DISAVVENTURE SOCIALI DELLA LAICITÀ CIVILE NELLA SUA CULLA

DISAVVENTURE SOCIALI DELLA LAICITÀ CIVILE NELLA SUA CULLA

di Domenico Bilotti

Ci sono dei temi e dei principi che restano indissolubilmente legati all’ambito o all’ordinamento entro cui hanno avuto primigenio, o più interessante, sviluppo. La moderna teoria dei diritti umani è difficile da immaginare fuori dal diritto internazionale, che se ne è assunto (nonostante i limiti) le necessità di tutela, protezione e promozione. Quando si discorre di equità, si tende a riferirsi o al diritto delle Chiese cristiane – entro cui l’equità si era munita di un raffinato e sostenuto sostrato teologico – o alle giurisdizioni equitative di common law (meno legislazione scritta e generale, più dibattimento e vincolatività del precedente). Stando alle proiezioni ultime della dignità umana, anche attraverso l’elaborazione del costituente tunisino Fathi Triki che parla espressamente del “vivere insieme nella dignità”, essa non potrà che trovare nuovi percorsi e opportunità ermeneutiche nell’intercultura e nel diritto interculturale. Se invece si parla di laicità, l’attenzione si rivolge immediatamente al diritto francese, che in più stagioni, dall’illuminismo alla crisi dello Stato liberale, dallo Stato sociale fino al neocostituzionalismo, ne è stato singolare laboratorio. Proprio per questo giunge quanto mai interessante il recente lavoro di Vincenzo Pacillo, per i tipi di STEM Mucchi (Modena, 2024), “Per sempre giovane. La laicità nel dibattito culturale francese: scrittori e politica ecclesiastica da Victor Hugo a Annie Ernaux”.

Nonostante le ricche analessi e prolessi che animano in primo luogo la sezione bibliografica, il criterio espositivo seguito è essenzialmente quello cronologico. Negli ultimi capitoli, all’esposizione cronologica si aggiungono ulteriori snodi tematici che arricchiscono lo sguardo più esso si avvicina ai conflitti del presente.

Il prequel del volume, che dà conto di un titolo quanto mai appropriato, anticipa il primo capitolo nel quale la laicità appare dalla sua lenta ma costante nomogenesi nella Francia rivoluzionaria fino al separatismo al tempo della Comune di Parigi. Fa molto bene l’A. ad enfatizzare come la laicità in Francia non nasca nello specifico di una connotazione irreligiosa (molti dei costituenti repubblicani erano profondamente religiosi, dal punto di vista individuale), bensì prettamente anticlericale. I passaggi più stimolanti riguardano lo “strano” caso di Gustave Flaubert (p. 72), autore a volte in bilico tra secolarizzazione dei costumi, facezie borghesi e pubblico conservatore, nonché la menzione di George Sand, scrittrice simbolo di un femminismo moderato repubblicano, eppure messa all’Indice dei libri proibiti nel 1863. Le vicende giuridiche sono fondamentali per il dibattito intellettuale, perché movimentano l’opinione, e non è un caso che nel capitolo, più che la scomunica del cattolicesimo liberale parigino, emerga la reazione francese al Sillabo pontificio “degli errori della nostra età” (quella moderna, ça va sans dire) e al rapimento del piccolo Edgardo Mortara, di origine ebraica.

Il secondo capitolo tratta dell’Affaire Dreyfus in modo assolutamente originale. Se anche fortissime tradizioni intellettuali lo hanno narrato secondo binari particolarmente rodati (repubblica e socialismo, antisemitismo e conservatorismo, garantismo e mentalità inquisitoria), qui a venire alla luce è lo scontro tra il clericalismo e la difesa dei valori repubblicani. Esiste la possibilità di una difesa cattolica e totalmente orientata alla civile convivenza anche nei confronti della presunta spia, perlopiù nel montante sospetto antiebraico del tempo? La nota posizione di Zola e del J’accuse è rimessa al paragrafo conclusivo (p. 137). Colpisce molto, invece, lo spazio dato a Charles Péguy, a lungo recuperato soltanto in letture reazionarie per la sua natura di socialista irregolare, di pessimista morale acceso dall’amore per la carità (p. 123).

Il modo in cui Pacillo affronta il profilo di Zola è simile ad alcune considerazioni già svolte per la Sand: due profili che nei rispettivi contesti nascono intransigenti nell’argomentazione, ma fondamentalmente moderati in contenuti e forme, finiscono poi per approssimare posizioni socialiste. È come se a un certo punto la laicità scindesse la sua anima borghese-rivoluzionaria e fosse necessario scegliere radicalmente se collocarla nei valori della conservazione (lo spirito della repubblica, le istituzioni del colonialismo prima e dell’assimilazionismo poi) o della liberazione. L’intellettualità francese militante, a costo anche di talune semplificazioni che perdurano fino ai giorni nostri, ha dimostrato di propendere per questa seconda interpretazione. È che la laicità della metà del XIX secolo aveva come suo canale di manifestazione lo scontro etico-politico tra Stati e magistero della Chiesa cattolica. Quella odierna, dopo aver lungamente difeso il più netto separatismo, ha impattato il mondo delle migrazioni e si è dovuta chiedere come veicolare l’inclusione e a che prezzo far cedere essa rispetto ai rapporti tra norme costituzionali e precetti delle culture religiose.

Il terzo capitolo è legato alla Legge di separazione del 1905. Se si ha memoria storica del diritto e della politica continentale, è il punto formale più alto dell’emancipazione statale nei confronti dell’ingerenza ecclesiastica e tuttavia anche l’ammissione di non piena scindibilità dei due orizzonti di senso (la vigenza alsaziana del concordato napoleonico, a guerre finite, lo dimostrerà sul piano delle fonti; la sostanza era già chiara).

Come si diceva, il quarto e il quinto capitolo sono due delle sezioni più cospicue del volume. Nel secondo Ottocento italiano, anche sulla scorta dell’esempio francese, c’erano stati vari filoni di insoddisfazione verso la giustizia sociale assente nella legislazione liberale e il suo intrinseco moralismo, nonostante le pretese separatistiche. Il verismo, la scapigliatura, poco oltre i crepuscolari e gli ermetici, su posizioni antiretoriche, aderirono diversamente alle medesime criticità di impianto. Il ruolo di sentinella intellettuale della laicità in Francia non si spegne nella critica agli statuti borghesi, peraltro poi trionfanti, ma arriva alle speranze del costituzionalismo post-bellico e a tutte le incognite successive alla fine del mondo imperniato sui grandi blocchi noti del capitalismo e del sovietismo. Va pur detto che ad abbeverare questa costante mobilità critica sia a lungo stata l’autorappresentazione degli intellettuali francesi (e della grandeur governativa). Il pensarsi sempre caso a parte, caso speciale, stimola la superficialità pretenziosa degli isolazionisti, ma anche la duttilità critica degli spiriti liberi. C’è così spazio per la dolente “eresia” morale di Georges Bernanos, non meno che per la vitalità intellettuale di Jacques Maritain: modello laicale del Concilio Vaticano II e contemporaneamente sensibilità religiosa nella mai davvero raggiunta codificazione effettiva della cooperazione internazionale.

Il quinto capitolo fornisce ragguagli importanti sui protagonisti del dibattito nel secondo Novecento, sia che si tratti di singoli autori che di soggetti collettivi. Si veda, a partire da p. 259, l’attenzione rivolta al Partito Comunista Francese, unico, insieme a quello italiano, ad avere in Occidente un peso così determinante per almeno tre decenni nelle opinioni pubbliche nazionali. In Francia e in Italia, in effetti, il dibattito sulla laicità, di là dall’interesse multidisciplinare per esso di ecclesiasticisti, costituzionalisti o gius-filosofi, è stato nel concreto delle società civili anche un discorso sull’inclinazione e sull’azione della sinistra politica – tanto quella riformista quanto quella rivoluzionaria.

Ai titoli di coda, c’è spazio per tutte le questioni che hanno affollato l’agenda dell’ultimo decennio, senza però sempre conseguire la adeguata risposta di sistema. L’antiterrorismo è divenuto essenzialmente antifondamentalismo, con strumenti tuttavia emergenziali sovente in tensione rispetto alle libertà fondamentali. È emerso un nuovo femminismo decisamente anti-confessionale e  anti-convenzionale, nonostante le invocazioni femminili per il mantenimento delle culture di origine; hanno conseguito la ribalta le pose a volte estetizzanti degli intellettuali di grido, come Michel Onfray, nonostante l’oggettivo interesse di alcune loro posizioni.

Questo diffuso itinerario concettuale ha il merito di essere condotto con metodo giuridico e ricorrendo in misura determinante alle fonti letterarie di cui si abbevera. È come se il filone di studi chiamato “diritto e letteratura”, o “law & literature” (a tacere degli ambiti più ristretti che sotto la sua egida sono nati), fosse giunto a rivendicare la sua quarta dimensione. Dopo la base (l’ontologia: oggetto della materia), l’altezza (l’epistemologia: il discorso sul suo sapere scientifico) e il volume (la deontologia: il dover essere delle sue opportunità di studio), sembra arrivato il momento del “tempo”: la capacità del diritto e della letteratura di convergere sugli effetti sostanziali di lunga durata. La posta in gioco non appare la reciproca coabitazione accademica di umanisti e giuristi, di letterati e filosofi, di processualisti e sostanzialisti. C’è piuttosto in ballo la costruzione materiale e la costituzione formale di una civiltà della giustizia. Per quanto tante vicende ultime ce ne suggeriscano irrimediabilmente distanti, è forse corretto affermare che in essa, certo in vesti nuove e misurando problematiche diverse, la laicità non possa che restare “giovane”, centrale.

 

La visita e altri racconti dagli anni Trenta – Recensione

La visita e altri racconti dagli anni Trenta 
recensione di Mario Reale

Ho trovato molto belli (fondandomi solo sul mio gusto e una lunga carriera di lettore) i racconti di Bruno Tobia, raccolti in La visita e altri racconti dagli anni Trenta, Pref. di Vittorio Vidotto, Gemma Edizioni, 2024*. Sono amico fraterno da tanti anni di Bruno (perciò lo chiamerò semplicemente così) e spero tuttavia che l’amicizia non faccia velo al mio giudizio. Bruno è stato professore di Storia contemporanea alla «Sapienza» di Roma sobriamente ritirandosene anzitempo: ed è chiaro allora che non può non esserci un’intersezione, quanto meno, tra la vocazione e il mestiere di storico da un lato e, dall’altro, questi racconti che tutti sono vissuti di storia «contemporanea» a opera di mani veramente esperte e fini. Bruno fa dono al lettore, in fondo al libro, di una scheda di «Note di Storia», destinate a richiamare in breve gli eventi di cui i racconti parlano; devo dire la verità: non mi sarebbe spiaciuto se fossero state ancor più estese (la più lunga non arriva a una pagina), e che ci fosse stato posto nel libro anche per qualche riproduzione di quadri e scorci di vie. Anche le situazioni narrative in sé più definite e compiute prendono ulteriore luce e forza dalla conoscenza o la rammemorazione di luoghi, eventi e figure nella cui materia il racconto è originariamente iscritto: come in una fantasia sempre al fondo guidata da una sinergica «realtà», che ci trasmette il senso e l’«odore» di un’età. Da parte del lettore c’è come uno stupore nell’avere scovato un libro così: pubblicato da un piccolo editore di provincia, elegante, robustoso e forte come manufatto, reasonably cheap, che dà da pensare, con una straordinaria inventiva e una scrittura colta e raffinata eppure priva di compiacenza da prosa d’arte, basata piuttosto sulla sottrazione e sulla vittoria della narrazione.

I racconti vari «dagli anni Trenta» hanno tra loro qualche filo di continuità o una cornice tematica? Bruno prova a dir la cosa in questo modo: tutti i personaggi hanno «il medesimo destino di una vita che si frantuma rovinosamente». È giusto, ma forse la traccia pecca di qualche pessimismo, se è vero che la morte prende senso dalla vita, ed è di questo che dobbiamo soprattutto occuparci. In realtà – e qui sta uno dei suoi titoli di pregio – il libro di Bruno dispone di molti argomenti e non ne impone alcuno: sta al lettore scegliere, tra tanti, i suoi contenuti, la sua materia preferita. I temi che più mi hanno colpito e di cui mi occuperò sono: 1) il bello e l’arte; 2) il fascismo tra politica e storia. Aggiungerei poi un terzo motivo, «passante», che è la predilezione di Bruno per figure e concetti che stiano nel segno dell’ambiguità, dell’equivocità e della doppiezza, quale è testimoniata per esempio, nel racconto «Il Cenacolo», nell’enigmatica figura e postura di Giuda, l’apostolo traditore e reietto, ma insieme anche particolarmente amato, con Giovanni, da Cristo, che lo fa partecipe dei suoi disegni e delle future cose.

1) Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, La Visita, si concentrano tutti i temi che abbiamo richiamato: il Grundakkord sul fascismo, l’arte che prorompe da tutti i lati, la sinistra ambiguità dello scioglimento finale. Il giovane protagonista esce di casa, prende il tram e dal finestrino guarda avidamente la vita che scorre intorno a lui per carpirne, inosservato, l’anima intima, segreta e quasi riservata solo a lui delle cose. Ogni minimo aspetto della realtà viene penetrato, sezionato. Bruno possiede uno speciale sguardo fotografico, pittorico, che, per estensione, come accadde a Pasolini, potrebbe rivelarsi, in una sua particolare accezione, anche cinematografico. Nella fenomenologia si chiama «occhio intenzionato a…» e, aggiunge giustamente Bruno, «prima di ogni riflessione dell’intelletto». Viene in mente quel che tanto tempo fa ci appassionò e ci fece discutere: la tematica del cosiddetto «œil vivant»: un’espressione suggerita da Rousseau, quando nella Nouvelle Héloïse dice in esergo: scambierei l’intero mio essere per diventare tutto e solo un œilvivant, fattosi organo à part entière, quasi fosse una delle «membra pensanti» di Pascal, che hanno acquistato, ognuna, esemplarmente la mano, piena autonomia di pensare e volere. Non mi occuperò ora né del magnifico libro di JeanStarobinski in due tomi (1961) che per titolo ha proprio L’œil vivant; né degli autori e le correnti che negli anni ’60-’70 del secolo scorso furono vicini a questo movimento: da Bataille a Merlau-Ponty, dall’École du regard al Nouveau roman di Robe-Grillet, Butor, in Italia anche di Calvino del Se una notte …, ecc. Senza fare troppi esempi, mi limito a ricordare due racconti di Bruno: «Il Cenacolo», di cui subito dirò, e «Il Censore», dove il fluire degli eventi, se mai è iniziato, s’impaluda e s’irrigidisce in una scena che non ha più seguito, di ferma e insuperabile enigmaticità; ma senza dimenticare gli interni, le cose e gli scorci di città, come quelli di Berlino che si aprono dinanzi a Dietrich, il conducente di tram del tremendo e affannoso racconto «La corsa».

Ne «Il cenacolo» è protagonista dapprima proprio e solo l’arte, attraverso le lezioni di Pietro Toesca, un importante storico della produzione d’arte medievale e moderna, nonché, tramite l’uso della fotografia, innovatore della riproducibilità artistica. Il giovane Giulio, crocevia d’ogni ambiguità, frequenta le lezioni di Toesca su Taddeo Gaddi, un giottesco «maggiore» del ‘300, esaltandone, per esempio ne L’Apparizione degli angeli ai pastori, il «realismo estremo» trasfigurato – quasi una dichiarazione stilistica – dal mistero dell’Annuncio. Ma è soprattutto con il Cenacolo di Santa Croce, sempre di Gaddi, che si ha la lezione più densa e significativa di Toesca. La liaison sta qui nel fatto che Giulio, al pari di Giuda, è al tempo stesso parte intima di un piccolo cenacolo antifascista e suo reietto traditore.

Chi legga oggi nei cosiddetti «Vangeli apocrifi» il Vangelo di Giuda, ritrovato nella cosiddetta Biblioteca gnosticadi Nag Hammadi, vi rinviene già tutte le ambigue suggestioni circolate intorno a questo apostolo: amatissimo, con Giovanni, da Cristo e suo speciale confidente, che solo sa, in pieno senso, a differenza degli altri discepoli, chi è il Nazareno, e quali saranno, ancor prima della Pasqua, le sue finali vicende. La doppiezza, così presente nella narrazione di Bruno, la raffigurazione dell’uomo come un essere intrinsecamente ambiguo, trova qui la sua acme, nel punto dove è necessario che il sangue sia versato perché l’amore trionfi, o si abbia quell’Abgrund di «perfidia che genera salvezza», proprio mentre induce irrisolvibili dubbi sulla colpa e sul merito. Ma già a quel tempo, come Bruno segnala, Giulio poteva leggere su Giuda Iscariota, il traditore reietto fino a punto da sacrificare egli stesso la sua vita, l’appena uscito e curioso libro di Lanza del Vasto (Laterza 1938, coll. ‘Studi religiosi ed esoterici’: come si vede, mentre non è vero che Croce spadroneggiasse nella «sua» casa editrice barese, è attendibile dire che l’esoterismo fosse ancora un segno dello Zeitgeist). Solo la bellezza sembra sottrarsi così al tenace velo dell’ambiguità che incombe sulle cose come una minaccia pur oltre la duplice, e anzi triplice personalità di Giulio: l’unico luogo dove per un momento c’è trasparenza senza ostacolo, luminosa, piena e inconcussa verità. Ma il tempo era così pieno di ferro e fuoco, da conferire persino all’arte, sotto l’urgenza di più rudi categorie, precaria labilità: sebbene è anche vero che, nel segno ancora una volta dell’ambiguità, nel 1941 il giovane Pasolini poteva ascoltare in un’aula universitaria di via Zamboni a Bologna le lezioni di Roberto Longhi.

Poco più di dieci anni fa Bruno pubblicò un elegante (e alquanto perfido) libro fotografico, con uno scritto di Fabio Stassi, sulla ‘Sapienza’, l’università di Roma dove egli ha studiato e sempre insegnato. Non c’è ombra umana nelle fotografie di quest’opera, nulla di ciò che concerne i pomposi, e con Minerva anche guerreschi, edifici esterni, i viali brulicanti di studenti, a tema essendo appunto «la città nascosta»: angoli e sotto scale, luci, pietre e qualche fregio. Sembra qui che l’ambiguità, di cui ho detto, si proietti sull’istituzione stessa scelta da Bruno, che tiene insieme grandezze e miserie, creatività e mortificanti pratiche burocratiche, da consegnare alla fine al silenzio.

Ma se la tematica dell’œil vivant finisce nella consumazione del racconto, anche imbarazzante nella sua derivaantinarrativa, antiumanistica e oggettivistica, fino a costeggiare una sorta di strutturale positivismo logico del racconto e un’austera fenomenologia, risolti essenzialmente nell’imperturbabilità delle cose, in Bruno c’è di più e di meglio che non far tacere nella dissolvenza ogni altra voce o presenza che non siano gli oggetti o le vie. Vale a dire che – fuggendo le secche di una radicale poetica delle dissolventi e trascorse figure umane fissate dal suo œil vivant – la narrazione di Bruno si apre insieme a un massimo di sym-patheia, di vicinanza agli uomini, al loro divenire e alla loro sofferenza – gli oggetti e le vie frequentate dalla «feccia di Romolo» valendo allora come ambiente umano, fatto di passioni, dolore e dominanti umori. Proprio in questo l’occhio di Bruno è maestro: freddo osservatore e insieme vivo partecipante di ciò che vede. Quale che sia il giudizio sugli uomini e la loro storia, questa condivisione di sensi umani, speciale solidarietà con il dolore a Bruno non viene mai meno.

2) Nell’altro capo cui abbiamo detto di volerci restringere, quello storico-politico, Bruno, se lo prefigga o no, a parer mio vuol anche cogliere qualcosa della natura del fascismo: un fenomeno aberrante, eppure, come ogni storia crocianamente intesa, non consegnabile interamente alla negatività di oppressiva e nuova tirannia, a una storia comandata dalla Dekadenzidee. Anche Adorno e Horkheimer, a partire dalla Dialettica dell’Illuminismo, andando oltre i soli problemi dell’emancipazione, si chiesero: ma cosa tenne insieme durante i lunghi secoli di oppressione la storia dell’umanità? Su che si fondò un sia pur tenue equilibrio capace di assicurare durata nel tempo? (Conosco in tema di continuità di questa radicale, inusitata domanda solo il caso, peraltro inconsapevole di una tale precedenza, dei primi numeri, in particolare 1962-1963, de «La rivista trimestrale» di Franco Rodano e Claudio Napoleoni, con il lavoro sulla figura del «signore» e la lunghissima età signorile, quando, come aveva paradossalmente scritto Aristotele, l’interesse dei padroni e dei servi era «lo stesso»).

Naturalmente, quest’ombra o margine di valore dev’essere precisato, puntellato di riserve e  limitato e circoscritto nel tempo: nei racconti Bruno mi pare che coincida con quella che sommariamente è stata detta l’«età del consenso» (1929-1936); non i barbari e violenti inizi, dunque, non dopo il truculento assassinio di Matteotti, dove la brutalità stava appena sotto qualche colore di ordine, e infine, non certamente e con ogni valore periodizzante, quando, nei prodromi oramai della guerra, il fascismo, potenziando il peggio della sua storia, diventò, in un modo che ancor ci offende, servile e talora persino trascurabile appendice del nazismo. I racconti di Bruno si collocano quasi tutti in questo ristretto arco temporale, dove i Fronti popolari sono l’acme e insieme la fine di una tregua, con forte senso del drammatico tempo ad quem.

