenber & Sellier, Torino 1993; f. de alessi, Heidegger lettore dei poeti, Rosenberg & Sellier, Torino 1991; e. mirri, La resurrezione estetica del pensare, Bulzoni, Roma 1976; e. oberti,  Lineamenti di un’estetica di Heidegger in un saggio su Rilke, in “Rivista di filosofia neoscolastica”, n. 46, 1954, pp. 555 e ss.; g. vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Casale Monferrato 1989; g. vattimo, Heidegger e la poesia come tramonto del linguaggio, in Aa. Vv., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979, pp. 290 e ss.      [/ref]; il suo avvicinamento alla figura del lirico tedesco sorge da una necessità del pensiero heideggeriano che è quella di ricevere una parola adeguata per dire ciò che il linguaggio metafisico non è in grado di nominare. Proprio come colui che ricerca, Heidegger accoglie le sollecitazioni, gli aiuti hölderliniani per riscattare l’esperienza del linguaggio di Sein und Zeit[ref]Cfr. L. Amoroso, Nuovi movimenti del “colloquio” Heidegger-Hölderlin, in “Rivista di Estetica”, n. 5, 1980, pp. 97 e ss; E. Landolt, L’essere come ritmo o poesia nell’interpretazione heideggeriana di Hölderlin, in “Sicolorum Gymnasium,  1967, pp. 32 e ss.[/ref]. In questa ambiziosa operazione di ricerca ed accoglienza dell’aiuto proveniente dalla parola poetica, Heidegger sembra “utilizzare” il poeta, asservendo le intuizione filosofiche di questo alle maglie dell’ontologia; così, si staglia sullo sfondo della meditazione heideggeriana il merito hölderliniano di aver saputo intuire l’esito della metafisica occidentale nei termini di estremo oblio dell’essere e di erramento del pensare, presagendo la fine di un’epoca ed inaugurando l’aurora di un secondo inizio, quello del pensiero poetante: “Hölderlin, poetando è arrivato più lontano di tutti nell’epoca in cui il pensiero ancora una volta mirava a conoscere in modo assoluto l’intera storia accaduta”[ref]M. Heidegger, Contributi alla filosofia (dall’Evento), trad. it. a cura di F. Volpi e A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007, p. 213.[/ref].

Il senso ed il limite dell’interpretazione heideggeriana di Hölderlin è stato oggetto dibattuto a lungo da tanta parte della critica filosofica, sotto il duplice riguardo sia di una considerazione limitante dell’esegesi heideggeriana, sia di una considerazione tesa ad evidenziarne i meriti. Proprio alla luce dell’abbondante letteratura critica sul tema e da un ripensamento della prospettiva heideggeriana intorno ad Hölderlin, è evidente che Heidegger costruisca intorno al poeta una cornice ermeneutica che risulta forzata dalle necessità imposte dalla domanda sul senso dell’essere. A beneficio di un recupero ontologico della Seinsfrage, Heidegger non esita a mettere quasi in secondo piano quegli elementi che sono essenziali invece per comprendere tutta la portata estetica e teoretica insieme del lirico tedesco. Così prende forma nel “poetico pensare” del filosofo un’immagine di Hölderlin carente di elementi essenziali, come il romanticismo tedesco e l’idealismo, quali fonti privilegiate per la sua formazione lirica. Non solo: portando a compimento la riflessione romantica sul simbolo e sull’allegoria, Heidegger ne coglie il legame con il linguaggio mitopoetico[ref]Cfr. S. Givone, Heidegger e la questione romantica, in “Aut Aut”, 1989, n°. 234, pp. 59 ss.; P. Chiodi, L’estetica di Heidegger, in “Il Pensiero Critico”, 1954, n°. 9-10, p. 11.[/ref], e proprio in tal senso non si allontana molto dal progetto romantico dell’ideale poetico, né riconosce i suoi debiti nei confronti dell’idealismo tedesco[ref]In merito alla questione di un possibile debito del pensiero heideggeriano nei confronti dell’idealismo tedesco, si rimanda a V. Verra, Heidegger, Schelling e l’idealismo tedesco, in “Archivio di Filosofia”, 1974, pp. 51 ss.; P. Chiodi, L’estetica di Heidegger, cit., p. 11 s.[/ref].

II. Hölderlin fra filosofia e religione 

Tutta l’opera di Hölderlin e il suo itinerario poetico devono essere considerati alla luce della formazione dello Stift di Tubinga; in quel contesto culturale, Hölderlin integra la considerazione di Kant con le intuizioni fichtiane alla luce di uno spinozismo dal sapore platonico, permettendo così di flettere l’Uno-Tutto spinoziano attraverso una fantasia mitica che ricomprenda in unione e in armonia la vita. Di Kant egli riconosce l’essenzialità del metodo critico come momento preparatorio per il pensiero, una sorta di propedeuticità al sistema, evidenziando come essa trascenda ogni forma di sensismo[ref]Suggestiva la lettura che fornisce Stephan Zweig della frequentazione kantiana da parte del poeta: “A Weimar questo bambino va alla scuola di Fichte, di Kant, s’ingozza così disperatamente di dottrine filosofiche che lo Schiller stesso deve metterlo in guardia” (S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 72 s.) e poco oltre: “Il desiderato incontro con i Grandi si trasforma in pericolo e danno, e il libero anno di Weimar, da cui aveva sognato il compimento delle sue opere, passa quasi invano. La filosofia, ‘ospedale per poeti mancati’, non gli ha giovato” (Ivi, p. 79).[/ref]; di Fichte apprezza la profondità del suo pensiero tale da definirlo “un titano che combatte per l’umanità”[ref]G. W. F. Hegel, Epistolario, a cura di P. Manganaro, Guida, Napoli 1983, vol. I, p. 111.[/ref] e riconosce l’estrema importanza che l’opposizione Io e Non-Io riveste nel contrasto tra natura e libertà; di Spinoza, la cui conoscenza gli proveniva soprattutto dall’allora diffusa circolazione delle Lettere sulla dottrina di Spinoza di Jacobi, rileggeva nell’elemento dell’Uno-Tutto non tanto la sostanza infinita onnicomprensiva, quanto piuttosto il sentimento di fondo che lo legava sin dalla giovinezza alla natura ed alle sue potenze; di Platone apprezza le riflessioni sul bello, che tuttavia assumono in Hölderlin il sapore del tragico, e sull’importanza del mito all’interno della sua speculazione: il platonismo che egli abbraccia non è più quello della scissione tra idea e realtà, ma quello per il quale l’idea permea tutta la realtà. Proprio ciò lo sollecita a pensare a una fondazione della “mitologia della ragione”, in cui il mito diviene il punto di unione tra logos e poiesis; elevandosi oltre la simbologia allegorica, il mito produce una forma di spiritualità nuova, in cui persino gli dei stessi sono chiamata ad esistere come potenze originarie e non come semplici concetti. Potenze mitiche e mistiche ad un tempo, di cui tuttavia i poeti non sanno più riconoscerne l’identità:

Freddi ipocriti, non parlate degli Dei. Non siete voi intelligenti? Dunque non credete nel Dio del sole, in quello delle tempeste o del mare. La terra è una cosa morta: come dirle “Io ti ringrazio”? Rassicuratevi o Dei! Voi date la bellezza al canto anche se del vostro nome l’anima è fuggita e si è dispersa. Quando si richiede un grande nome si pensa a te, Natura madre[ref]F. Hölderlin, I poeti ipocriti, in Le Liriche, trad. it. a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1993, p. 409.[/ref].

Gli dei hölderliniani vivono con il poeta in una profonda intimità, al pari della Natura. Nell’Iperione, “il sogno fanciullesco d’un mondo ultraterreno, dell’invisibile patria terrena degli dei”[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 90.[/ref], egli svilupperà la sua concezione della Natura che riesce a superare la morte restituendo alla vita un’armonia perduta, redimendola dalla sua finitudine:

O felice natura! Non mi so render conto di ciò che avviene in me quando levo lo sguardo verso la tua bellezza, ma tutte le gioie del cielo sono nelle lacrime che io verso per la tua bellezza, come l’amante per la sua amata. Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto quando le delicate onde del vento giocano intorno al mio petto. Perduto nell’ampio azzurro del cielo, levo lo sguardo su verso l’etra e giù verso il mare sacro e mi sembra che uno spirito fraterno mi apra le braccia e che il dolore della solitudine si sciolga nella vita della divinità. Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei; questo è il cielo per l’uomo. Essere uno con tutto ciò che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, al tutto della natura, questo è il punto più alto del pensiero e della gioia, è la sacra cima del monte, è il luogo dell’eterna calma, dove il meriggio perde la sua afa, il tuono la sua voce e il mare che freme e spumeggia assomiglia all’onde di un campo di grano[ref]F. Hölderlin, Iperione, trad. it. a cura di G. V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 1981, p. 29.[/ref].

L’animo di Iperione vive in piena sintonia con la Natura, partecipando delle gioie e dei dolori del protagonista. Di questa immagine della Natura gli dei sono presenze reali, che partecipano anch’esse alle vicende del giovane:

Diotima è morta […]. E tu, mio caro Bellarmino, domandi quale sia il mio stato d’animo, mentre ti racconto tutto questo. Ottimo amico, sono calmo perché non voglio avere nulla di meglio di quanto hanno gli dei. Non deve ogni cosa soffrire? E tanto più soffrire quanto più uno eccelle? Non soffre la natura sacra? O mia divinità! Per tanto tempo non mi fu possibile comprendere che tu, beata come sei, potessi soffrire. Ma la voluttà che non soffre è sonno e, senza morte, non c’è vita […]. E ora dimmi, dove troverò ancora rifugio? Ieri salii lassù sull’Etna. Mi ricordai del grande siciliano che, un giorno, stanco di contare le ore, fidandosi dell’anima del mondo e pieno di ardimentoso desiderio di vita, si precipitò nelle splendide fiamme; e un freddo motteggiatore lo irrise dicendo che il freddo poeta aveva dovuto scaldarsi al fuoco. Quanto volentieri avrei preso su di me il peso di questa derisione[ref]Ivi, pp. 168 e ss.[/ref].

La consapevolezza di questa Natura porta il poeta a vivere lo spazio come manifestazione della sua sacralità: “Tutto ciò che può essere nominato si trova all’interno di essa. Essa è l’autentico e l’essenziale, il sacro Tutto al di là di cui non vi è più nulla”[ref]R. Guardini, Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, trad. it. a cura di L. Tieck e G. Colombi, Morcelliana, Brescia 1995, vol. I, p. 179.[/ref]. In questa dimensione della Natura, la Jonia e Jena non sono poi così distanti: la Germania è davvero il luogo in cui si compie e si consuma l’esistenza del poeta, o se si vuole, la patria più immediata rispetto alla amata Grecia. E proprio la Grecia per lui non è soltanto terra, popolo, cultura, dei, quanto la realizzazione dell’attesa del futuro avveniente. È dalla Grecia che si attende il compimento della promessa del ritorno degli dei, è dalla Grecia che si attende la nuova aurora. In ciò risiede l’appartenenza di Hölderlin alla grecità, “non meno di Esiodo e di Pindaro”[ref]A. Caracciolo, Prefazione in W. F. Otto, Theophania. Lo spirito della religione greca antica, trad. it. a cura di A. Caracciolo e M. Perotti Caracciolo, Il Melangolo, Genova 1983, p. 17.[/ref].

Hölderlin così riattiva il legame con la Natura, quella “corrispondenza d’amorosi sensi” di cui la sua anima è interamente pervasa. Tuttavia, questa “religione della Natura”, in cui gli dei sono il baricentro da cui si espande il luminoso, gradatamente inizia ad abbracciare ed includere in sé anche l’elemento cristiano, dapprima rimosso e poi presente attraverso la mediazione della figura centrale di Cristo: “Quanto alla religione, si rese sempre più chiaramente conto dell’abisso che divideva la sua poetica religione della natura dal cristianesimo; ma al cristianesimo e in particolare alla figura di Cristo rimase poi sempre disperatamente attaccato”[ref]L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, cit., vol. II, tomo III, p. 709.[/ref].

III. La figura di Cristo nell’estetica hölderliniana e la missione del poeta

Hölderlin fu educato dalla madre al pietismo, ma non visse le dottrine e le figure cristiane come espressione immediata della sua vita religiosa, poiché non erano da lui considerate sufficientemente valide ed idonee per realizzare la sua missione di poeta attraverso la loro mediazione. Il pietismo esercitò una certa influenza sulla formazione spirituale del poeta[ref]A. Giannatiempo Quinzio, Influssi pietistici e istanze escatologiche nella poesia di Friedrich Hölderlin, in “Bailamme”, 1993, n°. 14, pp. 143 e ss.[/ref], in particolar modo quell’isolamento spirituale che lo condusse a vivere la religione in solitudine. Il Dio della tradizione cristiana non era in grado di raccogliere entro sé gli elementi che Hölderlin riteneva essenziali per la Volksreligion: il religioso, il popolo e il mondo. Egli “prende le distanze dal messaggio cristiano, trovando l’adeguata espressione della sua esperienza nell’antico mondo degli dei o in numi di creazione originale”[ref]R. Guardini, Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, trad. it. a cura di L. Tieck e G. Colombi, Morcelliana, Brescia 1995, vol. I, p. 243. Seguendo l’intuizione di Guardini il rapporto di Hölderlin con il cristianesimo conosce tre fasi articolate in un iniziale periodo di religiosità giovanile, a cui segue la crisi per poi tornare ad appropriarsi della figura del Cristo.[/ref]. Solo in un secondo momento avvertirà l’esigenza di introdurre la figura di Cristo, che acquisterà progressivamente una potenza di sintesi sempre maggiore fino ad entrare in conflitto con gli dei olimpici. Così, dopo un periodo di rifiuto e di distanza dal cristianesimo, la figura di Cristo affiora nella poetica  e si staglia in tutto il suo spessore.

