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Se il capitalismo è la malattia, qual è la cura?

L’ideologia capitalista moderna coloniale ha instaurato una concezione del corpo come un oggetto non permeabile che chiudeva l’Io, il soggetto pensante, oggetto, razionale. Perché il virus affetta di più gli uomini? Più che assistere unicamente a dimorfismi fisico-anatomici, che l’unica cosa che fanno è reificare le funzioni associate a uomini e donne, rinforzando il patriarcato, avventuriamoci qui in un’ipotesi immaginativa (anche con ispirazione a Haraway e Stengers, cioè incoraggiandoci alla finzione), perché sono loro quelli che sono più vicini a questa idea dell’Io, univoco, identitario, chiuso, accentrato su se stesso, che inalbera l’egoismo e l’impenetrabilità.

La popolocrazia e l’ossimoro di un populismo di sinistra

Pochi sono i concetti politici che, al pari della locuzione di populismo, sono al tempo stesso ricusati come schemi-contenitori fluidi e multiuso (da molti studiosi giudicati persino tendenziosi nella loro formulazione), e nondimeno vengono utilizzati come insurrogabili strumenti di indagine. Accanto a una copertura elastica, che abbraccia ogni fenomeno politico in apparenza eccentrico, il termine ha assunto una valenza assiologica, prevalentemente negativa. In molti casi rinvia ad una etero-definizione il cui intento è di norma quello di criticare, stigmatizzare gli altri indirizzi e movimenti in nome di una forma politica ritenuta altrimenti minata. Come ogni studio politico dedicato al populismo, anche quello di Ilvo Diamanti e Marc Lazar1 contiene una dimensione analitico-descrittiva e una apertura verso asserzioni di carattere più valutativo. Sul piano empirico-descrittivo, la questione definitoria del populismo rimane irrisolta e anzi pare in gran parte complicata dalla trama eterogenea costituita dalla multiforme fenomenologia di atteggiamenti, stili, comportamenti credenze classificate come populiste. Se il riferimento discriminante per isolare la specificità del fenomeno è alla opposizione del basso contro l’alto, dei molti contro le èlite, non si esce dall’equivoco teorico che accompagna il populismo. La frattura moltitudine-élite è per certi versi originaria, si pone al centro del modello teorico di Machiavelli2 sottile indigatore degli “omori” in contrasto nella vita civile, e che per la sua celebrazione della costruttività del conflitto sociale arduo sembra definibile come un pensatore populista, nel senso deteriore e spregiativo che si accompagna alla nozione.

Il fatto è che si trovano oggi in circolazione populismi dall’alto e dal basso. Non sono soltanto le moltitudini piene di rancore ad essere mobilitate in contrapposizione ai pochi che comandano. Sono anche i piani alti del potere a proporsi al pubblico come figurazione autentica della massa che richiede la soppressione delle fastidiose mediazioni istituzionali. La stessa polarità dentro-fuori risulta sfuggente poiché le versioni contemporanee di populismo sono collocate sia dentro il sistema, sia fuori del sistema. Se il riferimento discriminante è alla collocazione dei movimenti nello spazio politico, la rassegna del campionario populista ne svela esemplari di destra, di sinistra e anche di centro. Una caratteristica precipua dei movimenti populisti è quella di rigettare il sapere, la competenza, l’autoreferenzialità della tecnica come rifugio delle élite che mascherano, occultano le cose per celare il vero al cospetto del più genuino sentimento della gente. Ma questa versione tardo-bucolica del mondo della tecnica convive con la maturazione speculare di un tecno-populismo che esalta invece le magnifiche virtù della rete quale strumento di una immediata relazione politica degna di una agorà ritrovata. Accanto al tecno-pessimismo e alla nostalgia di semplice, al rimpianto dei valori della terra si presenta il tecno-ottimismo con l’elogio del cyberspazio della rete come dissolutore di ogni enigma metafisico. La tecnocrazia che spoliticizza le questioni in nome della complessità e il populismo che spoliticizza i problemi collettivi in nome del semplice (uno vale uno) condividono la riduzione del governo a amministrazione affidata al cittadino-portavoce. La dicotomia centro-periferia sembra anch’essa suggente dinanzi a un variopinto mondo di movimenti che non nascono solo dalla periferia, dai territori per sfidare il potere ma che già annidati al potere si propongono dalla postazione dell’appellativo populista sono affrancate dalle riprovazioni che ricadono sulle culture nere e consegnate a un purgatorio concettuale4.

Il momento normativo, in ogni indagine politica, rimane un corollario inevitabile, e anche Diamanti e Lazar ne fanno uso. Sotto il profilo assiologico, il loro libro può essere considerato come un tentativo di difesa della categoria politica della liberaldemocrazia, minacciata dalle tendenze degenerative che scuotono i sistemi costituzionali occidentali. In alcuni passi del volume si tende, in sintonia con una tale ottica valoriale, a contrapporre la calma ragione liberale-discorsiva alla confusa passione-interesse. “Per esistere, il populismo ha bisogno di eccitare le passioni, cosa che si manifesta nel suo linguaggio, mentre la democrazia liberale e rappresentativa cerca di prosciugarle, al fine di far trionfare la ragione”. Questo schematismo ragione-passione non pare risolutivo. Così anche Hume sarebbe da considerare un filosofo populista. La sua geometria delle passioni, che contiene una lucida analisi dei moventi reali o interessati dell’agire, andrebbe setacciata con sospetto e denunciata come un fondamento etico-politico del populismo. Nella loro genesi reale, i movimenti populisti sorgono in occidente proprio quando una pretesa ragione si separa dagli interessi e quindi con i ritrovati procedurali banalizzati non riesce a contente, integrare, dare forma.

Più persuasiva, rispetto al fuorviante schema assiale ragione-passione, è l’indicazione che il libro suggerisce per definire in termini politici il populismo come avversione alla mediazione. Sia il capo, che si appella al popolo contro la lentocrazia delle assemblee, sia il movimento dal basso che si mobilita reclamando momenti di democrazia diretta, imporre istanze per la revoca dei mandati condividono un paradigma: il culto dell’immediato, il sogno di un legame solo orizzontale e senza più forme, limiti. Non ogni teoria del capo carismatico è annoverabile tra le espressioni del filone populista (Weber è più propriamente un conservatore) e non ogni istanza per un allargamento degli spazi di partecipazione e controllo diffuso è indice di una mentalità populista (Gramsci o lo stesso Kelsen non appartengono alla famiglia teorica del populismo). A questo riguardo, pesa un equivoco teorico connesso all’impiego del termine populismo assunto nella sua accezione americana. Nella cultura politica d’oltreoceano, populista è da intendere ogni declinazione della democrazia come regime provvisto di un catalogo partecipativo più ampio rispetto a quello ristretto al puro momento competitivo-elettorale. Una tendenza diffusa nella cultura americana è ben resa dal titolo di un libro di L. Wiker, “Liberalism against populism”. Il suo nucleo ideale consiste nel contrapporre una democrazia “liberale” (elettorale-competitiva) e una “populist democracy” con sensibilità verso la partecipazione, il referendum, la volontà generale, le domande sociali5. Sull’uso equivoco che prevale in ambito americano, si costruiscono definizioni non esaustive del fenomeno populista, confuso anche con tendenze verso lo sviluppo di nuove istituzioni di democrazia deliberativa.

La figura della mediazione, che viene saltata e combattuta in nome della identità “immediata” da realizzare attorno al trascinamento di un capo, non è solo quella ristretta alla dimensione elettorale-competitiva ma abbraccia la rappresentanza come essa si è storicamente strutturata nelle democrazie ispirate al modello del costituzionalismo novecentesco. Il populismo non è quindi la pura contrapposizione della massa all’élite ma l’espressione di una specifica crisi della forma politica che ha perso i soggetti, gli strumenti, i principi. La mediazione che si è infranta è quella storicamente maturata dall’apporto di molteplici tendenze e processi politici. Essa

prospetta una democrazia pluralista, che, oltre il quadro liberale classico, fa la sintesi di eterogenei apporti culturali: suffragio universale, rappresentanza, controlli di legalità e di costituzionalità, diritti sociali e centralità del lavoro. La democrazia è quel progetto che ha un fondamento (il lavoro, i diritti, la finalità sociale imposta dal pubblico potere alla stessa attività d’impresa), che è mediata (dai soggetti collettivi della rappresentanza politica e sociale), che definisce un compromesso tra partecipazione e capitalismo. Si tratta quindi di una inedita formazione politica che aggiusta la “forma” e la “sostanza” modellando la democrazia oltre che come sistema istituzionale di governo anche come assetto sociale. La democrazia che è in crisi in occidente non è stata ferita dalla invasiva “popolocrazia” ma sfidata dai “nuovi barbari” che sono entrati in scena dopo la decomposizione del nesso tra forma e sostanza che ne aveva definito il volto tardo novecentesco del politico.

