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Prolegomeni a un capitalismo francescano.

DI Fabio Vighi (Università di Cardiff)

1. Mitologie del Male
La conjuration des imbéciles è il titolo di un breve scritto di Jean Baudrillard pubblicato su Libération il 7 maggio 1997 [ref]https://www.liberation.fr/tribune/1997/05/07/opposer-a-le-pen-la-vituperation-morale-c-est-lui-laisser-le-privilege-de-l-insolence-la-conjuration_206413, traduzione dell’autore (qui e seguenti)[/ref]. Prendendo spunto dal successo politico conseguito in quegli anni da Le Pen padre, Baudrillard si scaglia contro il moralismo conformistico della sinistra, che vede legato a doppio filo all’ascesa del Front National. Due domande di quello scritto colpiscono al cuore del nostro presente: ‘È possibile oggi proferire anche solo qualcosa d’insolito, d’insolente, di eterodosso o paradossale senza essere automaticamente etichettati di estrema destra? […] Perché tutto ciò che è morale, conforme e conformista, e che era tradizionalmente di destra, è passato oggi a sinistra?’ Baudrillard sostiene che la sinistra, ‘spogliandosi di ogni energia politica’, si è trasformata in ‘una pura giurisdizione morale, incarnazione di valori universali, paladina del regno della Virtù e custode dei valori museali del Bene e del Vero, una giurisdizione che vuole responsabilizzare tutti senza dover rispondere a nessuno.’ In tale contesto, ‘l’energia politica repressa si cristallizza necessariamente altrove – nel campo nemico. E così la sinistra, incarnando il regno della Virtù, che è anche il regno della più grande ipocrisia, non può che alimentare il Male.’

La tesi di Baudrillard può essere utile a tastare il polso di un’epoca, la nostra, che ha sviluppato una vera e propria ossessione ideologica per il Male. Questo perché la mitopoietica del Male serve oggi a consolidare l’illusione della fondatezza morale del capitalismo globalizzato. Tale illusione è sempre più necessaria, poiché un sistema globale lastricato di valore e prossimo alla saturazione non può reggersi su sé stesso. Più la globalizzazione capitalista si ostina a liquidare chiunque non si adegui alle sue leggi, più tende all’implosione; e più diventa ostaggio di una logica perversa la cui regola madre è la costruzione del fantasma ideologico del nemico sanguinario.

Oggi il bubbone del Male emerge, per esempio, nella forma di un’oscena plebaglia populista, sovranista e fascistoide, quel ‘basket of deplorables’ (Hillary Clinton) che ammorba il nostro altrimenti sorridente villaggio globale, e che tutti noi “amiamo odiare”. A questa feccia si oppongono in massa le forze liberali e moderate del pianeta, che giustificano le loro battaglie attingendo a piene mani dall’inesauribile repertorio narrativo della favolistica (incluso quella hollywoodiana), in cui il Bene, appunto, lotta e infine trionfa contro il Male. La crociata umanitaria dei moralizzatori è talmente sentita da far loro dimenticare, però, che l’umanità per cui si battono è già stata massacrata, depredata, e nel migliore dei casi svenduta al miglior offerente proprio dai cavalieri dell’apocalisse liberale.

C’è una frase di Baudrillard che fotografa perfettamente l’ipocrisia cui faccio riferimento: ‘Le Pen viene criticato perché rifiuta e esclude gli immigrati, ma questo è nulla rispetto ai processi di esclusione sociale che avvengono dappertutto.’ Perché limitarsi a combattere il becero razzismo di chi respinge gli immigrati, quando la discriminazione sociale è ovunque, nelle forme dell’esclusione, della ghettizzazione, dello sfruttamento (semi-)schiavistico, della violenza e della guerra? Perché ostinarsi a vedere solo il muro sovranista, quando la globalizzazione stessa coincide con soprusi e divisioni sempre più laceranti? Forse la risposta è più semplice di quanto possa sembrare: puntare il dito contro il cattivo di turno ci protegge dalla nostra intima collusione con un sistema profondamente iniquo; ci protegge da quel razzismo strisciante, virale, codificato nel DNA delle democrazie liberali, su cui si fondano le nostre sacre identità e i nostri sacri privilegi. Come egregiamente dimostrato da Domenico Losurdo, le conquiste civili del mondo liberale si sono affermate in stretta simbiosi con le moderne tragedie della schiavitù, della deportazione, e del genocidio[ref]Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo (Roma-Bari: Laterza, 2005)[/ref]. Queste tragedie, se solo vogliamo vederle, si ripetono quotidianamente nel progetto neoliberista. Il paradosso che guida i virtuosismi moralistici della “buona politica”, promotrice di un capitalismo imperialista “dal volto umano (sebbene ora mascherato)”, era stato perfettamente compreso da Baudrillard:

‘Se Le Pen non esistesse, bisognerebbe inventarlo. È lui che ci libera dal lato malvagio di noi stessi, dalla quintessenza di tutto ciò che è peggio in noi. Per questo gli lanciamo un anatema. Ma guai a noi se lui scomparisse, perché la sua scomparsa scatenerebbe i nostri virus razzisti, sessisti e nazionalisti (li abbiamo tutti) o, semplicemente, la negatività omicida dell’essere sociale.’