Ma chi è il Cristo di cui parla questo romantico? Sin dal tempo di Tubinga, Hölderlin – insieme a Schelling e Hegel – vede nella figura di Cristo una possibile flessione dell’Uno-Tutto attraverso la quale leggere l’avvento del “Regno di Dio” e della “Chiesa invisibile”. Seguendo l’articolato e complesso itinerario del poeta, dalla formazione teologica dello Stift fino alle ultime liriche in cui il suo spirito era ancora presente a se stesso, il Cristo di cui egli parla non è semplicemente il Gesù storico, dal momento che Hölderlin gli riconosce gli attributi di “Dio” e di “semidio”; attraverso l’uso di questi attributi il suo intento non è quello di sottolineare la kenosis del Dio fatto uomo, quanto piuttosto differenziarlo dal Dio padre. Il poeta riconosce in Cristo una divinità e tuttavia lo colloca nello “splendido trifoglio”, accanto a Eracle e Dioniso; egli è l’ultimo dio, il dio a venire, “colui che visse presentemente in mezzo agli uomini, lasciò a coloro che sono abbandonati nella notte la consolazione e la promessa del ritorno”[ref]H. G. Gadamer, Interpretazioni di poeti, trad. it. dei cap. I e II a cura di M. Bonola e dei cap. III e IV a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1980, p. 17.[/ref]. Cristo è il signore dell’epoca futura[ref]Cfr. M. Frank, Il dio a venire. Lezioni sulla nuova mitologia, trad. it. a cura di F. Cuniberto, Einaudi, Torino 1994, pp. 238 ss.[/ref], Egli ha dei tratti che rimandano alla seconda potenza schellinghiana come termine che permette il ritorno alla pienezza dell’unione tra il Padre e lo Spirito[ref]Cfr. F. W. J. Schelling, Filosofia della rivelazione, trad. it. a cura di A. Bausola, Rusconi, Milano 1997, pp. 928 ss.[/ref]; nella terza stesura de L’Unico, Hölderlin scrive:

Cristo però si destina da solo. Ercole è come i prìncipi, Bacco è spirito di comunione. Cristo però è la fine[ref]F. Hölderlin, L’Unico, in Le liriche, cit., p. 965. Cfr. anche R. Guardini, Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, cit., vol. II, pp. 716 ss.[/ref].

Cristo è il momento di passaggio, è “presenza nel destino storico dell’Occidente”[ref]H. G. Gadamer, Interpretazioni di poeti, cit., p. 16.[/ref].

Il fatto di essere la fine lo distingue dai due fratelli. Eracle è nel tempo primo; è lottatore, vincitore di potenze avverse, ordinatore del caos, fondatore, sofferente e dominatore allo stesso tempo. Dioniso supera le divisioni dell’esistenza attraverso la potenza che tutto unifica dell’ebbrezza e della trasformazione. Cristo, invece, viene quando il giorno del mondo volge al termine e “si fa sera”. Indica la notte che incombe e vi istituisce  una “promessa”: la celebrazione della “gratitudine”, l’Eucarestia, affinché dia forza ai disposti a credere, li educa a intendere finché viene la soluzione […] la mondanizzazione del Regno di Dio biblico[ref]R. Guardini, Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, cit., vol. II, p. 719 s.[/ref].

Cristo entra nella poesia di Hölderlin proprio come assenza, come colui che deve tornare, come “presenza dell’assente nella sua assenza”. Come la intende Hölderlin, la poesia è il risolversi della materia in spirito, una sorta di sospensione della legge di gravità della materia. La sua poesia “non vuole essere mai plastica, ma sempre soltanto luminosa […], non vuole far vedere, descrivendo, qualche cosa di reale sopra la terra, ma portare intuitivamente nei cieli qualche cosa di non sensibile, qualche cosa del sentimento spirituale”[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 110 s.[/ref]. La poesia diviene in tal senso una sorta di specchio per la filosofia e ciò segnerebbe il confine che divide Hölderlin dall’idealismo tedesco, quello spartiacque per il quale la sua opera non può far parte dell’idealismo tedesco in toto. Egli vuole risignificare in profondità la poesia, vuole riconferirle una dignità superiore, riconducendola alla sua funzione originaria: educatrice dell’umanità[ref]Cfr. F. Hölderlin, Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco, in Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 162.[/ref]. In questa grandiosa operazione di restituzione del proprium alla poesia, Hölderlin compie un vero itinerario filosofico all’interno del poetare, che lo porta a vedere nella poesia l’essenza di ogni sapere, non in ultimo l’essenza stessa della religione, compiendo un itinerario speculare e nel contempo differente a quello hegeliano – come si vedrà più oltre – per il quale “ogni religione sarebbe per sua essenza poetica”[ref]F. Hölderlin, Sulla religione, in Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 61.[/ref]. È in tal senso che la poesia acquista una dimensione fondativa rispetto al reale e alla religione, dimensione che proprio Heidegger ha avuto il merito di sottolineare. Come osserva Cornelio Fabro,

se l’essenza dell’arte è la Dichtung, l’essenza del Dichtung è la fondazione [Stiftung] della verità, la quale va intesa nel triplice senso di donare [Schenken], fondare o radicare [Gründen] e iniziare [Anfangen]. È anzitutto donare, perché se la verità e la realtà dell’arte è opera, non è deducibile da ciò che già è e precede ma è profusione [Ueberfluss], e quindi una donazione. È radicare, perché il progetto poetizzante della verità che si pone in opera non è lasciato nel vuoto, ma è rivolto all’umanità futura, cioè storica secondo il duplice orientamento del Mondo e della Terra, è un prendere e un creare, non nel senso del soggettivismo moderno, ma in quello del porre il fondamento fondante ed in questo senso si può dire anche del nulla, perché trascende ciò che è dato. È iniziare, in quanto non è mediato da altro, e quindi comporta un salto [Sprung]: così è sempre l’origine [Ursprung] in cui precisamente si pone il fondamento della nuova opera e si mantiene in qualche modo nascosta anche la fine: quindi non va scambiato con la primitività nel senso abituale[ref]C. Fabro, Ontologia dell’arte nell’ultimo Heidegger, in “Giornale Critico della Filosofia Italiana”, n.° 31, 1952, p. 354[/ref].

Nel verso “ciò che resta lo fondano i poeti” è racchiuso tutto il senso della missione hölderliniana: i poeti fondano ciò che è destinato a durare nel quadro della dialettica tra l’eterno e l’effimero, lo fondando a partire dal poetare che dona fondamento all’ente. In base a questa determinazione del poetare, Heidegger scrive:

La poesia è istituzione attraverso la parola e nella parola. Che cos’è che viene così istituito? Ciò che resta stabile. Ma ciò che è stabile può mai venir istituito? Non è già sempre presente? No! Proprio lo stabile deve essere fissato, lottando contro il travolgimento; il semplice deve venir strappato alla confusione, la misura deve venir preposta allo smisurato. Deve venir all’aperto ciò che regge e pervade l’ente nel suo insieme[ref]M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 49.[/ref].

Cos’è che resta alla cura del poeta?

Il poeta nomina gli dei e tutte le cose in ciò che esse sono. Questo nominare non consiste nel fatto che qualcosa di già noto prima verrebbe soltanto provvisto di un nome, ma, invece, quando il poeta dice la parola essenziale, l’ente riceve solo allora, attraverso questo nominare, la nomina a essere ciò che è. Così viene riconosciuto in quanto ente. La poesia è istituzione in parola (worthaft) dell’essere. Ciò resta non viene perciò mai attinto da quanto è caduco […]. Il dire del poeta è istituzione non solo nel senso della libera donazione, ma anche al tempo stesso nel senso della fondazione dell’esserci umano sul suo fondamento[ref]Ivi, p. 50.[/ref].

È legittimo intendere questo primato della poesia come atto di fondazione del reale rispetto alla filosofia proprio nei termini di una flessione del problema del fondamento verso la direzione individuata dall’ontologia dell’arte. Heidegger aveva già affrontato tale tema nel corso delle lezioni tenute durante il semestre invernale 1955/1956 all’Università di Friburgo, lezioni confluite poi nel bel testo Il principio di ragione, dove il tema del fondamento, oltrepassando l’esito metafisico, può essere salvaguardato nell’orizzonte della poesia[ref]Cfr. M. Heidegger, Il principio di ragione, trad. it. a cura di G. Gurisatti e F. Volpi, Adelphi, Milano 1991, pp. 72 e ss.; M. Heidegger, Dell’essenza del fondamento, in Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, pp. 93 e ss.[/ref]. Egli suggerisce di pensare la fondazione operata dalla poesia anche in rapporto alla temporalità dell’esistenza del Dasein, realizzando tuttavia uno svuotamento dell’eternità a favore dell’accadere esistentivo. Ciò sembra essere distante dalla effettiva volontà di Hölderlin che nell’atto di fondazione del reale consegna alla poesia altresì la possibilità di eternizzare il mondo rispetto ai limiti dell’esistenza. La parola del poeta fonda qualcosa che è destinato a rimanere, poiché essa è trascendente. La parola che fonda è così consegnata dal poeta/vate alla storia proprio nel passaggio che va da un’epoca all’altra, in quanto essa risiede nella stabilità, nello stesso perdurare che legittima la fondazione di ciò che resta. Mi sembra corretto vedere in questa volontà da parte del poeta tedesco l’annunciarsi di un itinerario speculativo che vuole affidare alla poesia il compito fino ad allora assolto dalla religione, proprio come ciò che dà esistenza al mondo. Questa volontà prende forma fin dagli appunti giovanili ed è contenuta ne Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco; qui infatti si legge:

Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo dell’immaginazione e dell’arte: è questo di cui abbiamo bisogno! […] Se non daremo alle idee una forma estetica, cioè mitologica, esse non avranno interesse per il popolo, e viceversa: se la mitologia non è razionale, il filosofo ne deve provare vergogna. E così alla fine coloro che sono illuminati e coloro che non lo sono, si uniranno: la mitologia deve diventare filosofica, così da rendere il popolo razionale, e la filosofia deve diventare mitologica, così da rendere sensibili i filosofi […]. E potremmo sperare allora in un armonico sviluppo di ogni capacità, nel singolo come nella totalità degli individui. Nessuna capacità sarà più repressa; finalmente regnerà una grande libertà e uguaglianza degli spiriti! Uno spirito superiore inviato dal cielo dovrà fondare tra noi questa nuova religione; sarà l’estrema, la più alta opera dell’uomo![ref]F. Hölderlin, Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco, in Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 162 s.[/ref]

Mentre gli amici degli anni dello Stift (Schelling ed Hegel) avvertono fondamentale sanare la scissione, il dissidio, la lacerazione, quella che Hegel chiamerà “l’infelicità della coscienza”, Hölderlin invece sa che tale scissione è insanabile poiché essa è ciò che caratterizza l’anima stessa dell’uomo. Il poeta non accetta nessuna mediazione concettuale, nessuna Aufhebung, e rinuncia dapprincipio ad ogni forma di mediazione dialettica[ref]O. Pöggeler, Hölderlin, Schelling und Hegel bei Heidegger, in “Heidegger Studien”, vol. 28, 1993, pp. 320 e ss.[/ref];

Hölderlin incontra i concetti fondamentali dell’idealismo filosofico e se ne impossessa; ma poiché questi concetti in lui si radicano in altre premesse spirituali, essi assumono per lui un altro significato e per così dire un altro colore, rispetto a quelli che possiedono per i fondatori della speculazione idealistica[ref]E. Cassirer, Hölderlin e l’idealismo tedesco, trad. it. a cura di A. Mecacci, Donzelli, Roma 2001, p. 30.[/ref].

IV. La bellezza che accoglie la scissione

È all’interno di questa “infelicità consapevole”, di questa accettazione del dolore e della lacerazione come termini inconciliabili, che nasce la categoria estetica del bello, la quale trova la sua più compiuta formulazione nell’Iperione, a cui Hölderlin lavora tra il 1792, nella forma di abbozzo preliminare, e il 1797. Proprio in questo romanzo il poeta scrive una delle pagine più belle e ricche di spunti filosofici per comprendere la sua derivazione dall’idealismo e nel contempo il suo oltrepassamento:

La prima creatura della bellezza umana e della bellezza divina è l’arte. In essa l’uomo divino si ringiovanisce e si rinnova. Vuole prendere coscienza di sé, per questo egli si colloca di fronte alla propria bellezza. In tal modo l’uomo si creò i suoi dei. Perché in principio l’uomo e i suoi dei erano una cosa sola, quando ignota a se stessa, esisteva l’eterna bellezza […]. La seconda creatura della bellezza è la religione. Religione è l’amore della bellezza. Il saggio ama proprio lei, l’infinita che tutto contiene; il popolo ne ama le creature, gli dei che gli appaiono sotto varie forme[ref]F. Hölderlin, Iperione, cit., p. 99 s.[/ref].

