Dostoevskij e la piazza del Carnevale: “Delitto e Castigo” e “L’Idiota”

Dopo il successo del primo incontro, giovedì 11 febbraio, ore 18:30, “L’altro Dostoevskij” torna con una conferenza su due romanzi chiave dell’autore russo, Delitto e castigo e L’idiota. A dialogare con Marco Caratozzolo (Università di Bari), la studiosa Claudia Olivieri (Università di Catania), membro del comitato scientifico del progetto diretto da Antonina Nocera

Con Marco Caratozzolo e Claudia Olivieri. A cura di Antonina Nocera. Comitato scientifico: Antonio Coratti, Evgenya Litvin, Antonina Nocera, Claudia Olivieri

L’altro Dostoevskij. Pensando all’Europa futura: Dostoevskij commentatore di politica estera

L’anno 2021 è simbolicamente l’anno dostoevskiano per eccellenza, in cui si celebra il bicentenario della nascita dell’autore russo. Da studiosa e da appassionata pensato che fosse necessario tributare un omaggio allo scrittore. È nata così l’idea, in collaborazione con Filosofia in Movimento e col patrocinio dell’Associazione Russkij Mir di realizzare dei seminari tematici, racchiusi dentro la formula “L’Altro Dostoevskij” che potessero fare conoscere aspetti meno noti dello scrittore o meno frequentemente affrontati dalla critica. L’idea è quella di agganciare i temi nodali del mondo dostoevskiano con riflessioni a più ampio raggio, coinvolgendo studiosi ed esperti di vari comparti disciplinari e scrittori che hanno ideato i loro romanzi ispirandosi alla figura del grande scrittore. Lo scopo è di alimentare un dibattito che ribadisca il legame proficuo tra letteratura e filosofia, restituendo, sempre viva e moderna, la parola dell’autore

Con Guido Carpi e Vincenzo Maimone. A cura di Antonina Nocera. Comitato scientifico: Antonio Coratti, Evgenya Litvin, Antonina Nocera, Claudia Olivieri

Le regioni del sottosuolo

Il tema del sottosuolo può essere declinato in senso lato o in senso stretto, se si considera, nel secondo caso, questa espressione di paternità dostoevskiana. Un’indagine del sottosuolo, come qualcosa che eccede la razionalità, o la precede nel vasto mondo del prerazionale, è sicuramente stata un’esigenza primaria dell’essere umano.
Nell’Apologia di Socrate, una delle accuse mossa per imbastire il processo è proprio quella che riguarda l’insegnamento del maestro: egli parla di «ciò che sta per aria e ciò che è sottoterra». A cosa alludeva in questo passo il discepolo Platone? Probabilmente a un territorio che i filosofi dell’antichità hanno dissodato ma non scoperchiato per giungere alle radici. Un mondo che comprende la contraddizione, l’irrazionale, quelle eccedenze che secondo Emil Cioran caratterizzano l’essenza dell’uomo del sottosuolo: «Un uomo che si distrugge non per una carenza ma per una sorta di pienezza pericolosa». Un territorio che è abitato dalle creature forse più estreme che uno scrittore abbia mai potuto creare: gli uomini del sottosuolo dostoevskiano sono le più vivide rappresentazioni del nichilismo della perversione e della malvagità. Una propensione che valse a Dostoevskij, da parte del critico Ivanov, l’etichetta di “talento crudele”, più di ogni altro predecessore russo o europeo.
Partiamo dal big bang dell’uomo moderno: Dostoevskij scrisse le Memorie dal sottosuolo nel 1864. È un romanzo in cui un uomo inizia a narrare di sé, delle sue idee, del perché è comparso e doveva comparire in seno alla nostra società. Tutto inizia con un richiamo alla malattia fisica, un male al fegato che è già preludio di un morbo esistenziale:

«Io sono un uomo malato… astioso. Sono un uomo malvagio. Credo di essere malato di fegato. Del resto, non ne so un accidenti della mia malattia e non so neppure esattamente cosa mi faccia male».