Le forze che avevano definito la forma e la sostanza della democrazia nel secondo dopoguerra sono decomposte dalla grande disintermediazione richiesta dalle nuove dinamiche dell’economia globalizzata. Quando le espressioni sociali e politiche del lavoro si presentano molto indebolite sino a perdere autonomia organizzativa, la sintesi novecentesca appare infondata e salta così la “forma” della politica invasa da micropratiche dissolutive. Il populismo è non già la causa della crisi ma l’espressione di una forma de-formata. Da dialetto marginale, che esita a presentarsi nella sfera pubblica con i sui simboli ancestrali e aggressivi, il populismo diventa la rude lingua ufficiale perché è caduta la “forma” per dare una rappresentazione alle domande, ai conflitti. Mancano traduttori, soggetti che mobilitano e al tempo stesso trattengono (la zona dell’indicibile prima presidiata dai partiti che non politicizzavano questioni “culturali” legate all’etnia, alla identità di fede) e gli attori populisti si insediano come portatori dei nuovi codici del tutto disinibiti. Quando si parla di crisi della rappresentanza bisogna intendersi. E’ caduta la costruzione politica della rappresentanza, cioè l’idea di una funzione positiva della èlite politica che mobilita interessi collettivi, che dalle istanze particolari definisce visioni generali, che dal conflitto progetta alternative di società. Questo profilo della rappresentanza e della produttività della contesa sociale in uno spazio organizzato dai soggetti del pluralismo è in gran parte sfumato. Ma non è scomparsa la funzione rappresentativa-passiva della politica. Anzi proprio questo passivo aderire a ciò che già esiste negli umori più diffusi è il tratto distintivo dei populismi contemporanei. Entrare in sintonia con i rancori, i pregiudizi esistenti, i timori di discesa repentina nella gerarchia sociale sempre più fluida, in un quadro che non contempla alcuno sforzo di cambiamento, di sfida ai poteri dominanti è la preoccupazione cruciale delle forze populiste che assumono la rappresentanza come fotografia statica della paura.

Nel contesto della crisi della democrazia rappresentativa novecentesca, occorre leggere le dinamiche del populismo (ostilità alla mediazione in nome di non-partiti e leader carismatici) di cui l’antipolitica (la rivolta del cittadino-portavoce contro la “casta” responsabile del declino, dell’impoverimento, dei costi esorbitanti del professionismo politico) è un aspetto rilevante. In questa cornice, che vede infranta la sintesi storica che in Europa e in America aveva connesso economia, politica e diritti, Y. Mounk interpreta il populismo che, nella sua indagine, appare come un fenomeno che matura quando la “colla che univa in un mix unico diritti e regole democratiche si sta rapidamente assottigliando”. Dalla decomposizione della democrazia novecentesca “stanno nascendo due nuove forme di regime: una illiberal democracy, o democrazia senza diritti, e un undemocratic liberalism, o diritti senza democrazia”6. In un tale processo di lunga durata, la riconduzione della fenomenologia del populismo a una conseguenza generalizzata della grande recessione economica del 2007 obbedisce a una spiegazione troppo monocausale che, pur cogliendo un tratto essenziale, trascura l’esistenza di una decostruzione lenta che si avvale di molteplici variabili7. Per quanto riguarda l’Italia, nell’insediamento di un populismo diventato ormai tratto di sistema, ha inciso molto un lavoro antipolitico di professione che, anche prima della grande contrazione economica, aveva immesso il verbo dell’antipolitica come asse strategico, con una operazione egemonica risultata vincente ma distruttiva delle condizioni generali della politica. Con la guerra della innocente società civile contro la casta dei politici corrotti e ritenuti, proprio come casta, arroccati in una inaccessibile posizione di dominio, situata al di fuori del gioco competitivo, la borghesia italiana ha rimediato alla sua minore attitudine ad esportare merci di qualità con una invidiabile capacità di aprire la fabbrica delle cattive ideologie di esportazione (la fortuna mondiale della parola “casta” in tutti i movimenti populisti conferma la vitalità del mady in Italy nelle degenerazioni della forma politica)8.

 

La proposta politico-culturale che Diamanti e Lazar avanzano è quella di reagire alle manifestazioni distruttive della popolocrazia (ostilità alla separazione dei poteri, ai limiti formali dell’esercizio dell’autorità, proliferazioni di stili, mentalità, pratiche antipolitiche e esibizioni pseudocarismatiche) confidando nella virtù adattiva-trasformativa della rappresentanza. Questo auspicabile ritrovamento della forma politica, per non restare sul piano del puro dover essere, esige però, attorno alla rappresentanza come istituto imprescindibile del moderno, una ricomposizione dei soggetti sociali e politici. Una sinistra sociale e politica, da questo punto di vista, è una condizione minimale per la riprogettazione della forma democratica in occidente. Convincenti paiono le considerazioni critiche che il libro dedica alle diffuse inclinazioni a ripensare la sinistra in Europa sul solco dell’ossimoro raffigurato nella proposta di un populismo di sinistra. Un vero ossimoro: se la condizione basilare del populismo è la dichiarazione di essere oltre destra e sinistra, che senso ha l’autoproclamazione di “populismo di sinistra” per occupare una posizione ben precisa nella divisione assiale dello spazio politico? Pensare di ricostruire i pilastri della forma politica europea con l’importazione di un peronismo di sinistra9 pare non solo irrealistico (come ogni artificiale prodotto di laboratorio sganciato da dinamiche effettuali, culture, esperienze) ma estremamente riduttivo come formula ideologica imposta come novità a un continente che ha scoperto la forma della razionalità politica occidentale.

 

Molto pertinente è pertanto il rilievo critico avanzato da Diamanti e Lazar secondo i quali “il marxismo ostacola l’espansione del populismo. Il populismo di sinistra, quindi, appare solo come una forma degradata dell’ideologia dei partiti di sinistra”. Il pensiero di Marx si inserisce lungo una tendenza duplice che prima spinge a differenziare (la classe) e poi ad astrarre politicamente dalle diversità (il popolo quale sfera politico-giuridica). Lo stesso dispositivo teorico era già presente in Machiavelli che distingueva tra la plebe (connotazione sociale di una parte) e il popolo (ricomposizione politica). L’asse verticale (critica della astrazione politica) in Marx si accompagna sempre all’asse orizzontale (conflitto di classe). La politica organizzata è, in tale prospettiva, un punto irrinunciabile per ogni impostazione critica nella tradizione della sinistra. Spiegava proprio Marx, alludendo ai soggetti sociali dispersi, che finché “l’identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, un’unione politica su scala nazionale e un’organizzazione politica, essi non costituiscono una classe”10. E se i ceti sociali subalterni, il discorso vale anche per quelli frammentati della postmodernità, non dispongono di una organizzazione politica “non possono rappresentare se stessi; debbono farsi rappresentare”. I delegati sindacali, i lavoratori precari e frantumati hanno rinunciato a costruire una loro coalizione sociale, con una organizzazione politica autonoma, credendo di essere rappresentati da una microimpresa che maneggia in solitudine la magia occulta della rete. Sono vittime in tal senso di forme di falsa coscienza. Il marxismo è indeclinabile secondo gli schemi racchiusi nel gergo populista perché la sua ambizione teorica è proprio quella di cogliere l’effettiva natura dei rapporti sociali di dominio e subordinazione che vengono invece deformati dalle maschere dell’ideologia del sotto e del sopra. Anche per una sorta di eccesso di dipendenza dall’effettuale, come si ricava dalla descrizione-amplificazione di disagi rispetto ai quali non si scava in profondità per cogliere la radice sociale, il populismo è una maschera che inganna, deforma, riduce cose complesse a schemi semplificati. Il codice populista si mantiene assai lontano dal vero anche quando parte dalla reale situazione di disagio e però ne nasconde la genesi, ne occulta il fondamento. Il tratto peculiare del populismo è quello di inventare soluzioni ingannevoli perché, per raccogliere sostegno, rivolge il disagio contro nemici irreali o caricaturali.

