Giorgio Agamben
Stato di eccezione
Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 120, € 14,00.
La straordinaria attualità del saggio di Agamben, Stato di eccezione (2003), è propria di una visione che non può essere ridotta all’analogia con il singolo evento “eccezionale” di cui ci aggiornano con sempre maggiore frequenza le cronache dei media; essa riguarda, piuttosto, lo spirito di una intera epoca, di cui i singoli eventi non sono che manifestazioni contingenti. In particolare, a partire dalla prima guerra mondiale si è costituito «uno stato di eccezione permanente», poi diventata «una pratica corrente nelle democrazie europee», che, nel corso dei decenni, ha affrontato l’emergenza militare, l’emergenza economica[1], quindi nucleare, fino a giungere all’emergenza terrorismo e alla “questione migranti” dei nostri giorni. In tutte queste manifestazioni di problemi politici, è stata proprio “la politica”, con tutti i suoi rapporti inter-istituzionali, a venir meno e a cedere spazio allo stato di eccezione che, normalizzato, diventa un dispositivo letale per la democrazia stessa messa tra parentesi, per i diritti che si cedono in nome dell’emergenza e, in definitiva, per tutte le nostre vite. Nella sua analisi, Agamben mette in luce i risvolti che lo stato di eccezione permanente impone ai rapporti tra diritto e politica, tra legge e vita, tracciandone confini inediti rispetto alla tradizione della Repubblica romana, in cui lo stato d’eccezione si dispiegava in tutt’altro modo e per altri fini. Contrariamente alla teoria moderna dello Stato, per la quale il concetto di sovranità assume una connotazione particolare, contrassegnata dall’unità indistinta e indeterminata di auctoritas e potestas, nel mondo della Repubblica romana auctoritas e potestas sono funzioni differenti, demandate a soggetti diversi e, per certi aspetti, in lotta continua e dialettica fra loro. In particolare, auctoritas è «il termine che designava a Roma la prerogativa più propria del senato […] auctoritas patrum è il sintagma che definisce la funzione specifica del senato nella costituzione romana[2]». Lo stesso Carl Schmitt, dalla cui nota definizione del sovrano come «colui che decide sullo stato di eccezione» prendono corpo le riflessioni di Agamben, lamentava «la mancanza di tradizione della moderna teoria dello Stato, che oppone autorità e libertà, autorità e democrazia fino a confondere l’autorità con la dittatura[3]», dichiarando di essersi ispirato per il suo trattato di diritto costituzionale all’acume e alla profondità del diritto romano per il quale «il senato aveva l’auctoritas, dal popolo invece si fanno discendere potestas e imperium[4]». La prima questione sollevata dalla distinzione tra auctoritas e potestas (o imperium) attiene, dunque, al problema della legittimità. Contrariamente al carattere elettivo e alla funzione rappresentativa dei detentori della potestas o dell’imperium, l’auctoritas «non ha nulla a che fare con la rappresentanza […] l’atto dell’auctor non si fonda su qualcosa come un potere giuridico di rappresentanza di cui egli è investito […] esso scaturisce direttamente dalla sua condizione di pater[5]». Per il fatto stesso di non (dover) essere legittimata dal popolo, all’auctoritas non spetta la decisione, l’imperium, presupponendo sempre, al contrario, qualcosa su cui esprimersi. Non a caso, il termine tecnico per definire le azioni del senato è consultum che, come affermato da Mommsen, equivale a «meno che un ordine e più che un consiglio[6]». Pur essendo nettamente distinta dalla potestas e dall’imperium dei magistrati, la funzione dell’aucoritas patrum vi si intreccia necessariamente e costantemente, spettando ad essa la ratifica e l’autorizzazione delle decisioni dei consigli popolari, nonché la sospensione o l’attivazione di procedure politico-giuridiche. La chiave per comprendere a pieno questa «potenza che accorda la legittimità, nella sua relazione alla potestas dei magistrati e del popolo» risiede, secondo Agamben, nell’analisi della «figura estrema dell’auctoritas che è in questione nel senatoconsulto ultimo e nel iustitium[7]». Si tratta di un istituto del diritto romano che il senato poteva evocare in situazioni di pericolo per la Repubblica emettendo un senatus consultum ultimum «col quale chiedeva ai consoli […] e, al limite, a ogni cittadino, di prendere qualsiasi misura che si ritenesse necessaria per la salvezza dello Stato[8]». In questo modo, per mezzo del iustitium il senato sospendeva il diritto provocando, di fatto, un vuoto giuridico in cui ogni cittadino romano, fosse egli magistrato o un semplice privato, perdeva diritti e doveri, nonché la funzione sociale e