E infatti Jean-Marie Le Pen non è scomparso; è stato semplicemente clonato in un variopinto carosello di mostri e mostriciattoli dati in pasto all’opinione pubblica per legittimare processi di distruzione socio-economica che spingono milioni di esseri umani nella miseria, nella disperazione, e nella lotta fratricida per la sopravvivenza. Ciò significa che la devastazione neoliberista si auto-sostiene non solo attraverso quella che Goethe chiamò ‘ignoranza attiva’, ma soprattutto grazie a un ipocrita dettato moralistico che immunizza chi lo promuove. Non essendo più in grado di generare alcun progresso, e non potendo più coalizzarsi contro il demone comunista, la nostra civiltà omologata e devitalizzata fa leva sul Male, cercando disperatamente di autoimmunizzarsi.

Riprendendo il tema centrale della filosofia di Roberto Esposito, diremmo che l’odierna ossessione per i vaccini debba essere letta, oltre che in chiave farmaceutico-speculativa, anche come metafora immunologica: il meccanismo della vaccinazione descrive perfettamente il funzionamento di un potere globale che si inocula agenti patogeni (immorali e antidemocratici) per stimolare la produzione di presunti anticorpi (“morali” e “democratici”). Da Le Pen a Trump, dalle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein al terrorismo islamico, fino al “programma nucleare” dell’Iran e alla narrazione pandemica del COVID-19, abbiamo di fronte una lunga serie di operazioni immunologiche attraverso cui si tenta di avallare un modello socio-economico palesemente (auto)distruttivo scaricandone la follia omicida sul malvagio di turno. Per questo motivo il potere è sempre più drogato di emergenzialismo.

In breve, il mondo governato dalla violenza del capitalismo senile ama lavarsi la cattiva coscienza attraverso un perverso ma consolidato meccanismo catartico: difendere l’umanità dal proprio Male, messo in scena, però, nel teatro delle crudeltà altrui. Come per il colonnello Kurtz di Apocalypse Now, l’escrescenza del Male è prodotta dal Bene, e dev’essere eliminata affinché questa ingombrante verità non venga a galla. Qui vale sempre l’immortale ammonimento di Max Horkheimer, che in piena seconda guerra mondiale scrisse: ‘Chi non vuole parlare di capitalismo non deve parlare nemmeno di fascismo. […] L’ordine totalitario non è altro che l’ordine precedente senza i suoi freni. […] Oggi combattere il fascismo richiamandosi al pensiero liberale significa appellarsi all’istanza attraverso cui il fascismo ha vinto[ref]Max Horkheimer, Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato (Roma: Savelli, 1978), p. 55.[/ref]’

E invece ci hanno persuaso che Donald Trump, novello Kurtz, è personalmente responsabile di tutti gli orrori della terra, dalla schiavitù da cui sono nati gli Stati Uniti d’America all’ultimo “apocalittico” virus. E non importa se l’impero del Bene è colpevole dello stesso Male che attribuisce all’altro. Non importa se parliamo di due facce della stessa medaglia, poliziotto buono e poliziotto cattivo. In fondo, importa solo che il lato soft dell’intelligenza liberal non venga troppo disturbato, perché l’obiettivo è stare dalla parte giusta del Bene, dalla parte giusta dell’universalismo dei diritti (e delle sue bombe), ovvero dalla parte giusta dell’imperialismo turbo-capitalista.