Per capire cosa il fascismo è stato, bisogna cercar di dire anzitutto cosa non è stato, il suo esterno prossimo, che nel nostro caso è il nazismo. Bruno dà del nazismo una definizione a parer mio giustissima, come di mostruoso organismo interamente pensato tutto e solo per la guerra: quella dei signori, in primo luogo contro ebrei, ma anche zingari, omosessuali e comunisti. Il fascismo è in qualche modo simile a ciò, è riportabile al costitutivo e totale telos della guerra? Sebbene sempre prossimo ai conflitti armati, da essi attraversato – dalla carneficina della Grande Guerra, da cui è nato, alla crisi economica e alle riparazioni, che la guerra preparano, alle avventure coloniali con l’impresa etiopica e la ragion politica della partecipazione alla guerra di Spagna – mi pare che il fascismo abbia mantenuto per un tratto, fino al suo suicidio, un carattere differenziale rispetto al nazismo, la guerra essendo, se non un accidente, certo non un destino pensato cioè iscritto inesorabilmente nella sua propria natura. A questa vicinanza del fascismo alla guerra, senza che essa divenga, in un certo tempo, scelta della sua ineluttabilità, a questi chiaroscuri di ombre e qualche chiarore, a questa ambiguità si possono riportare altre e del tutto diverse duplicità, che sembrano avvolgere ogni cosa.

È il caso per esempio, anticipando un po’ il nostro discorso, della tanto deplorata «doppiezza» di Togliatti e del suo partito che, nonostante i loro meriti democratici, di carte fondamentali e istituti, di nuovi diritti e garanzie mai trasgrediti di libertà e portafogli non toccati, continua a risuonare nel basso continuo di molti. I comunisti vissero sulla loro pelle e senza troppi intellettualismi, un audace e radicale liberalismo, come invocazione alla libertà di movimento, di parola, di organizzazione, di necessità della vita, insieme a una viva partecipazione alla realtà delle masse, all’assetto complessivo della società e al compito di organizzazione, attraverso il partito (che non è un’aberrazione, ma il principale segno della democrazia moderna), un difficile rapporto, ancor oggi irrisolto, tra il diritto dei singoli e quello della comunità (la comprensibilità del partito, per mia personale esperienza, era problema che travagliava il liberale Norberto Bobbio).

I vecchi comunisti che ho conosciuto parlavano – fuor della propaganda certo –  della libertà e della loro vicinanza alla grande politica del «New deal» rooseveltiano cui si legava il quadro delle misure economiche, del rapporto tra politica ed economia. Il comunismo sovietico apparteneva piuttosto a una complessa e travagliata continuità, a un esercito di riserva adatto, a seguire Lenin, ai «punti più bassi», che poteva e doveva sostenere le occidentali punte avanzate; né Togliatti mostrò mai, dopo la guerra, di voler stabilire un netto legame con l’URSS, affidando l’Italia al «soviettismo», a uno sviluppo economico di guerra e a libertà arretrate.

Comunque, si diceva, l’ambiguità del fascismo si è presentata per un tempo che è scaduta abbastanza presto. Ne «Il Cenacolo» c’è, subito dopo l’Anschluss dell’Austria alla Germania, un teso e perfido colloquio tra padre e figlio –  imbarazzato a difendere la sua maschera di antifascista – sulla diversità del Mussolini del ‘38 da quello del ‘34. Se non si era venduta alla Germania – vi si legge – l’Italia era pur rimasta impaniata nella sua stessa politica quando era giunta, perdendo la sua «rendita di posizione», al giro di boa di legarsi ineluttabilmente alla sponda tedesca, quasi fossero veramente «fatali destini». Altro che spartirsi sfere d’influenza nel Mediterraneo! Si trattava in effetti di un peccato non più redimibile, come la differenza tra bianchi e afroamericani in USA che per Tocqueville poteva sì essere eliminata dalla legge, ma, tragicamente, non dal costume profondo né dai sentimenti più radicati degli uomini.

Tra arte e politica si dipana il racconto «La visita», che già è stato ricordato. Il giovane protagonista, di modesta cultura e umili origini ma di convinta fede nella «Rivoluzione» compiuta dal fascismo, avendo vinto un concorso di custode al museo di Villa Borghese a Roma, passa le sue giornate nello straordinario e accogliente posto di lavoro, trovando nello studio dei grandi dell’arte moderna motivo di crescita umana e culturale, di raffinamento; incontrando qui anche il grande amore della sua vita: una giovane ebrea di alta borghesia, studiosa universitaria di Storia dell’arte e presto incinta di lui. Il mestiere di guardiania di tante bellezze riempie il giovane d’orgoglio e i genitori di stupita soddisfazione: quasi la cura a un prezioso segreto rivelato solo a loro. Il futuro volge da ogni lato al bello, né il «Regime» sembra in alcun modo contrastare o intralciare tale felice sorte. Il fascismo sembra guidare dall’alto e tutt’intorno questa promozione culturale e sociale, coronata dall’amore. Né la differenza di classe, di cultura e di abitudini tra lui e la famiglia di quella che è diventata la sua compagna pare in alcun modo intralciare la felice congiuntura in cui la sua vita si va assestando, salvo ancora a dichiararsi dinanzi ai genitori di lei, essendo del resto già tutto fissato, il giorno e l’ora dell’incontro.

Il fascismo è, talvolta, anche questo: stemperamento delle più dure barriere di classe; unità certo anche coatta, ma al cui cospetto, come nel Leviatano di Hobbes, tutti sono egualmente servi; sperimentata convinzione che l’Uno al potere riesca più «democratico» e disposto all’eguaglianza di quanto non siano i «molti» padroni oligarchici, dove ognuno ha il suo «sovrano»; riguardi sì per i vecchi ceti dirigenti, ma a condizione che tutti indossino, come di fatto puntualmente accadeva, la camicia nera.

Anche la dinoccolata (e immaginiamo un po’ ironica) figura di Ranuccio Bianchi Bandinelli, parente di un papa e di nobili governanti antichi di Siena, nel racconto di Bruno fa capolino perché sapientemente scelto dal ministro competente nel 1938 come straordinaria guida di lusso di Hitler e Mussolini al Museo («Sehen Sie, meine Herren…»). Hitler «ricambiava» la «visita» di Mussolini, avvenuta mesi prima, nel 1937, in Germania, e questo movimento di va e vieni, come un faticoso addio, s’iscrive bene in una situazione di incerte classi e di rimescolati lombi nobiliari. Il Duce somiglia qui, forse per una volta, a Cosimo il Vecchio, che diceva bastargli un po’ di panno fino per crearsi da sé la nobiltà di cui aveva bisogno.

E ciò, nonostante che Bianchi-Bandinelli (dei conti Paparoni) – di straordinaria cultura archeologica e di storia dell’arte antica, nonché del generale rapporto tra arte e società, di precoce carriera universitaria, in possesso di un fluente tedesco appreso dal ramo materno – avesse cominciato già giovanissimo la sua carriera di ribelle «istituzionale», rifiutando, subito dopo il servizio militare e la frequenza dell’Accademia torinese, i gradi di ufficiale. Figure poste al di là delle classi, che pure ben conoscevano, scegliendo la propria parte: come Engels che si vantava di essere il più capace in tutta Europa a cucinare le aragoste o di andare a cavallo meglio di ogni altro a caccia di volpi. Tra l’altro Bianchi Bandinelli, niente affatto antifascista solo dopo il Fascismo, aveva pensato, in occasione della «visita», insieme a molti altri o a piccoli gruppi, specie comunisti, di cogliere, indipendentemente l’uno dall’altro, l’irripetibile occasione di mettere in atto, con un colpo solo, un complotto contro i due despoti riuniti.

 Ne «La visita», il quadro è smosso, funestato e sinistrato, dal Fascismo che, con le sue straordinarie e imperiose esigenze di regime, viene meno a quella sicurezza e protezione che prima in qualche modo assicurava. Hitler è a Roma e con Mussolini verrà il giorno dopo a visitare proprio il Museo di Villa Borghese. L’evento irrompe e sconvolge mortalmente il tran-tran della vita di tutti i giorni; e – non concepibile forse con tanta rigidezza sotto altri regimi politici – è circondato da eccezionali misure di sicurezza, tali da sequestrare nel silenzio tutti, con il divieto agli impiegati del Museo finanche di comunicare con l’esterno parlando al telefono per dire che non sarebbero tornati la notte a casa. Lo sgomento e l’ansia del giovane sono tesi fino allo sfinimento e allo svenimento, fino a quando, a tarda sera del giorno dopo, una volta liberato, riesce a raggiungere, in piazza Mincio, nell’agiato quartiere Coppedé, la casa della ragazza, dove trova però solo spaventoso silenzio e assenza, tuoni e buio, rovina e morte: quasi che «una gigantesca bandiera uncinata avvolgesse come un sudario il corpo sanguinante dalla mia amata».

È necessario ora rispondere subito a un’obiezione che forse si è presentata al lettore: ma come mi è venuto in mente di parlare, proprio qui e oggi, con gli attuali governanti che abbiamo al potere, di parziale sia pur limitata e contraddetta, verità nel fascismo? Ripeto anzitutto che questa affermazione riguarda solo, circondata di filo spinato, una relativa sosta nell’ambito delle classi o del privato, una mera derivazione dalla complessa e generale politica del fascismo, del quale si dovrebbe per altro parlare con ben altra completezza e severità. In secondo luogo ripeterei quel che Machiavelli dice a proposito della Chiesa di Roma: che «con la Chiesa e con i preti noi Italiani [abbiamo] questo primo obligo, di essere diventati sanza religione e cattivi» (Discorsi, 12.17). Allo stesso modo, si potrebbe dire, che noi abbiamo con quelli che ci governano questo «primo obligo» di non poter parlare più, sensatamente, nemmeno di fascismo, e quindi delle sue fasi, della diversità dal nazismo, della ferocia repubblichina, e così via. Tutto difatti è omologato in un astioso, minaccioso e sommario rancore, o in un ressentiment, come sempre lo chiama Nietzsche, perché in francese è più chiaro il senso di ‘ricordo di un torto (forse) subìto e desiderio (ineffettuale e frustrato) di vendicarsene’.

Il primo passo nel combattere un fenomeno è dargli nome, distinguendo e specificando le sue fasi e il carattere proprio di ognuna, ben sapendo che la condanna generica aiuta piuttosto i responsabili di un tremendo danno civile, politico e umano. In questo senso, hanno fatto bene Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati a tentar di descrivere recentissimamente la nostra attuale fase politica con il termine di Democrazia Afascista (Feltrinelli, 2024), invitando anche altri a cercare nomi diversi; anche la recensione che qui si legge è, per questa parte, un tentativo di tale genere. Di più, crocianamente, ogni volta che siamo dinanzi a mutamenti appena un po’ rilevanti della nostra vicenda storica è necessario, nella storia sempre «contemporanea», tornare a interrogare il passato più rilevante, com’è certamente il fascismo, per trarne luce e suggestioni, non più risposte confezionate, sul modo in cui attualmente combatterlo.

E poiché abbiamo evocato il genere ‘recensione’, conviene a questo punto anche dire che il lettore può anche essere sfavorevolmente colpito (e stufo), ormai a ragione, dalla lunghezza di questo scritto. Il termine esatto non sarebbe pertanto ora quello di «Discussione», come pure è costume nelle riviste, ma, un po’ alla tedesca, un pensare né pro né contro, ma mit… lo scrittore che si legge, in questo caso Bruno. Ciò vuol dire disponibilità a seguire le premesse e le conseguenze o gli sviluppi di ciò che si legge. Questo è un grande merito della narrativa e della scrittura di Bruno: la capacità di suscitare nel lettore altri pensieri, che non si trovano propriamente come tali nel libro, ma che da esso sono «generati»: per sviluppo del discorso, per aggiunta di particolari, per vicinanza o persino per antitesi.

Per avvicinarci al tema della «qualità» del fascismo sul terreno politico-sociale, è utile a parer mio riprendere ancora Palmiro Togliatti e le sue profonde, intriganti Lezioni sul fascismo, che tali parvero allo stesso Renzo De Felice (l’analisi più compiuta e matura del fascismo, disse all’incirca, manifestazione di un grande modello metodologico di realismo politico). Tenute queste lezioni nel 1935 agli allievi della scuola quadri, soprattutto italiani, emigrati nell’URSS, furono riattualizzate da Enrico Berlinguer nel clima dei primi anni ‘70. Anche in questi anni infatti, e dalla fine dei ‘60, entrò in crisi il rapporto tra politica e società, a dirla così in generale, o tra Stato e masse organizzate: un primo segno del difficile trapasso dalla democrazia dei partiti a quella dei cittadini, per dirla con Pietro Scoppola, che richiedeva una valorizzazione dei singoli e insieme una riorganizzazione delle masse, giunte anch’esse a un nuovo protagonismo, negli anni che pure segnarono, con Moro e Berlinguer, un avanzamento della democrazia.

Il cuore delle lezioni di Togliatti sta, secondo me, nell’ammissione che i comunisti non avevano visto le «cause sociali» su cui il fascismo si fondava e si manteneva. Il ritornello rivolto ai fascisti da Togliatti è martellante: noi non siamo vostri nemici, non siamo vostri avversari. Siamo noi, diceva, che non siamo riusciti a capire le vostre organizzazioni collaterali, né perciò siamo stati in grado di entrare in esse, spiegandovi dove sbagliavate e correggendovi: nei sindacati, che dal ‘26 hanno conquistato il monopolio sindacale, o persino, né paia poca cosa, nei dopolavoro e nelle attività ricreative (o creative come i Littoriali). Ma, più in grande, nemmeno abbiamo ben considerato gli elementi di «pianificazione» su cui bisognava riorganizzare il capitalismo dopo il ‘29, ché anche i borghesi (grandi, devo purtroppo omettere ogni cenno alla distinzione di piccola e grande borghesia su cui Togliatti lavora) avevano bisogno di organizzazioni di massa; e insomma non abbiamo studiato le novità, impostesi a tutti, anche ai paesi «democratici», a seguito della Grande crisi, riguardanti il rapporto di politica ed economia. Persino nel fascismo detto di «sinistra», in zone del corporativismo e nei «Nuovi studi di diritto, economia e politica» di Ugo Spirito e Arnaldo Volpicelli, tra gli anni ‘20 e ‘30, si cercava di riflettere, seppur con deboli strumenti, su questi temi. E il problema era anzitutto lavorare sulle failures del liberismo e del mercato, consapevoli che la borghesia liberale aveva appena sfiorato, senza lasciare tracce durature, il rapporto con la classe lavoratrice e i ceti più poveri; e che si dovessero conoscere (come accade per Keynes, introdotto forse per la prima volta in Italia dai «Nuovi studi») economisti capaci di aiutare a meglio impostare il lavoro di ricerca su urgenti e gravissimi problemi, a immettere forze fin ad allora marginali nel tessuto produttivo e talora addirittura nella «vita civile».

Il rapporto di Bruno con il fascismo è naturalmente complesso, perché è l’oggetto rispondente alla sua vocazione di studio, alla sua passione e competenza «scientifica». Proprio su questo punto il recensore dovrebbe lasciare interamente la mano al recensito, ai bei libri di Bruno, ad esempio, tra politica, società e organizzazione dei monumenti e delle città, urbse civitas (ricordo solo Una patria per gli italiani. 1870-1900, Laterza 1991). Intanto non è vero, sembra dirci, che il Duce sia solo e sempre una figura tutta d’un pezzo, ossessivamente incombente, un padre ingigantito e minaccioso, unicamente tiranno appunto. Può talvolta essere, in certe circostanze, che con lui si sia dato anche una presenza catalizzatrice e sinergica, nel cui segno (se si ha il coraggio di scendere nel regno male odorante delle Madri), poteva anche maturare qualche buon frutto di fiducia in sé e di senso del dovere, certo accresciuto dal fatto che a quel tempo non si conosceva «nessun diverso paradigma». «Mai così tanti ci affidammo a un Solo – si legge ad apertura di libro, all’inizio de «La visita» – con tutta la fiducia fanciullesca della quale allora eravamo capaci. Chi oggi lo nega, mente sapendo di mentire. Col passar del tempo, è naturale, molti ingenui entusiasmi sbollirono, ma, sin quasi al limite della catastrofe, la fede non venne mai meno, maturata in un comportamento di sobria responsabilità verso la vita, dono prezioso, della quale, ne rimasi sempre convinto, non ero io il depositario assoluto. Da mettere, se necessario, a disposizione di tutti». Anche «oggigiorno mi sento del tutto giustificato in quel mio comportamento di allora. La mia è una prova di protervia? Forse. Ma declino con forza ogni responsabilità. Non riuscirete a farmi sentire in colpa, anche se di certo in quegli anni lontani adesso non so più riconoscermi.»

Come il protagonista de «La visita», il primo racconto, così, nella stessa Stimmung, pensa e dice anche l’attore dell’ultimo dei racconti, «Vittorio». Questi è un piccolo orfano di guerra amatissimo dalla madre e felicemente inserito, già come un leader, nella vita del suo centrale rione alle falde della collina Velia, tra il Colosseo e il Milite Ignoto. Vittorio è un personaggio nutrito e cresciuto di fascismo di cui egli si fa maestro ai suoi compagni. È un bambino coscienzioso e diligente, compreso e orgoglioso del suo ruolo e della sua divisa fascista («non gioco, ma disciplina e intelligenza»), colto, «perché la dottrina fortifica la fede», devoto al giuramento prestato al Capo, interprete delle sue parole, che divengono presto fatti, assurgendo a forme proverbiali scolpite nei cuori: italiano insomma perché fascista. Il Duce, fa dire Bruno a un suo personaggio, forniva a ciascuno, nei suoi modi specifici e particolari, «le certezze necessarie per vivere una vita degna di essere vissuta sul serio».

S’è detto tante volte che a interpretare il fascismo conveniva leggere la Psychologie des foules di Gustave Le Bon (1895), che attribuiva alla folla o alle masse la dissoluzione dell’individualità con i suoi caratteri di razionalità e di distinzione tra le diverse sfere di vita, a favore di un cieco agente collettivo, modellato dalle parole di un capo, che si costituisce come una sorta di sartriano «gruppo in fusione». Vittorio insegna che anche nell’intero, nella totalità e nella presenza di un capo supremo può trovarsi un principium individuationis, l’ambiente che forma una personalità. Non solo i padri naturali, ma anche quelli imposti e poi scelti, svolgono una funzione rilevante nella crescita e nella determinazione delle (diverse) persone. Ma pure in questo caso il tentativo di identificazione s’infrange quando la vita privata e più intima entra in contrasto con le decisioni pubbliche del fascismo, quando Vittorio apprende che verranno abbattuti i quartieri popolari dove abitava e che ostruivano la vista aperta dal Colosseo al monumento al Milite Ignoto. È lo sventramento delle case attraverso cui si consentì l’apertura della grande via dell’Impero come già prima era accaduto per far (molto e prezioso) posto al Vittoriano, con la trasmigrazione degli abitanti dal centro all’estrema periferia. La vita di Vittorio, crollando il suo mondo, è scossa da rabbia e ira, poi da apatia e profonda sofferenza. Un pomeriggio, stanco delle strade anonime e senza storia dove ora deve abitare, preso dalla nostalgia della vecchia casa, si spinge fino al luogo dei lavori, e, oltre, fino agli antichi marmi della Basilica di San Giovanni. E, camminando, s’imbatte nei resti della sua vecchia casa demolita e ridotta quasi a un cumulo di macerie, ferita da centinaia di colpi di piccone. Spero che io non sia ancora tra i pochissimi, e con me l’amico Sergio Mariani, a conoscere e ricordare la vecchia canzone romanesca che, per le case impietosamente abbattute, cantava: «fa’ piano muratò’ co’ quer piccone». Vittorio, muto dinanzi allo scempio, esplode in un pianto irrefrenabile quanto doloroso. E proprio qui gli pare di scorgere sui lacerti delle vecchie case la figura stessa del Capo che, con in mano il piccone, lo saluta, portandosi via, nella polvere e nell’acre disillusione, tutta la sua felice fanciullezza.

Dobbiamo infine soffermarci sul complesso racconto che s’intitola «Parigi 1937» e narra delle strane vite parallele di Korda Claude – un soldato e un poliziotto che ha la fredda, razionale passione della patria e dell’ordine, ora nella squadra mandata a presidiare una piccola fabbrica occupata per il licenziamento di due operai – e Alphonse, un abile dirigente e capo operaio, leader sindacale della CGT e fedele militante del Partito comunista, d’autorità indiscussa, generoso con gli altri, in grado di spiegare a tutti le mosse e la logica stessa della politica, che a sua volta ha una specie di altro, un apprendista e pupillo, il giovane fresatore Dubois Maurice. Siamo al tempo dei Fronti popolari e perciò di un nuovo clima, più favorevole agli operai. Korda soppesa e studia freddamente la situazione, le chances di vittoria degli operai, l’estendersi dei loro successi. La sua parte ha all’inizio scarsissime possibilità di avere la meglio, e il poliziotto è ferito perché odia gli operai, non la «classe», ma la loro stessa carnale umanità, quelli che incontra per strada a Parigi, con qualche invidia per la loro fresca vitalità e allegra protervia giovanile, una sorta di gioia puerile tra le marce e le bandiere della nuova stagione politica. Ma poi, col passar del tempo, Korda, non impaurito, comincia a vedere una luce di uscita, il ritorno alla «normalità»: riacquista il sangue freddo di chi sa vivere con la morte, ed è disposto a dare la vita, di chi non ha mai avuto vita civile, passando dalla trincea alla caserma. Per il resto, ciò che è giusto – pensa – deve accadere.