Anche sulla cruciale tematica dell’Europa, affiora un paradosso costitutivo che vede il populismo reagire, in nome del basso, alla vocazione tecnocratica dei vertici burocratici, o fase del funzionalismo che decide le politiche senza giustificazione elettorale e neutralizzandole11. Agitando lo schema alto-basso per scagliarsi contro le neutralizzazioni della tecnocrazia (che, in nome della tecnicalità delle questioni, trascende l’asse destra-sinistra) il populismo non fa altro che recuperare la stessa struttura cognitiva della tecnocrazia (le cose vanno scrutate oltre la lente deformante di destra e sinistra) per ridurre i problemi controversi a semplice amministrazione.

Confluendo nelle acque della ormai alluvionale corrente della “popolocrazia” che invoca referendum (anche un “normale” leader conservatore ha affidato al popolo la scelta sul destino dell’Europa), direttismo, dispositivi del recall in funzione anti-élite, annichilimento delle classi dirigenti e dei contropoteri, depotenziamento del pluralismo con opachi non-partiti, abbattimento della rappresentanza e delle verticalizzazioni con il capo pseudocarismatico, la sinistra diventerebbe un subalterno fattore di accelerazione ulteriore della crisi della democrazia. Sfigurata e scivolata a pura “autocrazia elettiva”, la pratica democratica sarebbe declassata in un paradigma che postula un mondo minimo di procedure indifferenti a scopi12. Essenziale è invece una sinistra di parte, con una analisi di classe e un diffuso radicamento nel conflitto sociale, capace di ricostruire forme organizzate indispensabili per interrompere il sentiero della destrutturazione di ogni autonomia della politica inghiottita dalle potenze dell’economia in un processo di espropriazione che pudicamente viene definito democrazia del pubblico. La rottura della mediazione o forma non è la semplice conseguenza della democrazia del pubblico e delle nuove tecniche della comunicazione, è connessa invece al tramonto della soggettività politica del lavoro e alla metamorfosi delle democrazie del mercato che archiviano la questione sociale. Per questo non c’è più forma: si sono eclissati i soggetti. L’industria del rancore come “nuova” politica così riesce a soppiantare la critica, sostituire il conflitto e azzerare la capacità di costruire, rappresentare oltre la pura fotografia di passioni tristi, paure, sentimenti ostili. Il populismo, nel vuoto della mediazione, vince con l’amplificazione di emozioni e pronunciando l’indicibile. L’attitudine del populismo è quella di essere al tempo stesso sistema e antisistema. La ridefinizione di una nuova “forma” della politica non può consistere nel puro e semplice recupero della democrazia procedurale liberata dai barbari ma nella progettazione delle condizioni sociali, culturali, istituzionali di un governo pubblico dei disagi dell’età del capitalismo della globalizzazione.

Michele Prospero

1 Diamanti e M. Lazar, Popolocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2018.

 2  “Populari” contro “cittadini grandi”, molti contro i potenti sono gli “omori” opposti che da Machiavelli (Discorsi, in Opere, vol. I, a cura di R. Rinaldi, Torino, 1999) vengono analizzati come fonti di divisioni, inimicizie, zuffe (conflitti sociali orizzontali che istituiscono ordini e nuove libertà). La differenza delle declinazioni populiste è che nella polarità alto-basso si rinviene la costruzione di “formule” ingannevoli con le quali i poteri reali si nascondono, deviano.

3 L. Curini, Corruption, Ideology, and Populism, Palgrave Macmillan 2018, p. 161. Esiste un populismo etico che con istanze anticorruzione esalta il popolo puro e combatte l’élite corrotta. Oltre al populismo dell’onestà esiste anche il populismo a sostegno del capo liquidato dai magistrati politicizzati. Al populismo giustizialista si affianca un populismo antigiustizialista ostile alla separazione dei poteri

4 T. Lochocki, The Rise of Populism in Western Europe, Berlin, 2018, p. 7. Mentre il populismo della destra radicale nel suo primitivismo identitario ha un impianto illiberale, le versioni populiste delle formazioni conservatrici (oltre le ideologie, le dottrine) rimangono nello spettro democratico occupando nella competizione politica lo spazio comunitario-identitario-tradizionale proprio dei partiti di centro destra più moderati. Studiando “le cause dietro le cause” (p. 151) si comprende come la formula “for the nation, against the elite” si avvalga di efficaci tecniche di comunicazione politica per veicolare messaggi populisti (aspettative, identità) che consentono a partiti di nicchia di espandersi in tempi di crisi.

5 Dacombe, The Theories, Concepts and Practices of Democracy, London, 2018, p. 7.

6 Mounk, The People vs. Democracy, London, 2018, p. 43.

7 La grande recessione, con la sua contagiosa ansia di discesa per l’impoverimento dei ceti medi, è la causa immediata di rivolte anti-establishment, ma il trend della ribellione del populismo identitario e antipluralista è più lungo. La destra è pragmatica nel convertire istanze economico-patrimoniali in domande identitarie e la sinistra è altrettanto scaltra nel tramutare le tematiche sociali in diritti civili. Cfr. Lochocki, op. cit., p. 157.

 8 Lo schematismo dentro-fuori non è adottato solo da forze esterne ma anche da figure istituzionali, da soggetti interni che dal governo organizzano referendum istituzionali contro le poltrone, la casta. Anche la polarità alto-basso non copre le sole formazioni populiste irregolari ma le élite del potere. Sono gli abitanti dei piani alti dell’edificio del potere a scagliarsi contro il potere in nome del basso. Il sistema si fa antisistema. Se forze esterne costruiscono la rappresentanza in nome della rinuncia alla rappresentanza, forze interne al palazzo agitano la rottamazione delle èlite come valore. La forma dell’antipolitica non è esclusiva delle forze populiste. L’antipolitica come resistenza contro la casta è il profilo della cultura liberale ufficiale in Italia. La lotta contro la nomenclatura, contro la partitocrazia e poi contro la casta è l’ideologia della borghesia rispettabile.

10  Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Roma, 2015, p. 238.

 11  Innerarity, Democracy in Europe, cit.

 12 M. Bovero, Autocrazia elettiva, “Costituzionalismo.it”, 2015, n. 2. Il sistema democratico generato in autocrazia elettiva è già populista. Le ribellioni populiste confermano l’ossatura del populismo di sistema. Il risvolto della mitologia orizzontalista è infatti la dimensione plebiscitaria di un capo che, con il supporto dei media vecchi e nuovi, verticalizza l’esercizio del potere e lo indirizza contro la rappresentanza. La debolezza del liberalismo politico è la conseguenza di una rottura della forma novecentesca che precipita nella complessiva geografia dei poteri.

 

 

L’EUROPA E LA SUA CRISI ORIGINARIA

Sul limes: tra “crisi d’Europa” e senso europeo della “crisi”.
Che la categoria di “crisi” faccia parte dell’attuale lessico politico è cosa certa. Altrettanto evidente è il fatto che, oggi più che mai, la crisi venga associata ad Europa. La nostra crisi è la crisi del sistema europeo, delle sue istituzioni, dei suoi valori, delle sue – più o meno mancate – decisioni politiche. Di questa crisi europea si sente ormai parlare abitualmente; dalle testate giornalistiche, ai programmi televisivi, passando per i dibattiti pubblici, la crisi d’Europa sembra essere ormai una realtà esistenziale[1]. Non è un caso che essa venga ormai ammessa tanto dai partiti euroscettici[2], quanto da quelli europeisti; con questi ultimi costretti ad accettare una lenta e continua disaffezione dell’opinione pubblica intorno il progetto di un’Unione Europea[3]. Non è qui possibile sviluppare una minuziosa genealogia delle cause che hanno portato a questa situazione. In questa sede ci si vorrebbe limitare a riflettere sul senso più teoretico di «crisi» e del suo rapporto con «Europa».