E nella prefazione alla penultima stesura del romanzo scrive:

Noi tutti percorriamo una traiettoria eccentrica e non vi è altra via che possa condurre dalla fanciullezza al compimento. La divina unitezza, l’essere nel significato autentico della parola, è per noi andato perduto, e doveva essere perduto per poterlo poi desiderare, riconquistare […]. Spesso per noi è come se il mondo fosse tutto e noi nulla, però anche come se noi fossimo tutto e il mondo nulla. Anche Iperione era lacerato tra questi due estremi. Porre fine all’eterno contrasto tra il nostro essere e il mondo, ristabilire la pace di tutte le paci, che è superiore a ogni ragione, riunificarci alla natura in un tutto infinito, questo è il fine di ogni nostra aspirazione […]. Non avremmo però alcun presentimento di quella pace infinita […] se quell’unificazione infinita, quell’essere, nel significato autentico del temine non fosse già presente. È presente come bellezza[ref]F. Hölderlin, “Prefazione” [alla penultima stesura dell’ ”Iperione”], in Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 54 s.[/ref].

L’ideale hölderliniano della bellezza racchiude in sé il tragico da cui non può esserne scisso. La bellezza non è serafica, non è consolatoria, bensì è conciliazione “entro la discordia stessa”[ref]F. Hölderlin, Iperione, cit., p. 178.[/ref], è ciò che rende possibile l’unione pur mantenendo la distinzione degli elementi opposti e il loro conflitto, è sottrazione della coscienza rispetto al dominio estetico, è segno del negativo. La bellezza hölderliniana sembra avere quello stesso sapore amaro scoperto da Rimbaud, se pur nella totale ed esclusiva diversità della scoperta e dell’accettazione del proprio sé: mentre Rimbaud ha dovuto sperimentare il fallimento e la dissoluzione, ha dovuto “farsi pieno di deserto” per scoprire la desolazione delle albe, Hölderlin ha dovuto “farsi pieno di dei” per riscoprire il volto mistico della natura, ha dovuto in definitiva scoprire nella bellezza il segno di un’assenza. Questa bellezza, così prossima alla soglia del nulla[ref]Cfr. L. Chiuchiù, Soglia della bellezza. Hölderlin, in “Davar”, n. 3, 2006, pp. 73 e ss.[/ref], ha in sé il tratto distintivo di questa vicinanza abissale, una porzione di negativo che forse, nemmeno nella più alta speculazione di Hegel riesce a mostrare tutta la sua portata fino a s-fondare il campo dell’estetica. Infatti, nella riflessione del pensatore di Stoccarda il negativo è pensato attraverso un alto sforzo speculativo nell’orizzonte di fondazione della dialettica, costituendone il nerbo logico oltre che reale; il negativo assume, in un primo momento, la forma della disuguaglianza dell’Io con la sua propria sostanza e, in un secondo momento, la disuguaglianza della sostanza con se stessa. All’interno dello sviluppo dello Spirito, solo nella veste del concetto il pensiero riesce a formulare un’adeguata comprensione del negativo, e tale veste è anche quella che nelle lezioni di estetica porta Hegel a parlare di Auflösung: dissoluzione”, “risoluzione”, proprio per esprimere l’esigenza dialettica del sistema per la quale l’arte, come primo momento della filosofia dello Spirito, deve essere superata, e quindi deve dissolversi, in una forma più adeguata per esprimere la vera forma dell’Assoluto. Quindi, in Hegel la portata del negativo è pur sempre funzionale alla Aufhebung che non tollera la dissoluzione, la “conciliazione entro la discordia” e che per realizzare la marcia trionfante dell’Idea assoluta è pronta a lasciare il negativo al di fuori dell’estetica. Hölderlin sembra muoversi nella direzione opposta: egli pensa il negativo interno alla bellezza proprio a partire dal tragico, il quale è la categoria più propria a determinare la doppia appartenenza che la bellezza ha verso il nulla e verso l’essere. E’ in tal senso che Hölderlin s-fonda l’estetica poiché pensa il negativo contenuto nella bellezza come sua dimensione più originaria. Egli porta la coscienza alla consapevolezza che la bellezza è estranea all’Aufhebung, che al suo posto vi è solo conciliazione entro discordia. Questo è il senso del seme tragico della poetica hölderliniana che trova la sua rappresentazione più compiuta in Empedocle. Il progetto per la stesura de La morte di Empedocle è già contenuto, in filigrana, nell’Iperione, proprio nel periodo francofortese. Empedocle sintetizza i due stati d’animo già presenti in Iperione: la venerazione per la divinità della Natura e la fuga da una vita insoddisfacente per l’uomo:

Empedocle è figlio del suo cielo, della sua epoca, della sua patria, figlio delle forti opposizioni tra natura e arte, con cui il mondo si mostrò ai suoi occhi. È l’uomo in cui quegli antagonismi si conciliano così profondamente da divenire in lui unità, abbandonando e invertendo la loro forma distintiva originaria […] Il suo destino si rappresenta in lui come conciliazione momentanea, che tuttavia è costretta a dissolversi per accrescersi[ref]F. Hölderlin, Fondamento dell’ “Empedocle”, in Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 84 e ss.[/ref].

Rispetto ad Iperione, la novità di Empedocle risiede nel fatto che la sua anima è coinvolta all’interno del dissidio, di questa dialettica inconciliabile tra l’Io e il Non-Io. Forse non è errato considerare Empedocle come un eroe tragico in senso moderno poiché in lui si manifesta una lacerazione non solo morale ma anche psicologica. Di fronte a questa lacerazione egli sceglie la morte, ma non come un personaggio della tragedia greca, non come una maschera eschilea che sopporta la morte tragicamente sofferta, piuttosto egli sceglie la morte liberamente, con consapevolezza gioiosa: “La morte sola può salvare quel che c’è di sacro del poeta. Il suo intatto entusiasmo non contaminato dalla vita; solo la morte può eternare la vita in un mito”[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 103.[/ref]. La morte non è il semplice avvenimento che chiude un ciclo biologico, ma un evento che si compie in riferimento al Tutto e che, se da un lato priva l’uomo di ciò che è dato, dall’altro lo riconsegna a ciò che all’uomo  è sottratto.

Empedocle non può, o forse non vuole ulteriormente, essere parte della tensione verso l’Uno-Tutto. Empedocle è l’eroe tragico che non si accontenta della logodicea hegeliana; piuttosto, egli permane, parafrasando Hegel, all’interno della potenza del negativo. Attraverso questo personaggio Hölderlin accetta e si fa carico del travaglio del negativo, rinunciando ad ogni soluzione che tenti di conciliare gli opposti, di oltrepassare il negativo. Piuttosto, egli resta nel negativo, sperimentandolo fino in fondo come dolore, limite, assenza, portando a compimento la dialettica del sentimento, opposta ed opponentesi alla dialettica del concetto. È in questo ordine di trame emotive che forse il limite di Empedocle, quel limite per il quale egli ha scelto la morte, risiede nel fatto di non poter rendere ragione esteriormente dell’unità interiore intessuta tra il suo Io e la Natura:

sempre più si avvicina la mia ora e dai dirupi giunge sino a me il fido araldo della notte, il vento della sera, messaggero d’amore. È maturato il tempo. Palpita, giacché lo spirito sta sopra di te come astro luminoso, mentre in cielo trasmigrano le nubi senza patria, sempre in fuga. Che sento? Mi stupisco come se la mia vita cominciasse, perché tutto è diverso e solamente ora io sono… […] e tu, Natura, mi porgi il calice tremendo e spumeggiante, affinché il tuo cantore possa bere l’entusiasmo supremo! Sono felice, non cerco altrove il luogo della fine[ref]F. Hölderlin, Empedocle, trad. it. a cura di E. Pocar, Garzanti, Milano 1998, p. 127 s.[/ref].

V. Heidegger e Hölderlin

Nell’intervista rilasciata a Der Spiegel Heidegger affermava:

Il mio pensiero sta in un rapporto inaggirabile con la poesia di Hölderlin. Io non considero Hölderlin come un qualunque poeta, la cui opera gli storici della letteratura prendono in considerazione accanto a quella di molti altri. Per me Hölderlin è il poeta che indica verso il futuro, che attende il Dio[ref]M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare, trad. it. a cura di A. Manni, Guanda, Parma 1987, p. 147.[/ref].

Proprio in qualità di colui che indica,

Hölderlin non è stato scelto perché la sua opera, come fra le altre, realizzi l’essenza generale della poesia, ma unicamente perché la poesia di Hölderlin è poeticamente determinata e destinata a poetare espressamente l’essenza stessa della poesia. Hölderlin è per noi in un senso eminente il poeta del poeta[ref]M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, trad. it. a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988, p. 42.[/ref].

Egli è per Heidegger il termine necessario che fa del fondamento un tema intimo alla poesia e alla filosofia, snodo concettuale essenziale attraverso cui rendere ragione della flessione della Seinsfrage dopo l’incompiutezza di Sein und Zeit. Il poetare è in questa direzione il continuamento e l’inveramento delle posizioni contenute nell’opera del ’27. Forse il maggior merito dell’interpretazione heideggeriana è quello di aver compreso come l’essenza della poesia di Hölderlin sia storica in sommo grado. La filosofia della storia che soggiace alla sua produzione è tutta tesa a mettere in evidenza come la storia sia estrinsecazione del divino. La storia è historia signa temporum ma sotto il segno del negativo, cioè della mancanza del divino nel presente, quindi tempo di povertà; ma anche storia dei segni della presenza del divino nel tempo che viene, cioè storia dell’epifania del divino a partire da una dialettica di assenza/presenza. La storia ha un significato provvidenziale ed è storia escatologica: questo senso religioso della storia destina tutte le cose ad una loro trasformazione:

Questa dottrina è applicata da Hölderlin al compimento che deve realizzarsi nel corso della storia quando quest’ultima è giunta in un vicolo cieco. Ciò che ritorna non è più Cristo, ma la Grecia. Colui che manda non è il Padre, ma l’Etere, la forza operativa non è più lo “Pneuma di Cristo”, ma la pienezza dionisiaca dello spirito. Il nodo da sciogliere non è il peccato dell’umanità, ma l’intrinseca mancanza di sbocchi della storia[ref]R. Guardini, Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, cit., vol. I, p. 220 s.[/ref].

La fiduciosa attesa per la realizzazione dell’eschaton e il compimento non solo dell’idealizzato “Regno di Dio” di provenienza degli anni giovanili ma anche della venuta degli dei dell’età matura, e più in generale della Grecia, sono il sigillo con cui al poeta è concesso di cantare il tempo dell’attesa, il “venerdì santo poetico”. Come giustamente afferma Romano Guardini, Hölderlin non è più un’artista, ma diventa un vate[ref]Ivi, p. 7.[/ref] che vede e si commuove, in cui l’elemento visionario non va “inteso come “fenomeno psicologico”, bensì come “processo di donazione”, attraverso cui possono emergere fenomeni e connessioni altrimenti nascosti”[ref]Ivi, p. 10.[/ref]. Come vate, egli pretende fede, che si creda cioè al ritorno della Grecia, alla trasformazione della vita che “si ricolma di senso divino”. Il concetto di futuro che sottende a questa concezione della storia contiene in sé il riferimento all’eternità, a ciò che deve prepararsi per venire in eterno. Non si tratta di chiliasmo, ma di fiduciosa attesa del momento in cui “il non terreno entra nel terreno, l’eterno nel temporale, ma in modo tale di mantenere il terreno terreno ed il temporale temporale. Questo significa però che la storia e la non-storia, la terra e il cielo, l’economia escatologica e il decorso dell’esistenza si ritroveranno in uno”[ref]Ivi, p. 227.[/ref]. Proprio alla luce di questa esigenza così stringente del pensiero e della poetica di Hölderlin è allora possibile comprendere tutta la portata della missione poetica, del canto come rammemorazione, come ricordo delle promesse: “Custodire la memoria è da sempre la missione del poeta. Questa sua missione assume qui il significato di risvegliare e suscitare ciò che è assente”[ref]H. G. Gadamer, Interpretazioni di poeti, cit., p. 18.[/ref]. Nella stesura aggiuntiva della lirica L’arcipelago Hölderlin scriveva:

Ma poiché così prossimi sono gli Dei presenti debbo essere come se fossero lontani, e oscuro tra nubi deve esserci il loro nome , solo prima che il mattino splenda, prima che arda la vita del mezzogiorno li nomino per me in silenzio, perché il poeta abbia ciò che è suo, ma quando la luce celeste discende volentieri penso al passato e dico – fiorite intanto[ref]F. Hölderlin, L’arcipelago, in Le liriche, cit., p. 950.[/ref].

Come osserva Remo Bodei, “nella lontananza massima del dio dall’uomo, traspare quasi per absentiam l’unità dell’essere e la presenza del divino”[ref]R. Bodei, Hölderlin: la filosofia e il tragico, in F. Hölderlin, Sul tragico, trad. it. a cura di G. Pasquinelli e R. Bodei, Feltrinelli, Milano 1989, p. 18.[/ref]. In Vocazione del poeta si legge:

No, non la sorte e non l’ansia dell’uomo o nella casa o sotto il cielo aperto, anche se egli si adopera e se si nutre più nobilmente della belva – altro conta, cura e missione dei poeti. È l’Altissimo, a cui apparteniamo, perché nuovo nel canto e più vicino l’accolga in amicizia il cuore umano[ref]F. Hölderlin, Vocazione del poeta, in Le liriche, cit., p. 449.[/ref].