Ma è proprio vero che Alphonse è in tutto perfetto? Maurice sente la voce, presumibilmente vera, che va a cercare ragazzini nel buio del cinema o in mezzo alle fronde dei giardinetti. Ne riporta sbigottimento e vergogna, dolore e rabbia. La prima e debole osservazione è: ‘son fatti suoi’; ma ben presto l’immagine disgustosa, che non ha strumenti per comprendere («può darsi che Alphonse guarisca da questa malattia se affidato a cure mediche»), torna ad assillarlo. Un abboccamento tra i due, il maestro e l’apprendista, si risolve nell’aggressiva e infamante accusa che sta lì lì per esser pronunciata, e nella muta difesa dell’andar via senza parola: un congedo definitivo che Maurice non riesce più a revocare. Alphonse dilegua abbandonando il campo, ma Korda, coerente con la sua vita, ritrova sé stesso nell’atto di dare, con l’arma in mano, il segnale dell’attacco agli asserragliati della fabbrica, mentre Maurice non riesce nemmeno a dare l’allarme ai suoi dell’attacco imminente. Bruno, come pure è naturale nella pena di una sconfitta, spesso è più severo con la parte sua che non con quella avversa, salvo la sua grande e infinita pietas che egli sa suscitare per entrambi i protagonisti e che nasce dalla volontà di andar oltre gli strati d’apparenza e d’appartenenza, nel punto profondo dove, oltre l’immediatezza, vince la voce di partecipazione alla sofferenza altrui.

Tanto più viva è questa così sentita commemorazione e commozione, in quanto la speranza, forse per le troppe storie lette e vissute su se stesso, non è affatto un sicuro e garantito sentimento per Bruno, non ha avanti a sé un immediato futuro, né costituisce immancabile porto, rifugiandosi piuttosto in piccoli particolari come la commozione di Korda per un’ingenua e paffuta Madonna di una chiesetta di campagna, o, per Alphonse, nella capacità sollecita e cordiale di pensare agli altri e agli uomini, nell’affetto con cui impartisce i suoi insegnamenti a Maurice. Infinita e necessaria è la pietas di Bruno per i suoi personaggi, specie per quelli che nulla hanno avuto dalla vita, per i diseredati costretti a misurarsi con gli ambienti più difficili e pericolosi. Ma la pietà rischierebbe di risultare insulsa e mortificante se fosse solo un sentimento spontaneo, che avvolge nella sua immediatezza ogni cosa. In Bruno la pietas non nasce da un originario emozione, ma dalla precisa volontà di capire, non si colloca alle origini istintive, ma a conclusione di una sottile e fredda analisi, sicché ognuno ha diritto alla sua pietà, specie chi sta dalla parte ingiusta e atroce della storia. La pietà, nutrita di ragione, non è affatto cieca dinanzi alla verità o alla miseria collettiva, al giudizio morale, politico e storico, che resta lì invalicabile, fuori di ogni perdono e compassione soggettiva, oggetto di comprensione che non assolve. Ma c’è un fondo d’umanità che residua ogni più feroce atto, ogni travagliata psicologia e fa guardare avanti. Forse è vero, come è stato scritto, che a salvarci sarà solo la «carità», che è un altro nome della pietà: un’antica virtù di cui il bel libro di Bruno abbonda

 

 

 

 

Abstract

Mario Reale recensisce e discute il libro di:

Bruno Tobia, La Visita e altri racconti dagli anni Trenta, Gemma Edizioni 2024, prefazione di Vittorio Vidotto.

 Seppur leggibile da molte prospettive, Mario Reale sceglie di recensire e discutere La Visita soprattutto alla luce di questi due temi: 1) Il bello e l’arte; 2) Il fascismo tra politica e storia.

1) Bruno possiede uno straordinario sguardo pittorico e fotografico, che ricorda l’œil vivant e il Nouveau romanfrancesi nella letteratura, nella filosofia e nel cinema della seconda metà del secolo scorso. Ciò vuol dire che è dotato di uno sguardo «intenzionato a…», come si diceva in ambito fenomenologico, che scruta, «prima di ogni riflessione», i pur minimi aspetti della realtà, soprattutto le cose, le vie e gli scorci di città. La riproduzione fotografica delle arti figurative, innovativamente promossa da Pietro Toesca, esprime bene questa situazione dell’occhio che fissa e per tutti trattiene significati. Toesca dalla cattedra illustra la singolare figura e postura di Giuda nel Cenacolo di Santa Croce di Taddeo Gaddi, ma è l’intera narrativa di Bruno che, con particolare efficacia ne «Il censore», si sofferma volentieri, su condizioni e figure che hanno a loro centro ambiguità, equivocità e doppiezza. Tuttavia, l’œil à part entière di Bruno è lontano da ogni esclusivismo e ideologismo antinarrativo e oggettivistico; alla fermezza dello sguardo sulle cose s’accompagna anche una sym-patheia, una viva partecipazione agli uomini e alle loro vicende, di cui gli oggetti sono allora lo sfondo e l’Umwelt.

2) Del fascismo mi pare che Bruno cerchi di cogliere una particolare natura, già visibile nella differenza dal nazismo, che è invece un fenomeno tutto finalizzato alla guerra «totale» dei signori. Pur sempre vicino a molteplici conflitti, attraversato da essi fin dalla sua nascita dalla macelleria della Grande Guerra, il fascismo mi pare conservi il suo carattere differenziale dal nazismo, aprendosi perciò a un qualche margine di positività. Naturalmente i tempi sono qui essenziali, e sembrano coincidere con l’età che è stata detta del «consenso», tra il 1929 e il 1936, quando il fascismo diventerà subalterna appendice al nazismo. In realtà la crisi si apre ogni volta che il fascismo si separa da un certo compito di promozione sociale e politica, di protezione dei ceti fino ad allora esclusi dalla storia e persino dalla «civiltà». Ancora ne «La Visita», le straordinarie misure di sicurezza, che la visita al museo di Hitler e Mussolini mette in atto, rompono vite «rovinosamente», spezzano destini e legami.

Se il lettore pensa che, proprio oggi, col carattere dei nostri governanti, questo ragionamento è intempestivo e troppo cedevole verso chi è al potere, si deve rispondere che conviene giocare una resistenza su tutti i registri, dicendo per esempio che il pressapochismo e la dilettantesca boria di chi ci governa impediscono persino di poter parlare ragionevolmente di fascismo, tutto essendo omologato in un sommario, astioso e vendicativo rancore.

Per capire cosa s’intende per storia in cui il fascismo riacquista una qualche dignità, conviene forse leggere le belle e intriganti Lezioni sul fascismo del 1935 di Palmiro Togliatti, con il rappel ai fascisti: «noi non siamo vostri nemici, vostri avversari»; siamo noi che non siamo riusciti a capire le «cause sociali» su cui vi fondate, le «organizzazioni collaterali» che avete costruito, fossero pur solo le colonie estive e i dopo lavoro.

Il rapporto di Bruno con il fascismo è certo complesso, rispondente alla sua vocazione e alla sua competenza, ma la linea che lo vede anche come difficile occasione è limpida e coraggiosa, capace di aprire un discorso nuovo e complesso, seppur disagevole, e sempre al limite di vite che, come nell’ultimo racconto «Vittorio», si «frantumano rovinosamente». Se nel complesso racconto «Parigi 1937» il giudizio sulle vite parallele dei due (o tre) protagonisti sembra alla fine più favorevole al poliziotto che conosce solo le caserme e le trincee, piuttosto che all’abile leader, sindacale e politico, è perché la raffrenata pietas di Bruno, al di là del giudizio storico e politico che sta lì immutabile, abbraccia veramente tutti e ognuno a suo modo.

* È l’intervento allargato della presentazione, fatta con Elisabetta Rasy, del libro nella libreria di via Panisperna il 7 maggio 2024).

Riposta alla risposta di Giorgio Cesarale al mio Illuminismo su «Astérisque»

Può darsi che nel mio scritto sull’Illuminismo vi sia qualche frettolosità e qualche semplificazione circa il punto che Giorgio Cesarale – nel Commento al mio articolo Illuminismo, «Astérisque», I 1, pp. 27-38, 39-46 – più mi rimprovera: la mia polemica contro l’idea di totalità, dell’intero e le sue conseguenze. Intanto sgombererei il campo dalla previa connessione della totalità con il misticismo. Non che il nesso non vi sia, ma il mistico si dice in molti modi, alcuni dei quali sembrano persino inseparabili dal filosofare e dalla comune esperienza. Se affermo che sono e mi sento parte di un più vasto organismo, al limite dell’intero genere umano, che condiziona il mio modo di pensare e a cui interamente mi rimetto, non si vede perché questa posizione dovrebbe essere censurata. Semmai il problema nasce qui dall’interno, quando hegelianamente comincia a presentarsi nella storia un’individualità che, al modo di Antigone, esorbiti, mettendola in crisi, da una comunità fino ad allora «totalitaria». Ma questo apre, come si vede, un altro problema: dove mai lo holon sociale potrebbe essere detto senza l’interna determinazione delle soggettività? La totalità dovrebbe essere allora costituita dall’insieme, dai singoli e dalle loro relazioni. Solo che in questo modo ci incamminiamo lungo una totalità composta di parti che nell’atto stesso nega ciò che qui c’interessa: un insieme che riduca a sé tutte le interne determinazioni e differenze, dove le soggettività e le «cose» non oppongano nessuna resistenza al loro assorbimento nel tutto, nessun ostacolo all’immane potenza unificante dell’intero. Parmenide esplicitamente esclude che l’intero dello sfero possa mai esser composto di parti, ciò che implicherebbe anzitutto la discontinuità di spazio e di tempo, la presenza di determinazioni. Ma, di contro, ogni volta che una determinazione e una differenza trovano posto, che il pensare-dire sia agito dal tronco aristotelico, nominando alcunchè è negata la forza esclusiva dell’intero, la totalità come reale dominio della conoscenza. Possiamo per queste ragioni tralasciare ora una piena presa d’atto del problema del misticismo, che o è un altro modo di dire la totalità o si risolve in vario modo nell’esperienza comune del gioco tra un intero e le sue parti.

         Ma venendo ora propriamente alla «totalità», si può dire tanto che è una costante tensione, in certo modo ineliminabile dal pensiero, tanto che è un «luogo» dove il pensiero rischia di perdersi interamente, trovando un’annihilatio proprio al termine delle sue più alte prestazioni, una riconduzione a quell’oscurità da cui ci si è faticosamente distaccati. Ora, perché l’intero è legato a quelle determinazioni che pur fondano l’essenza del pensare? Un primo motivo, vien fatto di dire, è che le stesse determinazioni, nonché imporre la loro presenza, vengono, in una prospettiva dualistica, «costruite» o guadagnate, separate dalla (costruita) «totalità» che in qualche modo pur ci costituisce, attraverso le relazioni e le scissioni che affettano, a cominciare dalla corporeità e dall’affettività, la nostra soggettività. Il puro pensare deve, fino a un certo punto, liberarsi da questo peso dell’intero, non al punto però da non ritrovare nel suo cammino l’esigenza e la periodica verifica, anzitutto, di quell’insieme di mente-corpo, di cui si può fare epochè ai fini del pensare (fino a un certo punto, ripetiamo), ma che non si può mai presumere di vanificare del tutto. Anche le più trite e discutibili definizioni dell’uomo come zoon politicon, animal sociale et politicum esprimono a loro modo un «insieme», la cui traccia non si può mai lasciar cadere. Per questo aspetto dunque si deve dire che «l’intero» ci abita e che con esso, dentro di esso, lavoriamo, depurandolo e isolandolo per raggiungere la distinta chiarezza (quasi un innesto di Freud in Cartesio) delle determinazioni. Ci sono infinite cose nell’uomo e nell’atto del pensare che, oscuramente giacenti sempre al fondo dei nostri pensieri, possono talvolta ricomparire con forza all’interno e dentro la semplice e netta riflessione, una «totalità» che va ogni volta controllata e dominata, e semmai fatta giocare con la parzialità e la finitezza.

      Dal lato della conoscenza, a parte obiecti, la totalità si presenta per il fatto che la determinazione, come pensare-agire, sposta sempre in avanti il suo limite, quasi un orizzonte che appena raggiunto presenta subito, in un mondo sferico, un’ulteriore meta. Il senso dell’oltre, la dimensione umana che è al tempo stesso, come in Ulisse, segnata dalla fondamentale finitezza, ma anche dall’apertura all’infinita «totalità», fa sì che la tensione all’intero, mai del tutto debellabile, e anzi essendo anche produttiva, deve essere ricondotta e ricomposta ogni volta dalle ragioni del finito, dall’imprescindibile orizzonte di ogni conoscenza. Se  mai l’idea della totalità si attuasse per intero, prendendo corpo e dominio, risolverebbe in sé, dissolvendola, ogni soggettività, ogni pensiero e ogni teoria critica; ma al tempo stesso una «totalità» parziale, ristretta (e capricciosa), per servirsi di questi ossimori, sembra sempre aggirarsi, certo per essere fondamentalmente dominata, nelle nostre esperienze, ma anche talvolta per far da lievito, una volta ricondotta alla dimensione del finito, alle nostre più alte e significative pratiche. Lo sforzo della determinazione comporta anche costi, persino alti, di introspettiva autolimitazione, di sacrificio, sebbene ineliminabile perché si dia la sua produttività.

      Diverso è il caso di quanti problemi una determinazione abbracci, e nel tempo, o fin dove s’estenda la sua rete. Qui vi è certo differenza tra le determinazioni, a volte circoscritte e a volta di larga portata, intensive ed extensive. Non si vorrà negare questa differenza, né l’invito a non abbandonare il terreno dei grandi problemi o, come si dice con qualche sdegno delle grandi «narrazioni», per affidarsi solo a quei piccoli interventi che popperianamente si dicevano «a spizzico», o   alla «metafisica del potere», alle lotte sempre «circoscritte e locali» di Foucault, dopo l’abbandono, stimato necessario, dei «progetti globali e radicali». Ché altrimenti – come giustamente osserva Giorgio Cesarale – rinunciando a ogni più ambiziosa tensione critica, ci lasceremmo «determinare da strutture più generali di cui rischiamo di non avere né la consapevolezza, né la padronanza». Ma allora il caso consiste veramente nell’affrontare e riformulare la problematica drammaticamente difficile della totalità». proprio in questo caso si deve badare, come più facile deviazione, che i problemi più larghi e comprensivi slittino, proprio per questo, in un non ammissibile esito di «totalità».

S’innesta proprio qui, intorno alla discussione sul «difficile problema della totalità» la recensione-discussione di Giorgio Cesarale al mio articolo, fatto di apprezzamenti e critiche. Di ciò dirò solo poche parole, sia perché ognuno può leggerlo e giudicarlo da sé, sia perché la discussione sarebbe piuttosto tecnica e complessa, sia infine perché dovrebbe avvenire in absentia di Giorgio. In breve, la parte in cui siamo discordanti, come si legge nella conclusione dell’intervento di Giorgio, riguarda l’inizio del nostro filosofare, il «cominciamento» della stessa filosofia o scienza, come accade in apertura della grande Logica di Hegel. Giorgio ritiene che la filosofia giunga a verità e forza critica solo quando cominci e si mantenga nell’orizzonte dell’assoluto. Questo vuol dire che dalla filosofia debba essere esclusa ogni considerazione empirica o pragmatica, come sarebbe la dualità di essere e pensare, di io e mondo; e ciò potrebbe avvenire, come nel radicale idealismo della filosofia classica tedesca, solo se è il pensiero che pone a sé il suo stesso oggetto, scoprendosi non si sa come «essere» o anche «creatore del mondo», in concorrenza col Dio specificamente cristiano, non demiurgo ma creator ex nihilo. Questa identità parmenidea tra pensare ed essere, noein kai einai, dovrebbe ritrovare al suo interno (dedurre/causare) determinazioni e differenze, l’intera ricchezza del mondo, pur in una totalità priva di condizioni e con risultati che appaiono sempre «posti». Da parte mia ritengo invece che la filosofia può e debba nascere, più o meno in senso kantiano, solo dall’empirico e dal finito, da un dualismo originario, seppur subito rinvenibile nelle attività stesse del soggetto. Il risultato di questo così diverso inizio del filosofare è sconcertante, perché entrambi ci rimproveriamo, da due angoli diversi, la stessa cosa. Io dico che una prospettiva come quella di Giorgio che muova da una totalità che attraverso la totalità pervenga alla totalità non riuscirà mai a incontrare ed elaborare determinazioni e vita «reale»; Giorgio a sua volta mi rimprovera che sono io a non incontrare mai reali determinazioni, perché, essendo la mia prospettiva interamente empirica, le pretese determinazioni, innovazioni e differenze ripeterebbero – ma allora facendo intervenire il non congruente uso del trascendentale – senza alcuna consistenza, sempre e all’infinito, una sostanziale identità. Ora questa «bizzaria» non è suscettibile di ulteriori svolgimenti: monismo ontologico e dualismo sono entrambi presupposti infondati e infondabili, privi di dimostrazione. Forse – è la mia convinzione – è meglio abbandonare del tutto questo terreno di «filosofia prima», occupandoci di illuminismo militante e della mondana «filosofia» che esso di volta in volta genera.

Servirsi di un kantiano «pensare largo», ma al tempo stesso non rinunciando alla forza che proprio le determinazioni conferiscono alla nostra azione teorica e pratica, è il grande compito che la riflessione (in senso kantiano) deve oggi affrontare, cercando di ricondurre a ciò anche imponenti filosofie che abbiano passato questo segno. E poiché sono stato contrapposto al più forte pensiero di Foucault – un autore verso cui nutro qualche diffidenza, ma di cui si dovrebbe tornare a discutere, non fosse altro per la profluvie di scritti e discorsi che gli archivi continuano a sfornare ma anche per la sua complessa (e riduttiva) posizione verso la «filosofia politica», magari riprendendo quel confronto con Hanna Arendt cui da tempo è stato spesso associato, per similitudine o pur solo per differentiam – vorrei finire questa breve analisi con una citazione foucaultiana, con cui sono interamente d’accordo, tratta dalla conclusione di Il coraggio della verità:

«ma ciò su cui vorrei insistere, per finire, è questo: non vi è instaurazione della verità senza una posizione essenziale dell’alterità; la verità non è mai il medesimo; non può esserci verità che nella forma dell’altro mondo e della vita altra».

2)  Su dualismo e assolutismo della totalità come posizioni ultime, non fondabili

La mia discussione con Giorgio potrebbe esser detta ‘Filosofia e illuminismo’. L’I ha bisogno della filosofia? Sì, anzitutto come determinazione di un ambito, sia pur impegnativo, di storicizzazione e concettualizzazione delle singole posizioni illuministiche nell’ambito dell’I stesso, nella vicenda più  larga dell’intero I, ma senza trascendere i confini dei prodotti culturali dei fenomeni detti illuministici. Esempio insuperato di ciò resta forse la Filosofia dell’illuminismo di E. Cassirer, che si occupa di due secoli quasi pieni, il ‘600 e il ‘700, come sfondo dei temi illuministici. Chiamerò ciò Illuminismo-Filosofia (IF), che riguarda la sola filosofia richiesta dall’I. C’è poi un più vasto regno della filosofia, che potrebbe, in ipotesi, mettere a tema e smentire, al di là della storia, gli stessi risultati dell’IF. Non si può dunque abbandonare questo piano più largo sui fondamenti e le intere pretese suscitate da ciò che dirò Filosofia-Illuminismo (FI). Il problema è qui allora di capire quale filosofia possa essere omogenea alla FI e quale invece finisce per negare la stessa IF.

Qui, propriamente, nasce il dissidio tra me e GC. Se io cerco di tracciare alcuni punti di questo retroterra filosofico della FI, GC. mi sembra volto subito a far riferimento a una filosofia molto forte, qual è quella che riguarda l’assoluta totalità, che ha l’illuminismo come un sottoprodotto di cui si può parlare solo in quanto la FI ha trovato posto nell’ambito dell’intero, dell’hegeliano «ganz». Una deduzione e un compito che, mi pare di capire, ancora non hanno avuto adeguato sviluppo filosofico perché sembra che l’I possa rinascere solo quando i problemi come quello della totalità siano avviati a soluzione.

    Ho detto sopra che a parer mio iniziare (e sviluppare) la filosofia dal punto di vista dell’assoluta totalità o dalla finitezza «dualistica» non è di per sé produttivo, in quanto questi due cominciamenti sono altresì la colonne d’Ercole del filosofare, ossia che essi sono né fondati, né fondabili. Tuttavia è anche necessario che – prima di abbandonare il campo per passare, eventualmente, all’I militante – si tenga conto di un’ultima considerazione, riguardante non tanto la cosa in sé quanto piuttosto i suoi fruitori. Se la discussione si articola intorno al concetto di totalità, abbiamo a che fare con un concetto così forte da ridurre a sé ogni altra questione.

