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Verità e Diritto: episteme o fictio? Ambedue?

1….per cominciare

 

Per l’ “uomo della strada” e, dunque, per il senso comune, il termine “diritto” si accompagna ad un altro termine, “giustizia”, e quest’ultimo, a sua volta, ne evoca un altro ancora: “verità”. Il “chi” sociale accetterebbe forse un giudizio di condanna se non credesse che un tale giudizio fosse “giusto”? E, per esser tale, chi non legherebbe la più immediata, semplice idea di giustizia alla conoscenza della verità? Ogni giudizio, infatti, per il senso comune, deve, innanzitutto, poggiare sull’accertamento di una verità; insomma, si parte sempre dal sapere “come stanno veramente le cose”. Questo percorso, sempre per il senso comune, vale per qualsiasi forma di giudizio, come ho detto; sia esso morale, politico o, infine, giuridico-giudiziario: una sentenza processuale.

Per un senso “meno” comune, che è quello della filosofia teoretica e pratica, il rapporto tra giustizia e verità si presenta assai più articolato e talora problematico; fino al limite della reciproca indifferenza, come appunto accade nel mondo del diritto, nella sua versione positivistico-formalistica.

Anche se, proprio nella versione più rigorosa del formalismo normativo, intendo quella kelseniana, la “verità” trova un suo posto inaspettato. Sappiamo tutti, infatti, che “validità” ed “esistenza” della norma sono qualificazioni formalmente coincidenti; tant’è che una norma non valida “non è una norma”. Allora, per l’equivalenza di Tarski, si può dire che una norma valida è una “vera” norma; in altre parole, la validità, costituendo l’esistenza di una norma, dichiara che è vero che è una norma. Si può dire, quindi, di una prescrizione, che abbia i requisiti della validità formale, che è “vero” che è una norma; e di una prescrizione priva di tali requisiti che è “falso” che sia una norma. La questione è particolarmente significativa, atteso che, di recente, Luigi Ferrajoli ha definito la coincidenza esistenza – validità della norma come un’aporia della dottrina kelseniana ([1]), per ragioni, tuttavia, che non entrano nella questione che sto prospettando e che non intendo discutere qui.

In ogni caso, una prospettiva filosofica dalla quale ragionare attorno al concetto di diritto, così come è venuto sviluppandosi nel corso della storia del pensiero che noi conosciamo, non può non avere a suo centro la tematizzazione teoretica ed epistemologica della “verità”.

Riflettendovi, in questo lavoro, mi limito ad un ambito specifico: quello che ha il suo inizio nella “modernità” della Ragione, per due motivi. Il primo, perché è proprio sulla teoresi della “verità” che viene a giocarsi la soggettività dell’uomo moderno, come ente finito e, al tempo stesso, costituito nella “potenza” della Ragione; il secondo, perché è il razionalismo moderno che opera come fondamento per la scientia juris, nelle versioni giunte fino a noi (sinteticamente: jus naturale, codificazioni, Begriffsjurisprudenz, teorie generali) ([2]), avendo come chiave teoretico-epistemologica l’idea di “ordine”. Basti pensare al tema del governo e della sovranità, nel quale i concetti di “soggettività” e “ordine” sono in continuo e strutturale dialogo: è il tema della “legittimazione” che, costituendo lo spartiacque tra potere arbitrario e potere di governo, distingue il “vero” sovrano dall’usurpatore: la “verità” dell’investitura genera la “giustizia” dell’esercizio (anche se qui “giustizia” può assumere il contenuto formale della “legittimazione”: intreccio complicato!). Fin ai primi decenni del ‘900 viene ribadita una sorta di sinallagma tra giustizia e verità; si ricorderà come, nella polemica attorno alla legge tra Kelsen e Schmitt, quest’ultimo affermasse con vigore che, di fronte all’impersonalità formale della norma, la legge evoca la figura del re “giusto”; che perciò può essere definito “veramente” un re.

La questione, allora, si sposta sull’ “investitura”, la quale rinvia, secondo modelli o paradigmi differenti, ad un “ordine” superiore che ne costituisce la fonte ed il fondamento ([3]): il “potere” deve avere un’origine “oggettiva”; non deve dipendere cioè da un gesto arbitrario. Al di là delle diverse configurazioni e fondazioni dell’investitura, l’ordine sociale, che l’artificio del sovrano deve realizzare, ne è la manifestazione peculiare in continuità con l’ordine della natura. In fondo, anche la sovranità hobbesiana ha il suo più autentico fondamento non tanto in un atto umano (pactum subiectionis), quanto nella “natura” umana, la quale è tale che solo un potere sovrastante gli individui può davvero regolare il loro appetiti, al di là di ogni loro, pur possibile, convenzione (pactum societatis).

 

  1. Il dubbio

 

Dunque, un tema di fondo ed una parola, “Verità”. Parola, peraltro, strutturalmente affetta da un paradosso: chiarezza e ambiguità. Al centro del paradosso, quasi a scioglierlo o comunque a renderlo intellettualmente accettabile, si aggiungono un “pensiero” ed un’altra parola, che il diritto conosce assai bene: “dubbio”. Accettabilità intellettualmente e praticamente sostenibile, proprio se concepita come argine nei confronti di “certezze” facilmente attraenti ed invece bisognose di maggiore e più scrupolosa indagine. E, tuttavia, anche il dubbio si presta ad una ambiguità, contenuta in due espressioni ugualmente utilizzabili: “non ho più dubbi” e “non ci sono più dubbi”. In ogni caso, è il nesso dubbio – Verità ad essere particolarmente significativo, ancora una volta per due ragioni.

La prima, perché scandisce il percorso verso la “Verità” iniziato dal cogito cartesiano, che assumo in questa sede, per ovvia semplificazione, come emblematico della teoresi gnoseologica della modernità razionalistica; la seconda, perché quel nesso pervade il giudizio giuridico più invasivo per l’uomo: quello del processo penale, per riflettersi, nel suo interno svolgersi e complicarsi, in quella modellistica processuale, che va sotto le qualificazioni storiche di processo “inquisitorio” e “accusatorio”, e fino a contemplare quello che potremmo definire il brocardo: “oltre ogni ragionevole dubbio”. Di questo più avanti.

Ma, fin d’ora, il punto che intendo sottolineare è il seguente: il “dubbio” ha un suo significato teoretico, prima ancora che epistemologico, in relazione ad una, altrettanto teoretica, idea di “Verità”. Il suo significato cambia in conseguenza del trasfigurarsi, proprio sotto il profilo teoretico, dell’idea di “verità” in quella di una possibile “rappresentazione teorica” del mondo. E la chiave della questione diviene allora non la “oggettività” del conosciuto, ma la sostenibilità della teoria ([4]). In quest’ultimo contesto, che è quello proprio del sapere contemporaneo, il ricorrere del dubbio, in ambito giuridico, può dirsi il residuo di una idea di verità, che fa riferimento ancora al paradigma cartesiano, ed alla quale, tuttavia, il diritto non può rinunciare, al fine di garantire ciò che è gli è proprio: la costruzione dell’ordine sociale.

Se si guarda, da un lato, alla sequenza giustizia – verità – dubbio, che orienta il ragionare giuridico, e, dall’altro, alla questione epistemologica che trasfigura la “Verità” nella “sostenibilità della teoria”, ne segue che la nostra contemporaneità esibisce, tra diritto e conoscenza, un rapporto, che potrei definire nuovo, rispetto a quello che si era instaurato nel contesto del razionalismo moderno. Rapporto, segnato dalla tensione tra due aspetti dell’esistenza propri dell’uomo come ente finito, l’uno inevitabile e l’altro indispensabile: “incertezza” del sapere e “certezza” del normare.

Vi sono, infatti, settori del vivere sociale, nei quali è possibile tradurre l’incertezza teorica in “complessità” socio-epistemologica e sostituire il concetto razionalistico di ordine con quello pragmatico di equilibrio rappresentato dalla nozione di governance ([5]). Sono questi i settori ove opera il diritto privato, largamente inteso e, in parte, quel che resta del diritto pubblico e costituzionale; per non parlare dell’ambito giuridico del “sovranazionale”. E su questo spenderò qualche parola più avanti.

Vi sono però altri settori, quali quelli che investono la libertà della persona, quelli cioè del diritto penale in genere, dove non è possibile sostituire l’ordine dei “moderni” con la governance dei “contemporanei”. In tali settori, il diritto non può non tener conto dei paradigmi cognitivi che il sapere scientifico oggi propone, ma nello stesso tempo non può rinunciare al paradigma della “certezza”, di cui si è detto, in vista della costruzione di un ambiente sociale sufficientemente stabile. Per una tale stabilità è necessario, infatti, disporre di un affidamento nei processi cognitivi e nelle loro risultanze, che possono essere raccontate come “certe”, e dunque corrispondenti alla nozione di “realtà”, propria del linguaggio comune. Così, il superamento “soggettivo” del dubbio (“non ho più dubbi”) trapassa in un “oltre” ragionevolmente oggettivo: “non ci sono più dubbi”. Lo scarto epistemologico, tuttavia, con ciò che si può definire “conoscenza scientifica”, e con la sua complessità (il termine è molto generico), resta intatto. Proprio a sottolineare tale scarto, grazie alla conversione di “razionale” in “ragionevole”, il “dubbio” riesce a svolgere una sua propria funzione eminentemente pratica, di tipo “critico-cautelare”: è come dire che una good governance della scienza sconfina in un problema di democrazia ([6]).

 

  1. 3. Diritto e “incertezza”

 

Il Diritto, dunque, è, nell’attuale momento storico, al centro di un intreccio epistemologico e pratico, che definirei, senza esagerare, “epocale”: quello tra incertezza cognitiva e governo della società.

La questione dell’intreccio mi sembra complicarsi, se si pensa che all’ “incertezza cognitiva” si aggiunge un altro genere di incertezza: quella che investe il paradigma ed il concetto stesso dell’ “ordine”, quale si è formato nella Modernità e che, in qualche misura – come ho già accennato poco più sopra – la modellistica centrata sullo Stato ha fatto giungere fino al nostro ‘900, salvo l’ultimo decennio. La “globalizzazione”, con la conseguente evaporazione della Sovranità territoriale, e, con essa, l’affermarsi del primato dell’economico “finanziario” sul politico, hanno trasformato le società in ambienti umanamente “complessi”, privi di confini territoriali, e tuttavia segnati da nuovi confini: quelli etnicoculturali. Questa nuova situazione fa sì che al paradigma dell’ “ordine” se ne sostituisca uno di tipo funzionalistico – gestionale: l’ “equilibrio”, che, come è noto, Luhmann aveva già disegnato negli anni ’70, ma con una differenza, rispetto all’oggi, non trascurabile. Luhmann aveva costruito la sua epistemologia “funzionalistica” avendo come riferimento cognitivo un paradigma “sistemico” debitore ancora all’impianto storicistico hegeliano, innervato dal “materialismo” post-marxiano, così come emerge però attraverso la declinazione post-metafisica novecentesca. E’ a partire da qui che occorre comprendere la ragione per cui il nesso complessità – equilibrio si pone come epistemologicamente alternativo all’idea di ordine, fermo restando, però, l’idea del “sociale” è comprensibile come sistema, sebbene non di processi “causali”, ma di sequenze “funzionali”. Basti aver presente la “funzione”, appunto, che Luhmann riconosce alla dogmatica giuridica rispetto al sottosistema politico. Diversamente, il proceduralismo gestionale, affermatosi come conseguenza regolativa della globalizzazione, consiste in un mero pragmatismo negoziale che di per sé trascende il sistema sociale come cornice, ma affida alle forze in campo, quale che sia loro soggettività e ovunque si dispieghino, il formarsi degli equilibri e la loro tenuta. Globalizzazione e pragmatismo negoziale determinano quella “incertezza” che avvolge l’idea stessa di società e di diritto, nel senso, quest’ultimo, di “sistema” capace di organizzazione normativa di un ambiente umano: l’ordinamento giuridico.

Per non arrendersi alla ineffabilità che il mutamento in atto potrebbe a buon diritto legittimare, provo ad indagare meglio il rapporto tra “incertezza scientifica” e quel che resta della tradizione giuridica della quale abbiamo fatto esperienza e di cui resistono tracce formali e semantico-linguistiche.

Innanzitutto si tratta di vedere, in generale, quale tipo di relazione venga ad instaurarsi ed articolarsi tra il momento, giuridicamente qualificante, della tipizzazione del fatto (irrinunciabile, per assolvere alle ovvie finalità regolative) e le problematiche cognitive della “realtà”, promosse da una attenta epistemologia.

Il punto centrale della questione, infatti, è dato dalla considerazione che la trasformazione e riduzione di “eventi” o “accadimenti” naturali in “fattispecie” è la conseguenza di una lettura del “mondo” secondo un paradigma epistemologico, idoneo a dar luogo ad un processo di tipizzazione. Come dire che le condizioni per una tipizzabilità dei fatti sono già contenute nel paradigma di lettura adottato dal soggetto; dipende, cioè, da come il soggetto “osserva” un evento, configurandone cognitivamente quella che definiamo “realtà”.

Basti considerare come l’espressione cognitiva comunemente adoperata – “fenomeno” – sia un prodotto puramente congetturale, e dunque “mentale”, proprio di un certo modello epistemologico, e non la mera traduzione semantica di un dato materiale: in natura non si danno “fenomeni”, ma solo “accadimenti”.

Occorre, perciò, aver presente qualcosa di molto scomodo per la scienza del diritto, soprattutto per le sue applicazioni processuali. E dico soprattutto nell’ambito processuale, e processuale penale, perché, in relazione a questo, non ci si può permettere di civettare con l’altra “incertezza”, quella giuridico-categoriale, che origina dai processi di governance, come invece fa quella dottrina, prevalentemente privatistica, cui ho già fatto cenno, che ritiene di saper cogliere al meglio il mutamento apportato dalla globalizzazione e quindi di essere al passo con i tempi.

Ciò dunque che ho definito “scomodo” per la scienza giuridica è che il “conosciuto”, e che comunemente indichiamo con il termine “realtà”, giunge al termine di una operazione cognitiva umana (che comincia già con l’osservazione e si completa nella astrazione concettuale), consistente nella traduzione semantico-congetturale di un incontro dell’uomo con il “mondo”. Il punto chiave è, però, che tale incontro implica, per lo statuto stesso dell’atto cognitivo umano, uno scarto incolmabile con il referente naturale, che è, nel suo “in sé”, totalmente altro dal soggetto (questione che ho appena introdotto nelle pagine precedenti, facendo riferimento al tema della sostenibilità delle teorie e sulla quale tornerò di qui a pochissimo).

Il fulcro della questione allora è tutto nella determinazione della nozione di “realtà”, in quanto parola che raffigura l’incontro del soggetto conoscente con tutto ciò che è fuori di lui (che per brevità ho già chiamato “mondo”), e che si pretende essere “qualcosa” di analogo a ciò che è davvero. Questo “qualcosa” di analogo a ciò che è davvero viene qualificato spesso, soprattutto nel linguaggio comune, che vorrebbe essere anche “scientifico”, con il vocabolo “oggettività”. Insomma: per il senso comune si dà una sequenza almeno tra tre termini: conoscenza, oggettività, realtà; termini che dovrebbero confluire nel luogo agognato: “verità”.