Dostoevskij ritrae in questo romanzo il prototipo dell’uomo irrazionale, cioè l’uomo che rinuncia alla ragione per affondare nelle profondità più abiette e deteriori dell’animo umano. Il personaggio è un impiegato della complessa e schiacciante burocrazia russa, un automa del sistema che spesso rimaneva frustrato e chiuso nel proprio ambiente, privo di qualsiasi speranza di mobilità. Si trattava di un sistema molto gerarchico, ogni uomo era inserito in una precisa casella, al di sopra della quale stava una casella superiore e così a salire fino ad arrivare ai massimi vertici; l’uomo che ha vissuto una vita dentro questo meccanismo, all’improvviso attua una sorta di ruminazione interiore che lo porta a snocciolare – nella prima parte del romanzo – una confessione interiore, una ìcherzalung (un racconto in prima persona) della sua crisi interiore: egli si presenta come essere abietto, immorale, astioso, malvagio. Si diverte a scapricciare su fantasie sadiche di rivalsa nei confronti dei colleghi e al contempo si abbassa a idee masochistiche di autoflagellazione. È un uomo malmostoso, livoroso, pieno di tic, di paranoie – oggi diremmo – che si perde nei meandri della sua stessa abiezione.
In una delle prime pagine, dice: «Quanto più avevo coscienza del bene o di tutto questo bello e sublime, tanto più a fondo m’immergevo nel mio brago e tanto ero bravissimo a immischiarmici fino alla testa». Seguono i veri e propri ricordi, relativi ad avvenimenti della sua vita. Dalla confessione in prima persona si passa, nella seconda parte, una narrazione a ritroso di memorie vissute. L’elucubrazione, esacerbata dai consueti eccessi verbali e dalle tipiche manifestazioni nervose dei personaggi iperrazionali di Dostoevskij, viene trasferita sul piano dell’azione in un movimento parossistico di perversioni volte a dimostrare che il male è anche materiale, vivo, agito.
Dopo una notte trascorsa a stordirsi tra la neve fradicia e sudicia di Pietroburgo, si trova a fianco di Liza, una giovane prostituta, e contro di lei inizia un gioco perverso in cui sadicamente si diverte a “rovesciarle l’anima”. Alterna analisi impietose del suo status di perduta a sogni di fantasticherie e rivalsa, in cui lui si erge a giudice, aguzzino, mentre le scava la fossa dell’umiliazione e della vergogna. Liza si attacca a questo sogno scorgendo una pietà, un’autenticità verbosa ma che nel suo cuore già ferito fa velocemente breccia.
Tuttavia, l’uomo del sottosuolo, disabituato alla ‘vita viva’, può soltanto realizzarsi nell’annientamento del sogno di rivalsa e di resurrezione di una poverina gettata al mondo per soffrire:

«Anche nelle mie fantasie del sottosuolo non mi figuravo l’amore se non come una lotta che cominciasse sempre dall’odio e finisse col totale assoggettamento morale e poi però non sapevo che farmene di un oggetto assoggettato. E cosa c’è di inverosimile allora se io ero già arrivato a una simile perversione morale, se m’ero già così disabituato alla vita viva che avevo pensato bene di deplorare e svergognare Liza».

A tagliare, come un rasoio, le due dimensioni – la confessione demoniaca e l’azione abietta – è la teoria del crollo dell’impianto razionale che è sintetizzata nella contro-formula matematica due per due fa cinque. Ecco, questo impianto razionale che Dostoevskij chiama il muro, l’uomo del sottosuolo lo vuole infrangere con tutta la sua potenza distruttiva ed eversiva. Chiaramente dentro questa formula è compresa la rappresentazione utopistica della società socialista. Secondo Dostoevskij, tale configurazione imbriglierebbe l’uomo all’interno di formule precostituite come quelle della felicità a prezzo della libertà, l’uniformità dell’ essere umano rinchiuso nel falansterio – tipica costruzione di stampo socialista, precursore del casermone sovietico.
Stipare l’uomo dentro questi edifici, siano essi fisici siano essi morali, è una violenza contro la sua libertà e contro il suo diritto di vivere secondo l’impulso vitale, irriducibile, la vera vita:

«Che gusto c’è di volere sulla base di una tabella aritmetica? Ma c’è di più: si trasformerebbe subito da uomo in uno spinotto d’organo o in qualcosa del genere. Perché l’uomo senza desideri, senza volontà, e senza possibilità di scelta cos’è se non appunto il tasto di una tastiera?».

Per l’uomo del sottosuolo le tenebre, l’irrazionale, il caos e la maledizione sono spazi da preservare e se si pretende di soffocarli con la razionalità, il castello crollerà e l’uomo diventerà pazzo per affermare sé stesso. Per questo motivo egli è il prototipo degli uomini in rivolta, di quei demonî della ragione che saranno anche Ivan Karamazov e Kirillov dei Demonî.

