Doveri e fedeltà nell’Italia di oggi: miraggi, farse e prospettive
di
Domenico Bilotti
Recensione al libro di Alessandro Morelli, I paradossi della fedeltà alla Repubblica, Giuffrè, Milano, 2013, pp. XIV-303 (Collana del Dipartimento di Scienze Giuridiche, Storiche, Economiche e Sociali, Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro)
Una considerazione preliminare: sono poche (troppo poche) le ricerche giuridiche in Italia che giustificano la propria tesi di fondo attraverso il ricorso ad un’immagine letteraria e, ancor meno, logico-linguistica. Da lettori, siamo abituati a questa strategia argomentativa dagli scritti di Alvaro de Oliveira o di James Boyd White (meritoriamente portati in traduzione al nostro pubblico dall’impegno dell’editore Giuffré). Tra le eccezioni, per quanto riguarda la dottrina italiana, segnaliamo, un po’ in ritardo rispetto all’effettiva uscita del volume, “I Paradossi della fedeltà alla Repubblica” di Alessandro Morelli. Ancor più, trattare dei doveri, in questo periodo, quando la dimensione pubblica è sottoposta a sempre più palesi arbitri e la sfera privata è inevitabilmente messa sotto stress da un fortissimo arretramento sociale, sembra un’operazione fuori moda, fuori contesto, destinata a non raccontar nulla sull’equilibrio reale dei poteri e, più preoccupantemente, sullo stato dell’effettivo esercizio dei diritti.
Il testo di Morelli, da questo punto di vista, riesce a superare ogni perplessità, anche perché, pur specificamente collocandosi nel solco della ricerca costituzionale, dimostra non occasionale attenzione al dato “etico”, pre-giuridico, che continua ad appartenere all’ordinamento positivo e che è attutito, privato del suo potenziale e pericoloso paternalismo, proprio dal riconoscimento e, meglio, dalla difesa del pluralismo. Adoperare il testo costituzionale come parametro di una ricerca, del resto, potrebbe apparire azzardato e scarsamente rappresentativo della coscienza comune, esattamente come parlare dei doveri: lo scontro nel Paese, o meglio: le parole d’ordine che abbiamo più spesso imparato a mandare a memoria, è tra un elogio della deresponsabilizzazione assoluta (la svalutazione del dovere, attraverso cui nascondere la sottrazione dei diritti) e un difensivismo oltranzista su categorie inservibili e statiche, come una sorta di primato intellettuale e morale, prima che giuridico, dell’interpretazione letterale della Costituzione, e dell’intangibilità dell’alto compromesso che la sostenne e rese possibile. Anche stavolta, Morelli si dimostra lucidamente non collocabile in nessuno dei due estremi: sfugge alle sirene della totale deresponsabilizzazione sociale, non si abbandona nemmeno alla pratica elogiativa del passato che fu contro il presente che è. E gli riesce bene, proprio perché, da conoscitore delle dinamiche costituzionali in Italia, sa perfettamente che anche nel chimerico “tempo andato” l’attuazione del disposto costituzionale tutto fu fuorché sempre attenta, adeguata, lungimirante.
Segnaliamo, tra le parti più interessanti del volume, al secondo capitolo un rapido e incisivo inquadramento concettuale sulla nascita del sistema repubblicano (pp. 37-65): se ne ammettono, sul piano strettamente giuridico, talune ascendenze romanistiche, come se ne recupera, almeno in parte, l’impalcatura mazziniana. Spesso abbandonata alla retorica del trionfalismo risorgimentale (o antirisorgimentale) e, in verità, non troppo studiata sui suoi presupposti storico-teorici, invece in qualche misura utili anche alla lettura della contemporaneità e della “postmodernità”. Piace alla stessa maniera, nei capitoli III e IV (pp. 71-184), l’influenza di una certa dottrina liberal-democratica nord-americana, laddove si parla di original intent e original public meaning dell’articolo 54 della Costituzione (il dovere di fedeltà, appunto) e si propone, subito a seguire, una critica alla concezione kelseniana che svuota la giuridicità del dovere di fedeltà, proprio perché restringe il suo sguardo a un positivismo convenzionale, dove più che il contenuto della singola norma è sotto la lente del giurista il rapporto tra le diverse norme all’interno del sistema giuridico.
Non mancano, ovviamente (e sono tra quelli che si consigliano), i lati dell’opera che più riguardano vicende realmente vicine allo sguardo del lettore. Innanzitutto, traspare una appassionata difesa della garanzia dei diritti sociali, inquadrando l’Autore il dovere di fedeltà proprio a fondamento di una solidarietà politica. Qui, Morelli immagina tale dovere anche nei confronti delle generazioni future, una solidarietà non meramente anagrafica, molto diversa dal “patto tra generazioni” troppo spesso sbandierato dalla nostra classe politica: quel patto è già avvenuto ed è proprio l’istituto familiare (si spera: un po’ più largo di come si presterebbero a vederlo le letture di comodo dell’articolo 29 della Costituzione) a tenerlo in piedi. E piace pure che il volume ripercorra, con la rapidità funzionale a non togliere carne all’impianto del libro, alcuni temi molto dibattuti – dall’obiezione di coscienza alla configurabilità di alcuni trattamenti sanitari obbligatori, dall’inservibilità del diritto di cittadinanza jure sanguinis ai delitti contro la personalità dello Stato. E se non è infondato provare addirittura a ricercare soluzioni altre, rispetto a quelle suggerite dal Morelli, in via interpretativa, certamente “I Paradossi della fedeltà alla Repubblica” ha il merito di sondare e tenere unite tante piste, di grande e avvertita attenzione.
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