Verrà fuori in seguito come questa sequenza sia epistemologicamente inesatta, poiché l’ “oggettività” non corrisponde a “ciò che è davvero” (vale a dire “la cosa in sé”), ma è esclusivamente l’esito di una operazione metodico-congetturale del soggetto, chiamata “nesso di causalità”. Fin d’ora si può sottolineare come il sapere giuridico abbia importato nel suo contesto, dall’ambito della scienza naturale, tale piattaforma congetturale, cioè il “nesso di causalità” tra gli eventi-fenomeni che cadono sotto il suo sguardo regolativo, trasformandoli in “fattispecie”, che consentono di costruire quella “certezza” dell’agire pratico, necessaria al mettere in forma l’ordine sociale. La chiave della “certezza” come simulacro di “verità”, in quanto prodotto del legame tra “nesso di causalità” e “fattispecie”, ha storicamente garantito quella oggettività del “conosciuto”, che la dottrina e la scienza giuridica incontrano comunque e sempre nel loro operare.

 

  1. Per salvare il diritto che conosciamo: spunti epistemologici .

 

Se, oggi, invece, si mettono assieme “incertezza scientifica” e “globalizzazione” si va incontro ad un rischio, che considero enorme per le due attività pratiche necessarie alla costituzione di una società: la politica ed il diritto. Tale rischio è il nichilismo pragmatico-economicistico. Cui se ne aggiunge un secondo: una sorta di neo-dogmatismo, che investe il nesso conoscenza – valutazione – decisione normativa. Una polarizzazione, forse propria di ogni momento di mutamento storico profondo, ma capace di condurre verso una conflittualità umana e sociale dagli esiti, questi sicuramente, imprevedibili.

Questo a me pare essere il contesto che si pone di fronte a chi, come me, rifletta sul tema in una prospettiva filosofico-giuridica.

E, allora, l’interrogativo diviene davvero centrale, e addirittura inquietante, se si assume come teoreticamente ineludibile quella “trasfigurazione” della Verità, quale fu concepita dalla “Ragione moderna” in senso “essenzialistico”, in quella che ho più sopra definito come rappresentazione possibile del mondo, affidata al succedersi delle “teorie”, in quanto sistemi di proposizioni.

A mo’ di introduzione al mio ragionamento, valgano le parole di Carlo Sini, a proposito dell’antico logos come “discorso” che mette in forma la cosa, in quanto struttura eidetica della “cosa” stessa: “La mente dunque è un discorso, in quanto proprio il discorso è quella immagine logica (non sensibile) della cosa…. Che possono mai avere in comune i segni del discorso e la cosa che dicono? Ma come potrebbero significare senza avere qualcosa in comune, senza che il discorso (la mente) e la cosa (…) non posseggano una comune natura?…Come però operi (e quindi cosa sia) la mente resta un gran problema, che è appunto l’oggetto specifico della logica: la disciplina filosofica che deve chiarire come la mente vede, comprende e ragiona”. Ma “guardati – incalza subito Sini – dal farti catturare da questi problemi logici…Tutt’al più essi sono demandati alle indagini di discipline particolari…Ma queste analisi parcellizzate ed empiriche [che hanno per oggetto unicamente la struttura linguistica della forma-discorso] con i loro caratteristici e spesso complicatissimi problemi astrattivi, anziché avvicinare alla semplice e originaria domanda sul contenuto della forma, ancor più ce ne allontanano…”[7]. E qualche pagina oltre, a proposito della “verità”: “La verità pubblica, nella quale siamo ancora totalmente immersi, presenta così vari livelli correlativi, che sono costitutivi della mente e del soggetto ‘puri’. C’è la storia, la cui pratica determina la formazione di un soggetto prosaico astratto che cerca, attraverso i ‘documenti’, di creare una prospettiva ‘esterna’…, qualcosa che finge, nella scrittura, una verità degli eventi che è il lor accadere al cospetto dell’universale storico (come se fossero davvero accaduti così). E poi c’è la filosofia, la cui pratica determina la nascita di un soggetto panoramico e teoretico che definisce la verità in sé di tutte le cose, cioè che traduce le cose dal vissuto esperienziale alla loro definizione logica astratta (come se le cose fossero davvero così; e bada che il vissuto esperienziale non è un dato primario, ma a sua volta il risultato di pratiche di parola e scrittura peculiari). Infine c’è la scienza…” ([8]).

Dunque, il tema della “verità”, che io ho trasfigurato attraverso la formula “rappresentazione possibile del mondo”, è la trama di un tessuto nella quale si intrecciano la mente dell’uomo, costituita nella sua ontologica finitudine, il suo logos, cioè il suo essere “parola” ed “eidos” al tempo stesso, e la “forma”, come rappresentazione saputa di una “cosa” (episteme), che “storia”, “filosofia” e “scienza” riconducono al “soggetto”, alla sua mente, alla sua parola, alla scrittura. Un percorso ed un processo, del quale si possono ovviamente studiare analiticamente ed empiricamente le singole parti o gli specifici aspetti, ma nel quale fluisce, come filo conduttore, l’incontro eidetico tra soggetto e mondo.

Appare chiaro, mi sembra, come in questo percorso il tema del “dubbio” abbia una sua cittadinanza unicamente come omaggio alla tradizione cartesiana, dalla quale proveniamo ed alla quale si ispira ancora, nei settori che ho detto, il modo di ragionare del diritto. Quel tema può in qualche misura sopravvivere, insomma, più per semplicità pratica che per ragioni epistemologiche, e forse per ricordarci quale fosse il suo fondamento, questo sì “teoretico”, non “epistemologico”: l’essere il segno della tensione tra la imperfezione umana dell’ io, cum sim res cogitans, e la perfezione di Dio ([9]). In particolare, al dubbio era ascritta la proprietà razionale di essere passaggio obbligato per eliminare quei pregiudizi che intralciano la via per la definizione di ogni certezza ([10]).

Già all’interno del razionalismo moderno, tuttavia, la questione aveva acquistato una luce del tutto nuova, che poi si sarebbe proiettata nel tempo a venire, con la Critica kantiana. Possiamo assumere, come “chiave” impressionistica della forza speculativa del passaggio in questione, proprio la critica esplicita che Kant rivolge alla dottrina del cogito cartesiano, in una nota che si trova nella “Dialettica trascendentale”.

Sottolineando la differenza da Cartesio, Kant chiarisce il senso dell’ “io penso” nella prospettiva fondante della precedenza dell’esistere sul pensare; meglio, Kant stabilisce teoreticamente il radicamento esistenziale del pensiero, senza tuttavia ridurre quest’ultimo ad una dimensione meramente empirico-fenomenica. ([11]).

Se quel testo kantiano viene letto ed interpretato con gli occhiali del “dopo”, questo, allora, può essere assunto come la base teoretica dalla quale si diparte l’epistemologia del ‘900. Mi spiego, pensando al modo in cui Sini fa i conti con la “modernità” attraverso il pensiero antico.

Nel testo kantiano vi è la chiara sottolineatura della finitudine della “soggettività”; finitudine della quale era ben consapevole anche Cartesio, ma dalla quale Kant trae tutte le conseguenze, in quanto limite e potenza del pensiero umano, senza alcun appello al Trascendente. Potenza, proprio in quanto prodotto di un limite che non è solo ontico-naturale, ma ontologico-esistenziale. Tale limite, infatti, contiene in sé la capacità di pensare oltre il dato empirico-fenomenico. Capacità razionale (ogni “limite” implica razionalmente un oltre, appunto), che a sua volta contiene la provvisorietà del risultato cognitivo, poiché ogni dato conosciuto, rientrando nell’esperienza, è solamente una possibilità del pensiero strutturalmente finito, retta dalla logica interna della pensabilità ([12]). E qui si gioca davvero la differenza della finitudine kantiana rispetto a quella cartesiana. Ed è qui che prende avvio l’epistemologia contemporanea: la possibilità che il costrutto operato dal pensiero si presenta sotto forma di “teoria” e l’oggettività altro non è che quel livello di stabilità cognitiva, che usiamo chiamare “risultato” e che, proprio perciò, può essere messo in comune. Una tale stabilità del dato svolge una funzione decisiva soprattutto quando si opera nel settore della “pratica”, come accade appunto nel campo dell’obbedienza normativa.

Vale la pena di ricordare quanto spiegava Ernst Cassirer nel suo corso invernale 1920 – ’21, presso la sua Università di Amburgo, intorno ad una questione allora impellente e di rilievo epocale. Si trattava, infatti, della riflessione filosofica originata dalla teoria della relatività generale di Einstein([13]). Voglio ricordare alcuni di quei pensieri in un contesto come questo, con uno spettro tematico ben più limitato di quello nel quale si muoveva Cassirer, perché aiutano a capire quale sia il rapporto tra risultanze cognitive e senso comune, sul quale grava una relazione fondamentale: quella tra “verità” dell’attività conoscitiva e rappresentazione simbolica. E’ un modo per proiettare Kant nel XX secolo.

Spiega Cassirer: «La concezione ingenua del mondo ritiene di cogliere immediatamente la realtà delle cose, della natura delle percezioni sensoriali; ma già fin dai primordi delle considerazioni scientifiche del mondo si scopre la relatività e la mutevolezza dei contenuti della percezione sensibile e si mostra con ciò che essi non possono essere attribuiti all’oggetto “stesso”»([14]).

Da qui in poi Cassirer evidenzia, attraverso numerosi esempi, come la conoscenza scientifica incorpori o sconti uno “scarto” tra la verità scientifica contenuta in una formula matematica, quale quella che viene costruita da una determinata “teoria”, e la verità che proviene dalle rappresentazioni sensoriali, per la cui inaffidabilità basti pensare al ruolo che gioca la “direzione dello sguardo”: «…nella stessa osservazione, nella determinazione del suo contenuto e del suo significato non si tratta appunto mai solamente dell’accaduto passivamente, bensì anche della specifica disposizione spirituale, della specifica direzione dello sguardo. E’ questa direzione dello sguardo che distingue il procedimento del fisico da ciò che comunemente si chiama “esperienza sensibile” »([15]).

Perché mi spingo così lontano, fino a toccare un ambito di questioni che ai giuristi può sembrare irrilevante per l’attualità del loro lavoro? La ragione è la seguente e spero di darne conto in modo convincente e condivisibile, anche se sono costretto ad esporla in modo sintetico e per grandi punti.

 

  1. Dall’epistemologia ai modelli processuali

 

Ho ritenuto di dare un certo spazio dal punto di vista epistemologico al tema, che è innanzitutto teoretico, della “verità”, poiché questo conforma la questione, più specifica e lessicalmente affine, che riguarda l’esperienza giuridica: il tema della “verità”, quando questa è messa alla prova nel processo penale. Qui entrano in gioco due capisaldi del diritto processuale: la prova scientifica ed il libero convincimento del giudice ([16]). Come dire, per usare l’espressione di Cassirer, formule matematiche (lato sensu) di una possibile rappresentazione teorica dell’evento e, non uno, ma due sguardi: quello dell’investigatore e quello del giudice. Ed alla fine del percorso, la necessità del diritto: la “certezza” del giudicato, nella quale la forma processuale viene intesa come rappresentazione corrispondente ad una “sostanza accertata”.

Ed è ancora qui che prende forma la fictio terminologica, “verità”, ed assume senso, esclusivamente pratico, il “dubbio”, nella sua trasmigrazione dal necessariamente soggettivo al ragionevolmente oggettivo, cui poi si lega l’ “oltre…”.

La scienza giuridica ha sempre avuto contezza che operava tramite una fictio; ma una fictio, alla quale non ha mai potuto sottrarsi. Ha aggirato invece il problema, di una teoria che deve farsi “pratica”, delegandone la risoluzione alla qualificazione-configurazione dei soggetti processuali, che ha condotto a delineare i due modelli: l’inquisitorio e l’accusatorio.

In altre parole, la “verità” del giudizio viene a dipendere dalla legittimazione degli sguardi dei soggetti processuali. Prova ne sia, che nel tempo in cui si riteneva che la verità del giudizio non potesse essere una fictio dell’uomo, lo “sguardo” cui si ricorreva era quello di Dio (che stava dietro anche alla confessione del supposto reo). Lo mostra bene Franco Cordero, in un suo celebre testo ([17]), evocando l’origine del modello processuale che ne verrà fuori: l’ “inquisitorio”. Il suo contrappunto epistemologico è il modello “accusatorio”.

Intendo sottolineare che la differenza processuale tra i due modelli ha la sua radice proprio in un contrappunto epistemologico, legato al significato dei due termini-chiave, che danno il nome ai rispettivi modelli: la “colpa” e l’ “accusa”.

La “colpa” esige la dimostrazione della verità; l’ “accusa”, al contrario, chiede l’argomentazione logica di una possibile e plausibile ricostruzione dell’evento operata dal magistrato dell’istruzione ([18]). La “colpa”, allora, si inscrive nell’orizzonte logico del vero/falso; essa altro non è che la radice animistica originaria del concetto di “causa” di un evento, come ebbe a sottolineare Kelsen, risalendo al greco aitia, che comprendeva le due declinazioni di colpa e causa ([19]). Il modello inquisitorio è tutto raccolto in questa configurazione razionale, ed il ricorso al “Cielo”, di cui parla Cordero, ne è la testimonianza più suggestiva ed immaginifica.

Giustizia e verità sono termini che evocano, nel loro strettissimo legame concettuale, uno scenario teoretico-argomentativo di tipo sostanzialistico. L’attività corrispondente è attribuita ad un Ente, lo Stato, come autore supremo della Legge; tale attribuzione, per quanto esclusiva, si fonda però su di un presupposto formale, la legittimazione, e viene esercitata da soggetti, dotati anch’essi dell’investitura, ancora formale, della “competenza”, dipendente dall’ essere organi dello Stato. In definitiva, la fictio consiste nel soddisfare alla domanda di verità, che è “ontologica”, attraverso una modalità argomentativa che, però, è formalistico-funzionale, fermo restando – ancora un “però” – il fine: l’affermazione della giustizia, che è un concetto, a sua volta, di ordine di nuovo sostanziale.

Il paradigma concettuale dell’ “accusa” è del tutto differente. “Accusare”, nella tradizione storica e nella sua struttura concettuale, individua una iniziativa di origine privata, individuale o sociale, ma comunque non pubblica, almeno nel senso che non ha la sua origine nello Stato. Un individuo accusa un altro individuo dell’offesa ricevuta e l’offensore, a sua volta, contesta l’accusa su di un piano di parità. Una tale fenomenologia riposa sull’idea che la verità umana si manifesti per via argomentativa e dialettica.