Mi preme qui richiamare come l’orizzonte della totalità attiri a sé anche a parte subiecti, vale a dire che la stessa argomentazione è ricondotta al suo tema, essendo anch’essa composta di «proposizioni assolute». Anche saltando qui il problema del pensare-dire, non evitabile nemmeno aristotelicamente, resta che il discorso sulla totalità deve essere sorretto dal concetto di assolutezza, e ciò suppone che, non essendoci più totalità, unica sia la forma e il contenuto della sussunzione, esibizione (anche qui non dimostrazione) e della sua argomentazione, sorrette da una sorta di «pensiero unico».

Dalla mia prospettiva di pensiero finito e «dualistico» le cose stanno diversamente, nel senso che si danno (e si mantengono) reali possibilità di lavorare quelle che ho chiamate «determinazioni» e «differenze», senza divieti da parte della filosofia.  Per quello che ora ci riguarda, vi sarà in questa prospettiva una pluralità di possibili opzioni filosofiche, una diversità ad esempio delle concezioni circa il bene, senza quella sorta di «ricatto» che il pensiero della totalità fatalmente esercita verso gli interlocutori, forzati ad accettare tutti lo stesso pensiero ché la totalità conoscerebbe solo se stessa. C’è per la verità la tradizionale risposta a ciò della filosofia, quando distingue episteme e doxa; ma il problema è qui come possono stare insieme queste due forme, dallo statuto così diverso, con difficoltà che riguardano lo stesso tentativo di pensare anche una recta ratio (orthos logos).  Le colonne d’Ercole s’incontrano solo quando il pensare finito e «dualistico», tenta di trasporre in termini «fondanti», ontologici e metafisici, questo stesso orizzonte finito e duale, quando si ponga la durezza della «cosa in sé». Non traggo ora la necessaria conseguenza per cui come la posizione della «totalità» è incompatibile con ogni forma di empirico illuminismo, così, parimenti, la democrazia che almeno abbia qualche consistenza e consapevolezza di sé non è pensabile in questa tensione all’assoluto.  Ma prima di ciò, la posizione che parte dal finito lascia a tutti la liberale e goethiana facoltà di pensare i condizionati e i plurali modi dell’illuminismo.

 

 

L’Illuminismo fuori dell’Europa. Una lettura a partire dalla Filosofia della liberazione latinoamericana

Non c’è dubbio che i filosofi illuministici ritenevano di elaborare concetti e principi universali, cioè diretti e validi per l’intera umanità, trasformandoli in ideali da realizzare, principi regolativi[1] di ogni futura azione pratica che ad essi si ispirasse. Il modello di questa nuova forma del pensiero filosofico è rappresentato dal motto kantiano: “Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale”[2]. Si tratta, come è noto, di un imperativo categorico formale, ma è, allo stesso tempo, regolativo di ogni futura legge universale. Enrique Dussel utilizza i principi regolativi universali in maniera non formale, ma materiale, cioè ponendo come contenuto del principio di comportamento morale «il principio di produzione, riproduzione e sviluppo della vita umana di ciascun soggetto etico in comunità». Questo principio potrebbe essere non realizzabile in toto, ma rimane come la stella polare per i naviganti il punto di riferimento, irraggiungibile praticamente, ma indispensabile per orientare la propria direzione, o meglio la propria azione pratica. Questo nuovo orientamento del comportamento pratico, che tiene insieme la formalità dell’imperativo categorico con la materialità della vita umana, viene dall’esperienza esistenziale, divenuta filosofica, di chi pensa e agisce moralmente nell’esteriorità dell’attuale sistema dominante, cioè fuori dal Centro del Mondo (Stati Uniti, Europa, Giappone). L’esperienza e il pensiero di Dussel, che userò come strumento per questo saggio, vengono dall’America latina, la prima vittima del sistema coloniale europeo, anzi la vittima che ha permesso con il suo sfruttamento la fondazione della Modernità[3], cioè con il saccheggio delle sue ricchezze naturali (metalli preziosi) l’accumulazione originaria del capitale, che è avvenuta soprattutto con l’uso del lavoro di schiavi strappati con la violenza dall’Africa.

Dussel indica chiaramente quali siano i principi normativi della politica: «I principi normativi della politica, gli essenziali, sono tre. Il principio materiale obbliga a curare la vita dei cittadini; il principio formale democratico determina il dovere di agire sempre rispettando le procedure proprie della legittimità democratica; il principio della fattibilità limita egualmente ad operare soltanto per il possibile (al di qua della possibilità anarchica, e al di là della possibilità conservatrice)»[4]. Secondo me, i principi normativi della politica devono essere ispirati ai principi regolativi universali di origine illuministica, più precisamente principi normativi sussumono in loro i principi regolativi universali, fino al punto che essi assumono una eticità in se stessi: divengono principi etici del comportamento comune, cioè collettivo e poi passano ad essere principi morali del comportamento del singolo individuo.

La patria dell’Illuminismo fu la Francia, che era contemporaneamente una potenza coloniale schiavista. I politici illuministi agirono per rendere questi principi regolativi principi normativi, in modo tale che qualsiasi azione pratica potesse trovare il consenso universale. Così la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” (1789), basato su un testo di La Fayette, con la collaborazione di Jefferson, e ispirata al pensiero di Montesquieu[5], Rousseau e Voltaire, venne intesa come una legge universale e come tale è riconosciuta. I principi a fondamento di quella dichiarazione, Libertà, Fraternità e Uguaglianza, sono stati negli ultimi due secoli a fondamento di qualsiasi civile dichiarazione o costituzione statale. Anche la “Dichiarazione Universali dei diritti umani” (1945) dell’Organizzazione delle Nazioni Unite si ispira a quei principi regolativi, quindi quei principi sono stati a fondamento di una legislazione universale e di ogni azione di liberazione da qualsiasi forma di oppressione. Sono stati e, sicuramente, saranno per qualsiasi altra azione di liberazione, sia individuale che collettiva che sarà messa in pratica in futuro.

Anche la “Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America” (1776) si ispira a principi regolativi, ritenuti universali, che derivano dal pensiero di John Locke, il quale, per altro, riteneva legittima la schiavitù, in quanto riteneva la proprietà privata superiore alla stessa libertà. Alcuni di questi principi sono gli stessi della futura “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, come l’eguaglianza e la libertà, ma vi si aggiunsero il riconoscimento che ciascun essere umano ha diritti inalienabili, quali la vita e la felicità. Ma nel momento della stesura della “Costituzione degli Stati Uniti d’America” (1787) un evidente oblio fece dimenticare quei principi universali regolativi e la schiavitù non fu abolita, ma semplicemente regolamentata (vedi Artt. I, II e V). A questo punto è opportuno porsi qualche domanda: Perché la schiavitù non fu abolita? Forse gli schiavi non erano ritenuti uguali ai loro padroni bianchi? La risposta più ovvia è si, tant’è che anche dopo l’abolizione della schiavitù, nel 1865, la segregazione razziale non terminò e ancora oggi a più 250 anni dalla “Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America” e da più di 150 anni dall’abolizione della schiavitù la segregazione non è stata completamente superata, come insegna il movimento attuale Black Lives Matter. Buck-Morss avanza una propria interpretazione riguardo alla scarsa conoscenza delle vicende legate al mondo degli esclusi o degli oppressi: «Più le conoscenze sono specialistiche, più avanzato il livello della ricerca, più lunga e venerabile la tradizione accademica, più è facile che i fatti discordanti vengano ignorati. Va rilevato che la specializzazione e l’isolamento costituiscono un pericolo anche per nuove discipline come gli studi afro-americani»[6].

Ma è opportuno porsi un’altra domanda più radicale delle precedenti: In cosa consisteva l’ineguaglianza degli schiavi rispetto ai loro padroni? La risposta è ovvia ed evidente: erano neri, cioè non erano bianchi, o meglio non erano europei, perché soltanto gli europei si considerano veri bianchi, negando l’evidenza che anche gli asiatici (cinesi, coreani e giapponesi) sono bianchi. Pare che i principi regolativi universali valessero soltanto per gli europei e non per tutti gli esseri umani, quindi non erano universali, o meglio erano universali in teoria e non lo erano nella pratica, cioè nella società, nella politica e nell’economia. La stessa riproduzione della vita non era eguale tra i bianchi e i neri. La “Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America” era smentita dagli stessi cittadini che si erano dichiarati indipendenti dalla madrepatria inglese.

Una prima conclusione teorica si può trarre: nel momento in cui i principi regolativi universali dell’Illuminismo stavano per diventare principi normativi della politica non furono riconosciuti i tre principi normativi, come li ha indicati Dussel: il principio materiale fu fortemente ristretto alla semplice riproduzione della forza lavoro schiava, mentre totalmente negati furono il principio formale, in quanto gli schiavi non avevano dignità giuridica, se non come merci, e il principio di fattibilità, perché si realizzò l’unica possibilità esistente che era quella di considerare esseri umani come cose. Un’altra considerazione la ricavo dal bel libretto di Buck-Morss: la libertà come valore universale, si affermò nel momento di massimo sviluppo dello schiavismo[7], quindi un tale fenomeno, in piena espansione, ne condizionò la realizzazione pratica. Infatti la Buck-Morsse riporta un dato interessante: il 20% della borghesia francese viveva di economia schiavistica[8], quindi era liberale in patria e schiavista nelle colonie.

Data l’egemonia culturale degli Stati Uniti sulla cultura mondiale, questi avvenimenti sono molto noti e conosciuti. Molto meno conosciuta è la vicenda di chi realizzò effettivamente i principi regolativi universali della “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino”: gli haitiani. Della piccola isola di Hispaniola si sa molto poco nella cultura europea. Si sa, senza dubbio, che esistono due piccole nazioni caraibiche: Haiti e la Repubblica Dominicana. Ma non è molto noto che queste due piccole nazioni si dividono l’isola di Hispaniola. Ho scritto “nazioni”, perché nelle due parti dell’isola si parlano lingue diverse: francese ad Haiti[9] e spagnolo a Santo Domingo. È ovvio pensare che si parli francese ad Haiti, perché fu una colonia francese, ma Haiti ha una particolarità che la differisce da altre colonie francesi, insieme a Martinica e Guadalupe, era l’unica colonia francese dove era ammessa la schiavitù. È vero che il 28 marzo 1792 e il 4 febbraio 1794 la schiavitù fu abolita anche nelle colonie, in conseguenza della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino”, sebbene Robespierre si rifiutò di firmare di firmare il decreto di abolizione della schiavitù. Come negli Stati Uniti i principi regolativi universali rimasero tali nella teoria, nella pratica la segregazione schiavistica rimase inalterata fino al 1 gennaio 1804, quando i francesi abbandonarono l’isola per le pessime condizioni naturali dell’isola di Hispaniola, alle quali, invece, si erano adattati più facilmente gli schiavi africani, piuttosto che gli europei. I padroni bianchi erano riusciti, in nome dell’autonomia legislativa, a non far rispettare le decisioni della madrepatria francese del 1792 e del 1794, quindi la libertà e l’eguaglianza erano principi regolativi non universali, anzi subordinati all’autonomia legislativa delle colonie, così come era accaduto negli Stati Uniti, dove alcuni Stati della Federazione non avevano rispettato i principi regolativi di Libertà, Felicità e Vita. Quindi i principi regolativi universali avevano un limite nelle autonome decisioni di ciascun realtà politica: in pratica il loro carattere universale era negato. Naturalmente erano negati i principi normativi della politica come li intende Dussel. I principi regolativi universali erano negati dalla classe dei proprietari francesi di schiavi africani.

Ad Haiti, però, gli schiavi neri non accettarono pacificamente di rimanere schiavi, sapevano che in Francia la loro condizione di schiavitù era stata abolita e così desideravano che quei principi regolativi universali fossero messi in pratica nella loro terra. In realtà, erano le vittime della schiavitù che desideravano trasformare in pratica politica, economica e sociale, la teoria universalistica dell’Illuminismo francese. Questo movimento di liberazione dalla schiavitù trovò un leader nella figura di Toussant Louverture, ex-schiavo, che lottò contro la Francia rivoluzionaria e contro Napoleone, cercando di ottenere l’indipendenza di Haiti dalla Francia, perché l’indipendenza era l’unica condizione politica che avrebbe permesso la liberazione degli schiavi africani. La Francia illuministica, rivoluzionaria, giacobina e napoleonica represse sanguinosamente questo movimento di liberazione, finché la natura stessa dell’isola, le malattie, come la febbre gialla, e il clima tropicale decimarono le truppe francesi e costrinsero la madre patria dell’Illuminismo universalistico a lasciare l’isola e a permettere a Jean-Jacques Dessalines, successore di Toussant, che era morto in carcere in Francia, di trasformare i principi regolativi universali in principi normativi universali pratici. Nasceva così il primo vero territorio libero d’America, tenendo conto che negli Stati Uniti la schiavitù era rimasta in vigore. La rivolta delle vittime della schiavitù fece diventare i principi regolativi universali strumenti della lotta di classe. Iniziava realmente l’età delle lotte di classe in nome dei principi illuministici.

In verità la lotta di classe si fonda sull’esclusione dai principi regolativi universali di libertà, eguaglianza e fratellanza, come alcuni rivoluzionari francesi più radicali intuirono. La legge economica del mercato, invece, si fonda dall’esclusione dalla retribuzione per l’intero valore prodotto dal lavoratore. Marx si rese conto che il lavoratore escluso dalla proprietà dei mezzi di produzione era esterno al mercato, anzi il suo corpo era esterno, mentre la sua forza lavoro era elemento fondamentale della produzione della ricchezza. Quindi l’esteriorità è la categoria fondante l’esclusione e chi è più esterno dello schiavo africano? Egli vive lontano, fuori, dal mondo euro-centralizzato.

La legalità che i proprietari francesi di schiavi africani volevano imporre non era ispirata ai principi regolativi universali dell’Illuminismo, ma quella del mercato, che tende ad occultare uomini, relazioni e cose. In pratica si voleva legittimare l’esclusione, lo sfruttamento e la negazione della dignità umana. La critica di questa logica giuridica è, quindi, anche critica dell’economia politica sulla quale quella logica si fonda. Franz Hinkelhammert è molto chiaro su questo punto: «La legalità assoluta è l’ingiustizia assoluta. Questo non implica nessuna abolizione della legalità, bensì la necessità di intervenire, quando distrugge la stessa convivenza umana. Questa legalità nella sua logica è incompatibile con la vigenza dei diritti umani»[10]. Quindi la rivolta degli schiavi africani partiva dalle condizioni di vita in cui erano costretti dai proprietari francesi, i quali con la loro pratica economico-politica anti-illuministica stavano trasformando la razionalità dei principi regolativi universali in forme irrazionali di condizioni di vita inumana per gli schiavi africani. La giustificazione di una legislazione autonoma locale è proprio una forma di razionalizzazione dell’irrazionale. La rivolta degli schiavi africani, quindi, aveva come fine l’abolizione, anche violenta, di queste loro condizioni di vita inumana, in pratica gli schiavi africani si ribellarono alla propria condizione di cose, di merce, di reificazione della loro vita.

I principi regolativi universali avevano offerto, dapprima, agli schiavi africani una prospettiva di liberazione, ma la reintroduzione della legalità della condizione di schiavitù aveva negato e represso quella aspirazione universalistica alla liberazione dalla schiavitù e soltanto il loro atto violento di ribellione li aveva liberati da questa ricostituita legalità giuridica oppressiva e restituito la condizione di vita degna di essere vissuta, tenendo sempre presente che la loro abitudine di vita si confaceva alla natura tropicale dell’isola di Hispaniola.

Con le parole del sociologo Anibál Quijano scopriamo un altro aspetto della rivoluzione haitiana: «L’esperienza più radicale accade e non per caso ad Haiti. Laggiù, è la popolazione schiava e “negra”, la base stessa della dominazione coloniale antillana, quella che distrugge insieme con il colonialismo, la propria colonialità del potere tra “bianchi” e “negri” e la società schiavistica in quanto tale. Tre fenomeni nello stesso movimento della storia. Benché distrutto, più tardi con l’intervento neocoloniale degli Stati Uniti, quello di Haiti rappresenta anche il primo momento mondiale nel quale si uniscono l’indipendenza nazionale, la decolonizzazione del potere sociale e la rivoluzione sociale»[11]. Quijano, nel giocare nel contrasto tra “bianchi” e “negri” intende sottolineare che la liberazione degli haitiani fu anche la liberazione dal razzismo europeo, cioè dalla convinzione, elevata ad ideologia, che i “negri” fossero talmente inferiori da essere incapaci di ricevere un salario. Gli Stati Uniti d’America, paese fondato sui principi dell’Illuminismo, è intervenuto a restaurare il colonialismo ad Haiti, ma rimane l’esperienza vissuta (Erlebnis) di avere negato il colonialismo con la propria lotta di liberazione e di indipendenza, a conferma che la vera decolonizzazione si ha nella separazione dall’Europa liberale e illuminata.

Ma, come detto, il paradosso più grande consiste nel fatto che questa lotta di liberazione si ispira ai principi regolativi universali illuministici, che in sé sono così poco eurocentrici, che gli stessi europei li negano. Ma questi principi regolativi universali fanno sorgere anche nelle vittime l’esigenza di una pretesa di giustizia, che è sostanzialmente una pretesa politica di giustizia. Enrique Dussel così definisce la pretesa politica di giustizia: «La “pretesa politica di giustizia” è la posizione che adotta il soggetto politico (…) esercitando un atto umano che normativamente ha rispettato i principi che la politica ha sussunto dall’etica. Il soggetto politico ha coscienza normativa di praticare, dentro le limitazioni della condizione umana, un atto di “pretesa” di giustizia, onestà, in coerenza con i principi normativi che dice di difendere e praticare»[12]. Quindi usando la definizione di Dussel, possiamo considerare l’atto di ribellione degli haitiani una interpellazione, una richiesta di “pretesa politica di giustizia” proprio a partire dai principi regolativi universali, rivolta non solo ai proprietari francesi, ma a tutta l’umanità, perché un singolo atto di liberazione, cioè di passaggio dalla possibilità alla realtà fattuale libera ed eguale è un atto di comune e universale liberazione.

L’azione di liberazione degli schiavi africani ad Haiti dimostra che i principi regolativi universali e la pretesa che essi diventino principi normativi della politica sono strumenti critici nei confronti del sistema dominante. Le vittime dello schiavismo hanno chiesto la realizzazione della Libertà, dell’Eguaglianza e della Fratellanza, quindi a partire da questi principi regolativi universali hanno potuto criticare il sistema della schiavitù allora esistente. Il sapere da parte degli schiavi africani di Haiti, che quei principi sono stati dichiarati, ha armato la loro pretesa di giustizia. La liberazione dalla schiavitù è stata storicamente il primo passo per una pretesa di giustizia per l’intera umanità. Mi riferisco al movimento della liberazione femminile, che è nato dopo la liberazione dalla schiavitù. L’esperienza di liberazione dalla schiavitù è diventata l’arma dei movimenti femminili per la critica del sistema maschilista di esclusione. Anche in questo caso si è chiesto che i principi regolativi universali divenissero principi normativi della politica.

 

[1] Mi riferisco a quanto sostiene Enrique Dussel a proposito dei principi regolativi di matrice kantiana (cfr. E. Dussel, Ética de la liberación, Madrid, Trotta, 1998, p. 565). Dussel parla di “idea regolativa”, io preferisco usare il termine “principi regolativi”, perché sono momenti iniziali e fondamentali, mentre l’idea, soltanto nel senso platonico, può essere usata come principio e non voglio affatto rischiare di essere scambiato per un idealista di tipo platonico, che è un modo per banalizzare un discorso che banale non è di certo. Enrique Dussel (1934) è un filosofo argentino che, a causa della persecuzione della dittatura militare argentina, si è trasferito a Città del Messico. È professore emerito della UNAM, i suoi libri sono apparsi in inglese, francese, tedesco e in tantissime altre lingue. Castelvecchi ha pubblicato vari suoi saggi.

[2] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it. P. Chiodi, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 49.

[3] Cfr. la mia opera Apocalisse. L’inizio e la fine della modernità, Trieste Asterios, 2020.

[4] E. Dussel, Venti tesi di politica, tr. it. A. Infranca, Asterios, Trieste, 2009, p. 95.

[5] Ricordo che Montesquieu era favorevole alla schiavitù.

[6] Susan Buck-Morss, Hegel e Haiti. Schiavi, filosofi e piantagioni, tr. it. F. Francis, Verona, Ombre corte, 2023, p. 11.

[7] Ivi, pp. 9-10.

[8] Ivi, p. 22.

[9] In realtà il francese è parlato da un’esigua minoranza della popolazione, perché la lingua più diffusa è il creolo haitiano, una lingua nata dal francese e dalle lingue degli schiavi africani. La lingua francese è stata sempre considerata dai governanti francesi come uno strumento per la formazione della nazionalità francese. Oggi è considerata la lingua ufficiale in 32 Stati e parlata da circa 270 milioni di esseri umani, ma in realtà i nativi parlanti francese sono 80 milioni. Così che dalla quinta lingua più diffusa al mondo, scende al 17° posto tra le madrelingue. Per capire bene questa situazione confrontiamo il francese con lo spagnolo. La lingua spagnola è parlata da 560 milioni di esseri umani e questa cifra la fa diventare la seconda madrelingua del mondo, dopo il cinese, ma più dell’inglese (430 milioni).

