Contro la frammentazione

In un tempo in cui gli uomini, in quanto singoli e in quanto specie, appaiono adagiati su un terreno che di stabile non ha più nulla, in un periodo storico che vede ciascuno di noi come un piccolo quanto insignificante ingranaggio d’un apparato tecnico sempre meno controllabile dal suo costruttore, in questo tempo, occorre ricordarsi che l’uomo è strutturato su un’identità che ha un centro psico-fisico unitario e che la comunità degli uomini non può essere frammentata senza produrle danni irreversibili.

L’uomo è un intero e l’umanità stessa non può essere concepita se non nella sua interezza. In un tempo segnato dalle grandi conquiste della tecnica, peraltro, l’uomo è ancor di più parte costitutiva ed essenziale dell’intera umanità: in un periodo storico segnato dalla globalizzazione culturale, sociale, economica, tutto ciò è del tutto (e a tutti) evidente. Ancor più evidente e decisiva, però, è l’interrelazione ambientale quando si assuma con chiarezza che viviamo in una fase temporale nella quale un qualsiasi “incidente” di tipo tecnico, qualsiasi evento che si registri in un determinato continente, prima o poi è in grado di diffondersi su larga scala, producendo danni catastrofici e spesso irreversibili. Per quanto riguarda poi il fenomeno dell’immigrazione transcontinentale, vero e proprio fenomeno esodale del contemporaneo, è sotto gli occhi di tutti che la mancanza d’una geopolitica globale e di istituzioni internazionali in grado di andare al di là di logiche spazio-temporali miopi e spesso ottuse e meschine, e dunque incapaci della sia pur minima lungimiranza, hanno prodotto e produrranno inesorabilmente fenomeni che minacciano di azzerare l’intero campionario dei diritti umani nella cui elaborazione si è affaticato l’Occidente da secoli.

Sulla base di considerazioni di questo tipo – forse troppo semplici per poter essere intese nella loro importanza epocale – occorre allora ripensare radicalmente l’essere dell’uomo, riconnettendolo strettamente con le sorti del suo mondo. Non c’è uomo senza mondo, mentre al contrario il mondo senza l’uomo è pensabile sia logicamente sia storicamente. In questa luce, dobbiamo aver chiaro che, se è senz’altro vero che è l’essere umano a produrre il mondo, è ancora più vero che il mondo possiede delle leggi che non possono essere alterate senza che l’umanità nel suo complesso ne debba risentire.

Entrando dunque in una logica di questo tipo (nulla è più necessario in sede politica di tali consapevolezze), una delle prime conclusioni a cui è necessario giungere è che le discipline settorializzate – così come gli interessi regionalistici – costituiscono un’espressione disastrosa del nichilismo imperante. Dividere le scienze e gli ambiti della produzione umana (simbolica o reale che siano), impedire la loro comunicazione essenziale, cioè, risulta del tutto irresponsabile ed è totalmente sbagliato. Così come è sbagliato e politicamente criminale costruire aree geopolitiche caratterizzate da crisi (economiche e politiche) permanenti, se non da vere e proprie guerre locali. In altri termini, tutto ciò va a costituire l’antefatto teorico di un tempo che, non occupandosi più del mondo, non è più in grado di curare neppure gli interessi fondamentali dell’uomo.

In modo particolare per le discipline filosofiche, inoltre, da sempre considerate a giusta ragione il collante di tutte le scienze, oltre che l’attività principale dell’uomo in quanto essere pensante, bisognerebbe entrare nell’ottica secondo la quale la conoscenza o è “integrale” o non è affatto. Nessuna particella dell’umano, in questo senso, può rendersi autonoma in maniera anarchica, nella convinzione che l’intero non reagisca.