Da qui segue che la caratteristica peculiare di questo modello: la centralità cioè del profilo retorico – epistemologico. Alla “verità”, sia pure nella sua accezione processuale, si sostituisce il concetto di ipotesi sostenibile, che porta con sé, a sua volta, due conseguenze teoriche dagli importanti riflessi pratici. Accusa e difesa vengono incarnati da soggetti processuali pari ordinati, coerentemente con la premessa che il magistrato che promuove l’azione penale non attribuisce una “colpa” con le relative “prove”, ma prospetta solo una “ipotesi” argomentativamente sostenibile attraverso elementi di prova; e la difesa, a sua volta, potrà fornire una diversa “ipotesi”, attraverso altri elementi di prova.

Insomma, nel modello processuale accusatorio l’uomo sperimenta tutta la sua finitudine. Non presume di conoscere la verità, ma solo cerca, a volte drammaticamente, di inseguire una possibilità, nella quale la dimensione epistemologicamente “ipotetica” può essere corroborata solo dalla sostenibilità retorica, messa alla prova attraverso il confronto tra parti, processualmente pari ([20]). Al giudice, non solo super partes, ma soggetto altro dalle parti, spetta di formarsi una “opinione”, che valga come “giudizio”. Tutto ciò significa che il confronto tra ipotesi retoricamente ed argomentativamente sostenibili si traduce, nella mente del giudice, in una rappresentazione plausibile, che dà luogo alla sentenza. E non senza significato: appellabile.

In altre parole, nel modello accusatorio prende forma la “verità” intesa, in generale, come “rappresentazione possibile del mondo”, alla quale ho fatto riferimento nelle pagine introduttive.

 

  1. Per finire…una “puntualizzazione”

 

Pensando a questo modello di “verità”, quale si manifesta nel processo penale sotto la veste dell’ “accusatorio”, non intendo ascrivere al processo, ed al diritto di cui è manifestazione decisiva, una sorta di relativismo scettico. Intendo invece costruire una sorta di “arca”, nella quale salvare il tema cruciale per il pensiero e per l’agire dell’uomo, in quanto ente finito: il tema della episteme, dando il rilievo che merita alla dimensione empirica della mente umana, come visione, logos, ragione, idea, discorso e, al tempo stesso, dando altrettanto rilievo al fatto di esistere al mondo, di appartenere al mondo e di incontrare il mondo, come realtà altra dall’uomo come soggetto pensante e agente.

Il termine “possibile” indica, allora, lo spazio logico, nel quale il soggetto -“ente finito” si confronta con una dimensione altra da sé: quella che ho definito, appunto, “mondo”. Il “possibile” va inteso come uno “spazio reale”, proprio in quanto corrispondente ad una possibilità di rappresentazione offerta dalla esistenza di una “cosa”. Entro un tale spazio, il soggetto elabora le sue conoscenze (ricostruzioni e interpretazioni “possibili”, e dunque discutibili), le sue valutazioni (giusto – ingiusto)e, infine, motiva le sue decisioni.

Insomma, puntualizzando. In termini più generali, “rappresentazione possibile del mondo” può riassumersi nei seguenti 5 punti:

  1. Esiste un “mondo”, altro dal soggetto, di cui quest’ultimo dà una “rappresentazione”, attraverso un atto cognitivo;
  2. Si dà uno scarto tra l’in sé di questo mondo e la sua rappresentazione possibile da parte dell’uomo (se si vuole, è un’allusione alla noumenicità kantiana);
  3. Da qui, la molteplicità delle rappresentazioni possibili, tutte però riferibili al “mondo”;
  4. Le radici soggettive dell’oggettività, il che significa che il concetto di oggettività è strettamente legato a quello di possibilità, poiché il possibile individua lo spazio di agibilità logica tra soggetto e mondo esterno;
  5. Rispetto e dialogo sul piano delle ricadute pratiche, non come opzioni soggettivistiche, ma come dovere morale derivabile dalla lettura critica della realtà, che dalla “rappresentazione possibile” discende (a-dogmatismo).

Due parole ancora sull’oggettività, che è un tema che affanna i giuristi di tutti i settori, come generico contrappunto della “soggettività”. Tale contrappunto è epistemologicamente inesatto, poiché l’ oggettività è comunque l’esito di quel ragionamento che ha origine soggettiva, in quanto proviene dalla “testa” di un uomo. La peculiarità dell’ “oggettivo”, invece, si pone in contrasto con un altro aggettivo: soggettivistico, in quanto indica quel dato che, pur avendo una origine soggettiva, non coincide con una mera opinione individuale (“soggettivistica”, appunto), ma assume una forma argomentativa tale da essere generalizzabile, e quindi capace di fornire una rappresentazione del mondo “possibile”, ma, al tempo stesso, idonea a soddisfare attese sociali. Proprio perciò pur rimanendo discutibile, lo è su quel piano epistemologicoargomentativo che ha origine soggettiva, ma che non è soggettivistico. Prova ne sia l’imprescindibilità della “motivazione” negli atti giudiziari

Questa è la “mia” arca, che mi sembra possa navigare attraverso il mare del pragmatismo, dagli esiti scettici e nichilisti, e destreggiarsi tra gli scogli del dogmatismo del pensiero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] L.Ferrajoli, La logica del diritto. Dieci aporie nell’opera di Hans Kelsen, Laterza, Roma – Bari 2016, in part. la IV aporia.

[2] Per un’analisi dettagliata di questo percorso, mi permetto di rinviare al mio Ragionare per decidere. Dalla scientia juris alla governance, in AA.VV. Ragionare per decidere, a cura di G.Bombelli e B.Montanari, Giappichelli, Torino 2015, pp. 1 – 33.

[3] Su questo punto, ancora C.Schmitt, Dialogo sul potere, tr.it. Il Melangolo, Genova 1990

[4] Intorno al tema della “sostenibilità della teoria” ed a quello ad esso strettamente connesso dell’ “incertezza scientifica” resta emblematico un dibattito centrale per l’epistemologia scientifica contemporanea: Kuhn- Feyerabend (cfr., del primo, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago University Press, Chicago 1962, tr. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969; e, del secondo, almeno Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, London 1975, tr. it. Contro il metodo, Feltrinelli, Milano 1979). In particolare di Kuhn merita di essere sottolineato come l’affermarsi di un paradigma di “verità” (ovviamente scientifica) dipenda dalla sua “codificazione” manualistica. Quest’ultimo tema fu anticipato da Kuhn in un lungo saggio precedente al 1962 e pubblicato, insieme due lettere di Feyerabend, da Cortina nel 2000 (Dogma contro critica, Milano). Cfr. intorno a questo tema il saggio, breve ma assai intrigante di Giorgio Agamben, Che cos’è reale? La scomparsa di Majorana, Neri Pozza, Vicenza 2016.

[5] Mi permetto su questi punto di rinviare al mio Dall’ordinamento alla Governance, in “Europa e diritto privato”, n. 2/2012, pp. 397-436, ed alle riflessioni ivi espresse

[6] Cfr. su questo tema il bel saggio di Mariachiara Tallacchini, Between uncertainty and responsability. Precaution and the complex journey towards reflexive innovation, in AA. VV., Trade, Health and the Environment: The European Union Put to the Test, Routledge, London 2014, pp. 74-88 (in part. pp. 78-81), nel quale si fa il punto, con il corredo di una amplissima bibliografia, sul tema della “incertezza scientifica” in specifico rapporto alle ricadute sociali, sul piano delle decisioni politiche e della statuizioni giuridiche. In part., p. 81 con il riferimento al testo di S.Jasanoff, Science and public reason, Oxon, Routledge, 2012

[7] C.Sini, L’alfabeto e l’Occidente, Opere vol.III / I, La scrittura e i saperi, Jaca Book, Milano 2016, pp. 27 e 26.

[8] Ivi, p.44

[9] Il tema è sviluppato, come è più che noto, nelle Meditations Métaphisiques, nelle due ed. il latino (1641-’42) ed in quella in francese (1647). L’espressione cit. è nella. Med. III, ma cfr. anche, in part. la II, la IV e la VI. (Flammarion, Paris 1979)

[10]Cumque attendo me dubitare, sive esse rem incompletam et dipendentem, adeo clara et distincta idea entis indipendentis et completi, hoc est Dei, mihi occurrit” (IV, ed. cit., p.130)

[11] Critica della ragion pura, Libro II, tr.it. Laterza, Bari 1972, p.334, nota

 

[12] Ho trattato questo tema più ampiamente nel mio Potevo far meglio. Kant e il lavavetri. Ovvero: l’etica discussa con i ventenni, CEDAM, Padova 2008 (3^ ed.), cui mi permetto di rinviare.

[13] E.Cassirer, I problemi filosofici della relatività. Lezioni 1920-1921, tr.it a cura di R.Pettoello (con Premessa e note del traduttore-curatore editoriale), Mimesis, Milano-Udine 2015

[14] Ivi, p.57

[15] Ivi, p.70.

[16] Si veda, ad es., il ricchissimo testo M. Bertolino – G. Ubertis (a cura di), Prova scientifica Ragionamento probatorio e Decisione giudiziale (Atti del Convegno tenutosi all’Università Cattolica del Sacro Cuore il 10 e 11 ottobre 2014), Jovene, Napoli 2015. Sulla questione di un possibile modello di “verità” riferibile agli enunciati normativi cfr. ancora F.D’Agostini, cit., p.36 e ss. Alla crisi culturale del nostro tempo presta la sua attenzione anche G.Forti nella sua Introduzione al testo La “verità” del precetto…, sopra citato, pp. 3 – 23, in part. le osservazioni di p. 10 e ss, La questione è partitamente analizzata da G.Forti, in un “chapter”, in corso di redazione per un testo che avrà come ed. Sprjnger, dal titolo From scientific evidence to scientific proof: Daubert standard and medical standard care.

[17] F,Cordero, Riti e sapienza del diritto, Laterza, Bari 1981, in part. p.556 e ss.

[18] Cfr. R. Alexy, Theorie der juristischen Argumentation. Die Theorie des rationalen Dioskurseswe als Theorie der iuristiscen Begrundung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1978, tr.it. Teoria dell’argomentazione giuridica, Giuffré, Milano 1998, p.171.

[19] H.Kelsen, Reine Rechtslehre, Wien 1960, tr.it. Einaudi, Torino 1966, p. 103

[20]In argomento, cfr., il significativo testo di P.Ferrua, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in Diritto e Processo. Studi in memoria di Alessandro Giuliani, ESI, Napoli 2001, vol. III, pp. 315 – 368.

Antropologia politica (una considerazione preliminare)

La nostra vita quotidiana ce lo testimonia incessantemente: viviamo impulsi talmente imperiosi – quasi sempre legati alla sfera materiale – da farne apparire indispensabile la soddisfazione. Non se ne può fare a meno ma i desideri che ci possiedono appaiono spesso in contraddizione l’uno con l’altro: bisognerebbe necessariamente rinunciare a qualcuno di loro. Come fare, però, se essi appaiono tutti – davvero – indispensabili? Indispensabili ma impossibili da cogliere contemporaneamente – incompossibili. Si vede, tuttavia, che si tratta d’una condizione al limite della follia. Come immaginare dunque una scala gerarchica, un ordine di importanza? Quali criteri utilizzare?
Sarebbe necessario de-cidere. Fendere. Tagliare una parte di noi. Farlo però non è possibile, poiché ciò significherebbe un sacrificio che, in un tempo antisacrificale quale il nostro, l’uomo non può permettersi.

Alla fine della cultura cristiana – cultura monoteistica – riemerge dunque la tragedia del politeismo. Ma di quale politeismo sto parlando? A guardar bene, non vi è, né può esservi oggi alcun politeismo. Non esiste, infatti, alcun tempo ciclico su cui appoggiarsi – cosi com’era, ad esempio, per i greci. Il tempo ciclico è indispensabile per aprire una dimensione religiosa di tipo politeistico. Ora il tempo (ancora cristiano) rimane lineare, e orientato verso un fine – verso “la fine” dei tempi. Epperò, mentre la forma è rimasta la stessa, è andata via la sostanza: viviamo in un mondo che ha rinunciato al telos ma è ancora convinto che bisogna andare avanti nella dominazione del mondo perché il nostro Regno appartiene ad un altro mondo. Il dramma morale della società contemporanea nasce appunto da questo…
Oggi, tuttavia, diversamente da quanto accadeva nel politeismo antico, nessuna “misura” ci può aiutare: la bella armonia classica ha lasciato il posto al desiderio irrefrenabile del Kaos. Come il politeismo, lo stesso monoteismo si è svuotato e le nostre vite appaiono appoggiate oggi, inesorabilmente, sul vuoto dell’assenza.

E’ necessario ammetterlo: gli antichi Dei hanno ripreso, nel nostro petto, nella nostra emotività più riposta, la loro eterna contesa ma Nemesi è morta e Giove non domina più sulle cime dell’Olimpo.

Il limite è stato oltrepassato…

L’oltrepassamento del limite ha due grandi protagonisti, la tecnica e il denaro: il denaro in quanto tecnica e la tecnica in quanto denaro. Davanti a queste divinità, immani volontà di potenza del nostro tempo, l’uomo appare in una funzione estremamente gregaria. Anche ad una analisi sommaria, i nostri contemporanei si mostrano come piccoli quanto insignificanti ingranaggi d’un apparato tecnico sempre meno controllabile dal suo costruttore. Gli uomini oggi sono poggiati, in quanto singoli e in quanto specie, su un terreno che di stabile non ha più nulla.

Proprio in questo tempo, tuttavia, e proprio perché esso sembra procedere in direzione specularmente opposta, occorre ricordarsi dell’interezza dell’uomo e del destino comune a tutti noi.

Ogni comunità storica implica un peculiare modo di essere al mondo. Ciascuna di esse non potrebbe (non avrebbe potuto, non potrà) sopravvivere se non costruendo un “cerchio magico” intorno a cui sia possibile de-finire la propria visione del mondo. Il cerchio magico significa valori di riferimento, realtà introiettate e ritenute auto-evidenti tanto da costituire dispositivi di verità strutturati in quanto edificio di vita e di senso. Non si può in alcun modo rinunciare ad un ethos condiviso; meno ancora si può supporre che la frammentazione globale possa fare a meno d’una visione dell’intero, ossia un patrimonio di “beni comuni” e risorse pubbliche.

L’uomo è – appunto – un intero. Non solo. In un periodo storico segnato dalle grandi conquiste della tecnica, va ricordato che esso non può che essere e rimanere parte costitutiva dell’intera umanità: in un tempo segnato dalla globalizzazione culturale, sociale, economica, ciò è del tutto evidente sul piano socio-politico. Ancor più evidente e decisiva dovrebbe apparire, però, l’interrelazione ambientale in una fase storica nella quale un qualsiasi “incidente” di tipo tecnico è in grado di diffondersi su larga scala, producendo danni catastrofici quanto irreversibili.