L’ultima folle speranza di un modello socio-economico in lenta decomposizione qual è il nostro è affidarsi a una strategia proiettiva, per cui il tumore di sistema viene trasferito nelle intenzioni di truci soperchiatori. Una società che, nelle parole di Baudrillard, ‘sta morendo di inerzia e immunodeficienza’, ha terribilmente bisogno di ‘doppi negativi’, ovvero di una spettacolare proiezione esterna della propria cinica mediocrità. Ha bisogno cioè di una ‘figurazione burlesca, allucinatoria di questo stato latente, di questa silenziosa inerzia composta in egual misura da integrazione forzata ed esclusione sistematica.’ A proposito del lato burlesco del Male, Silvio Berlusconi è stato lo specchio deformante di un intero sistema sociale anemico e decadente, politicamente esaurito e impotente. Questo sistema aveva necessità di proiettare il proprio Vuoto su una grottesca maschera caricaturale da Commedia dell’Arte che, amplificando magnificamente quel Vuoto, potesse legittimare false o effimere opposizioni. Così il Cavaliere ha permesso ai media liberali, ai politici progressisti e alle moltitudini allo sbando di sprezzarlo pur apprezzandolo, di deriderlo pur imitandolo, di diffamarlo pur abbracciandolo, ottenendo infine dalla sua destituzione (per mano europea) l’agognata immunità morale, da rinnovarsi con l’arrivo del successivo “deplorabile”. Nella formula di Baudrillard: se non ci fossero, bisognerebbe inventarli.

2. Verso un capitalismo filantropico-francescano
Allo stesso tempo, però, i paladini del Bene tessono la tela di un futuro resettato, che amano definire più giusto, più sicuro, più resiliente, e ovviamente ammantato di energia green per tutti. Basta lanciare un’occhiata alle pagine del WEF (World Economic Forum) – che ogni anno, com’è noto, si riunisce nella bidonville svizzera di Davos – per capire ciò che ci attende: un mix micidiale di ‘economia delle piattaforme in grado di aprire la strada del benessere a miliardi di lavoratori’ (schiavizzati?)[ref]https://www.weforum.org/agenda/2020/11/digitalization-platform-economy-covid-recovery/[/ref], e ‘l’impegno di attivisti aziendali [corporate activists, sic!] capace di affrontare tutte le sfide del nostro tempo, dal cambiamento climatico alle discriminazioni sociali e razziali’, grazie al motto dal sapore decisamente francescano di: ‘Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto’ (milioni di vite umane?)[ref]https://www.weforum.org/agenda/2020/11/the-world-needs-corporate-activists-with-these-5-steps-you-can-become-one/[/ref] .

‘Benvenuti nel 2030. Non possiedo nulla, non ho privacy, e la vita non è mai stata migliore.’ Non è una crudele parodia, ma il titolo, anch’esso molto francescano, di un breve testo di Ida Auken (ex ministro per l’ambiente e ora membro del “Partito Social Liberale” danese) apparso l’11 novembre 2016 sul sito del WEF[ref]https://www.weforum.org/agenda/2016/11/shopping-i-can-t-really-remember-what-that-is/ (Il titolo è stato recentemente cambiato.)[/ref]. Detto sommariamente, la Auken, anima vivace della sinistra neo-futurista, ci racconta del “comunismo” che verrà[ref]https://www.weforum.org/agenda/2016/11/shopping-i-can-t-really-remember-what-that-is/[/ref] . A breve abiteremo in città modello in cui ‘non possederemo nulla – né casa, né auto, né elettrodomestici’. La nostra proprietà privata sarà dunque realmente abolita. E ne saremo felici, perché nella città dei servizi digitalizzati, affrancata da traffico e smog, ‘avremo liberamente accesso a ogni cosa’. Nessun bisogno di ‘pagare l’affitto’, perché quando saremo fuori a girare in bicicletta o a raccogliere margherite ‘qualcun’altro utilizzerà il nostro spazio’ (comunismo vero!). Lo shopping sarà un lontano ricordo, perché ‘un algoritmo sceglierà le cose da comprare’, visto che ‘conoscerà i miei gusti meglio di me’. Anche il lavoro muterà in qualcosa di piacevole: ‘tempo per pensare, tempo creativo, tempo per la formazione’. E nonostante la Auken si dica ‘preoccupata per tutte le persone che avranno deciso di non vivere in questa città’ e che ‘si saranno perse per strada’, magari ostinandosi a occupare ‘case abbandonate di paesini del diciannovesimo secolo’, o a formare ‘piccole comunità autogestite’; e per quanto, scrive, ‘di tanto in tanto troverò fastidioso non avere alcuno spazio privato’ sapendo che ‘tutto quel faccio, penso o sogno [sic!] viene registrato da qualche parte’ – nonostante queste piccole complicazioni, insomma, ‘la vita sarà senz’altro migliore’, perché avremo sconfitto ‘tutte le cose terribili che ci stavano accadendo: malattie legate al nostro stile di vita, cambiamenti climatici, crisi migratorie, degrado ambientale, città congestionate, inquinamento idrico e atmosferico, disordini sociali e disoccupazione.’