La mancanza non è solo privazione ma è anche destino storico, nominato dal poeta sulla soglia del compimento della promessa, “la sacra Memoria che serbi desta lungo le notte”[ref]F. Hölderlin, Pane e Vino, in Le liriche, cit., p. 521.[/ref]. Tutta la poesia di Hölderlin è una teofania vespertina:

Romantica è la poesia hölderliniana della natura, perché la teofania, che ne è il fulcro ed il senso, vi costituisce un breve momento, un momento che nella sua brevità appare quasi illusorio. Essa si compie sempre nell’ora del crepuscolo […]Prima che la luce svanisca del tutto, per un attimo, per un attimo solo, il nume scende misteriosamente sulla terra, sembra toccare i vertici degli alberi più alti e chi sotto gli alberi giace in mezzo ai fiori, è colmo della certezza inebriante che è scomparsa ogni distanza tra la terra e il cielo, fra gli uomini e gli dei, tanto che la lieve aura vespertina che avvolge e compenetra i sensi dei mortali, ravvivandoli dopo l’arsura meridiana, sembra concreta emanazione dell’anima invisibile e pur sempre presente dell’universo[ref]L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, cit., vol. II, tomo III, p. 713.[/ref].

Quando si avverte di nuovo la luce sulla terra, il dio abbandona il mortale e torna nel numinoso spazio dove egli abita. Gli dei vivono nell’eterna gloria che pur non avvertono: per questo si fanno vicini agli uomini, affinché essi attestino il rapimento che la gloria olimpica esercita su di loro. Gli dei hanno bisogno del cuore degli uomini, poiché attraverso questo essi sanno il loro eterno splendore.  Nel tanto noto Perché i poeti Heidegger prende le mosse proprio povertà spirituale e intellettuale dell’epoca contemporanea, pur inserendola nel solco della già tracciata critica alla metafisica:

Con la venuta e il sacrificio di Cristo ha avuto inizio, secondo la concezione storica di Hölderlin, la fine del giorno degli dei. È caduta la sera. Da quando i “tre che sono uno”: Ercole, Dioniso e Cristo, hanno lasciato il mondo, la sera del tempo mondano va verso la notte. La notte del mondo distende le sue tenebre. Ormai l’epoca è caratterizzata dall’assenza di Dio, dalla “mancanza” di Dio. La mancanza di Dio, come venne sentita da Hölderlin, non nega la persistenza di un atteggiamento cristiano verso Dio […]. La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé gli uomini e le cose […]. Ma nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora. Non solo gli dei e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza[ref]M. Heidegger, Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, cit., p. 247.[/ref].

Il compito del poeta si colloca all’inizio di un’apertura storica: il poeta si fa solo esecutore del processo storico a cui l’essere lo chiama a partecipare con la funzione di nominare questa mancanza originaria. Nell’adempimento di questo compito egli deve anche mantenere il mistero dell’origine che determina il rapporto tra essere ed uomo, facendosi carico di una vera e propria missione: egli deve fare epoca, nominando l’epoca della povertà a cui esso presiede e la modalità con cui l’essere si disvela. Suggestivamente Heidegger scrive: “Il poeta, come semidio, è l’opera degli dei e degli uomini, cioè il frutto della festa nuziale”[ref]M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 135 s.[/ref]. Per questa vicinanza che egli ha con il divino, il poeta può apparire simile ad un profeta:

I poeti possono dire ciò che, prima del loro poetare e per esso, è la poesia, solo se dicono ciò che precede ogni reale: ciò che viene [….]. I poeti, se sono nella loro essenza, sono profetici. Ma non sono “profeti” nel significato giudaico cristiano del termine […]. Essi predicono subito il dio come sicura garanzia di salvezza nella beatitudine ultraterrena. Non si sfiguri la poesia di Hölderlin con “il religioso” della “religione”, la quale è e rimane un modo romano d’interpretare il rapporto fra gli uomini e gli dei. Non si prostri l’essenza di questa missione poetica facendo del poeta un “veggente” nel senso dell’indovino. Il sacro annunciato primieramente nella poesia non fa che aprire lo spazio-tempo di un’apparizione degli dei ed indicare la località dell’abitare dell’uomo storico su questa terra[ref]Ivi, p. 136 s.[/ref].

Nella sua prossimità con il divino, il poeta rende ragione anche del Sacro. Hölderlin adopera tre distinte espressioni per nominare il Sacro: das Heilige, das Höchste ed infine der Abgrund, tre parole che vengono usate dal poeta quasi indifferentemente, sebbene l’ultima assuma un’accezione più ampia in quanto rimanda all’abisso che si cela dietro al Sacro. Nello heil risuona

quell’idea di vigore, vitalità, impeto […]. È attributo di venti, cavalli, uomini, città […] ma anche di cose […] colte […] in un istante culminante della loto potenza […]. Heilig conserva intatto questo significato in Hölderlin; etimologicamente, dunque, esso si oppone ad ogni idea di sacralità[ref]M. Cacciari, Il problema del sacro in Heidegger, in “Archivio di filosofia”, n. 1, 1989, p. 205 s.[/ref].

Questo termine assume il senso che conosciamo dalle parole del poeta a seguito di una trasformazione che lo colpisce e lo suggestiona; deve esserci qualche elemento che rapisce Hölderlin e che lo spinge a parlare di Sacro. Il Sacro non è il divino: essi sono distinti; il Sacro è ulteriore al divino, è “ ‘ciò’ da cui ek-siste”[ref]Ivi,  p. 206.[/ref], ciò che rimanda ad un’apertura originaria fondativa. La fedeltà alla verità che il Sacro rappresenta è il tratto più caratteristico della poetica di Hölderlin; in Come al dì di festa si legge:

L’attesi, l’ho veduto venire. Quello che vidi, il Sacro, sia la mia parola. La Natura più antica delle età, sopra gli Dei d’oriente e d’occidente, si è ora destata con un suono d’armi, e dall’Etere alto ai fondi abissi secondo leggi ferme, come un tempo quando la generò il sacro Caos sente in sé nuova quella che tutto crea, l’estasi ardente[ref]F. Hölderlin, Come quando al dì di festa, in Le liriche, cit., p. 571.[/ref]

Nella fedeltà alla parola di Hölderlin, il riconoscimento del Sacro conduce alla sua conservazione, la quale avviene nella rammemorazione, rimedio che lenisce l’assenza e la fuga degli dei.

Il luogo a partire dal quale il poeta deve nominare gli dei deve essere tale che coloro che vanno nominati gli restino lontani nella presenza del loro venire, restando, proprio in questo modo, coloro che vengono. Affinché questa lontananza si apra come lontananza, il poeta deve ritrarsi dalla vicinanza angustiante degli dei e “nominarli solo quietamente”[ref]M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 226.[/ref].

 In questa visione del mondo, il canto è inno all’avvenire e speranza del compimento, narrazione di una promessa che dice il ritorno.

Nessun poeta tedesco ha mai creduto come Hölderlin nella poesia e nella divina origine di essa, nessuno ne ha mai difeso con tanto fanatismo l’incondizionatezza, l’incontaminatezza di ogni cosa terrena […]. Perfino per Goethe la poesia non è che una parte della vita, mentre per Hölderlin essa è, incondizionatamente, il senso che per lui sta al di sopra della sua persona, è una necessità religiosa[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, trad. it. a cura di A. Oberdorfer, Sperling & Kupfer, Milano 1934, p. 49.[/ref].

Come suggerisce Heidegger sulla scia delle considerazioni di Bettina von Arnim,

il dio si sarebbe servito del poeta come freccia per scoccare il suo ritmo dall’arco e chi non lo percepisca e non vi si adegui non avrà mai né destino né virtù atletica da poeta e sarà troppo debole per potersi dare una forma, sia nel materiale, sia nella visione del mondo degli antichi, sia nel modo moderno di rappresentarci le nostre tendenze, e nessuna forma poetica gli si rivelerà. I poeti che riprendono scolasticamente forme date possono poi soltanto ripetere lo spirito già dato: essi si collocano come uccelli su un ramo dell’albero della lingua e vi si cullano e secondo il ritmo originario che esso ha nelle radici; ma un poeta di tal sorta non prenderà mai il volo quale aquila dello spirito, covata dalla spirito vivente della lingua[ref]M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 185.[/ref].

Forse proprio l’incondizionatezza della poesia, il vivere per la poesia, l’adempiere fino in fondo la sua “vocazione di poeta” fu una delle cause della follia che colpì Hölderlin, di quella follia “che doveva rinchiuderlo per anni come un sepolcro […] nel più puro linguaggio sofocleo e in una inesauribile ricchezza di profondi pensieri”[ref]F. Nietzsche, La mia vita, trad. it. a cura di M. Carpitella, Adelphi, Milano 1977, p. 106.[/ref].

Le tracce della malattia si manifestarono già a partire dal 1801. Nella sua patologia non c’è un crollo netto o un offuscamento della propria conoscenza di sé: tutt’altro. Se trova corrispondenza clinica l’analisi di Karl Jaspers per la quale la malattia di questo poeta è scandita da due fasi – una, intorno al 1801 che segna il passaggio dalla salute alla malattia, e un’altra, intorno al 1805-1806, per la quale si assiste allo sviluppo morboso della stessa – , proprio nel passaggio da una fase all’altra Hölderlin lotta contro l’ “accecamento” dello spirito, disciplinando se stesso per evitare che la frantumazione del sé prenda il sopravvento. Gradatamente la sua sensibilità diventa malata, “gli slanci della sua anima diventano esplosioni del corpo”[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 120.[/ref]. In una lettera del 1796, scritta al fratello, egli si paragonava ad una vecchia pianta in un vaso, caduta già una volta sulla strada e che avendo perdute le gemme, ferita alla radice, trapiantata ora in un terreno nuovo, a fatica, con attente cure, è stata salvata dal rinsecchire pur rimanendo ancora in parte avvizzita. E in un’altra missiva del 1799 scriveva: “I miei atti e le mie parole sono così spesso maldestri e assurdi, perché al pari delle oche sto con piedi piatti nell’acqua, sbattendo le ali impotenti verso il cielo greco”[ref]Lettera di Hölderlin in K. Jaspers, Genio e follia, trad. it. a cura di U. Galimberti, Rusconi, Milano 1990, p. 136.[/ref]. Questa conoscenza di sé nel periodo a cavallo della manifestazione evidente della malattia sarà sempre più chiara, così come sarà sempre più chiara la sua prigionia nella realtà. Per quarant’anni Hölderlin sarà trascinato nel vortice della pazzia, il suo sé diventerà Scardanelli; parlerà confusamente usando parole senza forma; eppure le liriche di questo periodo sono semplici, chiare, strofe brevi, generose nella descrizione; il tema privilegiato la Natura e le stagioni:

Talvolta siede al pianoforte e suona per ore e ore; ma non trova più sequenze, non ne cava una piena serie di suoni: solo un morto armonizzare, una ripetizione testarda, fanatica della stessa melodia povera e breve; e le unghie delle dita, cresciute selvaggiamente, battono spettralmente sui tasti scordati […]. Se qualcuno fa imprudentemente il nome di Hölderlin, Scardanelli scatta in un impeto d’ira. Se il colloquio si prolunga troppo il malato diventa a poco a poco inquieto e nervoso, perché lo sforzo del pensare e la tortura dell’intendere sono troppo grandi per il suo cervello stanco: e allora il visitatore lo lascia, accompagnato fino alla porta tra uno spavento d’inchini e di riverenze[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 135 s.[/ref].

* Il presente contributo è stato pubblicato per la prima volta in Estetica 2/2008, pp. 77-95 con il titolo “Ciò che resta lo fondano i poeti”. Fondamento e poesia tra Heidegger e Hölderlin. In questa sede si ripropone con delle lievi modifiche.