Occorre pertanto ripensare insieme l’uomo e il suo mondo. E’ necessario farlo, però, con la consapevolezza che è senz’altro l’uomo a produrre il proprio mondo ma che il mondo stesso possiede delle leggi che non possono essere alterate senza che gli individui ne debbano risentire.

A tal fine, pertanto, non bastano più le discipline settorializzate. In modo particolare per le scienze filosofiche, bisogna entrare nell’ottica secondo la quale la conoscenza serve all’uomo “integralmente” e che nessuna particella di essa può rendersi autonoma in maniera anarchica, nella convinzione che l’intero non reagisca.

Per pensare adeguatamente il proprio tempo non è sufficiente concentrarsi sulle istituzioni politiche e sulle forme della sovranità, sulla configurazione del diritto e sulla gestione dell’economia. Non vi è dubbio: un’analisi specifica e interstrutturale di questi settori è imprescindibile. Si tratta, però, di una condizione necessaria ma non sufficiente.

L’analisi degli ambiti suddetti, infatti, per quanto tecnicamente raffinata possa essere, non serve a niente se non si osserva, comprende e descrive, nella maniera più accurata possibile, il modello umano – di donna e di uomo – che un determinato tempo è in condizione di esprimere. È necessario, pertanto, compiere un lavoro ulteriore: al fine di risalire ad una prospettiva fedele e mettere capo ad uno sguardo lucido sul reale, diventa indispensabile retrocedere fino alle passioni più intime dell’uomo contemporaneo. Occorre, cioè, entrare nelle dinamiche emozionali, comprendere nello stesso modo le forme dell’amore e quelle dell’odio, concentrarsi sulle modalità della cura. Tutto ciò costituisce presupposto indispensabile per un’indagine scientifica affidabile. A saper guardare, dice molto di più, della qualità e del tipo di comunità, una visita in una corsia di ospedale che uno studio pluriennale di ingegneria costituzionale.

Credo dunque che, da questo punto di vista, la filosofia sia anzitutto una politica. Per converso, ritengo anche che quest’ultima non abbia e non debba avere alcun valore riconosciuto se non coinvolge nel suo senso la filosofia, ossia una visione complessiva sull’uomo in quanto singolo e in quanto specie. L’uomo che deve essere preso in considerazione non può più essere il soggetto razionale della tradizione illuministica, o il cittadino della tradizione statualistica moderna, e neppure l’agente economico tipico delle posizioni liberali, bensì un essere peculiare che si caratterizza essenzialmente per un’esposizione radicale all’evento della sua stessa esistenza.

In questo senso, pertanto, vanno valorizzati studi ed esperienze le più diverse: anche quelle che non avevano mai raggiunto la dignità di “scienza accademica”. A patto, però, che tutto questo reticolo scientifico possa essere riconnesso al senso filosofico più generale e originario possibile.

Costituirebbe una buona filosofia quella che ritornasse a porre domande ingenue, come quelle dei bambini o dei poeti, tali cioè da porre in un colpo solo davanti ai tanti paradossi e alle innumerevoli contraddizioni dell’esistere. Sarebbe altresì necessario che la filosofia diventasse una visione dell’uomo esprimibile attraverso una politica. Sarebbe urgente che la filosofia si mutasse in antropologia politica.

Crisi di rappresentanza e globalizzazione dei mercati

Questo saggio è lo schema della lezione tenuta da Giorgio Rodano il 21 aprile 2017 a Roma, Villa Mirafiori, Dipartimento di Filosofia,  cattedra di Filosofia politica.