[10] F. Hinkelhammert, La maldición que pesa sobre la ley: Las raíces del pensamiento crítico en Pablo de Tarso, Arlekín, San Josè de Costarica, 2010, p. 298.

[11] A. Quijano, “Raza, etnia y nación en Mariátegui: cuestiones abiertas”, in José Carlos Mariátegui y Europa. La otra cara del descubrimiento, a cura di R. Forgues, Lima, Amauta, 1991, p. 179.

[12] E. Dussel, “Pretensión crítico-política de justicia”, in Política de la liberación, vol. III, a cura di E. Dussel, Madrid, Trotta, 2022, pp. 707-708.

La fede nella ragione critica ed emancipativa nel lavoro di Stefano Petrucciani (SP).

Una riflessione di Mario Reale sul pensiero e la ricerca di Stefano Petrucciani in questi anni di attività accademica. Discorso tenuto presso il dipartimento di Filosofia della “Sapienza” in Roma il 14 novembre 2023. Il presidente di Filosofia in Movimento traccia un profilo intellettuale del filosofo e studioso romano.

 

Il primo libro di SP dal titolo Ragione e Dominio. Autocritica della razionalità occidentale in Adorno e Horkheimer, Salerno Editrice, 1984, meriterebbe senz’altro, a quarant’anni esatti dalla sua uscita, una seconda edizione. Anzitutto perché, con padronanza dei testi e della letteratura critica, vi si esamina, in una sorta di amplissimo commento a Dialettica dell’illuminismo, la prima opera a quattro mani dei due fondatori della «scuola di Francoforte», e quindi perché vi sono chiamati in causa e discussi con acutezza, molti e impegnativi autori rilevanti per il tema prescelto: da Hegel e Marx, a Schopenhauer, Nietzsche e, con particolare cura, Lukàcs. Ma, più ancora, il testo si raccomanda per la maturità e novità dell’interpretazione che, per illustrare un’originale tesi circa la critica all’illuminismo dei due autori, si serve di tutte le possibili risorse della «razionalità occidentale», nella convinzione che mai dalla ragione – né sembri una cosa ovvia – si possa uscire, e che per «ragione» debba intendersi uno strumento  critico e d’intrinseca ricchezza, come già in nuce nel pensare-dire di Aristotele in Metafisica IV, 4, quasi alle origini della tradizione del pensiero nato in occidente e che Kant riconosceva ancora necessariamente nostro. Da ogni immersione critica la ragione sembra riemergere quasi chiedendo una nuova definizione, poiché esce rafforzata ogni volta che, conoscendo il mondo, allarga altresì la sua forza e la consapevolezza di sé.

La ragione è una realtà che si mantiene, per quanto forti siano le critiche che possano esserle rivolte, e che debbono essere di necessità risolte per SP in auto-obiezione, in un movimento che va entro di sé, per uscirne più avvertito e vigoroso. Sembra ovvio e persino banale, ma non lo è. Tutti cerchiamo in un certo modo la ragione, la perenne ragione occidentale – quella stessa di Hegel, nonostante tutto, e di Marx – ma nel duro lavoro perché essa si affermi, aprendosi alle più pressanti novità (perciò nella tradizione «occidentale»), estendendosi e acuendosi, rischiamo spesso, ora più ora meno, di lasciarci travolgere da questo bisogno di critica, dalla specificità e autonomia di taluni problemi o campi del sapere, fino a smarrire la forza unitaria dello stesso soggetto di queste operazioni, o, in altri casi, fino a dichiararlo persino sistematicamente diverso e contrastante con la ragione. Al contrario, SP è, nei riguardi della ragione, come un chierico cha abbia già pronunciato da tempo i suoi voti solenni, attenendovisi poi rigorosamente e à jamais; o come il cristiano consapevole che i dubbi e l’ateismo sono ciò da cui sempre la fede deve riemergere. Semplicemente, ma in modi nient’affatto semplicistici, quasi fosse una raison illuministica vista come modesto e già segnato approdo, nella selbst-Darstellung di un suo libro, SP dice in modo piano – ed è la cifra propria di tutto il suo lavoro – di aver svolto la sua ricerca «senza nulla concedere all’irrazionalismo». Della ragionevolezza, per così dire, della ragione è ineliminabile compagna, in uno scavo che, come s’è detto, non termina mai, la sua «autocritica», che già la specificazione di «occidentale», nel suo aspro e contrastato cammino, lascia intravedere.

Questa fiducia – ma direi proprio anche fede – nella ragione, nel parler raison, è così forte, costitutiva in SP che non teme di affrontare, senza paura di perdersi, le sfide più ardue e perigliose, quando altri abbandonano il campo o lo circondano di numerosi schermi gergali e fumosi. La cosa è evidente già in questo stesso libro a proposito di Adorno. Molti direbbero che il sospettoso critico della ragione, sia il meno adatto a comprovare l’assunto di cui parliamo; ma SP è un «credente» che non si lascia smuovere né commuovere, ché anzi è disposto a iscrivere impavidamente nelle fila dell’universale ragione anche Adorno e il suo sodale Horkheimer di Dialettica dell’illuminismo, del resto molto amati, quando si tratti di ricondurre a ragione il nero, sfuggente e quotidiano campo, del «dominio». La sfida forse maggiore è consistita nel salvare Adorno dalle dure critiche che Habermas gli riservò nel Discorso filosofico della modernità, un testo d’altra parte fondamentale tra i points de repère di SP: esemplare è il modo in cui SP si pone contro l’attacco di Habermas ad Adorno, finemente riconoscendogli ragioni e un sostanziale torto.

L’altro termine del titolo, Dominio, non mi risulta essere un termine del lessico marxiano e marxista, nemmeno come Herrschaft del capitalista sull’operaio (ma con l’eccezione, almeno, di Gramsci, per il quale «dominio» è termine chiave come apparato coercitivo dello Stato novecentesco, in coppia con il diverso momento di direzione, consenso ed egemonia); con i francofortesi sta qui a significare, le forme di oppressione sugli altri uomini e su se stessi al di là, non fosse che per il trascorrere del tempo con le sue novità, delle distorsioni ormai canoniche, diagnosticate e combattute da Marx, e poste a base, da Adorno e Horkeimer, di ogni teoria critica ai fini di un’emancipazione sociale e politica: dalla famiglia e dalla riproduzione della vita, dall’«autorità» in generale, fino insomma a ciò cha accade prima e dopo la stretta sfera economica, persino del tempo libero e del divertimento. La ragione, d’altra parte, come s’é detto, se vuol essere pari a se stessa, deve poter mostrare un incessante volto critico, abbracciando e valutando ogni aspetto delle ferite e dei danni che gravano sulla nostra vita, mettendo sempre in campo, appunto, un’«autocritica». Ma con questa più vasta opera la ragione, qualificata subito come «occidentale»,  si muove entro l’unico modo di ragionare che, da Aristotele a Kant e fino a noi, si conosca; e, infatti, con movenza hegeliana, il pensiero torna indietro nello scavo intensive per andare avanti,  giungendo al suo risultato attraverso un’autocritica della ragione stessa, che mentre conosce allarga altresì la sua capacità di comprendere, riemergendo ancor più forte da ogni esercizio critico.

Cercherò ora, a partire dall’ultimo libro appena uscito di SP – La Scuola di Francoforte, Carocci 2023 – di andar dietro geneticamente, fino appunto al capostipite Ragione e Dominio, avanzando in breve qualche motivo che è caratteristico dell’intera produzione scientifica di SP. Con l’avvertenza tuttavia che si tratta di note sparse, che avrebbero bisogno di ben altro impianto e spazio, poiché così come si presentano non sono sufficienti né intensive né estensive a dar conto dell’imponente ricerca di SP in più di 40 anni di intenso lavoro. E, Francoforte essendo non un luogo fisico il cui cuore, pur avendo dato i natali a Goethe, batte al ritmo delle quotazioni in borsa, ma una sorta di categoria dello spirito, una Geistige Heimat per SP, bisogna presupporre la presenza della sua ‘Scuola’, per lode o per qualche biasimo critico, in tutto ciò che verrò dicendo, anche quando non sia apertamente nominata.

La mia prima nota riguarda, come premessa, lo stile o il bello scrivere di SP, subito in qualche tacita opposizione alla prosa di Adorno. Benedetto Croce ha scritto che solo chi pensa bene scrive bene. Forse l’affermazione è troppo perentoria, gravata da un numero eccessivo di eccezioni, ma certo è che la prosa detta in senso largo «scientifica» (ossia non d’arte) ha molti scrittori «ben pensanti» al suo attivo, in una tradizione cui esemplarmene appartiene (o ne è per altri iniziatore), secondo una storia molte volte tracciata, Galilei e in cui si iscrive lo stesso Croce in quanto, è stato scritto, costituisce il «più grande prosatore italiano dopo Manzoni» (Benjamin Crémieux). Non voglio farla lunga, ma SP s’iscrive, a suo modo certo, in questa corrente le cui caratteristiche sono la chiarezza, la concretezza, la precisione e la vicinanza il più possibile al linguaggio comune, come voleva lo stesso Galilei. La notazione non è affatto irrilevante se si pensa che nei pensatori di cui SP si occupa c’è non di rado gergo o vertigine dell’oscurità e che è suo point d’honneur sciogliere ogni pesante ostacolo linguistico nella più limpida forma possibile, tanto ch’è un vero piacere leggerlo.      Anche per questa tersità di scrittura, SP è divulgatore e mediatore tra culture di alta classe, come per esempio nella curatela della difficile Dialettica negativa adorniana, o nella laterziana Introduzione ad Adorno, che volge in buon italiano un pensiero originariamente espresso in prosa avvoltolata, capricciosa e sincopata. Adorno ha scritto un saggio per aiutare i lettori a leggere la difficile prosa hegeliana, posta sulle orme dell’antico Eraclito: ’Scoteinos, ovvero come si debba leggere uno scrittore oscuro come Hegel’ (in Tre studi su Hegel, ed. or. 1963, tr. it il Mulino 1971); ma Adorno stesso ha bisogno, per essere compreso ed esplicato, di traduttori e commentatori come SP, che assumono su di sé il difficile compito di tradurre il «traduttor d’Omero», il caliginoso Adorno. La chiarezza infine è pensata da SP quasi come un compito civile e morale verso i suoi lettori, che perciò gli dovrebbero essere riconoscenti.

La prima cosa di merito su cui ora mi soffermerò è la fedeltà di SP ai suoi temi, e dunque anche a se stesso. Questo può essere anche un limite, quando si continui a lavorare per anni un ristretto campicello; ma non c’è affatto pericolo che questo sia il caso di SP, la cui vastità d’autori e d’interessi è notevole. Ciò vorrà dire allora che non vi sono nel suo lavoro né retractationes di ciò che è stato fatto fin lì, né – refrattario SP a ogni moda, anche quando si occupi di autori alla moda come Marcuse – interruzione della continuità d’interessi in cui irrompano prospettive diverse e di segno al tutto contrario. Le vie sono classicamente segnate da SP fin da da quando era giovane, e il suo lavoro di ricerca consiste principalmente perciò in un lavoro di scavo e approfondimento, di un hegeliano tornare indietro per andare avanti. Già i due libri che abbiamo ricordati, il primo e finora l’ultimo, si occupano di una costellazione vasta di autori e problemi. E SP sa bene come allargare in mille modi questo dominio già non modesto. Penso ad esempio alle tre sillogi tematiche einaudiane che SP ha dedicato a: Modelli di filosofia politica (2003), il capostipite che io amo di più, Democrazia (2014), Politica (2020). In questi brillanti, acuti e del tutto attendibili exploits, non c’è affatto ripetizione del già noto, ma fili di domande originali che danno riperimetrazione e profondità al campo di lavoro. Ed è come fare ogni volta i conti con un intero sapere, che certo è costituito, per SP anzitutto dalla filosofia politica, in senso largo, con i suoi temi e autori, con la sua storia che giunge fino alle realtà che cominciano ad affiorare o si sono appena aperte – ma all’insegna di «novità» di cui vorrei segnalarne almeno due, riguardanti la storia e la filosofia, le due fondamentali conoscenze che Croce diceva geminae ortae.

La prima è la consapevolezza che la filosofia politica, come gli antichi fino Machiavelli ci hanno insegnato, riposa sulla storia tout court, storia come accadere di eventi in cui la politica è saldamente iscritta – attraverso i molti «accidenti» di Machiavelli o, attraverso la sua fonte polibiana, le molte lotte e fatti e peripezie (dia polllon agonon kai pragmaton) – potendo solo di qui trascorrere in idealizzazioni e persino in utopie. Per esempio, ricchi e poveri sono in Aristotele materia direttamente politica, quel che non saranno più in età moderna, quando la stessa complessità dei problemi e l’irrompere sulla scena politica di grandi masse renderanno necessario l’uso dell’astrazione con tutte le sue possibili mistificazioni, donde il limite di immediatezza in taluni dei pur notevolissimi scritti giovanili di Marx, come la Judenfrage. Il senso storico di SP è così vivo da trapassare talora, nelle sillogi di cui ho detto, direttamente nella storia generale cui a volte sono dedicate specifiche rubriche a riscontro di temi e figure filosofico-politiche; ricordo qui solo la Parte prima di Democrazia, con rubriche dedicate tutte e solo alla storia generale (v. per es. pp. 64-79).

 L’altra novità sta nel modo d’intendere il rapporto di filosofia e politica nell’endiadi o sintagma «filosofia politica». C’è qui un pericolo che troppo spesso mi pare non venir scansato, quello cioè di intendere che la filosofia in quest’ambito sia solo quella che serve ai fini di un sapere politico: non di più, e trattato allora nelle convenienti e modeste maniere. Ma non è così, non esistono filosofie solo «locali» e la filosofia è sempre una. Non so, forse era meglio la dizione di Croce, che diceva «filosofia della politica», quasi un intero che si volga ad esaminare particolarmente un ambito della realtà, non una filosofia ricavabile volta a volta dal proprio oggetto. Fatto è che SP è innanzitutto un filosofo tout court, un filosofo «puro», non a caso formato alla scuola di Gennaro Sasso, che si occupa spesso o prevalentemente di politica, mantenendo tuttavia integra e piena la sua capacità di filosofare, a qualunque oggetto si volga. La filosofia nella sua interezza non è affatto un orpello o una belluria per il pensare politico e persino per la «Scienza politica»; tutt’al contrario fornisce non solo rigore logico, ma anche criteri ermeneutici, la capacità di proporre nuove tesi e suggestioni al pensare politico.

Quel che dico riuscirebbe alquanto astruso se non indicassi subito un esempio di ciò che intendo, ricordando uno dei libri più belli di SP, anche se forse non tra i più noti, che s’intitola Etica dell’argomentazione. Ragione, scienza e prassi nel pensiero di Karl-Otto Apel, Marietti 1988 (di cui, come per Ragione e Dominio, mi sembrerebbe molto utile una seconda edizione). Come Apel non è un filosofo politico, se non indirettamente per la congiuntura che lo accostò in un certo tempo ad Habermas, egli stesso non proprio filosofo politico, così del pari SP si tiene qui a questioni squisitamente filosofiche quali la «Fondazione della razionalità e l’idea di semiotica trascendentale», o «Spiegare e comprendere», e così via. Forse è evidente già di qui, inoltre, che questo non è un libro di storia della filosofia, ma di puro esercizio di filosofia in atto. E siccome neanche questa distinzione è del tutto ovvia nel senso che vi sono esimi cultori della storia della filosofia, che non hanno alcun senso e orecchio e gusto di quel che sia veramente filosofare, mi piacerebbe, se avessi tempo, soffermarmi su qualche problema determinato per mostrare cos’è questo filosofare nel libro di SP, seguendolo in esempio circa la domanda sull’«argomento migliore», se c’è e in che consista, un tema dibattuto nella prospettiva dialogica e deliberativa.

Nel denso Prologo a Modelli di filosofia politica, la silloge che m’è più cara SP s’interroga proprio intorno a questo problema, al fatto cioè che la filosofia politica «prima che essere politica è filosofia». Con Leo Strauss si osserva che ogni domanda su ‘cos’è la filosofia politica’ ne presupponga un’altra su ‘cos’è la filosofia’, domanda necessaria per un sapere non codificato, non avente un suo indiscutibile statuto. E’ sconsigliabile ora, ché mi porterebbe via molto tempo, soffermarmi su quale sia il concetto che SP ha della filosofia – che rinvia in generale a un metodo di «argomentazione pubblica, critica e aperta», in una sorta di «ininterrotto dialogo argomentativo», in un «continuo scambio di ragioni e critiche», nella ricerca di «argomenti persuasivi». Gli «strumenti del dialogo razionale» vengono impiegati per dirimere e innanzitutto impostare i grandi problemi della filosofia.

Ma qual è ora l’indirizzo metodico generale nello studio di questi problemi? SP si occupa spesso della classica distinzione tra approccio «normativo», che lui predilige, o approccio «realistico» alla filosofia politica – me ne occupo qui a partire dalla densa e bella ‘Parte prima’ di Politica. Una introduzione filosofica, Einaudi 2020. Il quadro generale entro cui SP si iscrive (e che ha irrobustito anche un mio personale convincimento) è che in ogni seria considerazione di filosofia politica, o della sua storia, non possa mancare né il momento normativo né quello realistico. Pare un asserto ovvio, ma non lo è affatto. Le resistenze maggiori a questa  pacificazione, e dunque la permanenza in una guerra, vengono forse dai «realisti», attaccati platonicamente alle rocce, e sospettosi di ogni posizione che esuli dai cosiddetti «fatti» e dalla loro inaggirabile durezza. Ciò che soprattutto disturba questi austeri esprits forts, che, a partire dal Trasimaco e dal Gorgia di Platone, sempre affermano solo il diritto del più forte, è la presenza di un’antropologia comprensiva della capacità umana di morale e giustizia politica, in un vacuo discorso aperto, come si rimprovera loro, alle sirene dell’ideologia. Ma certo è, d’altra parte, che, sia pur non sempre sottraendosi esso stesso a configurazioni ideologiche, il realismo smaschera pigre abitudini, fa pulizia di ciò che Hegel  chiamava la «pappamolla del cuore», ed è essenziale a ogni seria considerazione della realtà.  I grandi scrittori realistici si leggono volentieri e c’è sempre da imparare da essi: da Tucidite a Machiavelli a Hobbes agli stessi Hegel e a Marx. In conclusione, SP mostra una buona dose di realismo e di critica profonda, che fanno così parte del suo bagaglio culturale, tanto da indurlo a scrivere in questa vena uno dei suoi saggi più belli dal titolo: «Democratizzare la Democrazia. E’ ancora possibile?».

Ma la sfera della morale costituisce, a sua volta, essa stessa un «fatto», una realtà dell’umano che, senza bisogno di alcun fondamento né ora di più complessi ragionamenti, si dà – es gibt, o es geht so – è qualcosa di cui nessuna teoria critica, benché sofisticata, potrebbe fare a meno, e che da parte mia risolverei, con Hobbes, nelle forme della socialità, distinte dai precetti religiosi. Del resto credo che, tra i due campioni moderni del realismo, Machiavelli e Hobbes, così come per certi versi anche in Hegel e in Marx, le cose siano più complesse. Machiavelli non può essere iscritto tout court all’ordine di un radicale e totale realismo, perché non può esser privato della volontà controfattuale di mutare il mondo e mutare se stessi (un centrale passaggio come si vede nella rigidezza dell’esser o impetuosi o rispettivi). Machiavelli fa in realtà ricorso – oltre che a realistici strumenti, come la volontà di un Principe o la ferma costruttività delle leggi repubblicane capaci di creare una seconda natura dell’uomo posta politicamente – alla risorsa morale, etica e persino profetica, dell’ultimo capitolo del Principe, o della «società bene ordinata» dei Discorsi. L’ardita costruzione di Hobbes d’altra parte, l’Hobbes’s argument, non potrebbe mantenersi senza la decisiva risorsa morale della legge di natura ai fini dell’ingresso nella politica.

Se moralità e realismo vanno sempre insieme, sospetta è allora la scelta di un criterio contro l’altro. SP, che pur potrebbe falsamente apparire, richiamandosi apertamente a questa impostazione, un deciso ed esclusivo normativista, non manca affatto di un chiara esigenza realistica, che lo distingue anche da tutti gli ingenui seguaci del solo dover-essere. Il realismo è decisivo come condizione di possibilità e al tempo stesso esito dell’intero discorso argomentativo e deliberativo. In generale a me sembra che SP ascolti con passione e interesse lo svolgersi nel mondo delle cose politiche. Solo che – oltre a considerare il piano della filosofia politica posto in un piano più alto delle mutevoli contingenze – non ama critiche che cerchino di mettere in crisi, nella loro puntualità, il suo intero apparato categoriale di riferimento, per esempio riguardo alla democrazia considerata a muovere, realisticamente, da quella  che conosciamo oggi. Per SP la democrazia, a partire dal così  come la sperimentiamo oggi, costituisce un obiettivo che, nonostante le esuberanti difficoltà del caso, si deve mantenere sempre sullo sfondo, contro le repubbliche «democratiche» solo «immaginate», come diceva Machiavelli, che mai si sono «viste né conosciute in vero essere» (Principe XV); o contro le forme antiche o di spericolate e irraggiungibili o persino sconsigliabili proposte di democrazia: una realtà che per SP si legge essenzialmente nel mondo moderno, tra liberalismo e (eventuale) socialismo (o altrimenti come consapevole e diretto prodotto «engelsiano» del movimento operaio con il modello da altri imitato del suo grande partito socialdemocratico di massa). Le grandi famiglie che costituiscono l’ossatura del pensiero politico moderno sono altresì il masterplan degli studi di SP.