Le “ragioni” del sottosuolo

La genesi di questo romanzo ha un richiamo al vissuto dell’autore russo; in quel periodo Dostoevskij sta al capezzale della moglie moribonda e nonostante tutto è interamente assorbito dal compito di terminare questa pur lacerante scrittura. Legge il testo di Černyševskij Che fare? (Schto delath?), un pamphlet che veicolava le idee socialiste in Russia e che sarebbe diventato ben preso una sorta di Bibbia per i nuovi credenti del cambiamento politico e della rivoluzione. In questo preciso momento, Dostoevskij partorisce l’idea dell’uomo del sottosuolo, un uomo malato, vissuto per 40 anni come un topo nel suo sotterraneo, che ha covato rabbia frustrazione odio, e che ora è pronto a confessarsi di fronte a tutti: rifiuta la legge naturale, i dati delle scienze, la matematica.
Un uomo che è nato sotto il rigoglio del razionalismo occidentale ma che si scaglia ardentemente contro le costruzioni ottimistiche, utilitaristiche che questo mondo prospetta. Rifiuta il progetto socialista della costruzione di una società felice a prezzo della vita vera, rifiuta il falansterio, il palazzo di cristallo, pur di non abdicare all’essenza del sottosuolo: la contraddizione.
Un particolare tipo di contraddizione, condita dal veleno di desideri insoddisfatti: noia, inerzia, desiderio di umiliare ed essere umiliati. L’uomo del sottosuolo è insomma un coacervo di sentimenti irragionevoli, di visioni di vendetta miste a pentimenti, capace di pensarsi come un insetto, un topo, un essere abietto e subito dopo un illuminato al di sopra dei suoi simili che considera filistei e meschini.
Egli è differente dagli altri perché differito (in sé stesso) nei sentimenti, per eccedenza di coscienza: «Sentivo continuamente in me una quantità di elementi i più contrari a questo, li sentivo ribollire in me, questi elementi contrari».

«Allora signori, non è il caso, una buona volta, di prendere a calci tutta questa ragionevolezza, di mandarla in frantumi, unicamente con lo scopo di mandare al diavolo i logaritmi e di tornare a vivere secondo la nostra stupida volontà? […] Voi m’accusate signori, d’aver filosofeggiato: per forza, quarant’anni di sottosuolo! Permettetemi di fantasticare un po’. Vedete: la razionalità , signori, è una bella cosa, non si discute, ma la razionalità è solo la razionalità e soddisfa solo la facoltà ragionativa dell’uomo e il “volere” è l’espressione di tutta la vita, cioè di tutta la vita umana che comprende la ragione, ma anche tutti i veri capricci. E sebbene la nostra vita in questa manifestazione risulti il più delle volte una porcheria, è comunque vita e non solo l’estrazione di una radice quadrata. È del tutto naturale, per esempio, che io voglia vivere per soddisfare le mie capacità di vivere e non per soddisfare solo la mia capacità ragionativa, cioè qualcosa come un ventesimo della mia intera capacità di vivere […] io ribatto per l’ennesima volta che c’è un solo caso, solo uno in cui l’uomo può intenzionalmente, consapevolmente desiderare per sé qualcosa di dannoso, o di stupido, o addirittura di assolutamente insensato e proprio per avere il diritto di desiderare per sé anche la cosa più insensata e non essere vincolato dall’obbligo di desiderare solo ciò che è intelligente. […] Alcuni sostengono che si tratta del bene più prezioso per l’uomo: la libera scelta».