Domenica ci saranno le elezioni presidenziali in Francia. Rischiano di essere esclusi dal ballottaggio i due partiti (quello socialista e quello conservatore, quello che una volta veniva chiamato gollista) i quali da oltre cinquant’anni (da quando esiste la cosiddetta quinta repubblica) hanno espresso tutti i presidenti della repubblica e tutti i governi. La stessa cosa è successa negli scorsi mesi in Austria (dove al ballottaggio si sono sfidati un verde e un estremista di destra). È un chiaro segnale di crisi di rappresentanza.
La cosa è parecchio diffusa. Tira un brutto vento per i partiti e i movimenti che hanno guidato i paesi dell’occidente nei decenni passati: in molti paesi hanno ottenuto rilevanti successi elettorali candidati e movimenti esplicitamente e spesso violentemente critici nei confronti dell’establishment politico. Il caso più clamoroso è quello di Trump. Ma si possono ricordare i successi (finora solo parziali) della Le Pen (Francia), di Wilders (Olanda), di Podemos (Spagna), e anche, ovviamente, dei cinquestelle nostrani. Anche alcuni candidati sconfitti hanno comunque basato il loro consenso sulla critica dell’establishment: per esempio Sanders (Usa) e Corbyn (Uk). Persino in Germania i movimenti anti politica hanno visto crescere il loro spazio.
I recenti successi, in Europa, dei movimenti populisti e dei sovranisti suggeriscono che tira una brutta aria per la coesione e il futuro dell’Unione europea (come è cambiato il vento in soli vent’anni!). Lo shock della Brexit rischia di essere (anche se non è detto) il punto di inizio di un più generale processo di disgregazione. E in questo non aiuta certo l’atteggiamento dei paesi dell’ex blocco sovietico aderenti alla Ue (fortemente sovranisti, e che vedono nell’Ue quasi esclusivamente un baluardo in chiave anti Russia).
Insomma gli equilibri politici, da noi come altrove, stanno cambiando, e non lo stanno facendo in modo ordinato. Forse è più corretto dire che quelli vecchi sono venuti meno, e che nuovi equilibri non ci sono ancora; e non se scorgono neppure le caratteristiche generali. Se uno guarda al passato remoto viene in mente il dubbio che siamo alla vigilia di grandi cambiamenti di cui però non riusciamo a intravedere la direzione e i possibili risultati. La società (le società) appaiono in crisi, sono scosse da tensioni che la politica ha crescenti difficoltà a gestire e che, per ciò stesso, appare sempre più delegittimata. La storia ci dice che in queste situazioni sono elevate le possibilità di cambiamenti radicali (con possibili sbocchi rivoluzionari o reazionari, ma quali?).
Senza scomodare i grandiosi travagli del quinto secolo (a.d.) che portarono alla fine dell’impero romano d’occidente e all’avvento dei secoli del medio evo, possiamo pensare ai periodi che precedettero le grandi rivoluzioni (inglese, francese, russa); e possiamo pensare anche, in Italia, agli anni successivi alla prima guerra mondiale o, allargando lo sguardo, agli anni della grande depressione degli anni trenta del secolo scorso. Tutti periodi socialmente turbolenti e forieri di grandi cambiamenti (non sempre in meglio). Per riprendere le immagini di un grande poeta italiano del secolo scorso (che però parlava dell’inizio degli anni cinquanta), ci sembra di vivere in un vuoto della storia, in una ronzante pausa, quando appunto nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina il mondo, nella penombra (Pasolini).
Per concludere con queste considerazioni, mi sento a disagio (e ritengo di essere in numerosa compagnia). Le cose cambiano ma non riesco a vedere la direzione e gli sbocchi. Forse è perché sono vecchio. Ma ho l’impressione che il disagio (diffuso) non sia un fatto generazionale. Direi che anche i giovani si sentono molto a disagio. Per certi versi, anche più degli anziani. E — come cercherò di mostrare in seguito — hanno più di una ragione per essere insoddisfatti di come vanno le cose e delle prospettive nebbiose (eufemismo) che si trovano davanti.
Tuttavia credo di essere stato chiamato a parlarvi oggi non in quanto vecchio e pensionato (anche se purtroppo lo sono) ma in quanto studioso (ex professore) di economia, di quella che una volta è stata chiamata dismal science, la scienza triste (dismal può essere tradotto anche come tetra, il che non ci è di molto conforto).
Immagino che la mia presenza qui sia stata sollecitata dalla speranza, che la scienza economica possa aiutarci a capire quello che sta succedendo. Non ne sarei così sicuro. C’è un terribile aforisma che riguarda gli economisti che recita più o meno così: «l’economista è colui che domani ti spiegherà perché oggi non si è verificato quello che aveva previsto ieri». Insomma saremmo bravini a spiegare dopo (ex post) quel che non avevamo capito prima (ex ante). È vero che, come pare abbia ironicamente detto una volta un grande fisico del secolo scorso (Niels Bohr) «fare previsioni è molto difficile, soprattutto per quanto riguarda il futuro», ma un po’ di sana cautela per quanto riguarda le previsioni degli economisti è doverosa (io li conosco; faccio parte della categoria).
Un esempio tipico: la stragrande maggioranza degli economisti non aveva previsto la grande crisi economica mondiale scoppiata nel 2007 e che ha trascinato le sue conseguenze per parecchi anni (in Italia almeno fino al 2014, anche se molti sostengono che non è ancora finita). Ci torneremo. Comunque assumo per buona la domanda: «L’economia è in grado di aiutarci a capire qualcosa dell’attuale malessere sociale (in Italia, in Europa, nel mondo)?» Proverò ad argomentare la seguente risposta: «Forse sì (ma non aspettatevi troppo)». Poi c’è subito un’altra domanda importante: «Quanto dell’attuale malessere sociale è colpa dell’economia?». Chiaramente sto usando la parola economia in due modi diversi. Nella prima domanda economia sta per scienza economica, ossia per una disciplina che cerca di spiegare, dal suo particolare punto di vista, la realtà sociale. Nella seconda domanda la parola economia sta per struttura economica o, se si preferisce, per meccanismi economici (nella lingua inglese si usano due parole diverse: economics ed economy). Naturalmente potrei usare altri termini, come capitalismo, mercati, finanza, globalizzazione, ecc. Più avanti lo farò.
Premetto che la parola colpa non mi piace. Preferisco termini meno pesanti come causa (se vogliamo restare sull’oggettivo) o responsabilità (se proprio vogliamo aggiungere una connotazione politica o morale). Comunque non mi sottrarrò al compito di tentare anche qui una risposta. Che, anticipando, è questa: «A mio avviso, parecchio». Nel seguito cercherò di essere un po’ meno sintetico, e forse dirò cose che non vi aspettate.
Cominciamo da una prima possibile risposta (alla seconda domanda): il malessere sociale è una conseguenza diretta della crisi economica. Non voglio sottovalutare l’importanza per certi aspetti epocale di questa crisi (di gran lunga la più grossa, almeno per il nostro paese, della sua storia in tempo di pace; più della stessa grande depressione degli anni trenta del secolo scorso). Ma cercherò di argomentare la seguente tesi: la crisi ha contato e conta (matters), soprattutto in Italia; ma se allarghiamo lo sguardo al resto del mondo, ci accorgiamo che le cose sono un po’ più complicate. Per anticipare uno spunto: negli Usa, grazie alle politiche tempestive ed efficaci dell’amministrazione Obama e della Fed, la crisi economica è stata superata molto rapidamente: dopo poco più di un anno l’economia americana era in chiara ripresa, e oggi ha largamente recuperato i livelli pre-crisi. Ma il malessere sociale si è accentuato, e si è tradotto nella vittoria di Trump (un outsider; come in Francia, come in Austria, come, forse, domani in Italia).
Alcuni numeri della crisi economica (per l’Italia). Tra il 2007 e il 2013 il Pil è diminuito dell’8,7% (appunto, mai così tanto e così a lungo in tempo di pace). Conseguenza: si è perduto oltre un milione di posti di lavoro (700 mila dipendenti). Li ha persi non solo l’industria (come avviene di solito nelle recessioni moderne); stavolta l’emorragia ha colpito (ovviamente di meno) settori di solito risparmiati (come il commercio) e settori che in passato hanno svolto una funzione compensatrice (le amministrazioni pubbliche). Ben oltre la metà dei posti perduti (57,8%) ha riguardato il Mezzogiorno; poi il Nord (28,3%); è andata relativamente meglio per il Centro (13,9%). Tasso di disoccupazione in salita: prima della crisi era sceso al 5,7%; dopo era risalito a un massimo del 13,1%. In grande salita quello dei giovani: dal 18,1% al 43,9% (sempre nel periodo della crisi).
Negli anni più recenti le cose hanno cominciato ad andare un po’ meglio. Non tanto, ma un po’ sì. L’economia ha ricominciato a crescere (poco, meno del resto dell’Europa), l’occupazione ad aumentare, la disoccupazione a diminuire (perfino, anche se poco, quella giovanile). Ma le cose non sono andate in modo uniforme. Il Centro-Nord ha recuperato quasi integralmente riportandosi sui numeri del periodo precedente la crisi (che, va aggiunto per completezza, non erano un granché). Il Mezzogiorno no. L’economia delle regioni del Sud ha continuato a ristagnare, e lo stesso vale per l’occupazione e la disoccupazione. E anche per i giovani le cose non stanno andando affatto bene. L’altro ieri il direttore dell’Istat, in un’audizione alla Camera, ci ha ricordato che il tasso di occupazione dei giovani (tra 15 e 34 anni) sfiorava il 40% (contro il 54% dell’area euro e il 56,4% dell’Unione europea).
La tesi che cercherò di illustrare è, molto in sintesi, la seguente. La grande crisi economica mondiale e il successivo periodo di ristagno hanno dislocato nel profondo gli equilibri sociali e perciò sono stati il fattore scatenante e l’elemento amplificatore della crisi di rappresentanza politica che ha portato alla diffusione dei movimenti anti-politica (o, meglio, anti establishment), a matrice populista e sovranista. Ma la causa economica di questa crisi di consenso va cercata altrove. Dove? La risposta che suggerisco e che proverò ad argomentare è: in alcune conseguenze della globalizzazione dei mercati.
Sospetto che se avessi chiesto a voi di proporre delle risposte, la globalizzazione sarebbe stata abbastanza gettonata. Ma sospetto anche che se vi avessi chiesto di dirmi che cosa si deve intendere per globalizzazione le cose si sarebbero fatte un po’ più confuse. Perché non è corretto liquidare la faccenda inserendo la globalizzazione in un elenco di cattivi, assieme alla finanza, alle banche, alle multinazionali, all’Europa, alle burocrazie di Bruxelles, alla trojka (Bce, Fmi, Commissione europea), all’euro, alla Germania, ai governi (piove, governo ladro); e, già che ci siamo, ai mercati, alle tasse, agli immigrati (e via seguitando). Non è per caso che ho parlato di conseguenze della globalizzazione.
Avendone il tempo, dovrei essere in grado di spiegare (è il mio mestiere) che nessuno dei reprobi che compaiono nell’elenco (e che tanto spesso ci conforta additare alla gogna) è veramente cattivo (anche se — per carità — non è neanche veramente buono). Dato che, però, il tempo è tiranno, mi limiterò a ragionare sulla globalizzazione e sul suo ruolo (durante il percorso sarà inevitabile incontrare anche qualche altro dei personaggi dell’elenco).
Ci serve innanzitutto una definizione. Possiamo articolare il processo di globalizzazione dei mercati in quattro fasi (logiche, ma in parte anche storiche): (i) allargamento dei mercati dei prodotti (e delle materie prime); (ii) apertura dei mercati finanziari; (iii) mobilità delle risorse; (iv) decentramento produttivo. Ma vediamo più in dettaglio.
Allargamento dei mercati dei prodotti. Come viene realizzato: cambi fissi, moneta unica, trattati internazionali, abbattimento delle barriere, armonizzazione delle normative, trasporti e comunicazioni. Conseguenza: cresce la torta. Questo risultato è sostenuto, al di là di ogni ragionevole dubbio, da solidi argomenti teorici e da una massa enorme di evidenza empirica e storica. Importante caveat: questo non significa che a tutti viene data una fetta più grossa; significa solo che sarebbe possibile dare a tutti una fetta più grossa. Vedremo però che la distribuzione dei frutti della globalizzazione non è stata egualitaria.
Apertura dei mercati finanziari. Ci sono i lenders (quelli che hanno i soldi e sono disposti a prestarli) e i borrowers (quelli che li vogliono in prestito). Risparmio e investimento. Di solito chi risparmia (famiglie) è diverso da chi investe (imprese e Stato). Qualcosa di simile succede con gli Stati (Germania vs Grecia). Che succede se non si incontrano? Manca la domanda per i prodotti e c’è la crisi (o comunque una minore crescita economica). Chi fa incontrare il risparmio e l’investimento? Gli intermediari finanziari e i mercati finanziari. Come si aprono i mercati finanziari? Liberalizzandoli (!). Conclusione: anche questo aspetto della globalizzazione è potenzialmente positivo. Ma c’è anche il lato oscuro della finanza.
Le magagne della finanza. Prima. Gli intermediari e i mercati portano il risparmio dove rende di più, e non è detto che sia l’investimento produttivo. Può essere la finanza stessa (speculazione; e prima o poi le bolle scoppiano). Possono essere i debiti pubblici. Anche qui si deve distinguere tra spesa pubblica buona (investimenti) e cattiva (certi consumi). Seconda. Come la finanza porta i fondi, così può anche portarli via, lasciando il debitore in brache di tela. Può succedere perché il debitore si rivela poco affidabile (rischio di default; rischio paese). Ma può succedere perché i lenders hanno meno soldi da prestare. Esempio. La crisi economica riduce il Pil tedesco; perciò si riduce il risparmio tedesco; chi prendeva soldi a prestito dai tedeschi (la Grecia) si trova in difficoltà.
Mobilità delle risorse. Si muovono i capitali e il lavoro. Entrambi si dirigono dove il rendimento atteso è più alto. I capitali vanno verso i paesi arretrati. Il lavoro si dirige verso i paesi ricchi. Flussi disordinati creano problemi (gli immigranti e gli immigrati). Ma anche questo terzo aspetto della globalizzazione è potenzialmente positivo, tanto più che anche i paesi ricchi, per continuare a crescere, hanno bisogno di più lavoro (e i ricchi fanno sempre meno figli).
Decentramento produttivo. Le imprese dei paesi ricchi spostano parte delle proprie attività (di solito quelle a minor contenuto tecnologico) nei paesi poveri. Perciò nei paesi poveri cresce la produzione (e l’occupazione) e cresce il Pil (e i redditi). La globalizzazione rende i paesi poveri meno poveri. Li sfrutta? Certo! Ma è altrettanto certo che la popolazione dei paesi poveri, tra l’alternativa di morire di fame e quella di essere sfruttata, preferisce di gran lunga la seconda. Un paragone con l’ottocento inglese (Engels e Marx). Un paragone con gli anni cinquanta italiani (l’esodo dalle campagne).
E a noi che ce ne viene? Quando le economie dei paesi arretrati crescono (e negli ultimi decenni sono cresciute molto: Cindia), aumenta la richiesta per i prodotti dei paesi avanzati e cresce perciò il Pil sia dei paesi ricchi che dei paesi poveri (che diventano meno poveri). Cominciano a farci concorrenza nel campo dei prodotti tradizionali? Certo! Ma anche questo, per certi aspetti, è un vantaggio: (i) per chi li acquista nei paesi ricchi quei prodotti costano meno; (ii) l’aumento della concorrenza nei mercati fa crescere la torta (questo è un risultato che nessuno studioso mette in discussione). Insomma la concorrenza è buona per tutti quanti (tranne qualcuno: chi la subisce).
Tutto bene, allora? Ma non avevo detto prima che la globalizzazione è la causa prima del nostro attuale malessere? L’avevo detto e lo ribadisco. Premessa. La globalizzazione è (complessivamente) vantaggiosa, ma è fragile. Paragone con l’autostrada: finché tutto va liscio, si corre allegramente; ma se c’è un incidente, si rimane imbottigliati (e non si può sfuggire). Traduco: la globalizzazione alimenta la crescita (fa aumentare le dimensioni della torta) ma, se scoppia una crisi, questa tende a diventare globale e ad alimentarsi a sua volta (e la torta si sbriciola). Nulla di nuovo sotto il sole (sono cose che Marx diceva già nell’ottocento).
Ma le ragioni del nostro malessere derivano soprattutto dalla distribuzione ineguale dei vantaggi della globalizzazione. Chi ci guadagna? Innanzitutto — lo abbiamo detto prima — le popolazioni dei paesi poveri (che dalla globalizzazione ottengono lavoro e redditi). Ci guadagnano anche i lenders che finanziano i flussi di capitali (che risiedono nei paesi ricchi) e i percettori dei profitti delle attività produttive decentralizzate (che ugualmente risiedono nei paesi ricchi). Ci guadagnano gli intermediari finanziari e soprattutto i loro dirigenti (anche loro risiedono nei paesi ricchi). Ci guadagnano i consumatori (dei paesi ricchi e di quelli poveri). Chi ci rimette? Soprattutto coloro che lavoravano nelle attività che successivamente la globalizzazione avrebbe decentrato nei paesi arretrati (Detroit e la cintura della ruggine).
Finché non c’è la crisi questo malessere cova sotto la cenere. Gli sconfitti della globalizzazione possono trovare abbastanza facilmente delle alternative, se non per loro per i propri figli. Finiscono delle opportunità (non si vendono più finimenti per cavalli) ma se ne creano continuamente di nuove, secondo il processo di continua distruzione creatrice (Schumpeter) che ha sempre animato il capitalismo.
Ma — come abbiamo appena detto — la globalizzazione è fragile. Quando la crisi scoppia, le opportunità si fanno sempre più rare e il malessere diventa esplicito. Si accusa l’establishment della responsabilità di aver costruito l’autostrada in cui ora si è imbottigliati, senza speranza. Lo si accusa di essere privilegiato, di non pagare i costi della crisi (anzi di guadagnarci). E si chiede di tornare indietro. E se questo non avviene, si sposano i temi dell’antipolitica, e ci si fa incantare dalle promesse degli outsider.
Ha senso tornare indietro? L’eterno sogno dei laudatores temporis acti (Orazio) è quasi sempre un’illusione. Anche se è indiscutibile che la luce del futuro non cessa un solo istante di ferirci (ancora Pasolini), tornare indietro significherebbe rassegnarsi a una riduzione permanente delle dimensioni della torta (è già successo; per esempio, negli anni trenta del secolo scorso, e quel decennio non è finito bene), e rinunciare ai vantaggi che abbiamo elencato prima. E comunque è un’illusione l’idea che facendo girare le ruote della globalizzazione al contrario si possa tornare alla situazione precedente (ai fasti di Detroit). Non è così. Tornare indietro ci renderebbe semplicemente tutti più poveri (c’è un bell’esempio di teoria dei giochi sul West dei pionieri, che rende bene l’idea). E il malessere, semplicemente, sarebbe più intenso e più diffuso. Non oso pensare con quali conseguenze.
E allora? Se non si pensa a un’alternativa credibile, vincono gli outsider e il sovranismo. Magari qualcuno tifa per questo risultato (forse tanti). Io no. Ma proprio per questo non posso limitarmi a lanciare (pacatamente, cercando di ragionare) un grido d’allarme: «Attenzione! A tornare indietro ci rimettiamo tutti!». Non sarebbe la prima volta che il gioco della democrazia conduce a risultati autolesionistici. La storia è piena di esempi. Anche la cronaca: quella in grande (Trump, Brexit) e quella in piccolo (il comune di Roma).
Un modo per cercare un’alternativa è quello di riflettere su un caso di successo, anzi, sul principale caso di successo di tutta la storia del capitalismo: il ventennio dal 1950 al 1970, quando le economie occidentali hanno conosciuto (tutte!) la più forte crescita economica della loro storia e quando le economie arretrate hanno cominciato a uscire dal loro millenario ristagno. Quel periodo viene chiamato dagli storici economici come la Golden Age (l’età dell’oro del capitalismo mondiale).
Perché proprio la Golden Age? Perché essa presenta interessanti somiglianze col processo della globalizzazione. Ma presenta anche importanti differenze. Le somiglianze. (i) L’apertura dei mercati (cambi fissi, abbattimento delle barriere doganali, trattati di libero scambio); (ii) Il finanziamento degli investimenti (tanti!), ossia del principale motore della domanda aggregata (nel breve periodo) e della crescita economica (nel lungo periodo); (iii) La mobilità degli input, in particolare del lavoro (dalle campagne alle città, dall’agricoltura all’industria, dai paesi arretrati a quelli avanzati). Le differenze. (i) È stato sostanzialmente assente il quarto punto (decentramento delle attività produttive). (ii) Molti dei motori della Golden Age sono stati fortemente intermediati e gestiti dalla politica, che in questo modo li ha resi meno fragili.
Vediamo meglio. (i) Non solo cambi fissi ma il sistema di Bretton Woods, che attivava importanti correttivi istituzionali come il Fmi (che aveva gli strumenti per gestire gli squilibri temporanei), la Banca Mondiale (che aveva il compito di finanziare le esigenze di lungo periodo dei paesi arretrati), e i Dsp (che dovevano assicurare una creazione ordinata della liquidità internazionale). Non tutto ha funzionato per il meglio (anzi) ma certamente ha aiutato parecchio. (ii) Non solo riduzione delle barriere commerciali, ma trattati che promuovevano sì il libero scambio (come quelli della globalizzazione) ma anche l’integrazione (in prospettiva anche politica) delle economie. (iii) Il trasferimento del risparmio verso gli investimenti non era affidato esclusivamente agli intermediari e ai mercati finanziari (oltretutto molto meno sviluppati di quelli attuali) ma a una massiccia politica di aiuti pubblici (Piano Marshall) e a politiche di redistribuzione del reddito e della ricchezza, che rendevano più equilibrata la diffusione del potere d’acquisto (secondo la vecchia, ma ancora attuale, idea keynesiana, che nel breve periodo il risparmio non è il motore della crescita, perché sono soldi che non si traducono in domanda di prodotti; ed è la domanda che genera il Pil ed è il Pil che genera il risparmio). Il principale strumento di questa redistribuzione era costituito da un sistema di tassazione (dei redditi e dei patrimoni) fortemente progressivo.
Sarebbe possibile inserire elementi del genere, ovviamente in forme nuove e adeguate alle circostanze fortemente mutate) nei mercati globalizzati del nostro inquieto presente? Ritengo di sì. Non sarebbe facile ma si potrebbe fare. Non posso entrare nel dettaglio ma garantisco che si possono fare tante cose (forse non basterebbero, ma aiuterebbero, e parecchio).
Qui voglio dire qualcosa sugli ostacoli, sul perché non ci si prova. Mi limito a due considerazioni generali. La prima: le idee. Diceva Keynes, che la principale difficoltà a pensare il nuovo sta nel liberarsi dal peso delle idee preesistenti. La maggioranza degli advisors della politica prima dell’avvento della crisi riteneva che la globalizzazione fosse la soluzione di tutti i problemi. Adesso si pensa che essa sia, invece, la causa di tutti i problemi. Con questa polarizzazione è difficile andare avanti.
La seconda difficoltà: gli interessi costituiti. Il tema è quello della logica dell’azione collettiva (Olson). Si riescono a fare cambiamenti importanti quando la gente ha poco da perdere (dopo una guerra o una rivoluzione). Le cose si fanno molto più difficili, quando nella società esistono gruppi, anche di piccole dimensioni, ma molto coesi, che hanno qualcosa (o molto) da perdere da un cambiamento. Per superare queste resistenze occorrerebbe che la politica fosse più gestita da uomini di Stato (quelli che decidono pensando alle generazioni future) che da uomini di governo (quelli che decidono pensando alle prossime elezioni).

 

Democrazia, Individualismo, Capitalismo

Che la democrazia, ormai sul piano teorico assunta come orizzonte inoltrepassabile del nostro tempo, attraversi, invece, sul piano fattuale, una delle maggiori crisi di legittimazione della sua storia è un dato ormai conclamato e dato per certo dalla maggioranza degli osservatori – non soltanto politologi di professione.

Essa, infatti, appare evidentemente afflitta da quattro diversi ma connessi problemi che possono essere considerati tipici della nostra epoca.

Il primo consiste nella crisi di rappresentanza parlamentare, dal momento che i governi tendono a legiferare a colpi di decreti-legge, e spesso ponendo la questione di fiducia, al di fuori di un reale confronto parlamentare fra diverse opzioni politiche.

Il secondo ordine di problemi è dato dalla onnipervasiva quanto irresistibile presenza di organismi sovranazionali – di stampo prevalentemente se non esclusivamente economicistico – che impongono la loro volontà, soprattutto agli stati economicamente più deboli, saltando interamente la volontà dei cittadini.

Il terzo è costituito dalla erosione, se non addirittura dalla cancellazione, delle reali alternative politiche fra diverse opzioni – ciò che aveva caratterizzato per lungo tempo la storia delle democrazie occidentali, organizzate in partiti, egualmente strutturati sulla difesa di interessi di parte ma con vocazione universalistica.

Il quarto problema, infine, ma certo non il minore, è dato dalla forte crisi che attraversano le cosiddette “libertà sostanziali” – quelle cioè capaci di mettere il cittadino di una democrazia, al di là dell’aspetto procedurale di essa, in condizione di decidere in tutta autonomia e in piena libertà. La crisi del Welfare-State con l’imporsi parallelo del neoliberismo – con la sua carica di precarizzazione e con l’isolamento di ampi strati sociali lasciati al proprio destino – ha invertito una tendenza di lungo periodo che aveva invece esteso questo tipo di libertà, assolutamente imprescindibile all’interno di una comunità che si voglia democratica.

In questo intervento, cercherò, dunque, di focalizzare la mia attenzione sul perché si sia creato questo punto di svolta, proiettando uno sguardo genealogico, necessariamente molto rapido, alle condizioni storiche che l’hanno resa possibile e, infine, cercherò di accennare ad una possibile risposta teorica alla crisi attuale della democrazia.

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Nel tempo in cui tutte le identità sono state ridimensionate – identità culturali di gruppo, di ceto, di etnia, di nazionalità -, anche quella fondamentale identità costituita dallo Stato e dalla politica appare fortemente incrinata. Lo Stato moderno si occupava della mediazione politica nel tempo in cui occorreva fare ordine non soltanto fra i vari Stati ma anche fra le varie identità presenti nello Stato medesimo. Quest’ultimo, cioè, appariva come uno strumento necessario per esercitare il libero gioco democratico.