Basta un piccolo sforzo dell’immaginazione per capire che questa favoletta utopistica è in realtà un perfetto controcanto distopico, per il semplice motivo che se noi non possederemo più nulla sarà perché, dopo aver “disciplinato” i poveri e spolpato il ceto medio, l’élite mondiale avrà in mano davvero tutto. Già ora, in piena ristrutturazione da pandemia, ai paesi a rischio default, così come ai lavoratori lasciati senza reddito, vengono “in aiuto” i grandi istituti finanziari neoliberisti (FMI, World Bank, ecc.) – gli stessi che sponsorizzano i lockdown più draconiani[ref] Si veda il secondo capitolo del ‘World Economic Outlook’ pubblicato dal FMI a ottobre 2020: https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2020/09/30/world-economic-outlook-october-2020[/ref] – pronti a sottometterci a forza di generosi prestiti. Come scrisse Daniel Guérin nel 1936: ‘Quando la crisi economica […] si manifesta in forma particolarmente acuta, quando il tasso di profitto tende a zero, essa non vede altra via d’uscita, altro mezzo per rimettere in marcia il meccanismo del profitto, se non quello di vuotare sino all’ultimo soldo le tasche – già poco fornite – dei poveracci che costituiscono la “massa”[ref]Daniel Guérin, Fascismo e grandi capitali (Roma: Erre emme edizioni, 1994), p. 58[/ref].’ Possibile non vedere che alla base della presente ‘distruzione creativa’ (Schumpeter) da coronavirus non c’è altro che un nuovo “fascismo dei grandi capitali”, per parafrasare il titolo del libro di Guérin? L’obiettivo dello psicodramma pandemico piovutoci addosso è la devastazione di ciò che rimane dell’economia reale, finalizzata alla stipulazione di un nuovo contratto sociale leviatanico (il Great Reset) in cui la nostra sopravvivenza dipenderà dall’intervento “caritatevole” di istituti monetari sovranazionali che, come conferma appunto la Auken, ci spoglieranno di ogni bene e vigileranno persino sui nostri sogni.

In questo scenario, le imprese tecnologicamente più arretrate e meno produttive sono portate alla bancarotta e assorbite dai monopòli. I lavoratori autonomi e precari spariscono nel nulla. Nel migliore dei casi, la massa crescente di disoccupati viene “riscattata” da un reddito di base universale, miserrimo ma sufficiente a costringerla all’eterna gratitudine verso i benefattori. Qualche pezzo di debito sovrano verrà forse bonificato, in cambio però della consegna di beni pubblici agli istituti finanziari che guidano le grandi manovre. E alla fine di ogni anno ci sarà sempre il santo Natale a restituirci un vago senso di fratellanza, magari grazie al temporaneo allentamento di bizantine misure restrittive. Questa transizione verso un capitalismo totalitario servito in salsa filantropico-francescana viene fatta digerire alle masse attraverso irresistibili narrazioni catastrofico-salvifiche, strumento ideale di una propaganda securitaria che spaccia l’Armageddon sociale come atto umanitario.

La distruzione di ampi settori dell’economia reale e, insieme, la draconiana profilassi sociale contrabbandata come profilassi sanitaria, sono fenomeni interni al folle vortice espansivo del capitale, che per indole non si preoccupa di nulla, tantomeno di chi rimane schiacciato dai cambiamenti. Come Marx aveva osservato, il modo di produzione capitalistico, essendo una soggettività automatica, non ha remore a distruggere le fonti stesse del valore, ossia i lavoratori salariati da una parte, e la terra o risorse naturali dall’altra. “New normal” significa appunto rimodellare l’umanità in modo che transiti obbediente, e magari riconoscente, verso l’inferno del Capitalismo 4.0, quello della quarta rivoluzione industriale. La governance globale in materia di bio-sicurezza è oggi l’espressione più evidente di questo dispotismo assai poco illuminato, che trova nel cosiddetto stakeholder capitalism la sua perfetta incarnazione economica: nello spartirsi gli utili borsistici, manager e azionisti delle grandi multinazionali gestiscono anche un possente fronte politico-mediatico intriso di filantropia e sensibilità sociale.