Qui ritorna chiaramente la grande lezione di Berdjajev, profondissimo e acuto analista del rapporto tra libertà e male in Dostoevskij: il male è inesplicabile senza la libertà. Questa idea pone al centro un’antinomia: senza la libertà, il responsabile del male sarebbe Dio. Ma la libertà è irrazionale e perciò può creare sia il bene che il male; gli uomini del sottosuolo sembrano lottare strenuamente contro questo peso, per scrollarselo di dosso; in prima istanza attraverso la negazione di Dio: impossibile non citare le due celebri formulazioni dell’ateismo dostoevskiano, quella di Ivan Karamazov, di cui però egli pronuncia solo la seconda parte, lasciando completare la prima parte a noi ascoltatori, a noi lettori. lvan la pronuncia nel suo dialogo con il diavolo: «(se dio non c’è)… tutto è permesso», riproposto nell’altra celebre formula, questa volta pronunciata da Kirillov nel romanzo I demonî: «O io o Dio».
Ancora, nella Leggenda del grande Inquisitore, straordinaria vetta di letteratura contenuta nel romanzo I fratelli Karamazov, è lo stesso popolo, incapace della libertà originaria, a mandare al rogo Cristo, uccidendolo per la seconda volta.
In seconda istanza aggiunge Berdjajev: «La via della libertà trapassa in arbitrio, arbitrio porta al male, il male al delitto».
L’omicidio è figlio della libertà e Dostoevskij ne è stato un potentissimo fisiologo descrivendone i prodromi, le intenzioni, le macchinazioni interiori, quelle esteriori, le dinamiche, le conseguenze. Ma oltre alla psicologia del delitto così sminuzzata nel particolare, Dostoevskij ha analizzato le implicazioni metafisiche di questa azione, ravvisando in essa l’oltrepassamento di un limite morale che degenera in omicidio ontologico, distruzione di un’unità inalienabile che è la persona, l’altro.

«E se un mistero c’è, allora anche noi abbiamo il diritto di predicare il mistero e d’insegnare agli uomini che la non libera decisione dei loro cuori è ciò che importa, e non l’amore, ma il mistero, al quale essi hanno l’obbligo di assoggettarsi ciecamente, e addirittura indipendentemente dalla loro coscienza. E appunto così abbiamo fatto noi. Noi abbiamo emendato le Tue gesta abbiamo dato loro per fondamento il miracolo il mistero e l’autorità. E gli uomini si sono rallegrati che di nuovo li conducessero come un gregge e che dai loro cuori fosse stato tolto finalmente, un dono tanto tremendo, che aveva arrecato loro tanto danno. […] a che dunque sei venuto qui a darci impaccio? E che vuoi tu, che in silenzio e intensamente sei venuto ora qui a darci impaccio? Ascoltalo dunque: noi non siamo con te, siamo con lui: ecco il nostro segreto».

Un passaggio che indica inequivocabilmente la sua appartenenza alle regioni del sottosuolo: il brano infatti riprende, quasi identiche, le parole dell’uomo del sottosuolo quando questi rifiuta il palazzo di cristallo. Qui, il grande inquisitore se ne fa portavoce ma per ribadire la tesi contraria, che all’uomo basta la felicità terrena, materiale, tentazione che Cristo rifiutò nel deserto: «Perché tu rifiutasti questo terzo dono? Tu avresti realizzato in pieno tutto ciò che l’uomo cerca su questa terra e cioè: dinanzi a chi genuflettersi, a chi affidare la propria coscienza, e in che modo, infine riunirsi in un indiscusso, comune e concorde formicaio, giacché l’esigenza di un’ unione universale è il terzo e ultimo assillo degli uomini».