Ci potremmo chiedere da ultimo come la personalità di SP si trasmette nel suo lavoro di grande e infaticabile studioso. Io direi così, che c’è in SP sia un’anima profondamente liberale che un senso forte della comunità. Il tratto liberale, continuerò a chiamarlo così, consiste, nel liberalismo quale veniva definito da Adolfo Omodeo in quanto cioè formazione e natura dell’uomo moderno, critico, laico, curioso, aperto agli altri e al futuro, disposto alla parità tra gli uomini, contrario a ogni forma di retriva chiusura; un liberalismo che deriva in SP da una naturale disposizione oltre che, come suppongo, anche da educazione familiare, e che si mostra ad ogni passo della sua vita e dei suoi studi (così mi apparve quando, ormai poco meno di 50 anni fa, lo conobbi). Ma, proprio perché questo liberalismo è radicale, l’attenzione di SP è rivolta, forse di preferenza, ai limiti e alle insufficienze della democrazia liberale, a ciò che essa ha trascurato, alle molte forme di dominio che non ha combattuto. Ciò apre per SP il grande interesse per il socialismo, la forza capace di colmare questi vuoti, in cui coerentemente Marx è inteso come grande storico e critico della società, pensatore della libertà, la cui intera lezione è insostituibile e inesauribile (cfr. di SP, Marx in dieci parole, Carocci 2020). In una simile lettura, che si è intensificata negli ultimi anni, sono scansate sia le secche delle anguste e minute analisi circa il «vero Marx», con esclusione di altri volti, come ad esempio il «giovane Marx», nonché, meno che mai, le critiche che ne fanno un «cane morto» perché i suoi quarti di scientificità (secondo un rinsecchito concetto di scienza) non sono puri, o infine i tentativi di farne un autore compiuto e magari disposto a esser messo in un insegnamento dogmatico.

L’altro tema, quello della comunità, è forse già in parte mostrato dai lavori di cui parliamo. La «scuola di Francoforte» rappresenta per SP una societas, un collettivo di cui egli è studioso e custode: si veda con quanta cura ne esamina via via le sue figure, per ora fino a Jaeggi e Rosa; e soprattutto con quanta vigilanza ne difenda, al di là delle naturali diversità, una sostanziale e ancor leggibile continuità. La Scuola di Francoforte e il suo lascito sono stati da SP in ogni modo salvaguardati e seguiti attentamente con grande considerazione, ad essi dedicando, come a una grande comunità, non poca fatica e molto tempo. Ma diligenza, solerte riflessione e vigilanza di SP si rivolgono sempre, secondo la sua vocazione, alle comunità di ricerca, non ai gruppi decisamente politici o di partito. La cosa forse più evidente è il caso del Manifesto: un insieme di lavoro culturale e politico, di cui SP ha fatto parte in modo continuo, impegnato e fedele, senza però esser mai coinvolto, mi pare, sul piano strettamente politico e nei tentativi di farsi partito. Nonostante la disposizione alla communitas SP non ha mai sentito il bisogno di aderire a una comunità di partito. Credo che ci sia qui, al fondo, una difficoltà del pensiero a primaria inclinazione liberale, anche nelle persone più aperte, intelligenti e disposte a una strategia di cambiamento politico come Norberto Bobbio – di cui SP fa gran conto, cominciando dall’apprezzamento della sua civile prosa – a comprendere il partito politico, dal punto in cui la volontà generale va oltre il volere dei singoli, dando appunto vita, non potendo il tutto risolversi nel semplice gioco di maggioranza e minoranza, a una speciale comunità (donde la frequente sopravvalutazione, a parer mio, dell’opera di Robert Michels). Ma è un tema difficile e qui solo enunciabile, del quale ho avuto modo di discutere con lo stesso Bobbio nella corrispondenza che per molti anni ho intrattenuto con lui. Mi è accaduto di pensare che SP somigliasse un po’ a Frank Cunnigham, il nostro compianto e comune amico, che, come il suo maestro C.B.Macpherson, cercava di pensare gli sviluppi avanzati della democrazia, a partire dalla situazione canadese e nordamericana, prescindendo cioè quasi del tutto dai partiti politici. Ma oggi che accade, quando la realtà di un partito politico come quelli che abbiamo conosciuto fino agli anni ‘90 costituisce un’esperienza a parer mio qusi interamente consumata, in una situazione che Pietro Scoppola definì come quella del passaggio dalla «democrazia dei partiti» alla «democrazia dei (singoli) cittadini»? Oggi francamente non so se, pur con la perdita di talune esperienze, SP non abbia visto anche prima e meglio di altri quel che si doveva fare e quali ne erano i punti di riferimento.

II  Proposta sui consumi

 Quando si pensa a quel che SP ha fatto è necessario, e comunque non se ne può fare a meno, considerare anche quel che potrebbe fare nel futuro. Mi permetto qui di avanzare alla fine una modesta proposta, che mi darà l’occasione, prima, di parlare ancora dei lavori di SP già eseguiti. Il punto più nuovo e originale di La scuola di Francoforte, il testo appena uscito, sono i tre saggi su Marcuse: non solo perché, vi si affronta con ampiezza e profondità un autore che nel primo libro aveva rilievo molto modesto, né perché si riscopra un filosofo di solito superficialmente ricordato per un solo libro, unius libri, per pochi slogan o per la generica vicinanza al movimento del’68. La ragione principale è che in queste, che sono tra le pagine più belle del libro, c’è una riflessione maggiormente autonoma, libera e originale di SP che si può vedere per esempio nel capitolo sesto, e già nelle sue pagine introduttive, dove si legge cosa SP intenda per capitalismo, crescita economica, rapporto mezzi e fini, neutralità della tecnica, totalità sociale, e così via. Il testo su Marcuse non è privo di un’interessante vena biografica collettiva e forse anche autobiografica, dedicata al «complicato rapporto», pratico o ideale tra i francofortesi e il movimento del ‘68. SP ha un vero talento nell’infilarsi in argomenti scomodi, al qual proposito molti tacciono e per cui occorre libertà e coraggio, come quando fu tra i pochi che affrontarono il tema del crollo dell’URSS. Qui non era affatto facile dire felicemente in breve cosa fu il magmatico e per certi versi anche sfuggente Movimento del’68, un tema di cui bisognerà ancora occuparsi.

Tra le molte altre cose notabili in questa sezione del libro su Marcuse mi soffermerò ora su un tema in apparenza marginale e curioso, che non so fino a che punto sia tutto frutto di Adorno e Horkheimer o se non appartenga anche alla sapienza ricostruttiva di SP, che sa pensare con e oltre i suoi autori, nella direzione da essi indicata. La questione potrebbe esser posta così: nessuna generale forma di vita può dipendere dalla settecentesca imposizione di un tiranno, del soldato o del prete, dal «mero arbitrio dei gruppi dominanti», da una sorta di «follia o insensatezza collettiva». Ci interessiamo molto all’emancipazione dei «servi», ma cosa ha consentito che questa situazione di oppressione durasse secoli o millenni? Qui si parla del capitalismo che da un lato incorpora in sé l’elemento «dell’assurdo o della contraddizione» e non riesce «a superare la scarsità e la penuria se non riproducendola sempre a livelli diversi e più alti» – un’acuta osservazione  di SP circa la «società opulenta», su cui ricordo il contributo de La Rivista Trimestrale – cui si collegano tutte le altre distorsioni generate dal capitale. Ma dall’altro lato il capitalismo è pure una complessa struttura economico-sociale che riesce – si dice – oggi «imbattibile» sul piano dell’allocazione delle risorse produttive, riuscendo a «innescare l’uscita di intere aree del mondo dal cono d’ombra della scarsità e della penuria, di assicurare la soddisfazione di bisogni veri e non solo di quelli falsi e «indotti».

E’ quest’ultima capacità del capitalismo, come vediamo bene intorno a noi, che assicura sempre (se non proprio «occupazione» e «benessere» come voleva Adam Smith) beni che vanno ben oltre la proverbiale ciotola di riso al giorno per tutti i cinesi e che tengono in piedi il capitalismo opulento.  Questa opportunità di lunga vita pone in realtà problemi acutissimi a ogni tentativo di pensare il socialismo, che dovrebbe in primo luogo e necessariamente sapere ciò da cui si discosta, ciò che supera. Ad Axel Honneth mi pare che in sostanza SP dica che, pur con molti pregi, il suo ripensamento del socialismo manca di «storicità» (non tocco il punto dell’eventuale tramonto del capitalismo che somiglia alla seconda venuta del Cristo nel cristianesimo: attesa dapprima come imminente, ma quando, rinviando rinviando, non viene, costringe a ripensare interamente e faticosamente l’essere della Chiesa e dei fedeli).

Questo problema – su che si regga una società di oppressi con pochi «signori» dominanti o perché  un complesso sociale «tiene»anche quando vi sono innumerevoli «servi» – è valido, nel discorso di Horkheimer e Adorno ricostruito da SP non per il solo capitalismo, ma per un tempo sterminato, assicurando continuità alla storia per interi millenni, (v. di SP, Marx al tramonto del secolo, manifestolibri 1995, ‘L’autocritica della modernità nel pensiero di Adorno e Horkheimer’, pp. 95-114). In simili società precapitalistiche i rapporti di dominio hanno sempre avuto una duplice natura: la garanzia del privilegio, certo, ma anche la sopravvivenza e la giustificazione della riproduzione dell’intera totalità sociale. Quest’ultimo elemento, dice SP, può esser configurato come il momento di «universalità», congiunto indistricabilmente con quello della «particolarità» nel dominio. Com’è potuto accadere, si chiede Horkheimer, che «per interi periodi la subordinazione coincidesse con l’interesse dei dominati»? La prima e forse principale risposta degli autori francofortesi riposa sull’originaria penuria dei mezzi di sussistenza e sulle necessità da essa imposta: dalla formazione di un un piano preordinato, più o meno consapevole e manifesto, formulato con una qualche collaborazione dei subordinati (si può fare qui un confronto, dice SP, con il dominio e il consenso di Gramsci), cui tutti devono conformarsi per instaurare, tra l’altro, una stabile gerarchia sociale, a partire dalla distinzione tra lavoro intellettuale e manuale. E a questa risposta si devono aggiungere gli altri campi di dominio «umani e artificiali» di cui abbiamo detto. Né devono sfuggire le innovative ricerche di chi ha configurato il signore come la sola possibile umanità del servo.

Ma che tipo di rapporto c’è allora tra privilegiati e soggetti, tra dominio e consenso? Come si articola un simile problema? Anzitutto la lotta per fare autonoma la civiltà dalla mera natura, come dice bene SP, si deve ampliare nel contrasto all’artefatta instaurazione della coazione e della repressione non solo sociale ma delle più forti pulsioni individuali. Ciò è conforme alla tesi forte di SP per cui l’Illuminismo è criticato nei primi francofortesi non per troppo ma per manco di una più sviluppata teoria critica che abbracci, oltre all’arcaico dominio tecnico e scientifico sulla natura – exeundum e statu naturae, come dicevano Spinoza ed Hegel – anche le forme emancipative che si dicevano un tempo «morali»: l’oppressione degli uomini sugli altri uomini (e su se stessi), a cominciare dalla ricchezza astratta, in quanto illimitato fine a se stessa. Non è sufficiente, dice conclusivamente SP a proposito dei limiti di Marcuse, stabilire con «ingenuità» quali sono «i veri bisogni e i veri fini umani per aver risolto alla radice ogni problema di irrazionalità sociale», né meno che mai, aggiungiamo, per cominciare a risolvere praticamente il problema.

A questo proposito mi pare che ci sia uno iato o un vuoto tra la discussione delle migliori forme di vita e l’inizio della lotta per recarle praticamente, come già teoricamente, in atto, specie se si dice, non a torto a parer mio, che la formazione capitalistica è oggi, dal lato della produzione, «imbattibile» (che non vuol dire in tutto accettabile). Ma se non dalla produzione, si potrebbe forse partire dai bisogni e dal consumo – sostenuto da una forte domanda aggregata e collettiva, non affidata alla dispersione delle singole famiglie, quasi «fini» posti al capitalismo – per provare ad allentare e in parte correggere i difetti del capitalismo, in favore di una società più razionale, sociale, più giusta e, aggiungerei, anche più «bella»? Com’ è noto l’economia politica classica, Marx compreso, negano che il consumo possa mai essere reso nemmeno in parte autonomo dalla produzione. Ma sull’indipendenza dalla produzione stanno alcuni esiti irrisolti dell’economia politica classica, numerosi tentativi fatti dagli scrittori che sono stati detti «utopistici» dell’800, e anche da qualche teoria critica novecentesca. Le domande che in conclusione pongo a SP, volendo guardare avanti, e non solo ripercorrere il già fatto, sono le seguenti. Nella teoria critica francofortese c’è qualche cenno positivo al tema del consumo o i consumi sono solo tenacemente criticati nella forma attuale (consumi indotti, ecc.)? E SP, con la sua esperienza e autorevolezza, che pensa di questa via? e sennò, quali strade ritiene percorribili per cominciare a ovviare al problema che ho detto della riforma, almeno teorica, del capitalismo?

 

 

Foto di Antonio Cecere: Mario Reale e Stefano Petrucciani impegnati in una riunione del comitato scientifico di Filosofia in Movimento nel 2019. 

 

 

 

 

 

Gianni Vattimo e Stefano Petrucciani dialogo alla fine del secolo

In una intervista per L’Unità a fine anni 90 del secolo scorso, Stefano Petrucciani discute con Gianni Vattimo di pensiero debole e della trasformazioni della  filosofia italiana al tramonto del millennio. Una testimonianza che coglie i due filosofi a riflettere intorno alle grandi tematiche che saranno al centro del dibattito nei nostri tempi. Riproponiamo l’intervista per gentile concessione di Petrucciani che con questo ricordo intende rendere omaggio all’amico, al collega e ai rapporti umani e intellettuali che hanno alimentato la fortuna del nostro movimento. Per questo pubblichiamo la foto di Petrucciani e Vattimo a Roma durante un convegno di Filosofia in Movimento per ricordare uno dei momenti più belli per tutti noi.

Intervista: 

«Io non mi sono mai sentito in senso politico e culturale remissivo o dimissionario», dice Gianni Vattimo, ironicamente risentito per il fatto che al pensiero debole sono state addebitate ogni tipo di colpe. Compresa, a suo tempo, quella di aver fatto perdere alla sinistra le elezioni. debole non vuol dire flebile; anzi, quello di Gianni Vattimo vuole essere un pensiero a ridosso del presente dei suoi mutamenti e delle sue inquietudini. Editorialista della stampa è oltretutto uno dei pochi filosofi italiani i cui libri si trovino anche a Parigi, a Londra e a Berlino. Un acuto commentatore del costume, nonché un intellettuale che non disdegna le battaglie politiche e per i diritti civili. Ecco il suo modo di raccontarsi come filosofo

La fede cattolica e la politica, le idee degli anni 60 e 70, quanto hanno contato nella formazione del filosofo Gianni Vattimo?

Le istanze degli anni 60 mi sono arrivate in un relativo ritardo, nel senso che io sono diventato

«maoista» solo nel Marzo del ’68; dal ’64 avevo già l’incarico di Estetica a Torino, e quindi sono arrivato al ’67, all’inizio del movimento studentesco, stando dalla parte sbagliata della barricata. L’atmosfera che si respirava nel mio istituto, con Pareyson, era quella di chi si sentiva molto poco solidale con il mondo moderno, borghese, ma se ne distaccava per ragioni, diciamo così, «heidggeriane».

E le sue radici cattoliche?

Io ero passato attraverso l’esperienza cattolica di Maritain, poi, di lì, ero approdato ai critici della modernità da Nietzsche ad Adorno, a Heidegger. E’ vero che ho trascorso due anni a Heidelberg, dove allora insegnava Habermas, però io, per ragioni puramente esteriori, non capivo il suo tedesco, quindi, anche se ce l’avevo a due passi non l’ho mai ascoltato. Quando sono tornato a Torino, E ho cominciato a insegnare, il mio primo approccio con il movimento degli studenti fu un po’ alla Pasolini. Mi sembravano troppo ricchi per essere dei rivoluzionari (Io ero meno ricco dei miei compagni di scuola) e tutto ciò mi teneva lontano. La fine del 67 fu per me un periodo di sofferenza, stette ma stetti male anche fisicamente e poi, mentre ero a letto convalescente per un’operazione, ho letto più intensamente Marcuse, Kostas Axelos, E mi sono reso conto che era possibile interpretare le ragioni di Heidegger contro la metafisica in modo simile alle ragioni di Marx e di Adorno contro il capitalismo e l’alienazione. I miei libri su Heidegger e su Nietzsche dei primi anni 70 sono un modo di leggere l’oltrepassamento della metafisica come oltrepassamento dell’alienazione capitalistico-reificante, che non era poi una cosa tanto inverosimile.

 

Poi, però, arriva il grande cambiamento di clima dopo la metà degli anni 70 e la svolta del «pensiero debole».

Il mio libro su Nietzsche, «Il soggetto la maschera», quello che è pubblicato da Bompiani nel ‘74, io lo pensavo come se dovesse diventare la filosofia del “Manifesto”, la sentivo come la filosofia dell’ultrasinistra, che invece se ne infischiava altamente.  A un certo punto però il nichilismo diventa la moda culturale post marxista estremistica dell’epoca. Fino al 78 io mi sforzo di pensare insieme Heidegger, il marxismo, e Nietzsche. In realtà il pensiero debole nasce in realtà come conseguenza del terrorismo.

 

Che c’entra il terrorismo?

 

In quell’epoca uccidono Casalegno, io stesso nel ‘78 divento bersaglio di minacce abbastanza serie delle Brigate Rosse, mentre milito nel Partito Radicale, che a mia insaputa mi candida alle elezioni come rappresentante del Fuori, il movimento di liberazione omosessuale, cosa che mi turba abbastanza, perché pensavo: la mia carriera accademica è finita (anche se io ero uscito a 68, come Eco scherzando mi ricorda sempre, non solo maoista ma anche professore ordinario). Il passaggio del terrorismo fu fondamentale; non nel senso che io mi sia convertito perché mi hanno minacciato per telefono, ma insomma ho cominciato a pensare che non si poteva “prendere il potere” perché se si prendeva il potere si diventava dei rivoluzionari professionisti che erano ancora peggio dei burocrati borghesi. Io avevo degli allievi che erano veramente coinvolti col terrorismo, mi sembravano così impregnati di una retorica pauperistica, per cui, tutta l’idea che non dovevamo accettare il rinvio della soddisfazione ( come insegnavano Nietzsche e Marcuse) veniva smentita. Il leninismo era una forma di ascesi drammatica…il pensiero debole allora intende la liberazione come una mossa del cavallo, come una specie di scarto che ridistingue il destino dell’anima da quello della storia. Davanti alle degenerazioni dell’imperativo della presa del potere, unica risposta è l’idea che non si può pretendere di rovesciare l’ordine storico. Si può tuttalpiù seguirlo in certe sue derive di tipo frammentativo, distorcerlo, tirarlo da una parte.

Ma che resta del discorso filosofico se con il pensiero debole lo priviamo del suo elemento argomentativo e razionale?

Pensiero debole non significa solo fine della razionalità totale, bensì anche «ontologia». Il che implica, utilizzando Heidegger che è l’essere stesso che ha questa vocazione al «darsi-sottraendosi», all’indebolimento. Pensiero debole non è solo l’apologia di una ragione non universalistica, non argomentativa. Ma è anche la teoria di un filo conduttore ontologico di indebolimento. Proprio perché l’indebolimento è ontologico, credo che nel discorso della debolezza si trovino anche dei criteri di giudizio, dei criteri etici. Del resto, sono consapevole che la fase puramente decostruttivo-ironica della critica filosofica deve essere superata. Io stesso ho pubblicato non molto tempo addietro un saggio che ho dedicato proprio alla “Ricostruzione della razionalità”.

A proposito di criteri etici, la bioetica è una bella opportunità per i filosofi oppure un grosso pericolo?

Io la vedo anche come un pericolo, perché fatalmente chi domina oggi nella bioetica sono i preti. Cioè quelli che confidano in «essenze naturali». Per esempio, a me gli stessi «diritti della vita» in quanto tale, come essenza biologica, sembrano molto dubbi. Per me il problema non è il valore della vita, e non mi interessa il sopravvivere in quanto tale; la domanda è semmai: cosa possiamo decentemente fare, con le nostre possibilità tecniche, per non doverci vergognare difronte alle persone con cui stiamo? Il riferimento è a una comunità culturale, a una comunità di discorso, come insegna l’Ermeneutica, non a una qualche essenza naturalistica o principio metafisico. Mentre ho paura che finiscano per vincere, nei dibattiti, quelli che hanno una metafisica naturalistica più forte (“l’essenza della vita”, o della riproduzione). E’ per questo che il Papa è costretto a pareggiare la masturbazione con il genocidio, perché non riesce a non ragionare in termini di “uso naturale”.

Oggi molti filosofi (anche lei nel suo ultimo libro) sperimentano forme di comunicazione più personali, narrative, come mai?