Eccoci giunti al paradosso dei paradossi: lo 0,1% – i vincitori della globalizzazione, ovvero la classe più predatoria dell’intera storia umana (da Bill Gates a Warren Buffett, Bill Clinton, Mark Zuckerberg, George Soros, ecc.) – che si impegna socialmente a sostenere cause nobili come la salute e la lotta contro la fame nel mondo! Grazie a donazioni erogate dalle loro munifiche fondazioni, i profeti del filantro-capitalismo esercitano un’influenza sempre più tirannica sui governi e le loro fragili istituzioni. La stessa Chiesa di Papa Francesco, comportandosi come ha quasi sempre fatto nella sua lunga storia, promuove la causa del potere secolare, oggi cinicamente travestito da ‘capitalismo inclusivo, che non lascia indietro nessuno’[ref]https://www.inclusivecapitalism.com/ [/ref]. Si tratta di un diabolico intreccio di denaro, potere e alleanze lobbystiche che vuole ergersi a nuova morale universale, togliendo così alla politica anche le ultime briciole di autonomia, al punto che le democrazie di tutto il pianeta ormai accolgono i filantro-predatori a braccia aperte, senza nemmeno più fare domande. E se il ricatto morale funziona, ciò significa anche che l’implosione capitalista non è necessariamente esplosiva: non produce automaticamente contraddizioni e potenzialità rivoluzionarie, come ingenuamente credono ancora molti marxisti. Piuttosto, nella sua fase attuale l’implosione del capitalismo genera una subdola forma di deterrenza di stampo fascista, in cui appunto lo Stato (insieme alla Chiesa) promuove gli interessi delle élites finanziarie. Sottovalutare questa deriva è oggi l’errore più grande che si possa commettere.

Homo pandemicus: ideologia COVID e nuove frontiere del consumo.

Di Fabio Vighi
Come scrisse Ralf Dahrendorf nel lontano 1985, ‘la società centrata sul lavoro è morta, ma non sappiamo come seppellirla’ – e in effetti, aggiungiamo noi, il fetore comincia a farsi insopportabile. Rimaniamo cioè definiti dal produttivismo capitalista senza però poter più estrarre nuova ricchezza (plusvalore) da un “lavoro vivo” ormai estromesso da inarrestabili processi di automazione. Ma proprio l’individuo improduttivo e atomizzato della globalizzazione neoliberista, il soggetto “senza valore”, smarrito e infantilizzato, è oggi completamente assuefatto al dominio reale dei rapporti capitalistici. L’indole conformistica della piccola borghesia di un tempo si trasferisce oggi nell’aspirazione collettiva di appartenere a un “ceto mediocre” impegnato solo a consumare e sopravvivere, o a vivere per rimanere in vita. Solo l’essere-per-la-merce (insieme a un avvilente narcisismo fatto di palestra, addominali, tatuaggi, pilates, cardiofitness, ecc.) ci tiene uniti. Mai come ora la teologia feticistica del valore si afferma come ideologia, estendendosi a tutti i settori della vita, inclusi l’informazione, l’istruzione e la medicina.

Crisi sociale e pandemia: riflessioni sulla barbarie del capitale.

«So che nulla sarà come questa

mattina o dopodomani

resistendo nella bocca della notte un gusto di sole»

(Nulla sarà come prima/ Milton Nascimento e Beto Guedes)

 

di Anderson Deo
traduzione di Antonino Infranca

 

Una frase è stata ripetuta esaustivamente dalle grandi corporazioni dei media su scala mondiale: Nulla sarà come prima! Come una specie di mantra, tale espressione indica che la pandemia del nuovo coronavirus produrrà cambiamenti significativi, anche profondi, in diversi livelli della vita e, pertanto, delle relazioni sociali in tutta l’umanità. 

La prima questione che vorrei affrontare è che la storia ci insegna che nessuna formazione sociale, nessun modo di produzione è mai entrato in collasso senza che ci fossero forze sociali organizzate a spingere tali processi. Trattandosi del modo di produzione capitalistico, nel corso del XX secolo, di fronte ai vari momenti di manifestazione della sua crisi strutturale e sistemica, questa forma sociale si è ristrutturata su nuove basi e contraddizioni, per riprodurre gli elementi fondanti della sua socialità. Pertanto, per quanto ne capisca, la pandemia di per sé non dà origine a nessuna forma di rivoluzione che punti al superamento del capitalismo o a una possibile forma di transizione socialista. Al contrario, la COVID-19/SARS 2, sembra essere l’espressione radicalizzata della barbarie, alla quale è sottomessa l’umanità, e che si approfondisce, sempre più, di fronte all’autocrazia del capitale finanziario mondializzato sull’umanità. 