politica ricoperta fino a quel momento. Ma, allo stesso modo, un senatoconsulto, in presenza di gravi pericoli per la Repubblica, poteva resuscitare l’imperium di ex dittatori o consoli, come avvenuto nel 211 a.c. sotto la minaccia di Annibale. Le due azioni contrarie della sospensione della potestas da un lato e della riattivazione della stessa dall’altro sono entrambe manifestazioni della medesima essenza del potere dell’auctoritas, che può sospendere o riattivare il diritto perché «non vige formalmente come diritto[9]». In effetti, afferma Agamben, da una parte l’auctoritas che decide per lo stato di eccezione e per il conseguente vuoto giuridico sembra «assolutamente impensabile per il diritto», in quanto auctor che ne intima la sospensione, dall’altra, tuttavia, l’ordine giuridico stesso pare doversi «mantenere necessariamente in rapporto con un’anomia» per fondarsi[10]. Lo stato di eccezione nel mondo romano rappresenta il dispositivo in grado di articolare i rapporti dialettici tra potestas e auctoritas al fine di permettere il superamento delle crisi dell’ordinamento giuridico-politico: si tratta, naturalmente, di finzioni «attraverso le quali il diritto tenta di includere in sé la propria assenza e di appropriarsi dello stato di eccezione o, quanto meno, di assicurarsi una relazione con esso[11]» attraverso il potere non dispotico dell’auctoritas. Per questo motivo, Agamben contesta la “confusione” schmittiana tra stato di eccezione e dittatura: secondo il paradigma del iustitium «lo stato di eccezione non si definisce … come una pienezza dei poteri, uno stato pleromatico del diritto, ma come uno stato kenomatico, un vuoto e un arresto del diritto[12]». Cambiare prospettiva in questo senso, superando il “paradigma della dittatura[13]” nella gestione e nella giustificazione giuridica dello stato di eccezione e riconoscendo il «suo autentico, ma più oscuro paradigma genealogico nel diritto romano[14]», significa rivalutare il rapporto diritto/violenza e rivendicare, a questo proposito, il ruolo forte della politica. L’anomia che si apre a seguito della sospensione del diritto neutralizza, infatti, sia la sfera comune dello spazio pubblico sia quella privata, coinvolgendo allo stesso tempo la città tutta e il singolo: «lo stato di eccezione non è una dittatura […] ma uno spazio vuoto di diritto, una zona di anomia in cui tutte le determinazioni giuridiche – e, innanzitutto, la stessa distinzione fra pubblico e privato – sono disattivate[15]». In questo spazio anomico non vige alcuna legge, non c’è traccia di alcun imperium esercitato da un potere sovrano: in questo non-luogo regna la forza-di-legge, ovvero la forza-di-legge separata dalla legge, un elemento mistico[16] «di cui tanto il potere quanto i suoi avversari, tanto il potere costituito quanto il potere costituente cercano di appropriarsi[17]». Il vuoto anomico è, dunque, previsto e necessario dalla distinzione originaria nell’ordinamento giuridico e politico della Repubblica romana tra auctoritas e potestas al fine della propria ri-vitalizzazione ad ogni insorgere dell’eccezione. Al contrario, «l’essenziale contiguità fra stato di eccezione e sovranità[18]» fissata da Carl Schmitt deriva direttamente dall’idea moderna di «una indistinzione e pienezza originaria del potere», presupponendo il fatto che «lo stato di eccezione implichi un ritorno a uno stato originale pleromatico in cui la distinzione tra i diversi poteri (legislativo, esecutivo, ecc.) non si è ancora prodotta[19]». La differenza tra le due posizioni è tutta nell’idea di legge, ovvero di forza-di-legge. Nel caso della Repubblica romana, l’istituto del iustitium che sospende il diritto per un evento eccezionale è motivato in ultima istanza dal principio secondo cui «ogni legge è ordinata alla salvezza comune degli uomini, e solo per questo ha forza e ragione di legge; se viene meno a ciò, non ha efficacia obbligatoria. Nel caso di necessità, la vis obligandi della legge viene meno, perché il fine della salus hominum viene nella fattispecie a mancare[20]». Al contrario, laddove «con i moderni» lo stato di eccezione diventa espressione della sovranità, la necessità tende ad essere inclusa nell’ordine giuridico costituendo «il fondamento ultimo e la sorgente stessa della legge[21]». La decisione sullo stato di eccezione che Schmitt riserva al “sovrano”, in un contesto come quello contemporaneo caratterizzato da uno stato di eccezione permanente[22], comporta «la progressiva erosione dei poteri legislativi del parlamento, che si limita oggi spesso a ratificare provvedimenti emanati dall’esecutivo con decreti aventi forza-di-legge[23]», minando alla base i principi democratici.