Non so. O a lungo mi sono trattenuto da questa effusione individualistica. Il mio ideale del trattato filosofico resta ancora una saggistica argomentativa più neutrale.

Per inciso, a cosa sta lavorando adesso?

Sto finendo di scrivere un libro che uscirà prima in inglese, presso la Columbia University Press, intitolato «Dopo il cristianesimo», che deriva da lezioni americane. E poi ho sempre in cantiere un grande libro che ha già cambiato tante volte titolo e che ora si chiama «Ontologia dell’attualità», il mio «testo fondamentale», che non so mai se finirò. Ma non credo che mi manterrò fedele allo stile che più personale che ho usato in «Credere per credere». Quella è stata soprattutto una scelta polemica verso chi scrive di cose religiose, per esempio Cacciari con una specie di auto-sottrazione del soggetto in prima persona, per cui non si capisce mai bene se «ci crede o no». E possibile in religione fare un discorso così oggettivo, culturale? Io ho avuto troppa storia religiosa personale per potermi accontentare di “sta roba lì”.

La filosofia italiana è sempre un po’ colonizzata e arretrata rispetto alla filosofia europea, oppure no?

Ma no, io non ci ho mai creduto tanto a questa storia; è vero che noi scriviamo in una lingua che viene letta poco, però…ricevo adesso la quarta di copertina che Rorty ha scritto per l’edizione inglese di «Oltre l’interpretazione», che mi loda sperticatamente, sono gongolante.

Ma Rorty non è la brutta copia di Vattimo?

No (ride), per carità! Ma a parte questo la recettività del pensiero italiano rispetto alle filosofie straniere è parso sempre un vantaggio. Perché qui il problema non è l’esportazione del prodotto interno lordo, ma la vivacità intellettuale. Lo sa quanto c’è voluto per tradurre in inglese i «Minima moralia» di Adorno? Più di 20 anni! Ecco, quasi quasi, direi che c’è un “un primato morale e civile degli italiani” …

Viva l’Italia?

E perché no?

 

Tra un velo di malinconia e un sorriso INTERVISTA A GIANNI VATTIMO a cura di Cristina Guarnieri

Per gentile concessione dell’autrice, Cristina Guarnieri, pubblichiamo questo dialogo che Gianni intrattenne con Cristina per una pubblicazione sulla rivista Iglesia Viva- Pensamiento critico y cristianismo (285-2021 ). La pubblichiamo perché tra le parole di Gianni e di Cristina si snoda tutta la profonda umanità di uno dei più straordinari pensatori del Novecento italiano. Per noi, che perdiamo un amico e insieme uno dei fondatori e attivisti del nostro Movimento, questo è un documento essenziale per tenere vicino il pensiero e la voce del fondatore del Pensiero debole.

La conversazione con Gianni Vattimo si è tenuta una sera di fine febbraio 2021. Il tratto che più mi ha colpito nel corso della nostra chiacchierata è stato l’affabilità del suo carattere e il suo desiderio di introdurre sempre, nel corso del dialogo, una battuta di spirito, un guizzo di divertissement capace di alleggerire il discorso e di stemperare la gravità delle affermazioni. Abbiamo iniziato con domande di carattere biografico.

Quali sono stati gli incontri più significativi della sua vita?

 

Potrei cominciare dall’infanzia. Un incontro importantissimo della mia vita è stato quello con due sorelle droghiere del mio quartiere – le chiamavamo le “sorelle De Gasperi” perché erano molto democristiane. Sono loro ad aver spinto mia madre a mandarmi all’oratorio. Di lì, poi, ho cominciato a diventare un piccolo santo!

Il tono di Vattimo è spesso ironico, la conversazione assume fin dall’inizio un ritmo divertito.

 

Gli incontri decisivi, poi, sono stati quelli con i maestri.

Anzitutto il mio direttore spirituale, Mons. Pietro Caramello, che è stato un grande tomista. Curava per la casa editrice Marietti le edizioni di San Tommaso ed era cappellano della Sindone.

Mons. Caramello ha aiutato molto la mia vocazione filosofica. Per tanto tempo, durante il liceo prima e l’università poi, avevo spesso la tentazione di abbandonare gli studi per lavorare e don Pietro mi incoraggiava molto, mi sosteneva con grande dedizione, talvolta anche economicamente. A lui sono stato molto legato, è stato per me una guida spirituale, un maestro, un filosofo.

In quegli anni, intanto, lavoravo molto anche per conto mio. Quando mi sono iscritto all’Università, ho studiato con impegno, volevo fare lo scrittore e mi comportavo già come un intellettuale. Ho concluso il mio percorso universitario scrivendo una tesi con Luigi Pareyson, che fu professore di Estetica prima e di Filosofia teoretica poi all’Università di Torino. Anche quello con Pareyson è stato un incontro molto importante per la mia vita. Lui fu prima il mio grande maestro e poi un amico che mi ha accompagnato per tutta la vita.

Un altro incontro decisivo è stato quello con Hans-Georg Gadamer, che era professore ad Heidelberg, dove ho studiato per circa un paio d’anni.

 

Se guarda alla sua vita, qual è una memoria particolarmente incisiva che le viene in mente?

Un momento importante è stato quello in cui cominciavo a elaborare la mia filosofia. Ricordo in particolare un incontro a Perugia cui parteciparono anche Hans-Georg Gadamer, Valerio Verra e Carlo Sini. In quell’occasione ho sentito una forte vitalità filosofica dentro di me, una grande vivacità.

C’è un verso del poeta tedesco Friedrich Hölderlin che amo citare – che Heidegger spesso riprende –, che recita:

Nur zu Zeiten erträgt göttliche Fülle der Mensch.

Traum von ihnen ist drauf das Leben.

«Solo a momenti l’uomo sostiene la pienezza divina.

Sogno di loro si fa allora la vita».

Ci sono degli istanti di illuminazione nella vita di ciascuno di noi, per me sono stati momenti come quello a Perugia.

Anche la scrittura del libro su Nietzsche è stata molto importante, perché scoprivo delle cose, o almeno credevo di scoprirle io…

Lei è stato uno dei maggiori interpreti di Nietzsche e di Heidegger. La sua visione del postmoderno è scaturita in fondo anche da una sua nuova interpretazione dell’opera di questi due filosofi. Quali sono oggi, dopo tanti anni di studio e di confronto con il loro pensiero, le eredità più preziose che a suo parere ci hanno lasciato?

Direi: ciò che riassumo nel concetto di “ermeneutica”. È essenziale ancora oggi la lotta contro la metafisica in quanto “oggettivazione dell’essere”, come la definiva Martin Heidegger. L’essere è un dato personale, dunque il rapporto con l’Essere è un rapporto personale. Perciò l’essere non è “oggetto”: questa è la cosa più importante che ho imparato da Heidegger.

Fra l’altro, è proprio per questo che posso essere credente. Se non fossi heideggeriano non sarei credente e se non fossi credente non sarei heideggeriano.

E Nietzsche, invece?

 

L’essenziale di Nietzsche è il nichilismo, ma il nichilismo è la kenosis, è Dio che si nega. Tante cose di Nietzsche sono importanti, ma tutto il suo antistoricismo, il suo irrazionalismo, le sue riflessioni contro la modernità sono fondamentali.

Una sua immagine mi è sempre rimasta impressa fin dalla mia prima lettura delle sue Considerazioni inattuali (in particolare quella intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita): l’uomo moderno si aggira nel giardino della storia come in un deposito di maschere teatrali prendendo ora questa ora quella.

A proposito di storia, Lei avverte la differenza fra l’epoca attuale e gli anni Sessanta e Settanta in cui è maturato il suo pensiero?

Quella era la mia epoca, mentre non ho un giudizio preciso sul tempo attuale, dato che ormai vivo ai margini di tutto. Sento però un aumento continuo del controllo sulle nostre vite, ma non ho sviluppato un’idea chiara del mondo com’è, per potermene lamentare.

 

Qual è l’idea più importante che lei sente di aver veicolato con il suo pensiero, l’eredità più significativa che lascia alle nuove generazioni?

 

Dopo i miei lunghi studi sui testi di Heidegger, è da lui che ho cavato un’idea che reputo fondamentale. Si tratta sostanzialmente di una interpretazione del cristianesimo. Quel che in Heidegger è «l’essere che si dà» [das Sein, das es gibt] ma che non si dà completamente, che c’è e non c’è, si può tradurre nella kenosis di San Paolo.

Come spiegarlo?

Il cristianesimo è la religione di Dio che si autoriduce. E questo è anche la filosofia di Heidegger. Il pensiero debole esprime appunto l’idea che l’essere non sia una struttura stabile, ma un accadimento, una serie di accadimenti, di epoche, di aperture storico-destinali. E questo accadere non è casuale, bensì ha una storia, che è appunto la storia del cristianesimo come progressiva secolarizzazione della verità.

L’essere accade e, nel suo accadere, progressivamente si nega, senza finire nel niente. Anzi, è una presenza, ma una presenza che si occulta, che si sottrae, che non si impone, come il Dio di Gesù.

 

 

Ho sempre trovato molto suggestiva la sua lettura della secolarizzazione come inveramento del cristianesimo, in quanto la secolarizzazione sarebbe il passaggio a una epoca in cui si indeboliscono i valori forti. Non le sembra però che manchi, nel nostro tempo, il senso del sacro? Il cristianesimo, come ogni monoteismo, non è anzitutto un rapporto con l’Altro per eccellenza, un rapporto asimmetrico con una dimensione trascendente, che resta inattingibile e marca un limite invalicabile? Il processo di secolarizzazione non ha piuttosto strappato il velo al sacro?

 

Bisognerebbe anzitutto intendersi e definire il problema del sacro. Io sono molto d’accordo con René Girard che ha teorizzato il sacro come violenza. È anche di lì che sono partito per elaborare l’idea della secolarizzazione come evento positivo della storia del cristianesimo.

La kenosis, l’indebolimento, la debolezza di Dio, è il senso del cristianesimo, non un accidente negativo. E tutto questo ha molto a che vedere con l’idea del sacro come violenza. Il sacro, secondo Girard, è la vittima. Ma Gesù non ha nulla a che spartire con tutto ciò. Il cristianesimo non è una religione vittimaria: è invece una religione della positività dell’essere. Il Dio del cristianesimo è un essere che si dà giustappunto nella misura in cui lascia essere gli esseri, gli enti. Dio non si dà in presenza, perché altrimenti tutto il resto sparirebbe. Si dà sottraendosi.

 

Che fine fa, però, il rapporto con la trascendenza? Con l’Altro con la A maiuscola, non il piccolo altro che noi siamo?

 

L’Altro con la A maiuscola non è qualcuno che è.

C’è una bellissima frase del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, molto incisiva a questo proposito, che dice che «un Dio che c’è, non c’è». Esiste ma non si dà. È questo il punto.

L’Altro del cristianesimo non è una trascendenza da intendersi nel senso di una presenza che sarebbe oltre le presenze dei piccoli altri, ma è una presenza talmente misteriosa che in qualche modo non è data. Dio non è un dato.

 

Questo pensiero è molto vicino all’idea ebraica di Dio: il nome impronunciabile, il volto irrappresentabile…

 

Nel cristianesimo però c’è l’Incarnazione. L’incarnazione di Dio è misteriosa al punto da essere un crocifisso. Non è qualcosa che si impone definitivamente, ma si dà.

Adesso non ero preparato [dice ironicamente] a una professione di fede su due piedi…

Ad ogni modo, il Dio di Gesù Cristo non è il Dio dell’Antico Testamento, talmente trascendente che non se ne sa nulla, ma è un Dio che si presenta nella forma umile di qualcuno che è come noi.

Lei dove crede di pregare Dio? Nel volto dell’altro. L’Altro con la A maiuscola si dà soltanto attraverso gli altri con la a minuscola.

 

 

Nella libro-conversazione con Piergiorgio Paterlini intitolato Non essere Dio. Un’autobiografia a quattro mani lei scrive: «Io sono sempre stato un credente nella provvidenza, non so bene se la provvidenza è di Dio o delle cose in quanto tali, ma certo non sono così pessimista sul fatto che il mondo andrà a ramengo». Come si concilia il nichilismo con il suo credere nella provvidenza?

 

Credo nella provvidenza nel senso che, appunto, non la maneggio. Ci credo nel senso che tutto sommato io sono in manos tuas.

«Signore nelle tue mani confido la mia esistenza».

In manos tuas commendo spiritum meum.

Questo è il punto.

Il Dio in cui credo, ovviamente, non è un Dio che non esiste. Eppure è un Dio che non si vede, in tanti modi.

«La vista, il tatto, il gusto, in Te si ingannano. Ma solo con l’udito si crede con sicurezza».

Visus, tactus, gustus in te fallitur. Sed auditu solo tuto creditur.

 

 

Lei ha sostenuto più volte di non aver bisogno di Dio, ma del cattolicesimo sì, perché, come ha scritto, «la sola possibile Internazionale comunista oggi è quella della Chiesa cattolica di papa Francesco».

Forse ho esagerato! Ma quando dico che non ho bisogno di Dio, lo intendo nel senso di quella frase di Bonhoeffer di cui parlavo prima: einen Gott, den es gibt, gibt es nicht.  «Un Dio che c’è, non c’è».

Invece la Chiesa è importante. In fondo, Gesù risorto è la Chiesa vivente. Però la Chiesa è anche l’altro, l’altro nel senso minuscolo.

Dando spessore filosofico al postmoderno, lei è stato talvolta accusato di essere il cantore del neocapitalismo trionfante e delle sue illusioni. Alcuni hanno affermato che la critica radicale alle ideologie e l’accento che lei ha posto sull’interpretazione siano stati in realtà funzionali al nuovo orizzonte, sempre più dominato dal virtuale e dalla liquidità immateriale – a cominciare da quella del denaro e della finanza. Come ripensa a queste critiche, oggi che la virtualità e la finanziarizzazione del mondo si sono estese in modo così onnipervasivo?

Questa, effettivamente, è una cattiva interpretazione del postmoderno, anche se, a dire il vero, adesso non mi farei impiccare per il postmoderno. Possiamo dire che la modernità è stata caratterizzata da un eccesso di razionalizzazione. Nulla, neppure il marxismo – nella misura in cui tutto sommato anch’io lo accetto – ha bisogno dell’hegelismo, di una razionalizzazione rigorosa, mentre invece la modernità dall’Illuminismo in poi ha voluto essere questo. Il postmoderno era un modo per aprire l’orizzonte e far sentire che l’Essere non è una struttura, quanto piuttosto un accadimento. È, in qualche modo, l’accadimento cristiano, la non determinazione del futuro.

 

Ma secondo lei, confrontato con il mondo di oggi – penso alla catastrofe ecologica attuale, alla crisi del capitalismo, ai grandi flussi migratori, ecc. –, il “pensiero debole” da lei promosso dovrebbe elaborare nuove proposte? O lo sente invece ancora attuale?

A dire il vero, lo sento ancora molto attuale. Il mondo contemporaneo va sostanzialmente verso un disciplinamento continuo, sempre più intenso. Basti pensare alle varie forme di controllo esistenti, che si esercitano su di noi, o all’economia sempre più strutturalmente dipendente dal calcolo. Dinanzi a queste realtà, credo quindi che il pensiero debole goda di una sua particolare attualità come resistenza religiosa al determinismo dominante.

Come risponderebbe alla critica secondo cui il pensiero postmoderno, avendo relativizzato la verità assoluta, avendo “alleggerito” – come direbbe lei – la verità e il fondamento ultimo, avrebbe aperto la strada alla post-politica e alla post-verità?

Il problema della verità è che la verità è interpersonale. Quanto più ci sono interpreti, tanto più c’è verità; quanto meno esistono liberi interpreti, tanto meno c’è verità. Invece, la situazione attuale di una verità tecnologizzata, posseduta per esempio soltanto dai media, finisce per costituire la morte della libertà, e la fine stessa della verità.

Nell’epoca della post-verità, cosa rappresenta per lei Internet? È uno spazio di libertà o uno strumento di controllo, la manifestazione e il braccio lungo del “capitalismo della sorveglianza” – per usare l’espressione di Shoshana Zuboff?

Lo temo molto, ma naturalmente, come sempre accade, anche l’universo della rete è un universo ambiguo. La possibilità di comunicare rapidamente attraverso Internet non è in sé necessariamente l’affermazione del dominio. Di fatto, però, le cose stanno andando in quella direzione.

Io credo che l’unico futuro che si possa immaginare per un mondo tecnologizzato come il nostro sia una continua contestazione politica dall’interno. Tendenzialmente, dovrebbe essere attiva una forma di anarchismo continuo.

Come combattere il dilagare di bufale, false notizie, lo scomposto prevalere delle emozioni, delle teorie complottiste, delle opinioni, senza ricadere nel dogma di una verità assoluta?

 

Soltanto la carità può sostituire la verità. Non è tanto la verità che conta, ma la carità verso l’altro, che comporta un’apertura all’altro. Questa apertura fa cadere anche la verità, in qualche modo.

Non è l’idea di verità che mi sta a cuore, ma l’idea di carità.

Un tratto che mi colpisce molto di lei, che si avverte nelle sue interviste e nelle sue autobiografie spesso commosse, è la costante presenza della ricerca d’amore. Rispetto a tanti filosofi dediti soltanto a discorsi epistemici, sociali o logico-razionali, lei fa sentire la sua cifra autobiografica e il suo desiderio di essere amato. Le sembra che l’eros ai giorni nostri sia – come afferma Byung Chul-Han, «in agonia»? Scrive infatti Byung Chul-Han: «Lʼamore viene positivizzato, oggi, in una formula per il godimento. Esso deve produrre soprattutto sentimenti piacevoli. Non è più una trama, una narrazione, un dramma, bensì emozione ed eccitazione prive di conseguenze. Lʼamore è libero dalla negatività dellʼoffesa, dellʼassalto o della caduta. Cadere (innamorati) sarebbe già troppo negativo». Che fine fa l’amore nell’era del capitalismo sfrenato?

Fa una brutta fine! Si riduce all’amore di Dio [dice scherzando].

Ho un vissuto personale un po’ problematico, perché sono omosessuale. Se devo parlare d’amore, ne parlo soprattutto per i compagni che ho avuto, per le persone di cui sono stato innamorato. In questo momento, francamente – un po’ per ragioni autobiografiche, poiché sono vecchio, un po’ per ragioni storiche –, ho l’impressione che ci sia davvero una grave carenza di disponibilità nei confronti dell’altro. C’è effettivamente una crisi dell’amore vissuto.

La preghiera che recito più spesso è: «Signore insegnami ad amare», perché non so bene che cosa voglia dire.

Prego molto anche per Papa Bergoglio: prego perché vinca e prevalga su tutto la sua visione della Chiesa come disponibilità alla carità piuttosto che come un insieme di giudizi. Quando il Papa, interrogato sull’omosessualità di qualcuno, dice: «Chi sono io per giudicarlo?», sta esortando noi tutti affinché la Chiesa sia promotrice di amore. Anche di amore umano, non solo di quello soprannaturale. Il rapporto tra questi due tipi di amore è molto stretto, in realtà.

Se ripenso alla mia vita, ho sempre vissuto l’erotismo come un aspetto dell’amore di Dio, non come qualcosa di alternativo, come se l’amore umano fosse da buttare rispetto a quello divino. Sono due dimensioni che vanno di pari passo. Sono convinto che Papa Francesco sia di questa opinione, anche se probabilmente sarà molto difficile per lui poterlo dire liberamente…

Secondo molti psicanalisti, il nostro tempo sarebbe contrassegnato dalla perdita del desiderio e dall’impero del godimento assoluto: il godimento d’oggetto. La nuova economia psichica – per citare un libro dello psichiatra francese Charles Melman intitolato L’uomo senza gravitàche contraddistingue la clinica contemporanea si fonda su un nuovo imperativo: «Godere a tutti i costi!». Si può godere di tutto, si deve godere senza limiti. Lei condivide questa lettura?

Il male per me è proprio questo: l’assenza di limiti, l’impossessamento di tutto.

In fondo, è anche per questo che sono un cristiano, tutto sommato.

Molte volte, nelle sue interviste, le ho sentito dire che essere cristiano per lei è un’esperienza di libertà. La libertà, d’altronde, è spesso al centro dei suoi discorsi e dei suoi scritti. Cosa significa per lei, oggi, essere libero?

Essere libero è la ragione per cui sono credente. Se sono libero è perché nasco da una libertà. La libertà per me è il fatto che nessuno possa argomentare filosoficamente contro il fatto che io mi senta libero. Non esiste la libertà scritta da qualche parte. Esiste la libertà come atto di qualcuno che decide liberamente. Anche per Kant si trattava di qualcosa del genere. La libertà è un atto che esiste nella misura in cui si afferma, non è qualcosa che si possa definire in astratto.

Cosa la rende felice in questo momento della sua vita? E cosa la rattrista?

 

Mi rende felice avere qualcuno vicino.

Mi rattrista, invece, la scomparsa degli amici, l’assenza delle persone amate.

Si sente tanto questa sua tonalità emotiva, questo calore umano, leggendo i suoi libri…

Sono contento che si percepisca. Forse questo mi rende un po’ meno infelice.

Ci sono oggi dei filosofi viventi che ama leggere, che apprezza? Àgnes Heller mi diceva sempre che la filosofia ormai è morta, che il XXI secolo non ha più dei veri filosofi… Lei che ne pensa?