Così come ci indica István Mészáros nel suo Oltre il capitale, ciò che viviamo attualmente è il risultato della “crisi civilizzatrice” prodotta dal capitalismo, con la sua forma di produzione distruttiva. Questa crisi civilizzatrice, di una determinata forma di socialità, si manifesta attraverso crisi economiche mondiali (strutturali), che si riproducono in cicli sempre più corti, attraverso la crisi ecologica che pone l’umanità di fronte al dilemma dell’esistenza della propria specie, dovuta all’esaurimento delle risorse naturali del pianeta, alle forme di sfruttamento sempre più degradanti della forza-lavoro su scala mondiale, obbligando, secondo l’OMS, un contingente di, approssimativamente, i 2/3 della popolazione della Terra a vivere sotto la soglia di povertà. Si aggiunga a questo processo la scalata del Complesso Industriale Militare, sintesi massima della produzione distruttiva del capitale, che produce e perpetua conflitti in varie parti del mondo, come forma per mantenere il dominio esercitato dall’Occidente, sotto il controllo degli USA. 

Tuttavia, non possiamo smettere di riconoscere che la crisi mondiale espliciti contraddizioni fondamentali dell’attuale fase storica del capitalismo, e le risposte che la stessa umanità produrrà per superare tale momento dipenderanno dalla nostra capacità di analisi, di organizzazione e di proposta di fronte a questo importante momento di radicale esposizione del carattere disumano della forma sociale sotto il dominio del capitale.   

Nell’ottobre 2019, in una relazione di analisi periodica, il FMI ha divulgato l’informazione che stava avvenendo una “decelerazione sincronizzata” della crescita economica mondiale (Annual Report 2019). Quello che il FMI denominava “decelerazione sincronizzata” è un eufemismo della crisi economica mondiale che stava per essere generata, ancora una volta, nei centri dinamici dell’economia mondiale. Uno dei segnali più chiari che la crisi sarebbe esplosa con tutta la forza distruttiva nel 2020, fu la caduta vertiginosa del prezzo del barile di petrolio sul mercato mondiale, il cui deprezzamento aveva già raggiunto il 60% il 9/3/2020. Le dispute commerciali tra Stati Uniti e Cina, nel corso del 2018 e del 2019, o anche quelle tra Russia e Arabia Saudita, che coinvolgono specificamente la questione del petrolio, sono espressioni episodiche di questo processo di maggiore esplosione della crisi, che secondo Attilio Boron (La pandemia y el fin de la era neoliberal), sta producendo una riorganizzazione della geopolitica mondiale centrata nelle dispute tra USA-Cina-Russia. 

Con dinamiche e spiegamenti distinti, questo processo di crisi scatenò grandi e massicce manifestazioni popolari in alcuni paesi del mondo. In America latina, per esempio, le ribellioni del 2019 in Cile, Ecuador, Colombia e Haiti, così come in Argentina l’elezione di Alberto Fernandez, esprimono un tratto comune delle più diverse rivendicazioni: si tratta di reazioni politiche al predominio di più di trent’anni di neoliberalismo. Gli attacchi neoliberali in America latina non furono uniformi nel corso di questo periodo e hanno riprodotto contraddizioni particolari nei diversi Stati nazionali della regione. Il fatto comune è che le azioni delle borghesie locali, anche con caratteristiche specifiche, si sono mantenute fedeli al presupposto dell’associazione subordinata all’imperialismo mondiale, soprattutto al comando statunitense; nel momento in cui le crisi economiche mondiali si sono acuite, le proposte portate avanti da questa borghesia imposero, in forma sempre più accentuata, l’espropriazione e la spoliazione delle risorse sociali gestite dagli Stati nazionali, mediante il meccanismo finanziario dell’indebitamente pubblico. Sia mediante “regole del gioco democratico”, sia mediante colpi di Stato, gli interessi del capitale finanziario si fecero valere e furono imposti all’insieme della popolazione del subcontinente. La deposizione di Evo Morales, legittimamente rieletto l’anno passato con un golpe, è un tipico esempio di come la borghesia latinoamericana combatte le istituzioni democratiche dello Stato liberale, trasformandosi in un’autocrazia della sua classe. 

In Brasile la deposizione di Dilma Rousseff nel 2016, deve essere intesa come un momento dell’avanzata neoliberale nel paese. Questo processo ha guadagnato forza con Fernando Henrique Cardoso negli anni Novanta, e fu minacciato, ma non eliminato dai governi Lula e Dilma Rousseff; di fronte all’approfondirsi degli effetti della crisi economica mondiale, che nel paese si acutizzò a partire dal 2013, si passò ad elaborare un’articolazione politica, coinvolgendo parte della magistratura, le grandi corporazioni mediatiche del paese, le forze armate, i partiti conservatori e reazionari, alleati assoluti degli USA, con l’intenzione di allontanare la presidentessa eletta nel 2014, attraverso un colpo di Stato giuridico-parlamentare. 