Bibliografia delle opere citate e di studi sul tema

M. Heidegger, Sentieri interrotti, trad. it. a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1997 M. Heidegger, Contributi alla filosofia (dall’Evento), trad. it. a cura di F. Volpi e A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007 M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, trad. it. a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988 M. Heidegger, Il principio di ragione, trad. it. a cura di G. Gurisatti e F. Volpi, Adelphi, Milano 1991 M. Heidegger, Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987 M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare, trad. it. a cura di A. Manni, Guanda, Parma 1987 M. Heidegger/E. Blochmann, Carteggio 1918-1969, trad. it. a cura di R. Brusotti, Il Melangolo, Genova 1991

F. Hölderlin, Le Liriche, trad. it. a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1993 F. Hölderlin, Iperione, trad. it. a cura di G. V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 1981 F. Hölderlin, Empedocle, trad. it. a cura di E. Pocar, Garzanti, Milano 1998 F. Hölderlin, Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996 F. Hölderlin, Sul tragico, trad. it. a cura di G. Pasquinelli e R. Bodei, Feltrinelli, Milano 1989

F. W. J. Schelling, Filosofia della rivelazione, trad. it. a cura di A. Bausola, Rusconi, Milano 1997, pp. 928 ss.

G. W. F. Hegel, Epistolario, a cura di P. Manganaro, Guida, Napoli 1983

F. Nietzsche, La mia vita, trad. it. a cura di M. Carpitella, Adelphi, Milano 1977

Aa. Vv., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979 Amoroso L., Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenber & Sellier, Torino 1993 Amoroso L., Nuovi movimenti del “colloquio” Heidegger-Hölderlin, in “Rivista di Estetica”, n. 5, 1980 Amoroso L., Quando domandare è (cor-)rispondere, in “Teoria”, n. 1, 1982 Bodei R., Hölderlin: la filosofia e il tragico, in F. Hölderlin, Sul tragico, trad. it. a cura di G. Pasquinelli e R. Bodei, Feltrinelli, Milano 1989 Bodei R., L’estetica del bello, Il Mulino, Bologna 1995 Cacciari M., Il problema del sacro in Heidegger, in “Archivio di filosofia”, n. 1, 1989 Caracciolo A., Prefazione in W. F. Otto, Theophania. Lo spirito della religione greca antica, trad. it. a cura di A. Caracciolo e M. Perotti Caracciolo, Il Melangolo, Genova 1983 Cassirer E., Hölderlin e l’idealismo tedesco, trad. it. a cura di A. Mecacci, Donzelli, Roma 2001 Chiodi P., L’estetica di Heidegger, in “Il Pensiero Critico”, 1954, n°. 9-10 Chiuchiù L., Soglia della bellezza. Hölderlin, in “Davar”, n. 3, 2006 Cvetaeva M., Il poeta e il tempo, trad. it. a cura di S. Vitale, Adelphi, Milano 1984 De alessi F., Heidegger lettore dei poeti, Rosenberg & Sellier, Torino 1991 Fabro C., Ontologia dell’arte nell’ultimo Heidegger, in “Giornale Critico della Filosofia Italiana”, n.° 31, 1952 Frank M., Il dio a venire. Lezioni sulla nuova mitologia, trad. it. a cura di F. Cuniberto, Einaudi, Torino 1994 Gadamer H. G., Interpretazioni di poeti, trad. it. dei cap. I e II a cura di M. Bonola e dei cap. III e IV a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1980 Giannatiempo Quinzio A., Influssi pietistici e istanze escatologiche nella poesia di Friedrich Hölderlin, in “Bailamme”, 1993, n°. 14 Givone S., Heidegger e la questione romantica, in “Aut Aut”, 1989, n°. 234 Guardini R., Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, trad. it. a cura di L. Tieck e G. Colombi, Morcelliana, Brescia 1995 Jaspers K., Genio e follia, trad. it. a cura di U. Galimberti, Rusconi, Milano 1990 Jaspers K., Genio e follia, trad. it. a cura di U. Galimberti, Rusconi, Milano 1990 Landolt  E., L’essere come ritmo o poesia nell’interpretazione heideggeriana di Hölderlin, in “Sicolorum Gymnasium,  1967 Mirri E., La resurrezione estetica del pensare, Bulzoni, Roma 1976 Mittner L., Storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1971, vol. II, tomo III Moretti G., Il poeta ferito. Hölderlin, Heidegger e la storia dell’essere, La Mandragora Editrice, 1997 Moretti G., Introduzione all’estetica del romanticismo tedesco, La Nuova Cultura 2007 Oberti E.,  Lineamenti di un’estetica di Heidegger in un saggio su Rilke, in “Rivista di filosofia neoscolastica”, n. 46, 1954 Otto W. F., Theophania. Lo spirito della religione greca antica, trad. it. a cura di A. Caracciolo e M. Perotti Caracciolo, Il Melangolo, Genova 1983 Pöggeler O., Hölderlin, Schelling und Hegel bei Heidegger, in “Heidegger Studien”, vol. 28, 1993 Vattimo G., Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Casale Monferrato 1989 Vattimo G., Heidegger e la poesia come tramonto del linguaggio, in Aa. Vv., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979 Verra V., Heidegger, Schelling e l’idealismo tedesco, in “Archivio di Filosofia”, 1974 Zweig S., La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, trad. it. a cura di A. Oberdorfer, Sperling & Kupfer, Milano 1934

Quale «Illuminismo»? Ragione, diritto d’esistenza e movimenti sociali

Il dibattito sollevato sulle pagine del quotidiano italiano «La Repubblica», nell’ormai lontano 2000 – dunque prima del 11/09/01 – sull’Illuminismo e la necessità di «nuovi Lumi» per il nostro tempo ha avuto una discreta risonanza non sui soli media, portando infine all’edizione del libretto a cura di E. Scalfari, Attualità dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza, 2001. Dalla distanza di ciò che nel frattempo è storicamente accaduto – Le rivoluzioni arabe, le nuove guerre in medio oriente, Daech ecc. – il tono del dibattito, tuttavia, non sembra uscire dal terreno di vecchi luoghi comuni su un’Età dei Lumi come «Età della Ragione» a tutto tondo, la cui immagine non tiene presente, anzitutto, il retaggio del processo storico di formazione della ratio illuministica e del suo rapporto al concetto di diritto. E del diritto dei popoli, in particolare.

Avere comunque iniziato a discutere di questi temi è stato un bene e il sintomo di un bisogno, nella sinistra italiana (e oltre), di fare chiarezza sulla propria provenienza, non solo ideale.  Si è parlato di Lumi che «non sono più di moda nel nostro secolo» (E. Scalfari, 8/12/2000) ma da riattivare, magari, chissà? con un’opera di marketing contro-contro-illuministica (eco della «critica della critica critica» di marxiana memoria?). Funzionerà? Ci manca, la bella «Ragione» del secolo decimottavo! da erigere contro integralismi, risorgenze superstiziose, nuovi assoggettamenti, particolarismi. D’accordo. Ma, come è stato notato (F. D’Agostini, Il Manifesto, 15 febbraio 2001), la filosofia (e il presente storico) «non ha il proprio futuro alle spalle». La déraison futura come la individueremo? Questo è un primo problema che riguarda un possibile «nuovo Illuminismo». Come ? Opponendo un Illuminista ideale, senz’altro seguace di Rawls o di un Kant habermasiano, ad un Torbido-Postmoderno, il primo ovviamente più simpatico del secondo (S. Maffettone)?

Da un lato, c’è la difesa “illuminata” di un’etica pubblica e la fiducia in un uso pratico della «ragione» (e che cos’è, qui, nel contesto dell’etica pubblica, ratio?), dall’altro il relativismo a-moralistico, scettico New-Age, del libertario preso all’interno del proprio clan. Troppo facile optare per il primo a scapito del secondo. Sono tentativi generosi di messa a fuoco, ma hanno i connotati delle caricature anti-storiche, implausibili per eccesso di riferimento all’oggi. Givone, ad esempio, sostiene che «il progetto illuminista qual è possibile ricavare dall’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert (…), risponde a una doppia esigenza: diffondere un sapere tecnico-scientifico e contrastare un sapere tradizionale giudicato retrivo, mitologico. Evidente il nesso tra questi due aspetti. E come non ammettere che il modello di conoscenza privilegiato, finisce col diventare esclusivo di tutti gli altri ? (…) qualcosa non ha funzionato nel progetto illuminista».

Non ci sembra un giudizio fondato: la tesi di Givone finisce col riproporre lo stereotipo dei lumi rovesciati in barbarie (Adorno-Horkheimer), da ri-rovesciare (chissà come) con un atto di buona (e crociana, idealistica) volontà. Stesso afflato idealistico si percepisce nei Lumi «deboli» di Gianni Vattimo o nel «cuore battente» per un Illuminismo sempre da ricuperare di Dahrendorf : sarebbe la ragione incompiuta dell’Enlightenment  (inglese) quella da perseguire, piuttosto che la Ragione-dea dei francesi «intesa come qualcosa di definitivo». Afferma infine, saggiamente, Scalfari: va smitizzata l’immagine di un’età dei Lumi come «una sorta di impero della Ragione astratta contro la concretezza della vita, delle emozioni, dei sentimenti». E ha mostrato nel Sogno di una rosa, che accompagna la riedizione a cura di Daria Galateria del Sogno di d’Alembert (Sellerio, Palermo, 1994), quanto sia necessaria una simile demitizzazione.

Ora, va spesa una parola di critica di queste posizioni, pure legittime e intelligenti, che tuttavia inquadrano idealisticamente il problema della ratio illuministica, senza riguardo alle forme e alle condizioni materiali del processo storico che la generano, ricollocandone appunto quelle varie forme in ciò che «illuminato» o «illuministico» (ancora) non è. Ragione è, in generale, la maniera in cui «si fa» una determinata cosa. Ratio, è metodo riconosciuto, in linea di principio da tutti, valido ed efficace, per compiere un’azione costruttrice, misuratrice delle cose. Dalla lingua corrente, nel latino classico Ratio medendi è «metodo di cura».  De temporis nostri studiorum ratione, «Sul metodo degli studi del nostro tempo», è il titolo di un celebre scritto anticartesiano con cui Vico propose un nuovo metodo per l’uso della storia.

In breve: la ragione, quella illuminista geneticamente, ha a che fare col fare. È conto, calcolo, prima; misura di quantità e di rapporti, interessi, vantaggi, utilità, poi. In un progressivo astrarsi, è maniera di concepire tutte queste cose, è capacità di raziocinarle, rifletterle, spiegarle: passarle al vaglio del pensiero (logos). In uno scarto ulteriore, la ratio è facoltà di capirsi, di conoscere i propri poteri e limiti (Kant). Il cammino di costruzione della ratio del fare dura da circa un millennio e mezzo, tempo di maturazione di una civiltà tecnologica (i greci e i latini si fermarono sulla soglia). Il processo d’autocomprensione invece è cosa recente. L’evoluzionista direbbe: è un processo adattativo che nasce per le mutate, recenti condizioni storico-biologiche nelle quali l’uomo tende a contenere gli esiti della razionalizzazione del mondo, al fine di renderli vantaggiosi rispetto alla condizione presente che minaccia anche esiti rovesciati, dopo decine di migliaia di anni di non-ragione.

Sta di fatto che l’Illuminismo in quanto momento storico concreto ha messo in moto l’ultima fase del processo, nella quale ci troviamo ora. Con la cosiddetta «Età dei Lumi» entra in scena la storia della ragione, storia di uomini inventori e produttori delle proprie esistenze (Engels), fuori dei miti delle origini e degli imperialismi dei poteri, uomini che s’interrogano (e lavorano) sui modi di gestire gli atti, le conseguenze della propria stessa razionalità. E ha prodotto, tale ragione nuova, due secoli fa, una Rivoluzione. Il nesso ragione illuministica-rivoluzione politica (dei diritti umani) è l’aspetto più vistosamente dimenticato nei contributi degli autori di Attualità dell’Illuminismo.

In nome di questa ragione produttrice d’esistenza, ad esempio, nell’aula dell’Assemblea Nazionale, a Parigi, il 2 dicembre 1792, Maximilien Robespierre pronunciò il suo celebre «discorso sulle sussistenze» che fondò il primato del diritto d’esistenza dei popoli sul diritto di proprietà. Qui possiamo individuare anche l’inizio di una nuova tradizione della ratio occidentale. Punto di arrivo della filosofia illuministica nel suo insieme e punto di partenza. Affermò Robespierre:

Nessuno ha il diritto di ammassare montagne di grano per trarne profitto, accanto al proprio simile che muore di fame. Qual è il primo scopo della società? Tener fermi i diritti imprescrittibili dell’uomo. E qual è il primo di questi diritti? Quello di esistere. La prima legge sociale è dunque quella che garantisce a tutti i membri della società i mezzi per esistere. Tutte le altre leggi sono subordinate a questa legge. La proprietà è stata istituita o garantita solo per cementarla: è innanzitutto per vivere che si hanno delle proprietà (…). Gli alimenti necessari all’uomo sono sacri quanto la vita stessa; tutto ciò che è indispensabile per conservarla è una proprietà comune alla società intera. Solo l’eccedente è proprietà individuale, abbandonato all’industria dei commercianti. Ogni speculazione mercantile che si faccia a spese del mio simile non è affatto un commercio, è un brigantaggio e un fratricidio!

 

Nel «diritto d’esistenza» di cui parlò Robespierre si può comprendere, oggi, il diritto ad una casa, ad un lavoro decente, insomma il diritto alla «felicità pubblica», per usare i termini della stessa filosofia illuministica settecentesca (Verri, Beccaria). Robespierre salì a capo del governo giacobino nel biennio 1793-94. Chi esercitò il «terrore» sotto la Rivoluzione? Vexata quæstio storiografica. Il «terrore» non lo esercitarono i soli giacobini ma, ancor prima, i controrivoluzionari armati e appoggiati dalle monarchie europee che quel diritto d’esistenza volevano, a tutti i costi, affossare. Le esperienze che seguiranno la caduta di Robespierre (1794) — Babeuf, Buonarroti, Congiura degli Eguali, bonapartismo, ecc.  — segnarono la nascita (una delle nascite) del movimento operaio internazionale, sull’onda dell’universalismo e del cosmopolitismo illuminista.