Sono abbastanza d’accordo. Mi dispiace, ma non vedo nel panorama filosofico attuale nulla che mi appassioni veramente. Non leggo filosofi viventi, torno volentieri sui classici. Mi interessa rileggere Wittgenstein, per esempio, oppure Rorty.

Adesso sta scrivendo qualcosa?

Vorrei scrivere un libro sulla religione di Papa Francesco, ma non so se ci riuscirò.

La conversazione si conclude in una regione di mezzo, fra un velo di malinconia che accompagna il suo discorso e un sorriso che attraversa la sua voce, un sorriso pronto al gioco, al gioco delle interpretazioni. Mi raccomanda, infatti, di scrivere una buona intervista e di “inventare”, all’occorrenza, di “creare”. Credo che questo sia, appunto, lo spazio di libertà che il pensiero ermeneutico del Novecento lascia in eredità a ciascuno di noi. Lo spazio della verità che si dà nel dialogo, e si nasconde.

Recensione a J. Sanchez Tortosa, La libertad desnuda (ed. Confluencias, Madrid 2022)

di Carmine Luigi Ferraro

Qual è il percorso dell’idea di libertà nella storia umana? Nel testo che presentiamo, J. Sánchez Tortosa ci mostra come tale idea si sia sviluppata nella letteratura, nella filosofia, nell’estetica, spesso attraverso percorsi antagonisti, se non incompatibili. E tuttavia se c’è un argomento di fondo, comune ai diversi percorsi, questa è la teologia. La libertà nasce infatti come nozione teologica, legata all’Assoluto ed il tentativo di liberarla da questo abbraccio, ha finito- in realtà- con il rafforzare tale legame. Tortosa inizia a considerare il paradosso della libertà che, nel percorso della civilizzazione, inizia laddove c’è la schiavitù. Nelle società schiaviste, la libertà è garantita solo a pochi e l’idea di libertà la troviamo coltivata nella produzione mitologica, letteraria, storica, giuridica, teologica…. Nell’antica Grecia, la libertà è concepita come potere, legata al culto di Hera e Zeus nei riti di liberazione degli schiavi. Lo schiavo può rifugiarsi nel tempio ed ottenere la propria libertà: un rito sacro dunque, vissuto come epitome della condizione stessa dell’essere umano. Al di là dei miti, sono gli ambiti giuridico-economici quelli in cui si inizia a definire l’idea filosofica della libertà. Infatti in Grecia ed a Roma, la condizione del cittadino è contraddistinta dalla possibilità di avere tempo libero nel quale negoziare, discutere, immaginare…; l’uomo libero è, insomma, colui che è libero dal lavoro servile o manuale, al quale è invece legato il servo. Il cittadino ha inoltre il diritto di proprietà e le garanzie giuridiche…, ci sono cioè delle strutture codificate, con una certa oggettività operativa ed indipendente; per cui la libertà non è individuale o personale, bensì giuridica, politica, istituzionale, comunitaria. Tenendo conto di tutto ciò, se ne deduce che la libertà non è data per se, ma la si costruisce, si forgia, è Paideia, è scuola: ossia il tempo liberato da lavoro manuale e dedicato alla formazione, alla conoscenza che libera la condizione umana dalla paura di re e tiranni, dagli dei, dalla propria mortalità, che sono i sintomi dell’ignoranza. Da questo punto di vista, la libertà diventa obbedienza alla ragione, come considerato da diversi autori, da Platone a Cicerone, da Virgilio fino a Dante, Spinoza, sia pure con sfumature diverse. San Agostino è invece colui che inaugura il senso ontologico della libertà quando afferma che la volontà ed il libero arbitrio possono essere complici delle passioni. Questo perché il libero arbitrio rappresenta la possibilità della scelta, un dono caritativo di Dio per poter fare realmente il bene morale. Libertà piena è allora l’esercizio sensato del libero arbitrio, la giusta scelta, il cui massimo grado si trova nella sottomissione dei desideri alla ragione. Le cose buone, come quanto di libero c’è nell’uomo procede da Dio. Tortosa però sottolinea come questo volontarismo teologico faccia venire alla luce una serie di paradossi, dilemmi, aporie per ciò che riguarda la quotidianità della scelta, come struttura materiale nella quale si esercita il libero arbitrio. Ciò viene illustrato dal dilemma dell’asino di Buridano del teologo J. Buridan (1300-1358), discepolo di Ockam (ma si possono trovare antecedenti anche in Aristotele, Dante e più tardi in Spinoza), nel quale l’asino posto davanti a due sacchi di fieno indiscernibili, finisce con il morire di fame, di inazione, per non essere stato capace di scegliere. E’ questo un caso di estrema incapacità, il grado zero della libertà. Durante la Riforma, la concezione teologica dell’idea di libertà viene contestata e culmina nella polemica sul libero arbitrio fra Erasmo e Lutero, che può essere riassunta in questi termini: il primo continua ad affermarlo in convivenza con la volontà di Dio; Lutero lo nega perché incompatibile con l’infinità volontà di Dio. A questo dibattito, l’autore inserisce anche la riflessione di Spinoza, particolarmente analizzata, il quale arriva alla conclusione che la libertà è solo obbedienza alla ragione. Kant per salvare la libera volontà, ritiene che non sia possibile risalire all’infinito nella serie delle cause, richiedendo in tal modo un principio primo. La sua esistenza è allora collegata ad un presupposto: al metafisico, al teologico, ancora una volta. Dalla ragion pura, quindi, discende la libertà come postulato della ragion pratica. Nell’idealismo tedesco, la volontà è chiave dello spirituale, ottenendo una riunione della scissione ontologica fra soggetto ed oggetto (essere e dover essere, sensibilità e Ragione…). Secondo questo dominio ontologico, non c’è sapere o essere che non sia incarnazione della libertà illimitata di una soggettività totale. Lo Spirito Assoluto è il superamento di ogni contraddizione che tormenta gli uomini; e tuttavia –sottolinea Tortosa- l’identificazione fra spirito e libertà finisce con l’inaugurare il cammino verso una totalizzazione dell’essere, che diventerà una caratteristica del XX secolo. Sarà Sartre a riprendere l’alternativa limite fra essere e nulla, utilizzata dall’idealismo contro Spinoza, che si esplicita in questi termini: «il non-io determina l’io, per cui nel materialismo assoluto di Spinoza, ogni scappatoia del libero arbitrio si dissolve, poiché una piena oggettività produce ogni singola soggettività; oppure l’io determina il non-io, ed allora si erige l’affermazione di una libertà sovrana, fondante, di un soggetto assoluto che invade l’individuo e lo divora spiritualmente» (p. 139). Nella sua opera L’essere e il nulla, come ne L’esistenzialismo è un umanesimo, Sartre sostiene una tesi fondamentale: l’uomo è condannato alla libertà, e perfino rinunciare alla libertà costituisce un esercizio di libertà; una sorta di fanatismo della libertà. Sartre sostiene quindi che l’uomo è caratterizzato dalla capacità di decidere, di autodeterminarsi, è destinato alla libertà, ma anche il peso della responsabilità. Ma Sartre, al pari della libertà, è anche vittima degli orrori che hanno contraddistinto la storia del secolo XX: il nazismo a livello personale, e lo stalinismo di cui è vittima intellettuale, finendo con il subordinare l’esistenzialismo all’ortodossia marxista-leninista, concludendo così il ricco percorso della storia contraddittoria, paradossale della liberà descritto da J. Sánchez Tortosa, anche attraverso un percorso iconografico che la stessa ha avuto nella storia dell’arte. «I suoi tragici paradossi – afferma concludendo l’autore- la lasciano nuda e avvolta sotto gli stracci, le maschere e gli abiti che le manifestazioni iconiche segregano, risplendendo ancora delle sonnolente e banali soggettività dei tempi digitali. Catene rinnovate in versione algoritmica sottopongono i servi soddisfatti a fantasticherie spettrali punteggiate da riflessi narcisistici. Battendo sotto l’immagine, la dea della libertà tace, incapace di farsi sentire in mezzo al chiassoso deserto degli uomini» (p. 148).

Non ultimo fra i paradossi della libertà – aggiungiamo noi- vi è sicuramente quello fra libertà e sicurezza, che in Italia abbiamo vissuto particolarmente negli ultimi due anni, ed introdotto già nel corso del Seicento da J. Barclay nel suo romanzo Argenis (1621): «O rendi agli uomini la loro libertà o dai ad essi la sicurezza per la quale abbandoneranno la libertà». Due paradigmi antitetici e che verranno sempre usati, specie durante le epidemie, le catastrofi, dai Governi europei per governare secondo i propri interessi, facendo credere ai cittadini che si opera in nome della loro tranquillità e per il loro futuro.

Ciò che viene dalle stelle. Tentativi di recupero del desiderio.

di Zoe Cocco

 

Desiderio. Cosa significa? Che cos’è? Cosa vuol dire desiderare? Quello che desidero è il frutto di un’influenza esterna oppure no? È giusto desiderare? Cosa si può desiderare? Cosa non si può?

In classe con gli studenti capita spesso di affrontare queste domande.

Ancor più spesso si sente parlare di desiderio al bar, al centro commerciale, dall’estetista.

Anche in biblioteca, negli occhi dei “cercatori di libri”, si percepisce desiderio.

Infine noi stessi, nel nostro piccolo e sconfinato mondo personale, ci ritroviamo a fare i conti con il desiderio.

Un termine che rimanda ad un’alterità irraggiungibile (de-sidus, ciò che viene dalle stelle) che tuttavia funge da motore della nostra agentività, della nostra forza di agire nel mondo. Leggendo il libro di Valeria Bizzari si comprende quanto sia necessario “SOstare nei desideri”.

L’utilizzo del plurale non è casuale poiché il termine oltre a rappresentare l’Altro, ad essere espressione di una mancanza incolmabile, si presenta anche come pluralità poiché la costante assenza fa si che vi sia un continuo spostamento del desiderio  da un oggetto ad un altro, da un soggetto ad un altro.

Ma questo pluralismo si evidenzia ancora di più, si fa da bidimensionale a tridimensionale, giacché non solo il desiderio si sposta da un oggetto ad un altro, ma può assumere nature le più diverse: desiderio amoroso, desiderio di conoscenza, persino desiderio di aspetti che suscitano disgusto, desiderio come slancio creativo e resistenza all’omologazione. Tutte queste declinazioni di desiderio presentano a loro volta sfaccettature diverse per cui non è del tutto sbagliato immaginare un io immerso in un mare di desideri.

Quindi un libro sulla storia del pensiero filosofico sul desiderio? No. Tutt’altro. Una riflessione sull’oggi. Sull’importanza di accettare tutte queste alterità e di sostare dentro tutte queste alterità; di imparare ad ascoltare i nostri desideri per evitare di “cadere nei pericoli del desiderio”. Perché sì, si potrebbe incappare nel “desiderio di piacere”, quello che fagocita il Don Giovanni di Mozart o ancora nella probabilità, non remota al giorno d’oggi, di ritrovarsi a desiderare qualcosa che l’io non desidera affatto. In questo il pensiero capitalista prima e i media e i social a seguire l’hanno fatta da padrone, proponendo un menù molto invitante di “oggetti da desiderare”. Hanno fatto di più. Hanno trasformato i soggetti in oggetti: i corpi sono stati oggettivizzati e l’ocularcentrismo – che da Aristotele in poi ha caratterizzato la storia dell’Occidente – ha fatto il resto. Tutti, senza porci in uno stato di vulnerabilità (concetto non gradito perché ha sapore di fragilità), possiamo vivere “appieno” le nostre vite seguendo desideri preconfezionati che non ci “scompongano” e che ci creino l’illusione di essere liberi. Eppure, proprio perché non ci scompongono, potrebbero, al contrario, essere dannosi per la costruzione della nostra identità poiché come ci insegna il racconto di Amore e Psiche […] la vita è sostanzialmente vita desiderante e tutta la vita psichica, nel suo crescere […] è fondata sulla forza del desiderio [ quello che ci rende vulnerabili]. Insomma, la psiche umana ed il desiderio nascono insieme (G. Caselli, 2023). Non c’è io, senza desiderio.

C’è poi un punto che va chiarito riguardo ai pericoli del desiderio e al peso delle influenze esterne e mi si conceda una breve parentesi di natura antropologica. Non siamo monadi sparse nell’universo. Siamo persone che vivono sul piano diacronico e sincronico in un determinato tempo e in determinati luoghi e che naturalizzano, fin dalla nascita, atteggiamenti, modi di pensare, modi di agire, modi di desiderare. Non saremo mai scollegati dal mondo che ci circonda e dalle influenze che ci hanno “tirato su”. La domanda allora sorge spontanea: quindi qualsiasi desiderio sarà sempre influenzato, in una certa misura, dall’esterno? La risposta è sì. Ma in quale misura? Sarà possibile sperimentare un desiderio libero?

Una trattazione chiara, coerente, attuale che prendendo le mosse dalla Grecia antica vuole comunicare l’urgenza del recupero del desiderio come pratica etica che non ha nulla a che fare con teorie morali, con la religione e con la virtù. Un’etica coraggiosa che può dipanarsi anche dal peccato.

Una trattazione commovente.

Un libro utile agli insegnanti, utile agli studenti; utile ai frequentatori assidui di “non-luoghi”, ai clienti compulsivi di Amazon e ai fruitori di social. Il che, in buona sostanza, vorrebbe dire tutti noi.

 

Rivoluzione (una recensione)

di Ivana Rinaldi

 

Scorrendo il volume Rivoluzione curato da Domenico Bilotti e edito da Castelvecchi ci si aspetterebbe una trattazione delle rivoluzioni “storiche” dell’età moderna, da quella francese a quella sovietica. A sorpresa, invece, gli scritti, che vedono, oltre l’ampio saggio di Bilotti, i contributi di Giuseppe Carbone, Francesco Cecere, Ola Cuzba, Guido Liguori, Laura Paulizzi, Maria Reale, Rosaria Zuccarello, sono un viaggio stimolante sulle molte e possibili declinazioni che il termine assume, dalla scienza all’arte, dalla poesia alla letteratura. Pur conservando il taglio del giurista con uno sguardo rivolto alla storia e ai mutamenti sociali politici culturali che hanno attraversato i secoli e la contemporaneità – non a caso, Antonio Coratti e Ivana Zuccarello nell’introduzione citano la raccolta di poesie di Bilotti Le lenti del giurista – l’autore ci offre uno sguardo originale e per nulla convenzionale su eventi, periodi, figure, capaci di interpretare “l’essere rivoluzionario” nelle sue molteplici pieghe e significati.

Lo fa a partire dalla scienza, ripercorrendo le intuizioni di Galileo che sovvertono il metodo scientifico e scardinano certezze. Galileo ha il merito di “aborrire incrostazioni, retaggi e creduloneria”: è una rivoluzione, la sua, del linguaggio, dei significati, degli usi e delle pratiche che si attribuiscono alle parole. E per questo politica. In Vita di Galileo, Bertold Brecht, seppure lavorando di fantasia, come si addice al teatro, ci restituisce un credibile quadro storico in cui il grande scienziato agisce in verità, ma con prudenza, da uomo libero. Allo stesso modo, Albert Einstein, andando oltre il suo lavoro di fisico e matematico ateo che mette in crisi o in soffitta -dipende dai punti di vista – ogni credo che non sia assertore della libertà altrui, propone un pensiero fortemente antiautoritario e contro ogni forma di violenza: “La non violenza è un metodo che contiene un dispositivo, è un mezzo dell’azione, che contiene il suo fine, la pace”. Il fisico e filosofo statunitense Thomas Khun (19922-1996) conferma ne La struttura della rivoluzione scientifica il principio di relatività, secondo il quale la scienza non dovrebbe mai prestarsi ad assoluti. La domanda che sorge è se sia possibile applicare i principi della rivoluzione scientifica alle rivoluzioni politiche. Quando possiamo parlare di contenuti rivoluzionari o riformisti di un dato sistema? Qui si ricorre all’idea di conflitto, che può rovesciare un sistema attraverso l’esercizio della violenza, o essere “inglobato” e permettere mutamenti, come nel caso di una nuova carta costituzionale. Certo, se viene a mancare l’atto “liberatorio”, espressamente aggressivo, non potremmo affermare si tratti di vera rivoluzione. Allo stesso tempo, tuttavia, è pur vero che un colpo di stato può lasciare inalterata la Costituzione presistente. Pensiamo al fascismo che lasciò in vigore lo Statuto Albertino pur avendolo svuotato dei suoi contenuti. Rivoluzione è dunque un “oggetto” in divenire e in continuo mutamento, di cui è difficile stabilirne i confini semantici e di contenuti.

Un passaggio fondamentale del volume è lo spazio dedicato a uno dei più grandi teorici italiani del potere, Machiavelli, su cui si forma il pensiero delle classi colte e rivoluzionarie nel corso della modernità. Al di là di letture folcloristiche, Il Principe fornisce indicazioni su come gestire il conflitto ricorrendo, se necessario, all’atto militare: pur non avendo introiettato il linguaggio moderno della rivoluzione politica, né quello della libertà individuale, né una soggettività universale, nel Principe è presente una acuta critica non solo al popolo, ma, più spesso, ai suoi governanti.

A proposito dell’identità culturale che caratterizza l’Italia divisa, abbiamo due esempi di letterati e poeti che non hanno mai disgiunto la creatività dall’impegno politico: Ugo Foscolo, in particolare nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, e il Giacomo Leopardi dello Zibaldone. Non manca dunque in questo trattato uno sguardo profondo all’arte e alla poesia, nelle figure dirompenti di Van Gogh, Munch, Majakovskij, Hikmet. Artisti e poeti che hanno saputo interpretare il malessere della propria epoca e trasferirlo in maniera sublime nella loro opera. In particolare il grande poeta russo, cantore della Rivoluzione e morto suicida, ha la statura di un grande intellettuale. Profondamente critico verso il nuovo potere sovietico e che con “grazia, profondità, ed efficacia” esprime le urgenze di una rivoluzione permanente, tradita. Lo stesso Hikmet avverte la menzogna del potere dispotico che si è sporcato le mani, tra il 1915 e il 1916, del genocidio, negato, degli armeni. Nel poeta turco vi è una domanda di umano che si esprime nella vita e nella poesia, e che gli costò anni di carcere e di esilio. Nel Pantèon dei grandi intellettuali non possono mancare Gramsci, Simone Weil, Pasolini, ognuno critico in maniera diversa del proprio tempo. Figure che non smetteranno mai di interrogarci. Di Gramsci si coglie la sua attenzione alla cultura e al paradigma di “egemonia”, criticato da una certa sinistra che vede nell’egemonia culturale un argomento raffinato per eledure il tema di un’organizzazione militare della rivoluzione. Mancanza che secondo alcuni critici costerà al più grande partito comunista dell’occidente, il Pci, un senso di doppiezza tra istituzione e conflitto, tra morale e prassi, tra riformismo nazionale e vocazione internazionale, tra socialismo e socialdemocrazia. Di Simone Weil si sottolinea la distinzione tra “rivoluzione” e “guerra rivoluzionaria”, quest’ultima tomba della prima poiché costringe le aspirazioni rivoluzionarie al diritto di guerra. Una premessa ontologica all’elaborazione della non-violenza, come quella di Gandhi, e del pacifismo antimilitarista della seconda metà del XX secolo. In Pasolini troviamo il critico più feroce dell’omologazione ai valori delle classi dominanti che si esplicita in particolare nel consumismo che accomuna tutti, nello pseudorivoluzionarismo di molta gioventù dell’epoca, immolata invece, secondo lo scrittore corsaro, ai valori del capitalismo, nel sentire, nei consumi, nei modelli di vita.

Nel lungo sguardo che caratterizza il volume non mancano spunti di riflessione sulle rivoluzioni che hanno segnato il secolo scorso: la rivoluzione culturale cinese voluta da Mao, la recente rivoluzione islamica in Iran, tornata tristemente alla ribalta negli ultimi mesi per le proteste delle donne e dei giovani che rivendicano vita e libertà, repressa in modo spesso feroce, confermando quanto le aspettative riposte in essa anche da intellettuali europei, come Foucault, fossero illusorie. Tanti gli spunti di riflessione contenuti nel volume, ogni capitolo meriterebbe un approfondimento. In realtà, ci troviamo di fronte a temi fluttuanti, come fluttuante è la natura dell’essere umano, dice Domenico Bilotti, citando Tolstoj: “La natura fluttuante dell’uomo precede e determina la pari natura fluttuante della rivoluzione: la rivoluzione è fatta di persone, non di automatismi impersonali”. Se è per sua natura instabile, e può favorire il suo insorgere, come la sua morte, ha sempre e comunque come denominatore comune la speranza e il futuro.

Tra i pregi del volume, oltre alla ricca antologia di scritti critici in chiusura, l’attenzione a figure femminili che hanno aperto la strada dell’emancipazione, come Olympe De Gauges, di cui Laura Paulizzi commenta lo scritto Une pièce contre l’esclavage. Originale Il gesto rivoluzionario nell’arte contemporanea a cura di Ola Cuzba, che rompe con i linguaggi precedenti, sperimenta parole, suoni, animali, aria, neve, cibo, rifiuti. Tra gli artisti interpreti di questo nuovo sentire, Cuzba cita Lucio Fontana, Jackson Pollock, Yves Klein, John Cage, l’Arte povera di Kounellis.

Rivoluzione è insomma un libro da leggere e di cui discutere.