Ad uno sguardo superficiale – ma non per questo meno veritiero – la crisi d’Europa si articola intorno due momenti tra loro differenti ma assolutamente complementari. L’Unione Europea è stata, prima di tutto, vittima della crisi finanziaria scoppiata nel 2008. Si tratta qui di una crisi che trova la sua ragione all’interno di un dispositivo squisitamente economico. A farne le spese, in termini sociali ed esistenziali, sono state tanto le classi deboli e meno tutelate, quanto la cosiddetta fascia media che, consapevolmente o meno, ha subito una proletarizzazione[4] della propria forma lavoro. Accanto a questa crisi è possibile registrarne una più ampia del Politico. Sono molteplici i fattori che evidenziano questa rottura: dalla dissoluzione dei partiti tradizionalmente legati all’eredità socialista, all’irruzione delle dinamiche globale nelle dialettiche interne gli Stati-Nazione, passando per il problema della rappresentanza democratica, fino alla dissoluzione della forma partito e al mancato ripensamento delle forme sindacali.

L’Europa vive oggi nel segno di questo doppio volto della crisi. Una crisi che, vista la sua natura sdoppiata, mutevole, ambigua, risulta molto difficile da sondare, misurare e infine risolvere. A poco sono serviti gli appelli al senso di responsabilità e ancor meno il giustificazionismo delle politiche di austerità. Sicché oggi l’Europa è in crisi. Tuttavia questo assunto non rappresenta alcun novus della modernità. Ad esempio, già Marx, riferendosi alle contraddizioni interne al capitale, notava come le crisi fossero l’espressione necessaria e, al medesimo tempo, la soluzione temporanea al cosiddetto problema della caduta tendenziale del saggio di profitto[5], tanto da ipotizzare la necessità di una loro sistematica ciclicità. Così, secondo Marx, la crisi non viene mai da fuori, non è contingenza e nemmeno errore di qualche scellerato borghese; essa è piuttosto una patologia interna al sistema:

 

«[…] le crisi sono sempre soluzioni violente soltanto temporanee delle contraddizioni esistenti ed eruzioni violente che servono a ristabilire l’equilibrio turbato»[6],

 

ove l’equilibrio ristabilito è chiaramente quello capitalistico, lo stesso che consente il sorgere di nuove crisi. Ma cosa vuol dire più in generale crisi? Seguendo il dizionario etimologico di Salvatore Battaglia il sostantivo femminile «crisi» significa:

«Notevole e improvviso cambiamento […] che avviene in una malattia; fase risolutiva che coincide con la repentina caduta della febbre 2. Inasprimento o accesso improvviso, fenomeno violento, per lo più di breve durata 3. Figur. Profonda perturbazione nell’esistenza di una persona che produce effetti più o meno gravi e dolorosi incidendo sull’intera condotta morale e concezione delle cose – Essere in crisi […] Attraversare una crisi di coscienza, una crisi spirituale 4. Figur. Turbamento vasto e profondo nella vita di una collettività, di un gruppo, di una società, di uno Stato […]»[7].

 

Il dizionario sembrerebbe dunque confermare gli elementi espressi dalla proposizione marxiana: la crisi ha a che fare con un momento di profonda perturbazione, caratterizzato da un’intrinseca violenza di breve durata. Si tratta – e il riferimento alla febbre non è affatto casuale – di un lemma specialistico della medicina, ma che può assumere anche una portata politico-economica nel senso di una condizione negativa che riguarda un «deterioramento» e su cui sarebbe interessante riflettere a partire dal saggio Naissance de la clinique di Foucault[8].

Tuttavia, tornando a Marx, ciò che si voleva rendere manifesto va ben oltre l’etimo medico della parola. Infatti, il carattere interno di questo deterioramento fa sì che lo statuto epistemico della crisi non solo non rappresenti una novità né per la scienza economica, né per quella politica ma, ben al di là, esso delinea un vero e proprio topos sistematico dell’intera narrazione moderna. Ma – e qui sta il punto determinante – proprio in quanto topos e lemma originario, la crisi perde il suo carattere critico, instabile, perturbante, per divenire aspetto fondamentale, determinante, costitutivo della storia d’Europa. Così, per quanto patologiche, le crisi rimangono nel rassicurante orizzonte della dialettica come le fasi antitetiche dello sviluppo capitalistico[9]. Ed anzi, nel materialismo storico-dialettico di Marx la loro risoluzione è pensabile unicamente con l’avvento sintetico della società comunista, unico momento in grado di superare la contraddizione insita nel capitale. Ma cosa accade quando il sistema dialettico marxiano perde la sua partita con la storia? Cosa rimane di queste crisi quando il fallimento dei socialismi reali rende manifesta l’impossibilità del superamento comunista? Accade che la crisi diviene una nevrosi[10] che cessa di venir recepita come tale, come perturbamento o interferenza della salute, divenendo piuttosto il carattere cronico dello stesso corpo storico europeo. Sicché, il passo da Marx a Nietzsche è breve: “l’Europa in crisi” altro non sarebbe che la diagnosi del suo nichilismo fisiologico. La crisi non è più momento antitetico nel sistema dialettico, ma messa in crisi del sistema. Per Nietzsche infatti:

 

«La crisi non è un momento, come per i neoclassici. La crisi risulta costantemente dal Wille zur Macht – e nella misura in cui questo si ripete, essa non giungerà mai […] a una fine, a una sintesi perfetta, la crisi sarà il divenire stesso […]»[11].

 

Tuttavia, questa variazione implica un radicale mutamento di prospettiva: non si tratta più di disquisire intorno il “senso della crisi europea”, né dal punto di vista economico-finanziario, né da quello politico, si tratta piuttosto di dialogare intorno al “senso di crisi” che appartiene all’Europa, alla sua storia, al suo linguaggio. La domanda da porre non chiede più «che cosa sia la crisi europea», ma «che cosa sia la crisi per l’Europa»: Umwertung aller Werte.

Ciò implica che almeno il termine «Europa» ci sia chiaro; un po’ come quando chiediamo del significato profondo di un testo avendo precedentemente cura di indagare il con-testo nonché – e soprattuto – chi sia il suo autore. Dunque per capire cosa significhi «crisi» occorre chiedersi: “chi è Europa”? E, lo si noti di sfuggita, chiedere chi sia Europa ci pone già al di fuori di quel modo di interrogarsi che pone l’inevitabilità della res: già da questa domanda Europa non è una «cosa», non è un «prodotto», non è una «merce», un qualche cosa di cui si può disporre, o su cui ci si può imporre. Europa è un «chi», una vita, un volto e ciò ci spinge verso quella particolare filosofia che Nietzsche chiama genealogia. Quel che si vorrebbe proporre è quindi una mito-fenomenologia dell’originario «Chi» europeo; un’archeologia del nome attraverso cui tracciare una breve ed incisiva genealogia di una vita segnata dalla crisi, dalla nevrosi, dal nichilismo.

 

  1. Il tentativo mito-fenomenologico e l’Urgrund d’Europa.

Dunque, chi è Europa? Fin da subito ci si può imbattere in un cliché che la filosofia non ha fatto altro che invigorire: la Grecia e, più nello specifico, la Grecia classica sarebbe l’Anfang, l’Inizio della nostra “europeità”. La Grecia di Socrate ed Aristotele, di Pericle ed Euripide svolgerebbe così la funzione di principium individuationis europae. Nella Grecia risiederebbe il leibniziano principio di ragione che fonderebbe l’Europa, determinandone la Wesen. Secondo questa tradizione l’autenticità greca coincide con il λόγος o, meglio, con la pretesa del λόγος razionale di opporsi all’inautenticità del μύθος. La nascita della filosofia rappresenta questo punto di rottura che è, sin da Omero, frattura politica con l’Oriente, con l’Asia e con i suoi miti fondativi[12]. Ancor oggi questa lettura domina il paradigma culturale europeo e a poco sono serviti gli studi degli antichisti più avveduti che, come Bonazzi, invitano a riflettere sull’inquietudine della Grecia classica[13] o sull’importanza della tradizione “dionisiaca” nell’Ellade[14]. D’altro canto, nella più antica tragedia attica che ci sia giunta nella sua completezza – I Persiani di Eschilo – l’autore, per bocca della regina persiana Atossa, descrive così la Ionia:

 

«[…]Due donne m’apparvero: erano belle le loro vesti. Una era abbigliata con vesti persiane, l’altra con vesti doriche: le avevo davanti agli occhi, ed erano entrambe di statura imponente […]. Erano sorelle di sangue, della stessa stirpe, ma a una era toccato in sorte d’abitare la terra dell’Ellade, l’altra la terra dei barbari. Erano in contrasto fra loro, a quanto mi parve di vedere, ostili l’una all’altra: mio figlio se ne avvide e le teneva, cercava di ammansirle: ecco le lega entrambe ad un carro col giogo, ecco impone le redini sul collo. E una stava ritta come una torre, fiera di quei finimenti e prestava docile la bocca alla briglia; ma l’altra recalcitrava. Ecco con le mani le bordature del carro fa a pezzi, a forza si strappa: è senza morso; ecco spezza il giogo, a metà»[15].