Le alternative presentate alla società brasiliana a partire dal 2016, guidate dal vice-presidente golpista Michel Temer, possono essere riassunte nell’espressione “meno Stato, più mercato”. Il risultato di questo processo, che ancora è in corso, è la distruzione totale della legislazione sociale che fu costruita nel corso del XX secolo. Una legislazione sociale che è sempre stata molto precaria e, pertanto, insufficiente. Non è possibile identificare in Brasile ciò che in Europa si è soliti denominare “Welfare State”. Il paese si è avvicinato a questo modello con la struttura giuridica della Costituzione Federale del 1988, che a partire dal 1992 è stata totalmente riformulata e oggi completamente distrutta. Il governo di Jair Bolsonaro rappresenta la continuità e l’approfondimento di questo processo, con l’aggravante della disputa ideologica che ha rinvigorito il lato peggiore della società brasiliana e dell’umanità: il discorso fascistizzante come alternativa ai problemi sociali. 

È lo stesso discorso che si riveste di oscurantismo religioso di matrice neopentecostale – e qui forse si può rilevare come esso sia ancora più regressivo del fascismo alla sua origine – che nega la gravità e le conseguenze devastatrici della pandemia. Ma ancora, in contrasto con le evidenze e le conoscenze scientifiche sulla propagazione del virus, affrontando gli orientamenti di specialisti e della stessa OMS, esso mette in questione l’efficacia dell’isolamento sociale, stimola la popolazione a uscire nelle strade, argomentando che «l’isolamento sociale uccide più gente che la pandemia, poiché l’economia del paese sarà paralizzata». Tutto questo in nome del deus ex machina chiamato mercato! Se pensiamo che, come paese della periferia del sistema capitalista, il Brasile presenta problemi sociali strutturali nelle aree di salute pubblica, abitazione e risanamento basilare, e che questa situazione si è aggravata drammaticamente con l’avanzata del neoliberismo, possiamo avere una dimensione di quanto gravi siano le posizioni del presidente brasiliano. Tanto gravi che esistono già denunce formali presentate al Tribunale Penale Internazionale de L’Aia, accusando Jair Bolsonaro di genocidio e, pertanto, di crimine contro l’umanità.   

La situazione del Brasile di fronte all’avanzata della pandemia è drammatica. Un sistema di sanità pubblica pensato come una garanzia per tutti i brasiliani, ma che ha sempre presentato mancanze strutturali e che negli ultimi anni sta affrontando un profondo processo di rottamazione e attacchi privatizzanti; un modello di occupazione territoriale che concentra più del 70% della popolazione (220 milioni) in grandi conglomerati urbani, con poca o nessuna pianificazione di occupazione di questi spazi, dando origine a grandi favelas in tutte le città brasiliane di medie e grandi dimensioni; un impoverimento crescente della popolazione, risultante dall’avanzata della crisi economica, dall’eliminazione di diritti dei lavoratori e della disoccupazione (12 milioni prima della pandemia, secondo dati ufficiali), dalla precarizzazione e dall’informalità, sempre più grandi nel paese. Uno degli effetti più perversi di questo processo è l’aumento del numero di persone che vivono nelle strade, senza un’abitazione, né condizioni minime di igiene, di alimentazione, di sanità fondamentale. Nella principale città del paese, San Paolo, secondo i dati ufficiali, 25.000 esseri umani si trovano in queste condizioni. Questa realtà, in differenti proporzioni, si ripete nella grande maggioranza delle città brasiliane. Non è necessario essere uno specialista in epidemiologia per immaginare gli effetti catastrofici che la pandemia potrà provocare in Brasile. 

Anche riflettendo sulle possibili trasformazioni causate dalla pandemia, alcune misure economiche di emergenza dei governi dei paesi coinvolti ci danno già tracce di come la borghesia mondiale, organizzata all’interno degli Stati nazionali, reagisce all’accrescimento della crisi mondiale prodotta dal nuovo coronavirus. Ancora una volta, le voluminose risorse per salvare il capitalismo proverranno dalle casse pubbliche. Nel citato articolo di Boron, l’intellettuale argentino è tassativo nell’affermare che il «neoliberismo è un cadavere che bisogna seppellire» e che la crisi scatenata dall’epidemia evidenzia che il mondo avrà bisogno di «più Stato e meno mercato». Se è vero che l’attuale crisi esplicita i limiti e le contraddizioni scatenate dall’esaurimento del modello neoliberista, è necessario ricordare che nella storia del capitalismo lo Stato ha sempre posto a disposizione dell’iniziativa privata – pertanto della borghesia – gli sforzi e le risorse sociali, affinché i momenti di crisi fossero superati. Basta una rapida occhiata alla storia economica del XX secolo (crisi del 1929, della metà degli anni Settanta, o anche del 2008), per constatare che l’apparente opposizione tra interferenza statale e mercato libero, non è altro che una retorica ideologicamente orientata, in accordo con gli interessi borghesi, una volta che lo “Stato minimo” ha diminuito e anche eliminato i diritti dei lavoratori, ricomponendosi al tempo stesso come “Stato massimo” degli interessi del capitale.