Per lo storico, certo, esistono tanti Illuminismi, tutti egualmente determinanti: quello delle corti, dei nobili riformatori, dei despoti illuminati, dei borghesi imprenditori, degli «artisti meccanici», dei filosofi naturali, dei libertini ecc. e quello dei rivoluzionari. Quale Illuminismo resta visibile ai nostri tempi? Il comun denominatore, sul terreno culturale, va cercato nel definitivo trionfo del diritto naturale – esistenza, libertà, solidarietà ecc. etsi Deus non daretur, «anche se Dio non ci fosse» – con la sua penetrazione, a partire dalla fine del Settecento, nella struttura delle istituzioni europee. Tale penetrazione rimane incompiuta, ancora oggi, per la maggior parte delle istituzioni nazionali del pianeta. Là dove è avvenuta, faticosamente, e pagata a caro prezzo dai filosofi, dagli intellettuali, dagli uomini delle classi lavoratrici, ciò è stato possibile anche senza rivoluzioni cruente, seguendo la spinta avviata dall’89, nel diritto.

Ma il problema «quale Illuminismo?» si mette meglio a fuoco inquadrandolo nella storia dell’ingresso definitivo delle masse — con le loro passioni «illuminate», emancipate — nell’agone politico-istituzionale. Dopo la Rivoluzione francese, l’intelligenza progressiva delle masse, gettando «più luce» (Goethe) sulla processualità del loro divenire, nel presente trovò realtà grazie ad una pratica razionale del diritto — inteso alla maniera del Discours des subsistances di Robespierre — che s’incorporava via via alle nuove istituzioni democratiche (fase storico-biologica adattativa della ratio). Tale pratica non era (e non è) contenibile nella sola idea di nazione, alla quale il diritto rivoluzionario, una volta istituzionalizzato, legò la propria origine. L’idea di Stato/Nazione —  universale laico (e borghese) che avrebbe «conciliato» e «superato» definitivamente i particolarismi (Hegel) — è oggi entrata in crisi. Il concetto stesso di «diritto» o di «diritti imprescrittibili dell’uomo», usciti vittoriosi dalla prima fase del processo adattativo, di conseguenza, vacillano scossi da potentati economici e localismi di varia natura.

Ciò nondimeno, la portata rivoluzionaria del diritto in quanto tale non s’è storicamente esaurita, qualora la s’intenda come la fase evolutiva, bio-politica, più avanzata della storia umana e dell’umanità tutta intera («globalizzata», come s’usa dire) , al di là dello sforzo di recupero di un ideale riconciliativo di Stato-Nazione. Fra luci ed ombre, si delinea qui il quadro mobilissimo dei nostri tempi, con i nuovi problemi aperti.

L’Illuminismo sembrerebbe ridursi, per gli intellettuali coinvolti nel dibattito di Scalfari, antecedente al 2001, ad un affare di moda, di preferenza verso questo o quello «stile di pensiero». Si tratta, secondo noi, piuttosto di una questione aperta che chiama in causa il concetto di lotta per il diritto e di progressiva estensibilità della sua portata laica e rivoluzionaria, contro quelle forze storiche che tale spinta di lotta vorrebbero, anche oggi, vedere estinta. Oggi, i Forum sociali e i movimenti riunitisi a Porto Alegre, le lotte dei sem terra, dei sans papier, dei contadini del Chiapas, degli operai italiani (articolo 18 del codice del lavoro) ed europei che tengono fermi i diritti del lavoro penosamente conquistati ecc., cos’altro sono (e saranno) se non lotte per il diritto d’esistenza? Quando parliamo – da intellettuali, da filosofi –  di Illuminismo, ci pare necessario dover ricordare, primariamente, il processo di adattamento bio-politico della ratio ai tempi, sempre nuovi, della critica della/alla «ragione presente» che si pretende data, fissata, istituzionalizzata una volta per tutte. E il pensiero va così agli illuministi più coerenti, ai grandi riformatori (Montesquieu, Beccaria), ai materialisti (Diderot, Helvétius, D’Holbach), agli enciclopedisti (D’Alembert, Voltaire ecc.), ai radicali (Meslier, Naigeon) e infine ai rivoluzionari del 1789-94 (Danton, Saint-Just, Robespierre, Fabre d’Eglantine, Hebert, Chaumette ecc.) che hanno fondato, nella prassi, il concetto del diritto e la sua ratio in divenire.

Il resto del discorso su «Lumi inattuali», alla moda o fuori moda è, per dirla con Hegel (Fenomenologia dello spirito, II, 6, b), «fatuità della cultura», «spirito estraniato a sé stesso».

La religione della libertà. Riflessioni su Carlo Azeglio Ciampi

A livello di principi e valori – meno, sotto il profilo dell’esercizio delle pratiche religiose – l’Italia, con la Costituzione del 1948, è stata fra i soggetti che più e meglio ha saputo valorizzare la religiosità umana, ricomprendendola tra i diritti inviolabili ed assistendola con uno specifico diritto: quello di professione di fede religiosa, in forma individuale e associata (art. 19 Cost.). Sotto il profilo, invece, dell’attuazione effettiva delle tutele e garanzie connesse alla libertà religiosa in una dimensione sociale plurale sempre più marcata – alla luce dei nuovi bisogni concreti da soddisfare originati in matrici culturali nuove (Islam), ma sempre più massivamente partecipi dello spazio politico nazionale ed europeo – assistiamo alla stentata emersione di un modello oggettivo di Stato laico che, incentrato sulla promozione delle libertà di religione di tutti, renda praticabile una politica «attuativa» della Costituzione quale luogo di affermazione e di equilibrato bilanciamento di valori essenziali per la vita delle istituzioni e della stessa società civile.Per leggere il testo integrale in formato PDF clicca: qui

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Punti di sintesi per un ragionamento.

 

La questione si pone a partire dalle forme di partecipazione democratica “diretta” (referendum, “rete”, e in un certo senso anche i sondaggi…) rispetto alle quali le perplessità circa la loro opportunità (vedi Brexit) sono spesso state motivate con argomenti di carattere “sociologico – culturale” (genericamente intese).Credo che questo sia certamente un profilo importante, ma non quello decisivo.Quello decisivo lo definirei “strutturale”, poiché riguarda la differente incidenza della “grandezza” spazio-temporale nella determinazione, definizione e identificazione della realtà, e della sua conseguente percezione, da parte dell’ uomo (per ora senza ulteriori specificazioni) .  Mi spiego.

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Multiculturalismo e dialogo interreligioso Brevi considerazioni di natura giuridica

Lo scopo di questa breve riflessione è quello di offrire all’attenzione del lettore alcuni spunti per una ricognizione giuridica attorno al tema, sempre più di grande attualità, del c.d. “dialogo interreligioso”. Questione da sempre tenuta in massima considerazione da parte della Chiesa post-Conciliare, a partire dalla “fiamma accesa ad Assisi” da Giovanni Paolo II (ottobre 1986), e oggi – soprattutto a seguito dell’uccisione di Padre Jacques Hamel, parroco della chiesa di Saint-Etienne-du Rouvray, vicino a Rouen (Normandia) – da Papa Francesco […]

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Penisola, arcipelago, deterritorializzazione. Dove va il filosofare italiano?

 

La natura storica della filosofia italiana si è divisa, da tempo, tra “deterritorializzazione” (R. Esposito) e “universalizzazione”. La storia della frammentazione dei comuni, all’epoca del Basso Medioevo prima e il destino delle divisioni interne, nonché della sottomissione a potenze straniere, dopo, ha fatto dell’Italia, anche dal punto di vista filosofico, un terreno di continue sperimentazioni per nuove sintesi riguardanti il senso del mondo. In primo luogo un senso della natura, poi della storia e della politica, maturati nel contesto della riscoperta delle arti e delle filosofie greco-romane, all’epoca del Rinascimento. Questo aspetto “deterritorializzato” e cosmopolita della filosofia italiana, incentrata sul senso della natura e della storia si è conservato fino ai nostri giorni in una maniera del tutto originale. Gli assi fondanti il filosofare italiano sono, infatti, rintracciabili all’interno dei principali centri geo-storici intorno a cui lo stesso filosofare si è deterritorializzato, ovvero le diverse “capitali” del pensiero italiano. Se ne possono reperire sei o sette: Roma, Milano, Torino, Napoli, Firenze – Pisa, Lecce – Bari, Calabria – Sicilia.

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Riflessioni e osservazioni sulla stagione che viviamo

Parlerò “fuori dai denti” e anche con espressioni “fuori dai denti”. La situazione internazionale sta avendo una accelerazione estremamente pericolosa.

1. La questione turca.
In questa si tocca con mano la pochezza del ceto governante europeo, che ora si straccia le vesti per la “vendetta” di Erdogan e lo minaccia di chiudere definitivamente le sue aspirazioni europeistiche. Non ha capito forse che “quello”, di queste minacce, “se ne sta fottendo”? Per anni i governanti europei hanno civettato con lui, fino a dargli in mano l’arma di ricatto del fenomeno migratorio, con quella stessa miopia che i medesimi governi ebbero negli anni ‘30 con Hitler. E Erdogan ha aspirazioni “imperiali” da sultano ottomano. La sua possibile intesa con Putin, altro aspirante “imperatore” (ex sovietico), chiuderà l’Europa in una morsa tra Mediterraneo a Sud-Est e Russia a Nord-Est. Se questa è una prospettiva estremamente possibile, Erdogan diventa una spina nel fianco della NATO e può ricattare chi vuole e sicuramente rimanere insensibile ai “richiami” dell’Europa. Qui poi un’altra ipocrisia: quella di condannare i colpi di Stato. Mieli che sul Corriere scrive che i cambi di governo avvengono sempre per via elettorale! Sì, certo, in regimi politici stabilmente democratici; ma quello di Erdogan lo era e lo è? o non era solo un regime? e basta!. E poi. La caduta di Saddam e Geddafi non sono stati forse colpi di Stato? E prima ancora: l’avvento della Repubblica in Italia non è stata preparata forse dalla Resistenza; il “plebiscito” è avvenuto quando il vecchio ordine era stato eliminato con la forza e perché la guerra è stata vinta! In questa vicenda si vede come il male europeo, la dipendenza dalle agenzie di rating con tutte le conseguenze nefaste che ha prodotto nella coscienza della gente e sulla relativa “qualità della vita”, sta conducendo ad una possibile implosione della Unione. Le chiacchere, insomma e purtroppo, stanno a zero. Il fatto è che non disponiamo da tempo di una classe dirigente di effettivo profilo “politico” e nel mondo è venuta meno quella istanza di dialogo e di pace che aveva alimentato la politica del dopoguerra, anche in presenza della “guerra fredda”. E’ una classe dirigente formatasi nel clima del dominio della negoziazione affaristica e del capitalismo finanziario, che vive il giorno per giorno. E’, infatti, il modello operativo affermatosi con la negoziazione affaristico-finanziaria, poiché essa realizza i suoi fini di lucro proprio nel “giorno per giorno”. L’unità di tempo non è quella della progettualità politica, ma quella delle “variazioni speculative” calcolate sull’immediato: il contingente, appunto. Il che si riverbera, ovviamente, anche nelle modalità di esecuzione della politica interna. Ma di questo tra poco.

2. La questione della democrazia partecipativa come “forma di governo” .
Sarò “politicamente scorretto”. Ogni forma di governo è valutabile non per ragioni “ontologiche”, ma per caratteristiche funzionali: il modello è efficace, quando riesce a fronteggiare le aspettative di ordine sociale proprie del paradigma del “politico”. Occorre, quindi, guardare al contesto “fattuale” nel quale va ad operare. Nelle democrazie il contesto di effettività che misura l’efficacia funzionale è quello rappresentato dalla “partecipazione”. Perché quest’ultima funzioni, sia come desiderio della gente di far sentire la propria voce (partecipazione al voto), sia come qualità del consenso-dissenso, occorre quella preliminare omogeneità dell’ambiente sociale, fatto di stabilità e diffusività di “visione del mondo”, nella quale valutazioni valoriali, culturali e identitarie, e le relative aspettative di vita, costituiscono un cemento che viene immediatamente vissuto, prima ancora che elaborato intellettualmente. Ne segue che la democrazia partecipativa è un modello “gestionale”, non fondativo (non lo è mai stato nella storia), ed è inidoneo a fronteggiare mutamenti che possono essere anche epocali. I mutamenti, quelli veri (vedi le rivoluzioni!), sono sempre stati compiuti da élites intellettuali, capaci di progettare per un tempo che vada oltre il semplice presente. E al popolo non è mai stato chiesto di votare; lo si chiede dopo: a mutamento avvenuto nel quadro di un costituita stabilità. Nel quadro, cioè, di una nuova “effettività”. Perché una democrazia partecipativa svolga il suo ruolo regolativo occorrono, allora, due condizioni di fatto: la prima, già detta, è quella di una sufficiente omogeneità sociale, che determini un’auto-comprensione identitaria sufficientemente stabile nella sua cornice esterna di riferimenti. La seconda, strettamente connessa, consiste nella presenza di enti intermedi (soprattutto i partiti nel senso vero della parola) come mezzi per realizzare “idealmente” la mediazione tra istanze individuali e bisogni collettivi costruiti certamente da diversi orizzonti ideali, ma all’interno di comuni regole del gioco.