Qual era, tuttavia, la logica di fondo dello Stato democratico moderno? I processi di democratizzazione (parlamenti, suffragio universale, diritti, welfare) sono stati realizzati all’interno di una dialettica che intendeva anzitutto distruggere qualsiasi avversario possibile del Capitale, per poi preparare le condizioni psico-antropologiche all’interno delle quali quest’ultimo potesse esercitare la propria sovranità su sudditi caratterizzati in quanto uomini isolati, deboli, tendenzialmente vuoti ed esposti a desideri solo apparentemente anarchici – uomini, cioè, educati, in fondo, come animali d’armento.

Quando tutto ciò è avvenuto, lo Stato è apparso allora inutile nel suo ruolo tradizionale di mediazione fra identità. La politica, pertanto, è diventata la longa manus del Capitale medesimo.

Le questioni rimaste politicamente sul tappeto non attengono più alla mediazione fra valori diversi o fra identità e visioni del mondo differenti, ma all’adempimento di compiti per lo più tecnici – il Capitale affida tali questioni alle pratiche di governance impegnate non più ad estendere diritti, a mediare fra identità, a combattere contro i nemici del Capitale, ad includere fette sempre più ampie di uomini all’interno della sua logica ma, molto diversamente, a risolvere problemi tecnici finalizzati – costi quel che costi – a fare in modo che la religione del Capitale diventi sempre più forte e che il numero dei credenti salga.

Certo, tale compito non è l’unico ma è certamente quello più rilevante. Ha perso importanza in maniera vertiginosa, infatti, perfino il ruolo di “cane da guardia” che lo Stato s’era assunto tante volte in passato. Lo Stato di polizia, appunto, adempiva ad un compito imprescindibile nel momento in cui esistevano possibilità eversive dell’ordine capitalistico. Quando tali possibilità non sussistono più perché l’Occidente, sul piano nazionale e internazionale, si è trasformato in una enorme massa di credenti, si può limitare l’attività poliziesca soltanto ad alcuni popoli che (si pensi all’Islam) ancora in parte si rifiutano di credere nella nuova divinità.

Si è costruito così in Occidente un profilo d’uomo che contrassegno qui con l’espressione individualismo. È individualista colui che, considerandosi slegato da qualsiasi appartenenza, al limite anche quella con se stesso, ritaglia il proprio spazio esperienziale in modo tale da poter essere considerato un ente che viene dal vuoto e va verso il vuoto. L’uomo contemporaneo – ora che l’individualismo ha toccato il suo apogeo – piuttosto che “mediarsi” attraverso l’Altro, considerando la Memoria e l’Attesa come forme ideali ma concretissime dell’Altro, ha radicalizzato (e cronicizzato) il proprio individualismo in seguito a due elementi che hanno raggiunto ormai una visibilità estrema.

Il primo è la tecnica. Questa, infatti, riducendo ulteriormente lo spazio di esposizione all’altro o, almeno, anestetizzando l’individuo attraverso la creazione di uno spazio/cuscinetto che isola e protegge dal rischio/possibilità di contatto esperienziale, ha reso sempre più superflua la mediazione con l’Altro sul piano politico.

 Il secondo è il denaro. Attraverso lo scatenamento delle forze del capitale, e in virtù dell’accumulazione illimitata determinata dall’economia finanziaria, l’individualismo moderno ha potuto radicalizzarsi ulteriormente. Il denaro ha infatti questo di caratteristico: esso può accumularsi senza limiti e può porsi inoltre come minimo comun denominatore fra gli uomini, nella sua infinita capacità di mediare.

Che fare? In una situazione simile, credo che occorra concentrarsi su due possibili strade teoriche. Intanto, consapevoli che si va controcorrente, si potrebbe ostacolare il più possibile i processi di autonomizzazione da parte del capitale finanziario, rinforzando parallelamente il ruolo della politica – ma bisognerebbe farlo sul serio, contestando il principio nella sua interezza, e non soltanto per intenti propagandistici.

Nel perseguire questa strategia, tuttavia, dovremmo essere consapevoli che seguiamo una linea già tracciata dalla modernità. Concentrarsi sul ruolo di contrasto al Capitale attraverso il tentativo di ridare valore alla politica e alle sue scelte, riprendere con forza gli argomenti dell’uguaglianza, e dunque dell’antagonismo dialettico, come appunto dicevo poc’anzi, significa marciare, in fondo, sui medesimi binari di una modernità che ha cercato indiscutibilmente una sempre maggiore inclusione, attraverso l’appiattimento egualitario ed omologato. Certo, nei secoli moderni, era il Capitale che andava in questa direzione, allo scopo di procurarsi i sudditi – ma forse sarebbe meglio dire fedeli. Ora invece lottare per l’uguaglianza significherebbe combattere contro il capitale e la sua logica diventata nel frattempo differenzialista.

Su questo punto, sorge tuttavia un problema. Se ammettiamo che la logica del Capitale sia stata consacrata regina e che il Capitale stesso costituisca l’unica vera religione del nostro tempo e se, di conseguenza, come abbiamo già visto, il Capitale ha potuto trasformarsi da tendenzialmente democratico a tendenzialmente oligarchico, ciò non significa anche che le forze che possono “lottare contro” sono state già distrutte?

In altre parole, siamo sicuri che assumere una strategia rivendicativa, molto diversamente dal risultare realmente antagonisti al sistema, non significhi invece portare a compimento (portare ad esecuzione) una logica che è già quella del Capitale. Insomma, come possiamo esser certi che lottare contro il Leviatano nella direzione di una migliore eguaglianza, non si risolva invece in una sorta di approvvigionamento di risorse a beneficio delle fauci del Leviatano medesimo?

Forse allora occorre qualcosa di diverso. Qualcosa che non rischi di cadere all’interno di una metafisica impostata su una soggettività piatta e livellatrice – e da ultimo, consumistica a tutto tondo – nella quale consiste in ultima analisi il Moderno.

Dove cercare questa nuova realtà se non in qualcosa che – pur non essendo la stessa cosa – somiglia in qualche modo a ciò che una volta si chiamava identità? Indubbiamente, qui non si tratta di rimettere in gioco le identità già smantellate dalla modernità. Nella storia niente torna nello stesso modo – figuriamoci le identità. Si tratta invece di richiamarsi ad una nuova maniera di considerare l’uomo e il suo essere-in-comune, che non escluda un radicamento e un ancoraggio in qualcosa che non sia più, e che non sia affatto, il vuoto su cui invece la modernità ha edificato la sua sovranità.

Il vuoto costitutivo della modernità – per effetto di una causa necessitante che ora appare in tutta la sua forza – ha prodotto, infatti, una nevrosi generalizzata atta a santificare la religione del capitale attraverso il riempimento di esso da parte della merce. Bisogna fermare, o almeno contenere una simbolizzazione del vuoto di questo tipo. E, per farlo, è inutile se non controproducente muoversi all’interno delle sue stesse coordinate – è esattamente ciò che si farebbe se si entrasse all’interno di un discorso meramente rivendicativo. Molto diversamente, occorre fare in modo che il vuoto stesso, questo eterno elemento strutturale dell’umano, venga “trattato” in maniera metafisicamente/praticamente diversa da ciò che accadeva nella tradizione moderna.

Si apre dunque qui lo spazio per una simbolica dell’azione politica che dovrà inevitabilmente passare per uno stadio etico ed estetico insieme – un luogo, cioè, nel quale l’etica diviene estetica e l’estetica mostra una fodera etica.

Occorre partire dalla nostra soggettività per poi allargare movimentisticamente tale condizione.

Utopia? Forse. La democrazia che verrà, però, dovrà essere di tutti – una democrazia delle libere differenze e non delle piatte omologazioni, all’interno dello spazio liscio del consumo di massa a fronte di una nuova oligarchia finanziaria. Mi sembra indubitabile che se non sarà radicale, la democrazia non sarà di nessuno.

In una possibile democrazia a venire, il denaro potrà giocarvi soltanto la parte che vi giocava allorquando i greci (proprio loro) consideravano l’economia un’attività minore, in fondo nettamente subordinata ad altre attività fra cui la politica e la filosofia.

Se la democrazia non andrà in questa direzione, dunque, non sarà affatto democrazia! Al contrario, sarà il totalitarismo peggiore della storia umana a fare la sua sinistra apparizione. Pericolosi segnali ci dicono che abbiamo già imboccato da tempo strade antidemocratiche.

Avremo la forza di opporci?

Società o barbarie

Anni incanagliti, quelli in cui stiamo vivendo gli anni della nostra vita.

La stagione in cui l’assiomatica dell’interesse possessivo, impostasi quale unico principio regolatore dell’umana convivenza, ha dato mano libera all’accaparramento in quanto accumulazione di capitale e alla spirale impazzita della disuguaglianza, alla legittimazione della mediocrità proterva come tipologia umana egemone, alla banalità semplificatoria per la concettualizzazione dominante. A cominciare – appunto – dallo svilimento della democrazia e lo svuotamento della politica.

Questo è – almeno – quanto vedono i miei stanchi occhi.

Fisime di un uomo vecchio, afflitto dal rimpianto nostalgico (idealizzato) dei tempi andati, quando ancora c’era tela da tessere, speranze da coltivare e i doloretti vari al momento non si facevano sentire?

Ad altri giudicare. Da parte mia ho provato a ragionare al riguardo, elencando argomentazioni che mi sembrano “oggettive” (se l’aggettivo fatale mantiene ancora un qualche senso), nel saggio appena pubblicato per i tipi de il Saggiatore: “Società o barbarie – il risveglio della politica tra responsabilità e valori”.

La riflessione sui “quarant’anni ingloriosi”, iniziati con il massacro dei principi su cui era stato raggiunto un equilibrio dopo le catastrofi che hanno segnato i due conflitti mondiali novecenteschi; la “guerra dei trent’anni” all’origine del suicidio europeo, con la conseguente perdita di centralità nel sistema mondo occidentale. La corsa all’indietro verso l’incoscienza, ancora una volta suicida, contrassegnata dallo slogan di Margareth Thatcher “la società non esiste”; premessa del ritorno al futuro di sempre più nuove e irresponsabili barbarie. La barbarie di un Potere brutale non più tenuto sotto controllo.

La nostra civiltà porta insita in sé l’instabilità della propria natura duale: la difficile coesistenza fra il demos e il kratos. Nato dalla distruzione dell’Ancien Régime delle aristocrazie di nascita, l’ordine democratico aurorale nella sua versione industrialista ha visto affermarsi una nuova aristocrazia, quella del denaro. Da allora è stata la politica a perseguire ragionevoli compromessi tra numero dei tanti e risorse dei pochi, tra democrazia e plutocrazia. Talvolta in maniera efficace, talaltra senza riuscirci.

Un riequilibrio che ha funzionato in presenza di contrappesi che richiamavano a più miti consigli gli spiriti animali del privilegio. Situazione vanificata nella lunga mutazione epocale tra il 1973 (guerra del Kippur e colpo di Stato in Cile) e il 1989 (crollo dei regimi a Est); quando tanto le lotte del lavoro come gli equilibri geopolitici vennero marginalizzati e dal vaso di Pandora del Capitalismo amministrato balzò fuori la sua versione non ancora addomesticata.

Taluno lo chiama Turbocapitalismo, altri Finanzcapitalismo: l’auri sacra fames virgiliana ammantata in un discorso ideologico che assiemava cascami intellettuali e luoghi comuni da consulenza aziendale (il NeoLib). Sotto i colpi potenti di una strategia per sbaraccare la piramide sociale con trasferimenti biblici di ricchezza dall’area mediana della società ai suoi vertici, veniva configurandosi uno scenario che ancora una volta può essere descritto con gli aggettivi usati da Fernand Braudel per Genova; il centro del sistema mondo finanziario nei primi decenni del XVII secolo: opulento e sordido.

La quarantennale egemonia dell’economico – come si diceva – asservisce la politica e prosciuga la democrazia. La prima si trasforma in caporalato del consenso, grazie alle nuove generazioni di personale politico, colluso e subalterno, apparse sulla scena; l’altra viene ridotta a pura metodologia di conta per legittimare organigrammi pubblici funzionali alla privatizzazione del mondo. Nella transizione in corso da fase capitalistica a fase capitalistica, in cui la riproduzione del capitale (industrialista) viene sostituita dall’accumulazione di ricchezza (finanziaria): il meccanismo del “gatekeeping”, presidio a scopo taglieggiamento dei varchi in cui scorrono i flussi (materiali o virtuali) grazie alla collusione tra speculatori privati e controllori della decisione pubblica. Il fenomeno in cui i gruppi politici si trasformano in un unico ceto indifferenziato (di imprenditori di se stessi), che conquista l’incontrollabilità nella migrazione dalla società alle istituzioni (il pasoliniano Palazzo del Potere).

La mimetizzazione delle dinamiche al servizio dell’esclusione sociale e del puntellamento dell’establishment abbiente non è certo una novità. Già i Padri Fondatori del primo esperimento di governo in una società di massa – gli Stati Uniti d’America – avevano messo a punto efficaci strumenti diversivi, nelle forme delle cosiddette “guerre tra poveri” (di volta in volta, i nativi americani, le giubbe rosse coloniali, gli schiavi di colore, gli immigrati di etnie non WASP…). La sperimentata operazione di camaleontismo prevaricatorio oggi può disporre del formidabile arsenale fornito dalla colonizzazione pervasiva degli immaginari, realizzata attraverso gli strumenti di mediatizzazione di massa. La costruzione della realtà diventa impegno guardiano di un sistema informativo embedded, il gioco politico si trasforma nel set di un reality televisivo. Personaggi da star system soppiantano con le loro messe in scena, basate sugli script degli spin-doctor, l’impegno civile di leadership legittimate dai propri valori e dal riconoscimento civile.

Come è stato felicemente tradotto in slogan, la democrazia diventa post-democrazia; gara tra marchi per un consenso manipolato, drogato con richiami strumentali alla paura e/o al risentimento (come opera di depistaggio).

C’è da stabilire se questo quadro è più alla Orwell (il dominio del Grande Fratello) o alla Huxley (l’istupidimento mediante blandizie consumistiche). Quello che si direbbe evidente è che la quarantennale vergogna sta venendo alla luce, con tutti i tradimenti che l’hanno accompagnata, e la finzione non sta più in piedi. Anche perché la spinta propulsiva di questa fase capitalistica è giunta a esaurimento, mentre gli assetti sostitutivi sono ancora avvolti nella nebbia dell’indecifrabile.

In questo salto nel dopo – mentre il motore economico “finisce ai box” – la mia personale convinzione è che diventa essenziale recuperare la funzione regolatrice e progettuale della politica; nella sua versione “erasminiana”, come grande discorso pubblico sulle scelte condivise, prima e più ancora di quella “machiavelliana”, intesa come tecnologia del potere.