 

E poco oltre, dopo aver portato le offerte agli antichi altari, Atossa incalza i suoi servitori:

 

«Regina: [..] dove dicono sia Atene, miei cari? In quale terra?
Coro: Lontano, verso Occidente, dove il Sole potente nel tramonto si strema. […]
Regina: E chi è il loro signore?
Coro: Si gloriano di non essere schiavi di nessun uomo, a nessun uomo sudditi»[16].

 

Il λόγος greco-europeo rappresenta una forza liberatrice o, nella sua rilettura più radicale, quella potenza recalcitrante che scalpita, morde e, infine, rompe il mitologico giogo dei re-padroni, come lo sono tutti gli eroi fondativi delle civiltà orientali: dai persiani Dario e Serse, a Gilgamesh e ai faraoni dell’Egitto teocratico. Tuttavia la realtà dipinge un quadro più complesso, sia se si affronta la questione su un piano storico – e gli stessi barbari altri non sono che i popoli che parlano lingue differenti dal greco ma con cui proprio i greci hanno intensi rapporti economici, politici e culturali –, sia se la si affronta su un piano squisitamente critico-teorico. Per quanto concerne il primo aspetto basterebbe qui ricordare la fascinazione platonica per le dottrine egizie, la provenienza tracia del dio Dioniso, il florido commercio tra città della Ionia e della Fenicia etc. Per quanto riguarda il piano critico-teorico ci si vorrebbe limitare ad un rapido richiamo ad Ernst Jünger quando in I prossimi titani scriveva:

 

«Penso invece che i teologi e gli intellettuali che praticano oggi con tanto zelo la demitologizzazione assomiglino a un esercito di formiche entrate in una pingue cucina: divorano e distruggono tutte le leccornie che vi trovano, ma non smettono di raccontarsi quanto sono squisite»[17].

 

Detto altrimenti, la Grecia intesa come Ur-grund d’Europa rappresenta un dei miti più duri a morire dell’intera tradizione storico-filosofica. Eppure – proprio se non si pretende una radicale sconfessione del μύθος – ci si trova nell’ambito ove più è pertinente chiedere il “chi originario” d’Europa. Questo perché il nome proprio di «Europa» è effettivamente il nome di una persona o, per lo meno, di un personaggio della mitologica greca: quello della figlia dei reggenti di Tiro[18].

Nel mito, Europa – figlia del re fenicio Agenore e di Telefassa – passeggia con le sue ancelle sulle spiagge nei pressi della città. Qui s’imbatte in un muscoloso toro bianco che altri non è che Zeus. Tra i due s’instaura immediatamente un rapporto ambiguo; se per un verso è evidente la diffidenza di Europa, per un altro verso ella guarda al toro con gli occhi di Eros. Ed è precisamente in questo momento inquieto che Zeus mette in atto il suo piano d’amore, rapendo la fanciulla e gettandosi velocemente in mare.

In Le nozze di Cadmo e Armonia, Roberto Calasso riflette molto su questo momento del mito chiedendosi se, vista l’ambiguità dell’incontro, la fanciulla venga effettivamente rapita o se piuttosto non ne approfitti per fuggire. Ciò che appare chiaro a Calasso è che nella mitologia il dispositivo ratto-fuga costituisce un vero e proprio architrave della narrazione mitica, tanto da venir usato come escamotage con cui legare miti tra loro molto distanti. Sicché, se per un verso Europa viene effettivamente rapita, per un altro ella approfitta del καιρός per fuggire dalla propria Vaterland, dall’Heimat, dal grembo dell’oikos.

Dunque, i due si dileguano rapidamente per giungere infine a Creta ove consumano il loro rapporto sessuale. Da questa relazione nascono tre figli, Minosse[19], Radamanto e Sarpedonte; ma è solo alla morte del primo – molti anni dopo i fatti narrati – che i Greci, per onorare la stirpe regia, decidono di dare il nome «Europa» al continente che si trova a nord di Creta.

Un’altra variante del mito specifica anche che, a portare la buona novella, sono proprio i fratelli minori di Minosse. Si può presumere che il loro viaggio sia lungo – ed infatti compariranno in miti ben più recenti come fondatori di città in Lidia e in Boezia –, ma anche travagliato dal momento che il loro è un peregrinare in terre di cui non si conosce né storia, né estensione. Di queste terre i greci sanno unicamente definire l’indefinibile: l’assenza di un nome che le qualifichi e la riduzione del regnum all’indefinitezza di un punto cardinale. Delle nuove terre d’Europa si conosce solo l’insondabile, l’indicibile, la dismisura: l’insecuritas.

Dunque, ciò che ci è consentito desumere da un’interpretazione fenomenologica del mito è che non solo il nome Europa rimanda chiaramente ad un passato orientale, fenicio, per nulla greco[20], ma, ancor di più, il nome identifica tutte quelle terre a Nord che, fino a prima dell’omaggio a Minosse, erano senza nome[21].

Le origini non-europee del nome Europa rinviano tanto al rapporto con l’Asia e con l’Oriente quanto ad un’origine che è un movimento nomade di sradicamento che dalla Vaterland porta alle terre dell’insecuritas, del senza-nome-proprio. Radicalizzando l’indagine si potrebbe dire che l’autentica origine d’Europa è questo movimento che lacera il rapporto con la terra, tradisce l’Urgrund, fugge verso l’ignoto. Questo non può che essere l’Occidente, lì dove il sole viene rapito e, tramontando, lascia spazio alla notte dove ogni ente è nel buio, nell’indecifrabile, in quel senza-nome che è già l’incertezza del dubbio filosofico nel cuore del mythos.

Ed è in questo crepuscolo occidentale che l’emergere sfumato del fenomeno si fa autentica thaumazein, tragico attimo d’incontro ove il senza-nome vuole ora esser detto, vuol esser nominato dalla voce di qualcuno capace di deciderlo, di dargli un τέλος e un valore. L’approccio mito-fenomenologico evidenzia quindi uno scarto tra il comune modo d’intendere l’origine, il puro Grund che tutto fonda, ἀρχή come sacra fonte sorgiva, e l’ οὐσία d’Europa, originariamente lacerata da un movimento di sradicamento, impura, sempre diveniente, già da sempre decisa, discussa.

C’è poi da fare un’ulteriore precisazione, questa volta etimologica, legata all’origine d’Europa; c’è quindi da chiedersi cosa significhi filologicamente “Europa” per i greci che ascoltavano il suo mito. La proposta del filosofo francese Jean-Luc Nancy – apostrofata da Rodolphe Gasché in Europe, or the Infinite Task come «obiettivamente discutibile»[22] ma «ricca di suggestioni» – prevede un doppio etimo. Il primo deriverebbe dal termine semitico pre-greco «ereb», con il significato di «oscurità»[23], con cui i fenici indicavano tutti i territori dove “tramonta la luce”. La seconda si troverebbe in Omero – e successivamente anche in Erodoto – dove l’uso dell’aggettivo ϵὐρύοπα riferito a Zeus sembrerebbe derivare dall’unione di «εὐρύς», «ampio», e «ōp», «occhio», col significato di «ampio sguardo». L’ampiezza non è tuttavia da concepirsi come un’apertura orizzontale dello sguardo ma come un oltre, un al di là del banale osservare; uno sguardo penetrante e perforante. Ma, come osserva Gasché, in Nancy queste due etimologie si coappartengono:

 

«Concordemente con questa origine il nome “Europa”, per citare Nancy, “significa: colei che guarda nella distanza” […]. Ma Nancy mette in campo anche l’ altra possibile etimologia della parola, determinando così lo sguardo di Europa come un “guardare lontano nell’oscurità, nella propria oscurità”»[24].

 

Insomma, per quando possa destare perplessità, la ricerca di Nancy, traducendo il nome di Europa in uno sguardo prospettico che mira oltre, al di là di sé, verso il confine, verso la radicale alterità del senza-nome, ha il merito di arricchire ulteriormente la “frattura” di un Urgrund certo, «chiaro e distino». Europa segna un divenire: un provenire da origini dimenticate e un volgersi oltre, verso l’ignoto delle terre crepuscolari dell’Occidente. Così il nome “Europa”:

 

«[…] non disegna “niente”, solo una separazione originale da ciò che è nativo, una fondamentale apertura al mondo e una trascendenza originale verso ciò che essa non è»[25].