3. Altra questione: il “mercato”.
Anche questo è un modello che, per essere positivamente efficace, ha bisogno di un contesto di fatto nel quale funzionare. Finora ci siamo scannati, nelle modalità espressive che le diverse sedi imponevano, nella polemica mercato privato / intervento pubblico. Oggi è una alternativa priva di senso interpretativo. Il punto è altrove. Mi spiego. Perché il mercato mostri la sua capacità economicamente regolativa occorre che, nei fatti, vi siano soggetti sufficientemente omogenei, per capacità produttiva e per regole imprenditoriali e gestionali, rispetto alle quali la disciplina del lavoro è parte integrante. In altre parole, perché il profitto sia un fine positivo soprattutto a fini sociali, deve realizzarsi tra soggetti pari e in un comune quadro di regole del gioco. Lo Stato nazionale, nel quale il mercato nacque nella “modernità” e si è sviluppato fino al XX secolo, fino ad essere invocato come toccasana delle economie dei paesi liberi ed anche come “ostacolo” per la realizzazione di una effettiva giustizia sociale ne è stata la cornice ordinamentale, sia interna che internazionale. A questo proposito, si tenga conto dell’importanza che ha avuto sulla stabilizzazione delle democrazie parlamentari del secondo dopoguerra quel riformismo che aveva come obiettivo la stabilità sociale attraverso la redistribuzione del reddito. La globalizzazione economica, spazzando via, nei fatti, i “confini” ha messo nel nulla la cornice-condizione delle “regole del gioco” e della sufficiente parità delle “squadre” che partecipano ad un medesimo campionato. La globalizzazione, allora, ha trasformato il mercato in una competizione a tutto campo nel quale l’unico fine dei contendenti è quello di diventare sempre più forti per essere competitivi e vincere. Che saltino le regole del gioco è la conseguenza logica della mutata situazione di fatto, con i riflessi ovvi sulle politiche sociali e del lavoro, che producono fragilità sociale per l’incertezza delle aspettative di vita dell’uomo comune. Insomma il nuovo mercato è una lotta a coltello, nel quale il più forte vince. Le regole? Si è mai visto che le norme abbiano davvero impedito l’affermarsi del “fatto”? Perché le norme realizzino la loro funzione regolativa occorre che vi sia una “credenza nella legalità” nell’ambiente che le ospita. Con la globalizzazione, che costituisce il tramonto del paradigma ordinamentale, le cose non stanno più cosi. L’equilibrio negoziale spinge i contendenti ad essere sempre più potenti; le regole non contano! 4.La questione italiana. La domanda è: come si riflette tutto questo sulla situazione italiana? (e non solo, ma mi occupo solo di noi). I sintomi li conosciamo: alto astensionismo, incertezza nell’interpretazione dei risultati elettorali: populismo, protesta, voglia di nuovo, crisi di un modello di sinistra, voglia di più sinistra, voglia di destra conservatrice e così via… Direi che occorra cambiare il punto di osservazione interpretativa e guardare a come si andato trasformato l’ambiente sociale italiano. Il dato che appare (almeno a me) è che quella italiana è non sia più una “società”, ma un semplice ambiente umano sfibrato. Le cause mi sembrano essere due. La prima. L’affermarsi di una diffidenza reciproca unita ad un integrale calcolo utilitaristico (aspetti che stanno rovinando soprattutto la crescita e la formazione umana e culturale dei giovani), a cominciare dai rapporti privati, ha fatto venir meno la voglia di stare insieme: l’esito è il radicarsi, nella mentalità comune, di un individualismo assoluto che ha come obiettivo il far fronte quotidianamente alla incertezza e precarietà della propria situazione personale. La mancanza di quel modello partitico, di cui ho detto sopra, impedisce che l’individualismo diffidente e competitivo possa trasformarsi in una rinnovata istanza di socialità, certamente arricchita dalle diverse “visioni del mondo”, e che si ripristini una “credenza nella legalità” che è andata perduta da tempo. Per esempio: quanti conoscono la parola “ordinamento”? Credo ben pochi, forse solo coloro che lo praticano per ragioni professionali; quando lo conoscono, e non sono solo esperti, invece, di micro-settori normativi (ma questo è ancora un altro discorso). Secondo punto. La partecipazione al voto del cittadino comune è determinata dalla percezione che egli ha del tempo e dello spazio che formano il proprio contesto di vita: è quel “quotidiano”, del quale ha percezione e quindi controllo. I tempi e gli spazi della politica sono “altri”: sono quelli, o meglio dovrebbero essere “altri”. Quelli propri della “progettualità”, che vanno oltre la percezione del quotidiano. Una classe effettivamente politica si misura propria sulla sua capacità di andare oltre il quotidiano ed elaborare una progettualità socio-politica. I Partiti “veri” servono a questo: a colmare lo scarto tra la percezione della realtà del cittadino comune ed la progettualità politica. Nell’epoca dei sondaggi e nella connessa trasformazione dei partiti in agenzie elettorali, votate ad inseguire il quotidiano, questa funzione è venuta meno, determinando quella solitudine dell’uomo comune, che non avverte più se stesso come cittadino. Resta attratto dalla possibilità di far sentire la propria voce, ma non più come appartenente ad una “società”, ma come individuo che fa quotidianamente i conti nella propria tasca. Insomma si afferma la politica dell’ “orto di casa” di casa propria. E questo vale per l’Italia come per l’Europa e anche per gli Stati Uniti. Questa è una delle cause della pochezza di una classe politica interna ed internazionale di cui hi detto sopra; che si aggiunge a quella prodotta dalla potenza direttiva delle agenzie di rating, che, sia pure per ragioni diverse, hanno ridotto la politica all’inseguimento del “profitto”, ovviamente nel quotidiano. Ancora come conseguenza, ne deriva l’aridità pragmatica dell’agire nel puro contingente, che dirige sia le scelte dell’uomo della strada, sia quelle del politico di professione. Un’ultima osservazione relativa al caso italiano. L’assenza di una appartenenza sociale emerge anche un altro fattore: l’anglofilia lessicale, soprattutto nel ceto governante, è la dimostrazione di una insipienza culturale. Una lingua, infatti, non è solo un fatto lessicale; è, assai diversamente, la trasformazione semantica di una cultura che si esprime in un modello di pensiero. La lingua inglese, nelle caratteristiche determinatesi soprattutto nel ‘900, veicola una visione del mondo economicistico-pragmatica e tecnologica del tutto “fuori” dalla visione del mondo europeo-continentale. Ne segue che l’anglofilia linguistica non è solo un imbastardimento lessicale, ma diviene un meticciato culturale, privato della propria “storia”, nel quale si resta colonizzati dalla cultura che si afferma attraverso la lingua. Chi frequenta i metodi referaggio universitari questo lo sperimenta continuamente. In definitiva, uno degli aspetti per i quali la politica evapora al rimorchio dei potentati finanziari è perché non ha più una sua identità culturale, testimoniata dalla lingua. Con una differenza, però, tra il caso italiano e quello degli altri paesi europei. Spagna, Francia e Germania non hanno rinunciato né imbastardito il proprio idioma nella trattazione degli affari interni; l’Italia, invece, usa l’Inglese per qualsiasi attività, sia pubblica che privata; anche le pubblicità commerciali o le insegne dei negozi parlano all’inglese. Questo è un altro e gravissimo indizio che non esiste più, nell’uomo comune, il senso di una appartenenza  sociale e di una consapevolezza storico-culturale.

Dis-integrazione europea, dalla piramide alla rete

1. Terrorismo e nuovo slancio.

Dopo i recenti, drammatici fatti terroristici, si è visto qui e lì, un rinnovato slancio solidaristico nell’intesa fra popoli occidentali ed una maggiore solidarietà all’interno dei vari Stati europei. Ad esempio, mi risulta si sia offerto alla Francia qualche sforamento del patto di stabilità per spese legate alla sicurezza. Eppure, se è indubbio che questo costituisca un dato positivo, è altrettanto vero che tutto ciò è ben lontano dal rappresentare un rilancio dell’integrazione europea – e, del resto, nessuno è giunto a conclusioni tanto assurde. Non è, infatti, né sarà mai possibile fondare o consolidare un’unione sulla paura. Non deve essere necessario sentirsi aggrediti da qualcosa di esterno per percepire di far parte d’un ordine comune e nessun gruppo deve aver bisogno d’un nemico per nutrire amicizia al proprio interno.

2. Crisi.

Pertanto, riflettere sull’Unione europea – piuttosto che cantare le lodi a qualcosa di compiuto – comporta purtroppo la necessità di soffermarsi su un’integrazione chiaramente in crisi. La crisi economica scoppiata ufficialmente nel 2008, infatti, non è stata importante soltanto per sé, nella sua capacità cioè di abbattere sull’Occidente una sferzata tale da contrarre i consumi e determinare una significativa ristrutturazione sociologica delle classi sociali, insieme alle loro abitudini di vita. La crisi economica ha prodotto anche un altro effetto, non meno grave del precedente. Essa, cioè, più profondamente, ha fatto emergere le difficoltà politico-strutturali dell’Unione Europea. La stessa maniera in cui quest’ultima ha affrontato la crisi, inoltre, ha messo a nudo in maniera chiara la fragilità della sua struttura non soltanto istituzionale ma anche – parallelamente – simbolico-culturale. Infatti, ben difficilmente, a mio parere, la crisi di integrazione europea può esser fatta risalire a motivazioni esclusivamente finanziarie, legate alla crisi dell’euro o alla questione complessa del debito sovrano dei paesi più deboli all’interno dell’Unione – eclatante il caso della Grecia e del braccio di ferro fra AlexīsTsipras e le Istituzioni europee -, quanto piuttosto, e la faccenda è più seria, ad una crisi di coesione e di fiducia da parte dei cittadini, emersa in maniera abbastanza chiara – con l’unica eccezione forse del voto italiano – alle ultime consultazioni di voto europeo. Il dato più significativo emerso dalla crisi – ciò che non ha fatto altro che potenziare gli effetti negativi della crisi stessa – è stato l’incertezza legata alla maniera di tenere insieme le grandi capitali finanziarie europee con le cosiddette periferie. Un dato si è imposto con chiara evidenza: la distanza piuttosto grande fra paesi con abitudini culturali e capacità economiche decisamente importanti e paesi che invece arrancavano – anche perché soltanto recentemente affrancati da sistemi non completamente democratici, e con abitudini clientelari decisamente diffuse. Inoltre, dato anch’esso piuttosto sconfortante, è venuto al pettine il problema della maniera fortemente problematica – partendo dalle premesse dell’Unione europea – in cui le istituzioni europee dovessero trattare la relazione fra economia e solidarietà all’interno dell’Unione. Nei casi più eclatanti – come nella già ricordata crisi greca – si è arrivati ad un passo dalla fuoriuscita o espulsione di un paese (e, ovviamente, nel caso della Grecia la fuoriuscita avrebbe avuto un valore storico-simbolico altissimo) dai paesi dell’Unione stessa. Una delle risposte più significative alla crisi è stata la stesura di un trattato, nel marzo 2012, un cosiddetto fiscal compact che costituisce una versione più severa – anche perché accompagnato da un pacchetto legislativo che prevede severe misure punitive nei confronti dei paesi “inadempienti” – degli accordi precedenti. Il significato simbolico del fiscal compact, tuttavia, va ampiamente al di là della sua, pur rilevante, incidenza concreta. Esso infatti, nella percezione più diffusa, ha significato la segregazione degli stati più deboli inchiodati a manovre di bilancio improntate all’austerity e fortemente penalizzanti nei confronti di mansioni il cui pieno svolgimento era apparso imprescindibile per un normale vivere civile. Sono fioccati così tagli alle scuole, alle università, alla sanità, alle pensioni e agli stipendi pubblici e a tutto ciò che da diversi decenni seguiva l’onda lunga inaugurata dalle politiche espansionistiche del welfare state. Sul piano simbolico, inoltre, il fiscal compact ha dato un durissimo scossone alle sovranità nazionali soprattutto dei paesi più deboli, costretti a circoscrivere le decisioni politiche all’interno di un alveo di agibilità legislativa decisamente ristretto. Bastano allora forse questi brevi cenni per far maturare l’idea che la crisi dell’UE non sia destinata ad andare nella direzione di facili risoluzioni. La mia convinzione – peraltro piuttosto diffusa anche come sentire comune all’interno dei popoli dell’Unione – è che, per fondare organismi politici e portarli avanti, sia necessaria la condivisione non egocentrica da parte dei pochi e che certamente, inoltre, non bastino a tal fine le rigide regole dell’economia che guardano agli stati come “società di capitali”.

3. Ritorno agli Stati nazionali?
Una delle soluzioni alternative è quella che viene prospettata dai movimenti e partiti anti-europeisti, ossia la fuoriuscita dall’Unione europea. Io credo che non sia questa la strada da seguire. Se si pensa, infatti, alla conformazione attuale della geopolitica a livello globale, si comprende agevolmente che è impossibile – venendo da una delusione europeistica – ritornare alla politica delle sovranità nazionali integrali. In questo senso, non è immaginabile né auspicabile, a breve, un ritorno agli Stati Nazionali. All’interno di un mondo complesso, come quello connotato dalla globalizzazione, è fin troppo facile supporre che la “disintegrazione” dell’Unione Europea potrebbe provocare danni mortali a degli Stati che da soli poco sono in grado di opporre ai giganti presenti oggi in ambito globale e che promettono di essere ancora più numerosi e potenti domani. Tutto ciò, mi sembra impossibile sul piano storico e assolutamente sconsigliabile sul piano politico-economico. Sarebbe abbastanza autodistruttivo, infatti, in un mondo strutturato sulla sovranità politico-militare di paesi che costituiscono veri e propri continenti, ritornare a forme politiche vecchie di secoli. Io direi, perciò, che per uscire da una crisi – piuttosto che proporre soluzioni emotive, populistiche o particolaristiche – occorra invece anzitutto comprenderla nei suoi presupposti. Ed è proprio questa, temo, l’operazione più impegnativa, poiché mentre gli effetti della crisi sono sotto gli occhi di tutti, le sue cause sono spesso lontane e, ancora più spesso, appaiono enigmatiche.