Ma il ritorno al governo della società attraverso se stessa non potrà avvenire nelle modalità delle fasi precedenti al Grande Oscurantismo (gli “Ingloriosi Quaranta”). A tale proposito ho provato a immaginare le condizioni per tale ripresa; e le mie conclusioni sono state che la politica rinnovata può sorgere solo da un intelligente mix di nuovo e di antico. In cui – oltrepassando il riduzionismo del “tutto è comunicazione” – ci si riappropria delle altre due gambe essenziali: la strategica e quella organizzativa.

Certamente appare improponibile ogni forma gerarchico/centralistica di stampo fordista, quando la nuova intelligenza collettiva fa ampio uso dell’autocomunicazione orizzontale di massa, resa possibile dalle nuove tecnologie (indossabili) di comunicazione. Ma – al tempo stesso – andrà recuperata la tradizione del radicamento e del face-to-face. La politica che riparte dai luoghi.

Di certo lo spazio della decisione pubblica non si limita più al perimetro vestfaliano dello Stato-nazione, cui si sostituisce il cosiddetto “Network-State” sovra-statuale, statuale e sub statuale.

Un’idea della politica a geografia variabile e a leadership situazionali.

Tutti campi in cui la sperimentazione sta compiendo i primi, timidissimi, passi. Che, per riuscire a essere davvero efficaci, dovranno canalizzare ancora una volta insieme ragione e passione; perché la politica è innanzi tutto e soprattutto speranza plausibile. E la democrazia deve ritrovare la sua dimensione alta, di civilizzazione: organizzazione della società attraverso il discorso pubblico e legittimazione del dissenso.

Gli anni che verranno saranno un (terribile) banco di prova tra due ipotesi di riassetto, l’una all’insegna dell’esclusione e l’altra dell’inclusione. Il mondo dell’1 per cento può secessionare in “altrove” dorati ghettizzando il restante 99 per cento; può prevalere la barbarie prossima futura di una castalizzazione feudale presidiata da intelligenze digitalizzate di macchine sostitutive delle moltitudini umane. Il (lavoro) morto che afferra i vivi.

La scommessa è in una società che riprenda il lungo cammino verso i valori più umani delle solidarietà, della simpatia e del cosmopolitismo. Grazie a politiche ispirate dai principi democratici rettamente intesi.

La “rivoluzione dell’Islam” inizia dalle donne

di
Gianfranco Macrì

Parlare della situazione femminile nei paesi di cultura islamica significa scoperchiare un vaso all’interno del quale è possibile trovare tutto e il suo contrario. Nel senso che, al di là di molte riforme costituzionali, e non solo (alcune delle quali pure significative dal punto di vista della predisposizione di cataloghi di diritti e dei necessari strumenti per renderli giustiziabili) – non ultimo quelle introdotte a cavallo della c.d. “Primavera araba” – la condizione delle donne presenta ancora molte ombre. La stessa nascita del Califfato (2014), che si prefigge di ridisegnare la geografia e gli assetti politici in tutto il Medio Oriente, non “trascura” affatto il ruolo delle donne (che siano le ragazze della minoranza yazidi, oppure quelle appartenenti ad altre minoranze, cristiana o ebraica, ma pure le stesse donne sunnite, poco importa), tant’è che l’ONU ha fin’ora documentato il sequestro da parte dell’Isis di migliaia di donne “assaltate e violentate”, oppure costrette a prostituirsi nei bordelli gestiti dalla brigata femminile al-Khansa, un reparto formato “soprattutto da donne di nazionalità francese e britannica” [ref]M. Molinari, Il Califfato del terrore. Perché lo Stato islamico minaccia l’Occidente, Milano, 2015, pp. 110 ss.[/ref].

Di recente, ha fatto discutere la vicenda accaduta alla poetessa e giornalista libanese Joumana Haddad, notoriamente atea e laica, la quale, invitata in Bahrein a leggere le sue poesie, è stata presa di mira da parte di alcuni gruppi islamisti al grido di: “Nel Bahrein non sono benvenuti gli atei”, e dallo Sciecco Jalal al-Sharki che, durante un sermone del venerdì, la avrebbe minacciata di morte. Da qui l’impedimento ad entrare nel Paese, ordinato dal primo ministro Khalifa bin Salman Al Khalifa [ref]http://27esimaora.corriere.it/author/joumana-haddad/[/ref].

Quella delle donne che in diversi paesi musulmani si battono, come appunto Joumana Haddad, per l’uguaglianza tra uomo e donna, per la libertà sessuale, di parola, contro le discriminazioni di genere, l’omofobia etc., costituisce una questione non adeguatamente approfondita in occidente – attento più che altro a discutere di islam e democrazia, di equilibri geopolitici, di politiche per il contenimento delle migrazioni clandestine, di luoghi di culto (e poco di libertà religiosa) – e che invece, in alcuni paesi come Marocco, Tunisia, Algeria, risulta centrale nel dibattito pubblico animato da tante organizzazioni femminili (o femministe), grazie pure al ruolo di spicco di molte scrittrici, poetesse, giornaliste, agitatrici politiche. Appare allora utile svolgere alcune considerazioni su questo argomento, prediligendo gli aspetti giuridici (e le sue ricadute sociali) che la materia riveste.

Iniziamo col dire che la questione femminile interna all’Islam e ai paesi di cultura islamica, rappresenta da tempo un sistema complesso di materiali la cui narrazione – nella sua trasformazione temporale e tenuto conto delle variegate e complesse rappresentazioni e interpretazioni offerte dalle donne musulmane – occupa uno spazio meritevole della massima attenzione.

A chi studia i rapporti tra diritto, politica e fattore religioso, sono ben note le tante figure femminili da tempo impegnate su questo “fronte”, intendo dire: della puntuale urgenza a svelare una realtà complessa, come quella islamica, troppo sbrigativamente (e, a volte, colpevolmente) data per immobile, sia sotto il profilo “normativo” [ref]tenuto conto della “centralità” che il «teo-diritto» occupa all’interno di questa; cfr. S. Ferrari, Tra geo-diritti e teo-diritti. Riflessioni sulle religioni come centri transnazionali di identità , in «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 1, 2007, pp. 2-14[/ref] sia della collocazione e del ruolo, appunto, che la donna vi occupa [ref]utile risulta la lettura del saggio di R. Pepicelli, Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme, Carocci, Roma, 2010, che aiuta a dipanare le ombre che sul discorso ancora si addensano[/ref].

Si tratta di una tematica ricca di fascino, interessante per i suoi risvolti ermeneutici, e che consente di cogliere – e dunque “mettere in forma” – l’intera procedura discorsiva che l’attivismo di molte e variegate organizzazioni femminili hanno dispiegato e continuano a dispiegare nei diversi contesti pubblici, al fine di persuadere (soprattutto) quella ampia fetta di opinione pubblica occidentale (studiosi, gente comune, politici, etc.) incredula circa la capacità di giungere ad sovvertimento delle «narrazioni patriarcali sul ruolo della donna nell’Islam».

Ha preso così corpo una sensibilità, ancora tutta da consolidare e “orientare” all’interno di un discorso «interculturale» – basato sulla capacità-forza della tradizione dei diritti fondamentali di integrare le identità culturali come tali e vocato al bene comune della società pluralistica [ref]M. Ricca, Oltre Babele. Codici per una democrazia interculturale, Dedalo, Bari, 2008[/ref] – in grado di far comprendere (sia in ambito islamico che non islamico) che la donna può essere vista come il guardiano di una identità musulmana “profanata” da una ermeneutica coranica misogina e arcaica, divenuta dominante nel corso dei secoli e che invece i tanti movimenti femminili sono impegnati a proporre come aperta al negoziato, dialogante a livello sociale e, soprattutto, diretta a riprodurre nuove interpretazioni dei testi sacri.

L’azione intrapresa parte dal profondo del Corano e fa leva sulle “ammorsature” polisemiche presenti in esso, in grado di tenere ancorato, appunto, il “Testo al contesto”, la Tradizione, come «riappropriazione della memoria» (secondo l’approccio di Fatema Mernissi), alla realtà sociale vigente, in funzione della necessaria conciliabilità tra istanze di uguaglianza e religione.

Il tramite discorsivo possono essere una serie di casi oggetto di interpretazioni diverse: la questione del velo, il problema della separazione delle donne dagli uomini nei luoghi di preghiera (la moschea), la vexata questio della poligamia, la semplice recita di poesie in un qualsiasi spazio pubblico (come nel caso della nostra poetessa), etc. Ebbene, la re-interpretazione di questi ambiti importanti del diritto islamico (e non solo) ha rappresentato – a partire da quando l’azione dei movimenti femminili si è diffusa «sempre più capillarmente a livello geografico, culturale e politico», riaprendo la c.d. “porta dell’ijtihad” – uno dei contributi più significativi delle battaglie finalizzate al cambiamento, all’educazione e all’affermazione di una nuova «giustizia di genere». Si tratta, concretamente, di una lotta intrapresa da molte femministe islamiche contro leggi e istituti assolutamente patriarcali, da cui deriverebbe l’affermazione di una “Tradizione ufficiale”, valida per tutti e derivante da un’esegesi prodotta da una ristretta èlite di interpreti autolegittimatasi a parlare in nome dell’Islam contro l’affermazione dei diritti delle donne in chiave islamica.

Una lotta, dunque, intrapresa in nome di un’«altra Tradizione», di una nuova ermeneutica coranica, impegnata a leggere alla luce della realtà del XXI secolo il messaggio di liberazione insito nell’Islam delle origini, un messaggio [è stato scritto] «che è già nel Corano e nella storia della prima comunità di musulmani» [ref]Renata Pepicelli, Femminismo islamico, op. cit.[/ref].

Questo riferirsi, da parte delle donne musulmane, al Corano per sostenere i loro diritti, non deve assolutamente stupire l’osservatore occidentale, in quanto ci troviamo all’interno di contesti (quelli di cultura islamica) dove non si è venuta affermando una filosofia dei diritti umani che considera Dio “indifferente” all’organizzazione politica della società; al contrario, dove più dove meno, si registra il carattere irrecusabile e indiscutibile della trascendenza divina.

Ciò non ha tuttavia impedito a questa complessa e variegata «militanza femminista» di produrre in alcuni ambienti statuali riforme molto interessanti e significative nell’ordine dell’emancipazione femminile all’interno di società fortemente condizionate dalle scelte degli uomini. Un esempio paradigmatico è rappresentato dalla riforma, introdotta nel 2004 in Marocco, della Mudawwana, il Codice della famiglia, che, grazie all’attivismo di base e alla produzione esegetica di studiose come Mernissi e Lamrabet, ha profondamente innovato la disciplina della metà del 1957-1958, innovando in materia di uguaglianza e corresponsabilità tra coniugi, di limiti alla poligamia, in tema di divorzio. Il Codice è stato considerato a livello nazionale e internazionale un grande successo, tant’è che molte femministe di altri paesi lo stanno studiando per trovare spunti su come riformare le proprie leggi nel rispetto della religione.

Ci troviamo, allora, di fronte ad un «processo di transizione», che attraversa e va oltre la stessa “Primavera araba” [ref]C. Sbailò, Diritto pubblico dell’Islam mediterraneo. Linee evolutive degli ordinamenti nordafricani contemporanei: marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Padova, 2015[/ref]. Tra mille contrasti, violenze, disperazione, si intravedono, in diversi contesti islamici, i segni dell’erosione di «ordini antichi» che però non sia sa quando soccomberanno e, soprattutto, “come” e cosa andrà ad instaurarsi al loro posto. Certamente tutto ciò avrà delle ricadute importanti sull’elemento giuridico che, pur non avendo nel mondo islamico una specificità propria, resta la posta in gioco principale nelle politiche sociali e culturali, mantenendo, innegabilmente, un ruolo privilegiato per la sua capacità di plasmare e ordinare la realtà.

VIDEO – Due argomenti a favore della democrazia

Stefano Petrucciani illustra due tra i principali argomenti che nell’arco della storia del pensiero filosofico sono stati addotti a sostegno della “Democrazia”:

Da un lato, alcune argomentazioni partono dall’idea di libertà come autonomia. Ad esempio, come hanno sostenuto Rousseau e Kelsen, la democrazia è considerata la miglior forma di governo possibile poiché in essa si obbedisce unicamente alle leggi che noi stessi ci siamo dati in quanto autori delle stesse.

Dall’altro, c’è chi dà una difesa del sistema democratico di tipo più “sostantivo”. Quest’argomentazione ritiene che la democrazia sia la miglior forma di governo possibile in quanto garantisce la soddisfazione e il rispetto degli interessi delle persone coinvolte. A questa linea argomentativa possiamo ricondurre, ad esempio, le riflessioni di John Stuart Mill o più recentemente quelle del politologo statunitense Robert Dahl.

Democrazia in Crisi?

1.Il disagio e la sfiducia nella democrazia

Ragionare oggi sulla democrazia significa innanzitutto prendere atto di un paradosso. Per un verso, la democrazia sembra ormai porsi, nel ventunesimo secolo, come l’unica forma politica la cui legittimità nessuno o quasi osa più mettere in discussione: la si può interpretare (e la si interpreta di fatto) in modi diversi, certamente anche in modi che noi europei giudicheremmo antidemocratici, ma, in ogni caso, essa viene percepita come un valore politico dai sostenitori delle più diverse visioni ideologiche. D’altra parte, però, almeno in Italia e in Europa, bisogna riconoscere che la democrazia attraversa una fase piuttosto critica, segnata da sfiducia o da disagio, come molti politologi hanno da tempo rilevato [ref]Cfr. ad esempio P. Rosanvallon, La politica nell’era della sfiducia (2006), tr. it. Città aperta, Troina (En) 2009; C. Galli, Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino 2011.[/ref]. Appare pertanto necessario interrogarsi su quali siano le cause o le ragioni che determinano questo stato di largamente diffusa insoddisfazione, su quali siano i punti critici attorno ai quali esso si addensa, sui processi sociali e politici ai quali si può far risalire. Il panorama che ci si squaderna davanti, se si prova a ragionare su questo tema, è estremamente variegato e complesso; il tentativo che intendo fare, perciò, è quello di cercare di metterne in risalto alcuni tratti più forti o più caratteristici.

Il tema più eclatante dal quale può essere opportuno partire sembra essere quello della rappresentanza. In prima istanza, infatti, la crescente sfiducia dei cittadini, costantemente rilevata negli ultimi anni da sondaggi e da analisi politologiche, sembra appuntarsi proprio sui consolidati meccanismi della democrazia rappresentativa, a cominciare in particolare dal Parlamento e dai partiti. Che l’insoddisfazione dei cittadini rispetto a questi cardini della vita democratica moderna sia diffusa e crescente è sotto gli occhi di tutti.