 

A tal riguardo è possibile ricavare dal mito e dalla riprova filologica due ulteriori spunti di riflessione. Il primo riguarda l’«ereb» d’Europa, la sua essenza crepuscolare. Qui il mito infrange un altro cliché tipico di una certa retorica illuminista; quello che vorrebbe la filosofia come conoscenza diurna, come scienza del dato, della res auto-evidente, come forza luminare che dilegua le ombre delle mitologie. Ci basti qui osservare che esiste una parola greca capace di sconfessare questo mito e che, di rimando, sembra proprio rimarcare l’essenza crepuscolare d’Europa.

Questa parola è ἀλήθεια, tradotta dai latini con la parola Veritas. Aletheia non però indica la certezza, la vis, della veritas ma, piuttosto, lo svelarsi, lo scoprirsi. L’ἀλήθεια indica una pratica tutt’altro che diurna; essa è la phronesis di coloro che vivono le terre di Eraclito, detto l’oscuro, che anticamente sentenziava: «La natura ama nascondersi». Nelle terre europee la natura si cela nella notte, i fenomeni perdono la loro certezza, i colori sfumano, così come i loro limiti, qui nessuna luce squarcia le tenebre dell’erebo. Quel che i greci sanno bene è che ἀλήθεια è la pratica degli animali notturni quelli che, come athene noctua – la nottola di Minerva che spicca il volo al calar del sole – , possiedono quello sguardo penetrante capace di discernere nell’insecuritas. Vi è qui un’intima vicinanza al mito. Come l’Urgrund d’Europa coincide con un fuga della propria Heimat e, cioè, con uno s-fondamento, con uno s-radicamento, così l’aletheia procede per negazione nel senso in cui si apre con un’«α» privativa: verità non è il dato certo, ma la pratica che s-vela, che s-copre.

Quanto detto consente di approfondire anche l’ultimo aspetto degno d’interesse del mito. Infatti, solo se l’ente viene prima esperito nel suo nascondersi, nel suo oblio, «solo se la velatezza dell’ente circonda l’uomo e lo angustia nella sua interezza e nel suo fondamento» è possibile che l’uomo si metta in cammino verso la verità. Ma ciò è quanto viene testimoniato dal viaggio di Radamanto e di Sarpedonte, coloro che portano la verità del nome “Europa” in quelle terre anguste la cui essenza è l’oblio. Oblio e abisso – in tedesco Abgrund, ovvero senza Grund, privo di fondamento – hanno chiaramente a che fare con Φόβος, l’angoscia, il vivere in una situazione di incertezza, di dubbio costitutivo. Ed è esattamente attraverso questi vocaboli che il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, teorizza il suo concetto di Unhemlichkeit, il perturbante, il patologico[26].

Ancora una volta si ha a che fare con un lemma che si apre nei termini di una negazione: Unheimlichkeit può essere tradotto, in senso letterale, come «ciò-che-è-senza-patria» o, meglio, «lo spaesante». Si faccia ora attenzione: poco sopra, parlando del viaggio dei fratelli di Minosse, si era osservato che il loro viaggio è un peregrinare nei luoghi crepuscolari e senza-nome, nel regnum dell’oblio e del nascondimento, lì dove manca la misura che fonda la certezza, la res «chiara e distinta» di Cartesio. Queste terre sono l’Unheimlichkeit: in questo Welt nulla ci è più prossimo, più vicino e più domestico dello spaesante[27], la qual cosa equivale a dire – con Nietzsche – che «nel fondo del Greco c’è la mancanza di misura, la caoticità»[28].

Se la casa rappresenta il luogo del nostro quieto vivere, dell’intimità dell’abitare e se la sua legge è quella dell’oikonomia, del disporre ed imporre di ogni realtà in quanto conosciuta, individuata, r-assicurante, allora la «casa europea» è lo spazio che nega ogni economia in quanto gli è intimo il perturbante, il patologico, l’innominato. Parlando in termini non dissimili Massimo Cacciari afferma che Europa:

 

«[…] si riconosce perciò soltanto giunti alla sua “soglia”, al suo confine, là dove, cioè, esso si fa cum-finis, vicino, prossimo, contiguo all’altro da sé dove rivela qualcosa di communis con l’altro. Europa è là dove essa “tocca” l’estraneo, lo straniero»[29].

 

Ma con ciò non si è tornati all’inizio? Non sono proprio questi i sinonimi con cui ci si era riferiti alla crisi d’Europa? Non sono l’insecuritas, l’assenza d’origine, la Stimmung crepuscolare e lo spaesamento esistenziale i tratti con cui ci si era riferiti alla krisis? Non erano proprio l’intimità della patologia e la domesticità della crisi a spalancare le porte del nichilismo?

Ma, se così stanno le cose, non solo si è trovato ciò che si cercava – ovvero il significato autentico di crisi attraverso la domanda sul “chi originario”– ma, ben più in profondità, si è trovata la sostanziale equivalenza tra il significato d’Europa e il significato di krisis: Europa è la crisi, la frattura del principium individuazionis, l’angoscia che abita la domus, la decisione che scompagina e recide l’ ἀρχή. In tal senso l’origine europea si oblia, si svincola da qualsiasi tentativo di riduzione in Grundsatz: cercare il “chi originario” è trovare la crisi.

Da ciò residua, ineludibile, un’ultima domanda; quella del «più inquietante fra tutti gli ospiti», quella che chiede del nichilismo: infatti, se vi è corrispondenza tra Europa e crisi, bisogna ammettere che Europa è la patologia e la sua storia è il nichilismo. Ben al di là delle crisi marxiane congenite al capitale, qui è l’intero edificio narrativo che rischia di entrare in una crisi totale, in una krisis che già da sempre gli appartiene e che ora mostra il suo volto totalizzante. Europa e nichilismo, dunque: che fare?

 

 

 

  1. Decostruzione della Respublica e pratiche di sinisteritas.

In precedenza ci si era riferiti al dizionario di Salvatore Battaglia per qualificare la crisi come lemma medico il cui campo semantico definiva l’attimo patologico della negatività, del deterioramento. Tuttavia, questa definizione rappresenta un’acquisizione abbastanza recente che risulta da un graduale spostamento semantico del termine dal suo significato più originario. Crisi deriva infatti dal greco κρίσις, utilizzato in riferimento alla trebbiatura, cioè all’attività di separazione del frumento dalla paglia. Da qui deriva il suo significato di “separare”, “dividere” e che risuona anche nell’origine recisa d’Europa di cui si è trattato. Ad uno sguardo più vasto krisis significa anche “scelta”, “giudizio”, “valutazione”. Il passaggio tra le due significazioni appare giustificato se si pensa all’intimo senso di “decisione”, dal latino de-cedo, ovvero, ancora una volta, tagliare, separare e dunque scegliere tra frumento e fieno.

Europa è così quella regione che, di volta in volta, ritorna eternamente come luogo della krisis originaria, come spazio dell’eterna decisione, come confine del suo rinominarsi. Presentare Europa nella luce opaca della notte, definire la sua abitabilità come spaesatezza, è pensare ad un Grund formalmente anarchico, che non riesce mai a concludere il proprio scopo – che è precisamente quello di fondare – in quanto il suo essere non è, ma diviene nella forma di una crisi: l’origine d’Europa è decisione, lacerazione, fuga dal principium e rapimento dall’archè, la sua identità diviene alterità, la sua intimità lo spaesamento, la sua certezza il dubbio. La tradizione d’Europa altro non sarebbe che il suo costante scegliersi, decidersi, tradursi, di volta in volta, in modi specifici del tradimento rispetto il suo stesso pretendersi “cosa certa”. La tradizione d’Europa è la crisi, in quanto solo attraverso essa Europa risulta fedele a sé stessa.

Se, a differenza dell’accezione moderna, il deterioramento della krisis non è patologia «soltanto temporanea» – in quanto momento contraddittorio interno alla sintesi dialettica –, ma forza attraverso cui la violenza della negazione tende a decidersi, come imporre ad Europa una de-finizione? Come risolvere la crisi originaria d’Europa? Come disporre della certezza del suo esser-Stato, della sua identità, se essa è provenienza e tensione aneconomica, trascendenza ed eccedenza perturbante, frattura originaria?