La politica è oggi, sempre più, «contaminata col diritto, concependo se stessa nel migliore dei casi come potere costituente (cioè violenza che pone il diritto), quando non si riduce semplicemente a potere di negoziare col diritto[24]». Alla base di questa deriva risiede la concezione della sovranità come insieme indistinto di auctoritas e di potestas, come potere originario che dà la vita, di cui decide sempre le sorti, per il corpo sociale e per il singolo, nell’ordinario e nella necessità. Riconoscere la differenza tra vita e diritto, anomia e nomos, auctoritas e potestas sarebbe un primo passo per riscoprire la sfera politica, quello spazio in cui la vita rivendica la sua autonomia in una tensione dialettica con il diritto, che non ha mai fine.
Antonio Coratti
[1] G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri editore, Torino, 2003, p. 23
[2] Ivi, p. 95
[3] C. Schmitt, Der Hüter der Verfassung, Mohr, Tübingen, 1931, p. 137; in Agamben, op. cit., p. 96
[4] C. Schmitt, Verfassungslehre, Duncker & Humblot, Berlin, 1928, p. 109; in Agamben, op. cit, p. 96
[5] G. Agamber, op. cit., pp. 98-99
[6] T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, Akademische Druck, Graz, 3 voll., 1969, p. 1034, in Agamben, op.cit., p. 100
[7] G, Agamben, op. cit, p. 101
[8] Ivi, p. 55
[9] Ivi, p. 101
[10] Ivi, p. 66
[11] Ivi, p. 67
[12] Ivi, p. 63
[13] L’iscrizione, da parte di Schmitt, dello stato di eccezione nella “tradizione prestigiosa della dittatura romana” è stato, secondo Agamben, un “errore interessato”, funzionale a giustificare giuridicamente lo stato di eccezione stesso, Ibidem
[14] Ibidem
[15] Ivi, p. 66
[16] Il chiaro riferimento agambeniano è al “fondamento mistico dell’autorità” che Derrida, parafrasando Montaigne, pone al centro del testo Dal diritto alla giustizia, poi pubblicato in J. Derrida, Forza di legge. Il “fondamento mistico dell’autorità”, Bollati Boringhieri. Torino 2003
[17] Ivi, p. 67
[18] G. Agamben, op. cit, p. 9
[19] Ivi, p. 15
[20] Ivi, p. 36; Agamben traduce con queste parole l’adagio latino necessitas legem non habet
[21] Ibidem
[22] Agamben parla di «creazione volontaria di uno stato di emergenza permanente» come «una delle pratiche essenziali degli Stati contemporanei» (Ivi, p. 11)
[23] Ivi, p. 17. «La prima guerra mondiale coincise nella maggioranza dei paesi belligeranti con uno stato di eccezione permanente… E’ in questo periodo che la legislazione eccezionale per via di decreto governativo…diventa una pratica corrente nelle democrazie europee. Com’era prevedibile, l’allargamento dei poteri dell’esecutivo in ambito legislativo proseguì dopo la fine delle ostilità ed è significativo che l’emergenza militare cedesse ora il posto all’emergenza economica, con una implicita assimilazione tra guerra ed economia», Ivi, p. 23
[24] Ivi, p. 112