4. La sovranità dell’economia.
Dopo la fine della lunga fase che convenzionalmente definiamo di “guerra fredda”, il reaganismo e il thatcherismo ci hanno catapultato in una stagione storico-politica che – è noto a tutti – definiamo neo-liberale. Ora, non è possibile risalire qui alle cause che hanno provocato l’avvento di questo genere di visione del mondo, tutto fondato sull’ipertrofia dell’individuo, fin all’individualismo più radicale, e sulla contrazione estrema della presenza e dell’importanza dello Stato, con la perdita consequenziale di significato di nozioni quali solidarietà e giustizia sociale. Ciò che conta, dal mio punto di vista, è sottolineare che l’Unione Europea così come noi la conosciamo si è sviluppata proprio all’interno di questo orizzonte culturale e non c’è dubbio che il contesto l’abbia seriamente condizionata se non addirittura integralmente strutturata. Si tratta, tuttavia, a mio parere, di un contesto piuttosto misero. Se guardiamo all’Europa contemporanea, infatti, l’Europa delle comodità borghesi, della tecnologia e della piccineria individualistica chiusa all’interno di gruppi escludenti, l’Europa che non va a votare e che si dichiara orgogliosamente estranea alla politica, si ha davvero la sensazione che, arrivando a questo punto, ci siamo persi per strada qualcosa di importante. Abbiamo smarrito tante virtù – diciamolo francamente – che erano tipiche dei nostri padri: la concretezza, il coraggio virile, il senso lucido ma volitivo della tragicità della vita, la capacità di affrontarne i disagi e di gioire per la bellezza che si accompagna all’etica civile e alla responsabilità verso se stessi e verso le istituzioni. Mi chiedo, pertanto, se non siano proprio questi (non)valori, portati oggi al punto di massima estensione pratica, a costituire il rischio maggiore (non soltanto) per l’Unione Europea. Temo inoltre che, in un tempo che si vorrebbe secolarizzato e libero da qualsiasi divinità, permanga invece, e con una forza che non ha precedente storico, un imperativo religioso che non trova alcun dissidente degno di essere considerato. La religiosità del contemporaneo rischia di costituire un nuovo monoteismo – ma non è quello del Dio medioevale cristiano, bensì quello triste e oligarchico del grande (e piccolo) capitale. Ed è proprio questa divinità che ha creato e crea condizioni di guerra e non di pace all’interno del mondo contemporaneo e che, venendo all’Unione Europea, ha contribuito fortemente a determinare la crisi dell’integrazione, rendendo peraltro più difficili le possibili soluzioni. Se questo è lo status questionis, io direi allora che occorra volgere lo sguardo altrove e cercare di cogliere almeno qualche indicazione generale per uscire dalle aporie che ci sono davanti.

5. Siamo davvero individualisti?
La scelta a me sembra, pertanto, fra un’Europa che considera se stessa come una molteplicità di stati sovrani isolati gli uni dagli altri, uniti soltanto dall’appetito compatto e monolitico di tipo finanziario, e un’Europa capace, invece, di rifondarsi sulla base di un nuovo inizio che, attenzione, non potrà che essere rinvenuto nel nostro passato e nelle nostre radici. Il passato, infatti, non è un serbatoio ma una fonte. Una fonte che dà vita ad un corso d’acqua storico che perviene fino a noi. Occorre dunque, anzitutto ricordarsi che quella fonte – sia nella sua origine greca, sia nella fondazione moderna della nostra civiltà – era connaturata all’idea di una incessante ricerca e da sentimenti di speranza, lontanissimi dall’immagine di una civiltà soddisfatta dell’assoluta “idiozia” dei propri desideri materiali. La nostra civiltà, inoltre, si è da sempre caratterizzata in virtù di una peculiarità decisiva. Essa, cioè, si è perennemente posta come una forma culturale “particolare” che ha in sé l’”universale”. Nel nostro Occidente, di conseguenza, non c’è nulla che non abbia avuto e non abbia la vocazione ad interessare – fin talvolta ad inglobarla in sé – qualsiasi realtà posta esteriormente. D’altro canto, è vero anche il contrario: non c’è alcuna realtà identitaria nel nostro mondo che non sia suscettibile d’essere frammentabile in diverse realtà antagonistiche. In altre parole, non riusciamo a concepire differenze che non trovino una chiave di lettura unitaria, proprio mentre qualsiasi posizionamento troverà certamente una forma decostruttiva capace di metterla in crisi. In fondo, ciò di cui stiamo parlando non è soltanto la matrice della prassi storica (e del divenire) ma è anche l’essenza stessa della libertà e della democrazia. La cultura occidentale è diventata la forma di vita più forte del pianeta non per il suo integralismo, oggi economicistico, ma per la sua libertà e – vorrei dire una parola molto forte – per la sua iconoclastia. È diventata forte, cioè, per la sua portata democratica e perfino “anarchica” – per la sua capacità di emancipare gli individui e di considerare tutti, a prescindere dal genere e dagli orientamenti religiosi, ugualmente preziosi per la comunità. Siamo figli dell’illuminismo – tutti – e l’illuminismo poneva la ragione e non una fede – laica o secolare che sia – a sostegno della politica. Siamo eredi di una cultura che trova la differenza nell’identità e l’identità nella differenza. Raccogliamo dunque noi tutti il testimone di una civiltà che è andata anche edificando nei secoli la convinzione che occorre dotare gli uomini e i gruppi politici di diritti personali inviolabili. Siamo una cultura pluralistica che scorge nell’altro quella “potenza” insopprimibile se si vuole creare un divenire storico pregno di produzione – di senso e di prodotti insieme. Dove il senso stesso non può fare a meno della materialità a cui si accompagna e dove la materialità è già di per sé nutrita di senso spirituale. In questo quadro, mi sembra allora necessario fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità per emanciparci dal gretto provincialismo che sembra dettare legge ormai nelle egocentriche capitali (non solo) europee contemporanee. E lo dovremmo fare con la prudenza che sempre è richiesta quando le apparenze sembrano andare in direzione contraria, ma anche con la consapevolezza che la radice di ciò che oggi domina sul mondo è ancora ben strutturata nella pianta europea e che, se questo mondo non vuole inaridirsi fino alla distruzione, sarà destinato a ritornare inevitabilmente a nutrirsi nel terreno dal quale un giorno è germogliato. Del resto, mi sembra ovvio che non si possa soltanto fare affidamento su logiche di potenza economica. Se si vuole creare o consolidare un’identità politica, io credo, è assolutamente necessario indicare dei valori, un modo di vivere, una visione del mondo che valga la pena d’essere perseguita. E da questo punto di vista è proprio l’Europa io credo – entità che possiede da sempre una vocazione differenzialistica e universalistica insieme – che può offrire un contributo decisivo al mondo globalizzato. In questo senso, sono convinto che la politica, sia nazionale, sia internazionale, debba riprendere a praticare un valore come la lungimiranza. Senza la capacità di con-vergere su un fronte unico e guardando lontano, infatti, non c’è alcuna speranza di affrontare e vincere fenomeni che richiedono tutta la nostra attenzione e i nostri sforzi. Le politiche che, per inseguire il loro particolaristico interesse, mostrano una pervicace incapacità di guardare al domani e tengono conto soltanto della logica del consenso a breve termine sono viziate in partenza e gli effetti negativi non tarderanno a farsi sentire. È necessario perciò – ora più che mai – di pensare di nuovo ad una “grande politica” europea. E non c’è grande politica che non sia anche e soprattutto “lungimirante”.

6. Europa o America?
Un altro punto importante della mia riflessione fa riferimento direttamente alla nostra identità europea. Io penso che se volessimo creare un modello intorno al quale fondare una nuova “coesione” politico-culturale “continentale”, dovremmo smetterla di imitare le mode americane. Da numerosi decenni, ormai, non c’è costume americano – per non parlare dell’estensione pressoché generalizzata della lingua inglese – che non venga assunto ed applicato anche in Europa. Niente da dire: occorre sempre imparare dagli altri. Soprattutto da un popolo che può contare su una grande scienza, un’importante letteratura e un livello tecnologico di assoluta avanguardia. È il caso però di ricordare, io credo, che l’ansia di felicità – che in America è evidentissima – si basa su un eccesso di pragmatismo e di empirismo che, come tutti gli eccessi, non è condivisibile fino in fondo. E questo non soltanto per una questione – pure importante – di gusto. Sarebbe giusto, io credo, tenere conto del fatto che l’avversione tipicamente americana per le idee generali abbia contribuito a veicolare il mondo occidentale verso lo schiacciamento sul qui ed ora – uno schiacciamento al centro delle dimensioni storiche che ipertrofizza il presente e che, se non cancella, riduce fortemente il passato ed il futuro. In questo modo, tuttavia, l’umanità occidentale è andata via via decostruendo totalmente una visione della politica basata sugli “ideali”. Certo, esserci liberati dalle ideologie totalitarie, anche in Europa, soprattutto in Europa, è stato merito anche dell’America, ma questo non vuol dire che l’ideale in sé, che non è l’ideologia, debba essere cancellato – così come, purtroppo, vedo cancellata una concezione della politica davvero partecipata, all’interno di uno schema progettuale serio e capace di andare al di là della prossima campagna elettorale. Sulla distanza fra Europa e Stati Uniti ancora un altro punto. Se l’America è erede di lunghi secoli di multi-razzialità, va anche detto che il modello americano si basava comunque su un vettore culturale molto omogeneo che può essere identificato come un centauro con infinite braccia ma provvisto di un’unica testa mono-culturale. Inutile ricordare che tale testa era costituita dall’etnia WASP (White-Anglo-Saxon-Protestant). In vista delle pressanti necessità di integrazione culturale richieste dalla globalizzazione, mi chiedo pertanto se non possa essere maggiormente utile un modello quale quello europeo, da sempre differenzialistico, piuttosto che un modello americano tutto sommato “integralistico”. Se fosse vera quest’ipotesi, potremmo allora immaginare, un poco paradossalmente, l’Europa come il futuro dell’America.

7. Disintegrazione dal basso.
La crisi dell’Unione europea non è detto sia necessariamente una sciagura. Se la strada del ritorno agli Stati nazionali – come detto – non mi sembra praticabile, ciò non vuol dire che non vi siano altre possibilità. Per quanto mi riguarda, m’iscrivo all’interno di una koinè teorica che punta sulla ricostruzione di un contesto fortemente europeistico e tuttavia, questa volta, a partire non più da un centro verticale, collocato nelle grandi capitali europee, contrassegnate dalle frequenti derive anti-democratiche a cui siamo ormai abituati. L’Europa che verrà – io credo – dovrà essere orizzontale, democratica e partecipata. Piuttosto che costruita in maniera gerarchico-piramidale, essa dovrebbe avere pertanto la struttura di una fitta rete fatta di agenzie che si occupano di questioni concrete, collocate direttamente accanto ai cittadini, in maniera tale da ricevere dalle istituzioni sovranazionali soltanto indicazioni molto generali. In questa chiave, è chiaro che istituzioni come la Commissione europea o il Parlamento europeo dovrebbe andar via via perdendo il ruolo sovrano che, in qualche misura oggi detiene, per conservare soltanto funzioni non delegabili e che si tratta di andar progressivamente istituendo. Vorrei concludere, pertanto, il mio intervento con due citazioni da un autore che mi sembra collocato sulla mia medesima linea. È J. Zielonka che infatti scrive:   “Una tale evoluzione non annuncia la fine dell’integrazione europea; in realtà, annuncia un rilancio dell’integrazione, ma in forma e con una portata diverse. Si abbraccerà la diversità e si ridurrà la struttura gerarchica. Si darà maggiore risalto alle associazioni funzionali di carattere volontario e si punterà meno sulla governance territoriale. Gli Stati non saranno più i principali motori dell’integrazione, anzi questo ruolo sarà svolto dalle città, dalle regioni e dalle ONG europee, sostenute o persino incalzate dalle imprese e dai cittadini. La struttura della governance europea non assomiglierà a una piramide, bensì a una «scatola di giunzione» con numerosi punti di intersezione e di interazione”[ref]J. Zielonka, Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione Europea, Laterza, Roma-Bari 2015, pagg. 101-102.[/ref].   E ancora:   “Un’Europa polifonica, priva di un centro forte, ma con una grande varietà di reti funzionali integrative, non avrà la possibilità di «corrompere» e punire gli attori recalcitranti, condurre negoziati segreti e manovrare le istituzioni internazionali. Questo rimarrà probabilmente appannaggio degli stati nazionali. Invece, un’Europa siffatta sarebbe particolarmente adatta a creare strutture istituzionali e stabilire regole di comportamento legittimo. Potrebbe agire da potenza modello e dimostrare ad altri attori che le norme europee possono funzionare per loro e offrire incentivi per promuoverne l’adozione”[ref]Idem, pag. 103.[/ref].   Inutile dire che, oltre ad essere un’indicazione teorica, quella di cui ho appena parlato, è per me anche e soprattutto un auspicio, consapevole delle grandi difficoltà che la sua realizzazione comporta.