Queste domande portano al limes estremo dove la Respublica, l’essenza pubblica della “cosa-Europa”[30], si scopre negata, deposta, indisponibile, addirittura opposta, alla crisi che la costituisce. Se in apertura si affermava che Europa non è una “cosa”, ora si può ulteriormente dedurre che Europa è la messa in crisi di ogni “cosa”, di ogni fatto puramente auto-evidente, di ogni fenomeno preteso come dato certo, misurabile, amministrabile, sfruttabile e dominabile. Europa è veramente la forza “recalcitrante” di cui scrive Eschilo; ma non in quanto libera, piuttosto poiché vincolata alla sua criticità, alla sua contraddizione instancabile ed irrisolvibile. Nel pubblico, la res di tutti viene discussa, decisa, messa eternamente in crisi in quanto cosa certa:

 

«Fino in fondo, vita è contraddizione e conflitto. […] Ciò che eternamente ritorna è la contraddizione chiaritasi nel mondo effettuale-temporale dell’operari e del Macht. Il conflitto è degno di ripetersi. Il Ritorno non consola né accorda – ribadisce […] Nel tempo del Dasein esiste soltanto conflitto-contraddizione – esiste crisi soltanto. E il tempo si sviluppa attraverso queste crisi – è un ciclo eterno di crisi, un Eterno Ritorno di crisi»[31].

 

Una conflittualità che resta all’esterno della dialettica senza per ciò stesso cadere nel nichilismo. Qui la crisi vive nel detto eracliteo[32]: «Polemos è signore di tutte le cose». Bisogna fare però attenzione: rendere originaria la crisi, trasformare l’Europa nella terra dell’Unheimlichkeit, apre effettivamente alla possibilità di un orizzonte nichilistico. Il rischio di trovarsi in un territorio ove è il Letztemensch nietzscheano a farla da padrone o, il che è lo stesso, in un territorio filosofico-politico dove dominano relativismo, oggettivismo e psicologismo – le scienze discusse dall’intera tradizione fenomenologica –, è certamente alto.

Eppure, quel su cui si vorrebbe insistere è il carattere razionale di questa filosofia della crisi. Si tratta cioè di continuare a porre la crisi come irriducibilmente anti-dialettica senza, con ciò stesso, farla naufragare nel nichilismo. Ma come ottener ciò? Ed è precisamente su questo punto che il discorso, per così dire, frana nuovamente sul versante politico, quello a cui ci si riferiva in apertura parlando del doppio volto della crisi europea. Rivolgendosi ad un attento studioso di nichilismo, come fu Franco Volpi, possiamo affermare che:

 

«Il nichilismo della cultura contemporanea non è soltanto crisi dei valori […]: è anche il fatto che l’agire dell’uomo non si infiamma più tra i due poli opposti della tradizione e della rivoluzione, ma si avvita nella ristretta prospettiva del “qui e ora”. Non la storia né l’avvenire, ma la puntiformità dell’attimo presente è l’orizzonte per l’agire dell’uomo contemporaneo»[33].

 

Decaduta la promessa sintetica dei socialismi reali, la prospettiva di un Aufheben della crisi si rende impossibile; tuttavia essa non viene eliminata ma, al contrario, ribadita come patologia, nevrosi cronica, nichilismo fisiologico che inchioda al puntiforme «qui ed ora», trattenendo – τὸ κατέχον[34] – nell’Augenblick qualsiasi politica del novus, della trascendenza, della differenza. Da questo versante la crisi-patologia diviene un dispositivo atto a frantumare ogni immagine critica ed organica sul mondo, aprendo a quella deriva relativistica che altro non è che la forma dietro cui essa dispiega la sua coercizione, la sua violenza normativa, la sua messa fuori legge di concetti quali quelli di rivoluzione, Geist der Utopie[35], adveniens del Politico.

Insomma, dal lato patologico, crisi del politico e crisi economica non solo sono conniventi ma proprio lo Stesso. Le due fasi altro non sarebbero che «qui ed ora» della medesima e sistematica forza. Nel tempo economico la crisi mostra il suo volto feroce, violento, temporaneo, nel tempo politico il suo volto di “nichilismo di Stato”, di norma reattiva e di governo della décadence. Nonostante ciò, Volpi ricorda anche un secondo carattere del nichilismo:

 

«Il nichilismo ci ha dato la consapevolezza che noi moderni siamo senza radici, che stiamo navigando a vista negli arcipelaghi della vita, del mondo, della storia: perché nel disincanto non v’è più bussola che orienti; non vi sono più rotte, percorsi, misurazioni pregresse utilizzabili, né mete prestabilite a cui approdare»[36].

 

Ecco così che il nichilismo insegna anche la decostruzione della res-publica certa, chiara e distinta; di quella “cosa” dogmatica che ogni potere politico – anche il potere annichilente della crisi – usa per fondare sé stessa, per rendersi incontestabile, in-criticabile e che lega la res alla sua insindacabile reālitās. Ed infatti, sempre con Volpi:

 

«Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni; ma ha anche dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel paradigma di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della precarietà»[37].

 

Come è evidente, da quest’altro versante il nichilismo palesa la sua forma di autentica krisis, di radicale decisione, di pura contesa. Il «qui e ora» si trova per così dire redento, nessun potere frenante ci inchioda; nell’Augenblick lo spirito della contesa si fa ek-stasis, fuoriuscita da sé, dalla sua situazione, pura tensione, differenza, alterità. Lo spazio-tempo di questo differente modo d’intendere il «qui ed ora», l’evento, è lo stesso spazio in cui si trova Europa, la principessa del mito che insegna l’aletheia, l’Unheimlichkeit, il cumfinis. Qui la temporalità trattenuta nell’istante, la cronicità del Neuzeit, si trasvaluta in un «qui ed ora» che altro non è la tensione decisiva del καιρός. Epoché dello “stato di fatto”, l’attimo dalla crisi-decisione si dilata nel tempo del καιρός; nulla della crisi è risolto, tutto è da decidere.

Qui il pensiero si arma, si fa contesa e ingaggia la sua battaglia sul crinale più pericoloso – quello della reificazione del nichilismo, del tramutarsi in patologica della crisi, del suo divenire potere e sistema – perché è in questo pericolo mortale che esso scopre il suo καιρός, il giusto momento. Qui la crisi d’Europa è filosofia anarchia, non governo della res. Anarchica è l’origine come decisione, sovversiva quella aletheia che è prassi nel dubbio, contesa quella conoscenza che sta sullo sfumare della veritas, rivoluzionario quel «qui ed ora» che sospende ogni autorità dello stato di cose per affidarsi all’autorevolezza della crisi. Europa è la sua crisi originaria: questa la maledizione del senza-nome.

Maledizione in latino si dice sinisteritas[38]. La sinisteritas non solo indica la «parte maledetta» – come lo sono il suono sinistro di un fantasma, il colpo mancino che non ti aspetti – ma l’errore, il contraddire, il procedere per contraddizioni: l’affermazione – direbbe Zarathustra – che la realtà è falsa. Ma in questo dire contra della crisi originaria si apre lo spazio stesso di una politica; ad essere aurorale è polemos. Certamente una simile maledizione non potrà mai farsi res normativa, mai divenire reālitās su cui erigere il proprio regnum – pena il suo divenire maldestra, poco retta [rectus], cioè impreparata a reggere [rĕgo] il potere. Ma qui è in gioco proprio la possibilità di una sostanziale messa in crisi del potere attraverso una krisis che lo costringa, come Europa, al suo s-fondarsi, al suo rinominarsi, al suo decidersi: ἀναρχία dell’aletheia, καιρός dell’Unheimlichkeit.

 

 

[1] D’altro canto lo stesso presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker afferma che: «La Ue non è in gran forma. Sono cambiate tante cose. Possiamo parlare di crisi esistenziale» in Ue, Juncker: “Europa in crisi esistenziale. Non è abbastanza sociale. Ma patto di stabilità non è patto di flessibilità”, Il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2016.

[2] In una recente intervista Matteo Salvini ha dichiarato che: «L’Europa perde i suoi valori, vengono a mancare sicurezze, perde l’identità e non ha più orgoglio, […] Mai nella sua storia l’Europa è stata rammollita come oggi!» in “Das Problem ist die Kultur des Islam”, Die Welt, 3 Gennaio 2017.