Un’altra questione possiamo rintracciarla nella mondializzazione dell’epidemia. Tra gli importanti contributi di François Chesnais nel suo La mondialisation du capital troviamo la formulazione su come le trasformazioni capitalistiche negli anni Novanta tendevano a una mondializzazione delle relazioni commerciali, allo stesso tempo in cui gli Stati nazionali continuavano ad essere spazi geografici di contenimento della forza-lavoro e dei conflitti sociali. Il flusso delle merci doveva essere internazionalmente libero, ma non la forza-lavoro che lo produce. La propagazione del nuovo coronavirus obbedisce, per così dire, alla stessa logica della libera circolazione delle merci di cui parlava Chesnais, colpendo i “centri nervosi” del capitalismo mondiale per poi spargersi all’interno delle nazioni. In questo senso l’osservazione di Alain Badiou (Sulla situazione epidemica) ci sembra abbastanza importante nel suggerire che un’epidemia si riproduce sempre come un processo di doppia determinazione che in un dato momento converge: la determinazione ecologica e la determinazione sociale. Argomentando che l’attuale epidemia della COVID 19/SARS 2 non è propriamente una novità per gli scienziati del mondo (e per questo fa riferimento a una prima epidemia di sindrome respiratoria nel 2003, denominata proprio SARS 1), l’autore indica che ciò che viviamo risulta dall’incontro di una mutazione virale (la determinazione ecologica) con una serie di determinazioni sociali, risultanti dalla negligenza di una parte della comunità scientifica e delle autorità pubbliche, principalmente in Occidente, che guardano sempre alle epidemie nell’Estremo Oriente, o anche in Africa, come problemi sanitari di un mondo distante. 

La prepotenza eurocentrica, propria della visione imperialista del mondo, ha sottostimato e ha trascurato gli effetti e le conseguenze della diffusione del virus per il pianeta. Se l’origine dell’epidemia si localizza in Cina, la propagazione e il contagio a livello pandemico è responsabilità diretta dei governi occidentali, principalmente europei e statunitensi, che furono inizialmente negligenti ritardando a prendere le misure indicate da scienziati e specialisti del mondo intero, in particolare l’isolamento sociale. Qui, a mio avviso, Badiou cade in errore nell’affermare che i governi starebbero agendo al di là degli interessi di classe. 

Ad ogni modo, dato che la realtà storica deve essere compresa nelle sue possibilità e contraddizioni, l’isolamento sociale dimostra chiaramente che non c’è forma possibile di riproduzione economica, politica e sociale che possa prescindere dal lavoro e, pertanto, da quella classe che lo riproduce quotidianamente, nelle sue più diverse frazioni e determinazioni sociali. Mi riferisco qui al proletariato, che non può essere confuso o ridotto alla sua conformazione con il proletariato industriale della metà del XVIII secolo e del XIX secolo. Ma che continua a essere, con tutta la complessità delle sue trasformazioni contemporanee, il fondamento, il sostegno, l’elemento centrale della riproduzione sociale capitalista. Lo “sciopero generale” forzato dall’isolamento sociale mostra quello che cerco di affermare, constatando la disperazione dei capitalisti sparpagliati per le principali economie del mondo, che insistono nel mantenere le loro attività economiche – con la connivenza dei governi nazionali –, obbligando contingenti enormi di lavoratori e lavoratrici a lanciarsi nel “rischioso mondo del contagio” dei trasporti collettivi, delle fabbriche, delle grandi reti commerciali. 

Un’altra frase è stata costantemente ripetuta dai mezzi di comunicazione, come forma di stimolo alla resilienza delle persone: Passerà! A coloro che pensano che questa crisi è passeggera, forse possiamo indicare due elementi; primo: la pandemia deve essere superata, così da poter riprendere le nostre attività quotidiane e ristabilire la dinamica delle nostre vite; secondo: la crisi economica tende ad essere duratura, con effetti drastici sull’insieme dei lavoratori ed è fondamentale che saremo tutti in perfette condizioni di salute, per tornare in strada e organizzarci, gridando a pieni polmoni che è necessario costruire un altro mondo, il cui fondamento non sia l’accumulazione privata della ricchezza, ma la piena emancipazione umana!