A questo proposito, la tesi che vorrei sostenere è che la sfiducia è ben motivata, ovvero si radica su processi che hanno reso i canali della rappresentanza più deboli e opachi, conferendo ai processi decisionali caratteristiche sempre più oligarchiche[ref]Spietata è a questo proposito la diagnosi formulata qualche anno fa da Jacques Rancière: “I mali di cui soffrono le nostre ‘democrazie’ sono innanzitutto i mali legati all’insaziabile appetito degli oligarchi. […] Non viviamo in una democrazia. Non viviamo nemmeno in un campo, come sostengono certi autori che ci vedono tutti sottomessi alla legge d’eccezione del governo biopolitico. Viviamo in uno stato di diritto oligarchico […]”. J. Rancière, L’odio per la democrazia (2005), tr. it. Cronopio, Napoli 2007, p. 89.[/ref] e spogliandoli degli aspetti democratici e partecipativi. Quelli che seguono sono secondo me gli aspetti principali del processo in corso.

Punto primo. In sostanza, a mio modo di vedere, siamo di fronte a un processo di regressione oligarchica della democrazia,che può essere osservato da diversi punti di vista. Se ci si sofferma ad esempio sulla catena elettori-partiti-Parlamento-Governo, appare subito evidente quanto i nessi di rispondenza democratica si siano logorati negli ultimi decenni. Con la fine dei partiti ideologici, fortemente strutturati e radicati sul territorio, si sono certamente ridotte le possibilità per gli elettori e gli iscritti di partecipare alla vita interna delle organizzazioni partitiche, concorrendo a determinarne le scelte politiche; dinamiche leaderistiche e verticistiche si sono imposte a grandi passi, trasformando i partiti in organismi guidati in modo più o meno autocratico dai leader che di volta ne conquistano la direzione. Non c’è neanche bisogno di ricordare, perché la ricerca sulla comunicazione politica lo ha evidenziato da molto tempo[ref]Cfr. Ad esempio G. Mazzoleni, La comunicazione politica, III ed., Il Mulino, Bologna 1998, pp. 64-66.[/ref], quanto questi processi leaderistici siano stati rinforzati (o in parte causati) dalla mediatizzazione della politica e dalla sua spettacolarizzazione televisiva.

Come gli elettori e gli iscritti incidono sempre meno sulla vita interna e le scelte dei partiti, allo stesso modo i parlamentari eletti vedono ridotto il loro potere a favore di quello dei governi, che sempre più spesso costringono i Parlamenti ad approvare pacchetti preconfezionati, come accade da lungo tempo in Italia attraverso il continuo ricorso al voto di fiducia. Gli stessi membri del governo, peraltro, vedono scemare la loro forza politica e decisionale a favore dei premier che, magari d’intesa con i ministri dell’economia, tendono a dare della funzione di Presidente del Consiglio una interpretazione sempre più monocratica; un tema, peraltro, che viene costantemente posto all’ordine del giorno quando si discute di riforme istituzionali o costituzionali.

Punto secondo. Ma in fondo la questione forse più rilevante di tutte è che anche gli esecutivi e i premier vedono comprimersi i loro margini di azione a favore delle istituzioni sovranazionali di governo dell’economia, a seconda dei casi europee o globali, che sempre più spesso si arrogano il potere di dettare direttamente l’agenda alla quale i governi dovrebbero attenersi per non perdere la fiducia dei mercati. Per citare solo un esempio basterà ricordare, a questo proposito, il caso davvero emblematico della lettera “strettamente confidenziale” spedita nell’agosto 2011 al governo italiano dal presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, e dal suo successore Mario Draghi, che delineava un vero e proprio programma di governo e invitava tra l’altro a ridurre le retribuzioni degli impiegati pubblici e i diritti pensionistici di tutti i lavoratori e in particolare delle donne, come è poi puntualmente accaduto. Anche un commentatore non certo sospettabile di estremismo come Jürgen Habermas notava, in un saggio recente, che negli ultimi tempi abbiamo potuto assistere ad un fenomeno che non si era mai verificato prima: la piena subordinazione delle decisioni politiche e della stessa selezione del personale di governo agli indirizzi provenienti dalle tecnocrazie sovranazionali che operano in funzione del gradimento dei mercati finanziari. “Non era mai successo – scrive lo studioso francofortese, strenuo difensore di un europeismo democratico e non tecnocratico – che governi eletti dal popolo venissero sostituiti senza esitazione da persone direttamente portavoce dei mercati: si pensi a Mario Monti o a Loukas Papademos. Mentre la politica si assoggetta agli imperativi del mercato, dando per scontato l’aumento della diseguaglianza sociale, i meccanismi sistemici si sottraggono progressivamente alle strategie giuridiche stabilite per via democratica”[ref]J. Habermas, Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà europea (2013), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2014, p. 5.[/ref]. E’ evidente perciò che, se dalla politica interna volgiamo lo sguardo, come oggi è impossibile non fare, verso la dimensione continentale o globale, i processi di espropriazione del potere democratico dei cittadini risaltano ancora più netti e incontrastati.

   

Come stupirsi, perciò, se i cittadini credono sempre meno nell’esercizio della sovranità popolare attraverso le pratiche della democrazia rappresentativa?

Punto terzo. Queste dinamiche possono essere osservate anche da un altro punto di vista. La funzione della politica democratica, nel Novecento, è stata in gran parte quella di dare rappresentanza e articolazione alla pluralità conflittuale degli interessi sociali, che venivano in qualche modo rispecchiati attraverso la dialettica tra le parti politiche, e soprattutto attraverso la dialettica tra i due poli di destra e di sinistra dello schieramento parlamentare. Questa dialettica è stata la condizione di funzionamento effettivo della democrazia novecentesca, ma oggi essa ha perso gran parte della sua efficacia e del suo significato. Non funziona più lo schema lo schema secondo cui la polarizzazione politica rispecchiava in certo qual modo la polarizzazione degli interessi sociali.

Si è spezzato quel rapporto di rappresentanza che, sia pure non senza problemi e difficoltà, aveva legato ampi settori popolari e delle classi lavoratrici ai partiti della sinistra che, nello scacchiere politico novecentesco, avevano assunto il ruolo di difenderne gli interessi.

Ciò è accaduto per molte ragioni: da un lato perché, come si è detto, è diventato sempre più difficile rappresentare un panorama sociale estremamente variegato, frammentato, attraversato in seguito alla crisi economica da forti ondate di frustrazione  e di risentimento. Ma dall’altro vi è stata anche una ragione più di fondo: lo spazio per una effettiva dialettica tra interessi in conflitto e programmi in competizione si è estremamente ridotto in quanto la maggior parte delle forze politiche (comprese anche molte di quelle collocate a sinistra) ha finito per accettare, sia pure in modalità diverse e con molti distinguo, l’agenda dominante nell’età della globalizzazione neoliberista. Dopo la caduta del Muro di Berlino, qualsiasi grande disegno alternativo è apparso, anche alle forze più importanti della sinistra, improponibile in partenza; e si è registrata pertanto una sostanziale convergenza sulle linee di fondo dell’agenda neoliberista:con le parole d’ordine: riduzione della spesa pubblica, privatizzazioni, ridimensionamento del welfare, politiche tese allo sviluppo di una presunta “concorrenza” in ambiti rilevanti dell’economia e dei servizi pubblici, sostituzione di una sedicente difesa dei diritti dei consumatori alla obsoleta difesa dei diritti dei lavoratori. La conseguenza di ciò è stata che sono rimasti sostanzialmente senza rappresentanza quei settori sociali che, dalle politiche neoliberiste, sono stati più colpiti e bersagliati; e ciò ha contribuito in ampia misura a diffondere la sfiducia nella politica e, andando anche più in là, il risentimento e l’ostilità nei confronti della democrazia. Il rischio è che si determini la situazione seguente: sinistra senza popolo, popolo senza rappresentanza, trionfo del populismo. E quindi la crescita di quelle che oggi vengono etichettate come le forze populiste, antieuropa ecc. Ma non si può guardare solo il terzo termine (populismo) senza guardare anche i primi due!

Punto quarto. La crisi economica, peraltro, ha reso la questione delle aspettative insoddisfatte del tutto drammatica e dirompente. Nei fatti (più che non nelle ideologie) la legittimità dei sistemi democratici dell’Europa occidentale ha poggiato nel dopoguerra (dai tempi della guerra fredda in avanti) su due pilastri ugualmente importanti: il godimento di pluralistiche libertà dei cittadini, negate a coloro che vivevano sotto la cappa della cortina di ferro, e, soprattutto, la costante crescita del benessere economico, fattore assolutamente fondamentale di legittimazione e di coesione sociale. Nel momento in cui questa promessa di benessere si incrina o viene del tutto a mancare, le istituzioni della democrazia pluralista appaiono ai cittadini in tutt’altra veste: come una illusoria superficie dietro la quale si nascondono la rapacità delle élite economiche e politiche e l’incontrastato privilegio di pochi.

2. Verso una nuova agenda democratica

Se oggi si vuole dare nuovo impulso alla democrazia è necessario pertanto porre il problema di una nuova agenda democratica, cominciando intanto a mettere sul tappeto i problemi principali.

Il punto di fondo credo che sia cominciare a ragionare sull’esigenza di ricostruire i legami e i nessi della rappresentatività  e della responsabilità democratica: da un lato riattivare il rapporto tra cittadini e politica attraverso le più diverse forme di consultazione, di partecipazione ecc.

Dall’altro ricostruire una legittimità democratica delle decisioni che oggi sono prese dalle tecnocrazie sovranazionali.

Ma credo anche che sia necessario riattivare una riflessione su quelli che sono gli scopi e gli orientamenti ideali che danno alla democrazia sostanza e legittimità.

Uno dei grandi problemi aperti della democrazia moderna consiste nel fatto che per un verso essa si basa sull’idea della eguale condivisione del potere politico tra i cittadini, della sovranità popolare; mentre, per altro verso, nelle società contemporanee, gli strumenti per influenzare e condizionare i processi di decisione politica sono distribuiti in modo assolutamente ineguale, e il potere politico è intrecciato e condizionato in mille modi, speso perversi, con il potere economico e con il potere mediatico – a loro volta collusi e intrecciati tra loro. E’ questa la grande contraddizione di fondo, che si è acuita negli ultimi decenni, che hanno visto la crescita delle ineguaglianze e la concentrazione delle ricchezze e degli imperi della comunicazione.

Una volta che si sia preso atto, realisticamente, della esistenza e della rilevanza di questa contraddizione, bisogna capire come la si possa in qualche modo affrontare o trattare.

Io credo che un punto importante da mettere a fuoco sia che la democrazia deve essere intesa come un concetto politico multilivello: c’è un livello basico che è la democrazia  minima, il rispetto di fondamentali regole del gioco: elezioni, pluralismo politico, libertà di discussione, confronto aperto nell’opinione pubblica (difficile da conseguire nell’epoca della comunicazione mediatizzata). E’ il livello più decisamente procedurale della democrazia.

Un secondo livello è quello della democrazia sostanziale, cioè dei diritti anche sociali che devono essere assicurati a tutti: proprio in quanto sappiamo che i processi di decisione politica rischiano di essere condizionati dalla pressione dei grandi poteri sociali, tanto più è necessario che ampie garanzie di eguaglianza sostanziale (diritti sociali – casa, salute, istruzione, reddito di base -, diritto al lavoro e sul lavoro) vengano previste a livello costituzionale: la democrazia non può essere pensata più come mera democrazia procedurale, ma come democrazia al tempo stesso procedurale e sostanziale (Ferrajoli).

Ma il ragionamento deve compiere ancora un passo avanti: se si assume il dato di fatto che nelle moderne società di mercato l’eguaglianza politica è realizzata sempre e solo in modo parziale, è necessario aggiungere alla riflessione sulla democrazia un ultimo fondamentale tassello: e comprendere che questa deve essere intesa non solo come un insieme di regole circa il modo in cui la comunità politica deve essere governata, ma anche come l’orientamento politico volto a realizzare un determinato scopo, e cioè quello della condivisione paritaria del potere politico tra i cittadini. Alla democrazia appartiene, insomma, anche una dimensione finalistica, perché essa nasce per conseguire determinati obiettivi (dai quali trae la sua legittimità) e dunque deve anche porsi il problema di eliminare quegli ostacoli o quelle limitazioni che rendono questi obiettivi difficilmente raggiungibili (o conseguibili in modo solo parziale). La democrazia, dunque, non è solo democrazia al tempo stesso procedurale e sostanziale: essa assegna anche all’ordine politico una determinata finalità; e videro bene, pertanto, i costituenti italiani quando scrissero nell’art. 3 della Legge fondamentale che è compito della Repubblica “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. La democrazia vive di procedure, contenuti e fini; e perde il suo significato se rinuncia a una di queste sue dimensioni. E credo che questo sia un rischio che stiamo correndo oggi.

Per quanto riguarda il fine che, dal punto di vista democratico, dovrebbe orientare l’azione politica, esso consiste essenzialmente nell’operare affinché si possa raggiungere un più alto livello di eguaglianza politica, ovvero nel contrastare tutte quelle disparità tra i cittadini  (innanzitutto economiche e culturali) che si traducono in diseguaglianze di influenza politica[ref]Come hanno mostrato le importanti ricerche di Leonardo Morlino, un aspetto di cui si deve tener conto nel valutare la qualità di una democrazia è, accanto a quelli procedurali, anche la dimensione sostantiva, e in modo particolare la capacità di una democrazia di ridurre progressivamente le ineguaglianze politiche, sociali ed economiche. Cfr. ad esempio, tra i molti lavori dell’autore, Assessing the Quality of Democracy. Theory and Empirical Analysis, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2005.[/ref]. Questa finalità, però, non può essere altro che di tipo orientativo[ref]Si può condividere quanto scrive su questo punto Adam Przeworski: “Perfect political equality is not feasible in economically unequal societies. Democracies cannot fail, however, in their commitment to political equality. Even if some dose of political inequality may be inevitable, even if we do not quite understand hoe economic resources affect political outcomes, the corrupting influence of money is the scourge of democracy” (A. Przeworski, Democracy and the Limits of Self-Government, Cambridge University Press, Cambridge New-York 2010, p. 98).[/ref]; noi infatti sappiamo bene, quantomeno in base all’esperienza storica, che la democrazia può crescere solo in ambienti economicamente e socialmente dinamici, che in quanto tali generano anche continuamente ineguaglianze politiche. Volendo stringere concettualmente questo punto si potrebbe dire pertanto che, nell’aspirazione a essere perfetta, la democrazia distruggerebbe se stessa, perché dovrebbe comprimere la dinamica sociale e finirebbe per trasformarsi in autoritarismo

Però deve sempre mantenere la coscienza della sua imperfezione, la vigile consapevolezza che il potere di tutti promesso dalla democrazia resta comunque in tensione con il potere di pochi che segna con la sua presenza tanti aspetti delle nostre società. La democrazia è un concetto dinamico. Condizione e fine della democrazia è la crescita sociale e culturale di tutti gli individui; e se si perde di vista questo obiettivo non ci dobbiamo poi meravigliare se si affermano le derive irrazionali, la sfiducia e il risentimento.