[3] Ed infatti Matteo Renzi osservava come: «l’Europa non può essere solo vincoli e spread, non solo parametri, ma deve riscoprire la sua anima: serve una scommessa ampia che vada oltre la risposta alla paura» in M. Giro, Serve una leadership visionaria per ritrovare l’anima dell’Europa, Huffpost, 22 Giugno 2016.

[4] A tal riguardo si rimanda alla prima parte di Bloch E., Eredità di questo tempo, Mimesis, Milano 2005.

[5] Si rimanda al Capitolo tredicesimo, Libro III de Marx K., Da Capital, a cura di B. Maffi, Il Capitale. Libro terzo, Torino, UTET, 2009, pp. 271-297.

[6] Marx K., Da Capital, a cura di B. Maffi, Il Capitale. Libro terzo, Torino, UTET, 2009, p. 319.

[7] Battaglia S., Grande dizionario della lingua italiana, vol. III, Torino, UTET, 1971.

[8] Foucault M., Naissance de la clinique: une archéologie du regard médical, trad. it di A. Fontana, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Torino, Einaudi, 1998.

[9] Per una attenta analisi del rapporto tra il materialismo storico e dialettica hegeliana si veda Finelli R., Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Torino, Bollati Boringhieri, 2004 e il successivo Finelli R., Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Milano, Jaca Book, 2014.

[10] Il termine vuole essere un chiaro riferimento a Nietzsche e, più in particolare agli studi genealogici più tardi e contenuti in F. W. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1968 e in F. W. Nietzsche, Al di là del bene e del male, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1968

[11] M. CACCIARI, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli Editore, Milano, 1976, p. 51.

[12] Ad esempio si veda il celebre riferimento di Hegel ad Omero in G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. di G. Calogero e C. Fatta, Firenze, La Nuova Italia, 1961, p. 6.

[13] Bonazzi M., Atene. La città inquieta, Torino, Einaudi 2017.

[14] Il riferimento non è al dionisiaco nietzscheano ma a quello ripensato da Colli in Colli G., Apollineo e Dionisiaco, Milano, Adelphi, 2010.

[15] Eschilo, I Persiani, a cura di M. Centanni, Milano, Feltrinelli 1991, p. 39-41

[16] Ivi, p. 43.

[17] Gnoli A., Volpi F., I prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Milano, Adelphi, 1997, p. 94.

[18] R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano, Adelphi, 1988, p.16.

[19] Secondo re di Creta, nonché unico successore dopo la morte del padre adottivo Asterione.

[20] Non a caso Gasché ricorda un passo tratto da Le Storie (Libro IV, 45.) di Erodoto in cui lo storico afferma che Europa «era di origine asiatica e non giunse mai in quella regione che ora i Greci chiamano Europa», in R. Gasché, Europe, or the Infinite Task, R. Gasché, trad. it. L. Marinucci, G. Menditto, Europa, il Compito Infinito. Studio di un Concetto Filosofico, Lithos, Roma, 2015, p. 39.

[21] Una mancanza espressa anche da R. Calasso: «Ma come era cominciato tutto? Europa, verso l’alba […] aveva avuto un sogno strano: si trovava tra due donne, una era l’Asia, l’altra era la terra che le sta di fronte, e non ha un nome» in R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano, Adelphi, 1988, p.17.

[22] R. Gasché, trad. it. L. Marinucci, G. Menditto, a cura di R. Frauenfelder, F. Vitale, Europa, il Compito Infinito. Studio di un Concetto Filosofico, Lithos, Roma, 2015, p. 40.

[23] R. Gasché, Alongside the horizont in On Jean-Luc Nancy. The sence of philosophy, Routledge, Londra, 1997, p. 136.

[24] Ibidem. «According to this origin the name “Europe”, to cite Nancy, “would mean: the one who looks in the distance” […] But Nancy brings to bear the other possible etymology of the word, thus determining Euryopa’s glance as a “look far into the obscurity, into its own obscurity” […]». Traduzione mia.

[25] R. Gasché, trad. it. L. Marinucci, G. Menditto, a cura di R. Frauenfelder, F. Vitale, Europa, il Compito Infinito. Studio di un Concetto Filosofico, Lithos, Roma, 2015, p. 43.

[26] S. Freud, Il perturbante, in Opere 9 a cura di C. L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino, 1977, pp. 70-115.

[27] Si rimanda a E. Ferrario (a cura di), Oikonomia, Roma, Lithos, 2009. Preme qui sottolineare un passaggio tratto dall’Introduzione; passo che permette di comprendere tanto il carattere di Anspruch, quanto quello di dominio/organizzazione dell’oikonomia. Dopo aver fatto riferimento alla Politica di Aristotele (1261 a) si afferma che «Il passo è notevole […] perché sottolinea il carattere plurale, differenziato proprio della polis. In secondo luogo, perché indica come caratteristica dell’oikonomia una certa non politicità; e cioè il tendere, insito nell’economico, a una […] “unificazione del molteplice” […] quale quella che opera nell’ “amministrazione familiare” […]» (p.12). Se l’oikos-nomia tende all’unità erodendo la molteplicità è proprio perché il sentirsi-a-casa annulla le distanze, distrugge le differenze, arresta il divenire. Ma se questi sono i termini dell’oikos non è proprio l’Europa quel margine scucito che permette di pensare la possibilità di uno spazio al di là della pretesa di dominio dell’oikonomia?

[28] F. W. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1974, p. 16.

[29] M. Cacciari, Europa o Filosofia, in Filosofi per l’Europa. Differenze in dialogo, a cura di L. Alici e F. Totaro, EUM, Macerata, 2006, pp. 21-22.

[30] Per una più completa rilettura della “cosa” in quanto tradizione politica d’Europa si rimanda – nonostante l’estrema differenza d’impostazione e di vedute – ai classici di Severino come Severino E., A cesare e a Dio. Guerra e violenza in controluce,                    Milano, Rizzoli, 2007; Severino E., La potenza dell’errare, Milano, Rizzoli, 2013; Severino E., Téchne. Le radici della violenza, Milano, Rizzoli, 2002.

[31] Cacciari M., Pensiero negativo e razionalizzazione, Venezia, Marsilio, 1977, p.12. Per una rapida lettura storica del “pensiero negativo” e delle sue ricadute politiche si rimanda a Gentili D., Italian Theory: dall’operaismo alla biopolitica, Roma, Il Mulino, 2012; Gentili D., Stimilli E., Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, Roma, Deriviapprodi, 2015.

[32] Per una attenta indagine fenomenologica del momento polemico come origine della filosofia e della politica si rimanda a due allievi di Heidegger: Jan Patočka e Hannah Arendt. Si vedano quindi: Patočka J., Platón a Evropa, tr. di G. Grigenti, Platone e l’Europa. Vita e pensiero, Milano 1998; Patočka J., Kacirske eseje o filosofii dejin, tr. di G. Pacini, Saggi eretici sulla filosofia della storia. Giulio Einaudi Editore, Torino 2008; Arendt H., The human contidion, tr. di S. Finzi, Vita activa, Bompiani, Torino 2001.

[33] Volpi F., Il nichilismo, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 145.

[34] Immagine ormai classica della teologia politica. Per una visione più completa si rimanda a Metzger P., Il Katéchon. Una fondazione esegetica in Il Katéchon (2Ts 2,6-7) e l’Anticristo. Teologia e politica di fronte al mistero dell’anomia, rivista Politica e Religione 2008/2009. Morcelliana, Brescia, 2009; Nicoletti M., Tra filosofia della storia e relazioni internazionali. Il concetto di katéchon in Carl Schmitt in Il Katéchon (2Ts 2,6-7) e l’Anticristo. Teologia e politica di fronte al mistero dell’anomia, rivista Politica e Religione 2008/2009. Morcelliana, Brescia, 2009; Cacciari M., Il potere che frena. Adelphi, Milano 2013.

[35] Il riferimento è chiaramente a Bloch E., Der Geist der Utopie, trad. it. V. Bertolino, Lo spirito dell’utopia, Milano, BUR, 2009. Per quanto concerne il rapporto politico tra Utopia ed Europa si rimanda a Cacciari M., Prodi P., Occidente senza utopie, Bologna, Il Mulino, 2016.

[36] Volpi F., Il nichilismo, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 178.

[37] Ibidem.

[38] Gentili D., Italian Theory: dall’operaismo alla biopolitica, Roma, Il Mulino, 2012, pp. 12-14.