L’impero della tecno-finanza estesa a livello planetario, tuttavia, va in direzione diametralmente opposta. È del tutto ovvio che rientra negli interessi precipui del capitale dividere uomini, Stati, aree geopolitiche e saperi. Assistiamo così al sempre più incalzante processo di disgregazione individualistica a cui fa seguito da presso una costruzione artatamente costruita di conflitti fittizi messi in scena ad uso e consumo del capitale e delle classi dominanti. Donne contro uomini, bianchi contro neri, guerre fra poveri, sovranità assoluta di visioni del mondo antisociali e grette come il neo-liberismo prima e l’ordo-liberismo a seguire. Evidentemente, tutto ciò nel mentre asserisce di incorporare una verità storica, alle sensibilità più acute si manifesta per quello che è, ossia un tentativo di distruggere le masse orizzontali e compatte della modernità nella direzione di un’atomizzazione sociale sempre più estesa. Nulla sembra più evidente, infatti, di quanto i processi di soggettivazione contemporanei stiano costruendo un uomo senza alcuna appartenenza: fuori da tessuti comunitari e da radici ambientali. Sta emergendo e sempre più consolidandosi un modello (post)umano passivizzato, senza passato e senza futuro, interamente appoggiato sulla tecnica e con addosso una crescente sensazione di superfluità. Inutile far notare come individui di tale sorta (atomizzati ed irrelati) non possano in alcun modo sfuggire alla presa irresistibile del potere tecno-finanziario. Inutile sottolineare, altresì, quanto un dispositivo di “verità” di questo tipo sia del tutto funzionale all’edificazione e al consolidamento progressivo di una massa di “diseguali” che ha tutti i vantaggi dalle divisioni interne che vengono operate nelle masse di “uguali”.

In questo quadro, credo che debba essere la filosofia, anzitutto, a segnalare la necessità di un cambio radicale d’orizzonte. Ovviamente, non parlo della filosofia da “torre d’avorio”. Meno ancora di quella autoreferenziale che gioca i propri narcisismi nelle conferenze per élite sempre meno significative sul piano pubblico o che imperversa all’interno delle ritualità annose ed inveterate del potere accademico. Mi riferisco, molto diversamente, alla filosofia che ha per oggetto il pensiero e l’unità dello spirito umano che al pensiero corrisponde. Credo, infatti, che, da questo punto di vista, la filosofia sia anzitutto una politica. Una politica degna di questo nome, infatti, sa bene che il suo compito è quello di guardare alla comunità (lato sensu) nel suo complesso e al rapporto originario fra gli uomini, nel quadro di un bisogno ineludibile di costruzione del “luogo” del loro stesso abitare. Non c’è politica adeguata a se stessa che non sappia coinvolgere nella sua prassi quotidiana la filosofia, ossia l’unica disciplina capace di disporre di una visione complessiva dell’uomo in quanto singolo e in quanto specie. L’uomo che deve essere preso in considerazione, inoltre, non può più essere “il soggetto razionale” della tradizione illuministica, o il “cittadino” della tradizione statualistica moderna, né tantomeno l'”agente economico” tipico delle posizioni liberali, bensì un essere peculiare che si caratterizza essenzialmente per un’esposizione radicale all’evento della sua stessa esistenza.

Per giungere ad un approdo di questo tipo è chiaro che tutte le scienze sono utili e necessarie: anche quelle che non avevano mai raggiunto la dignità di “scienza accademica”. A patto, però, che tutte loro possano essere riconnesse al senso filosofico più generale ed originario possibile. Ad esempio, costituirebbe una buona filosofia quella che ritornasse a porre domande ingenue, come quelle dei bambini o dei poeti, o comunque di coloro che sanno proporre “uno sguardo straniero” sul mondo. Una buona filosofia è tale quando si mostra capace di porre in un colpo solo davanti ai tanti paradossi e alle innumerevoli contraddizioni che caratterizzano l’esistere.

In conclusione, dunque, credo che sarebbe necessario che la filosofia diventasse una visione dell’uomo esprimibile attraverso una politica internazionalistica. Per converso, occorrerebbe una politica capace di stringere una nuova, sacra alleanza con la filosofia.

Sarebbe urgente che la filosofia mutasse il suo senso e la sua ispirazione settorializzata e divenisse “antropologia politica”.

Antonio Martone

 

 

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