Forme del Male

Il male del sottosuolo, insomma si staglia su due piani: quello meramente di idea (gli uomini del sottosuolo agiscono nel male partendo come Raskol’nikov da un’idea da un rovello filosofico che loro percepiscono come intera essenza della loro vita), e poi quello di azione, del male agito e performato.
Luigi Pareyson in Filosofia romanzo ed esperienza religiosa, fa un’ampia disamina dei casi di coscienza e dei personaggi del male che animano le pagine dostoevskiane suddividendole in categorie tipologiche: la ribellione, sottoforma di titanismo e amoralismo; la perversione, sottoforma di profanazione e crudeltà, l’abiezione e distruzione di sé.
Per quanto riguarda la prima categoria si potrebbe eleggere a rappresentante per eccellenza Raskol’nikov; il male come trasgressione della norma, di una hybris, questo è il caso specifico del personaggio di Delitto e castigo. Il suo ribellismo, che è incarnato nello stesso nome Raskol’ – che in russo significa scisma – si alimenta proprio della scissione, dello sdoppiamento.
Un chiaro segno del suo sdoppiamento viene trasposto in Dostoevskij nella dimensione onirica: un bellissimo passo in cui Raskol’nikov sogna una cavallina che viene uccisa a frustate e in cui chiaramente sublima il suo desiderio interno di pentimento che, va ricordato, non avverrà mai sul piano razionale.
In questa medesima categoria rientra il teorico della ribellione Ivan Karamazov che si inventa un vero e proprio trattato per spiegare al fratello Alësa le ragioni del suo ateismo: narra una serie di episodi in cui i bambini vengono sottoposti a violenze inaudite. Sono scene che fanno da sottofondo al dilemma di Ivan: la sofferenza anche di un solo innocente, le lacrime miti inoffensive di una bambina che si batte il petto con il suo minuscolo pugno, invocando il buon Dio perché l’aiuti, non valgono, secondo il fratello ateo, il prezzo dell’armonia universale e pertanto egli restituisce il biglietto, rifiutando di aderire al progetto divino.
Nessun personaggio incarna meglio la perversione come Nikolaj Stavroghin, il principe che inaugura le pagine più intense e crude del romanzo I demonî. Questo romanzo è imperniato sui giovani della generazione degli anni ‘60, i nichilisti e i nečaeviani, i rivoluzionari che assorbirono le idee socialiste e su quelle fondarono il progetto di un uomo nuovo, libero dai legacci della fede e del regime zarista. Stavroghin può essere considerato la mente, il primus inter pares di questa combriccola di facinorosi.
Pareyson considera Stavroghin l’uomo della dissoluzione e della disgregazione interiore, in cui ancora una volta lo sdoppiamento degenera in distruzione e culmina con la distruzione di sé e di tutti quelli che vengono a contatto con lui. Così Dostoevskij lo descrive nei taccuini: «Carattere cupo, appassionato, demoniaco, disordinato, senza misura. Si pone il problema: essere o non essere? Vivere o distruggersi».
Chiaramente Stavroghin sceglie la seconda: l’azione che incarna la sua dissoluzione nichilista è lo stupro di una bambina. Vale la pena di aprire una parentesi: il bambino innocente e inerme è al centro della metafisica dostoevskiana e diventa la pietra di volta dell’impianto morale. Il bambi-no sofferente, in particolare, quello incolpevole la cui uccisione non può far parte dell’ordinamento morale di un mondo che Ivan rifiuta e che non vuole accettare. I bambini, dice Dostoevskij, sono l’immagine di Cristo, violentare e ucciderne uno significa allora profanare alla radice l’immagine luminosa di libertà che è lo stesso fondamento della vita umana.
Il risultato di questo atto, che con una serie di rimandi iconografici e simbolici Dostoevskij accomuna alla profanazione delle icone, è l’autodistruzione. La confessione di Stavroghin alla cella di Tichon ne I demonî è un’autoaccusa impietosa, una condanna a morte che il principe delle tenebre firma con la sua coscienza. Le parole che scandisce sono l’epitaffio della sua esistenza, morto dentro prima che la morte effettiva faccia il resto.
Dopo, è solo annientamento, Il Principe s’impicca, sigillando con un suicidio che nulla ha a che fare con quello di Kirillov scaturito dalle aporie della ragione di fronte alla fede. Stavroghin, oltre Sisifo, è l’uomo dell’oltre soglia, il primo Übermensch. Altrimenti, il primo testimone della morte di dio.

Riferimenti bibliografici
Dostoevskij, F.M. Delitto e castigo, Einaudi, Torino 1993
Dostoevskij, F.M. I demonî, Einaudi, Torino 1994
Dostoevskij, F.M. Memorie dal sottosuolo, Rizzoli, Milano 2001
Berdjajev, N., La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 1981
Pareyson, L., Dostoevskij: Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993
Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1992
Vjačeslav, I., Dostoevskij. Tragedia, mito mistica, Il Mulino, Bologna 1994

Da Marcel Duchamp alla Playboy Art Gallery. Viaggio nelle “Avanguardie espropriate” di Lamberto Pignotti

di Gaia Bobò

Carteggio Lukàcs – Morante

di Antonino Infranca

L’interesse di György Lukács è ben anteriore al periodo in cui i due si scambiarono le lettere che qui presentiamo. In una lettera dell’8 novembre 1957, indirizzata a Cesare Cases, Lukács chiedeva che gli fossero inviati i libri della Morante, tradotti in lingua a lui accessibile. E’ noto, infatti, che Lukács non parlasse affatto l’italiano e che lo leggesse, per altro, con grande difficoltà – come confessa in una delle lettere spedite alla Morante. Fu Cesare Cases che gli diede per la prima volta notizia delle opere di Elsa Morante; e Lukács lo invitò anche a scrivere saggi su di lei – lettera del 26 febbraio 1958. Il nome della Morante ricorre spesso nella corrispondenza tra Cases e Lukács. In un’altra lettera del 12 gennaio 1958, Cases riporta a Lukács l’emozione che la Morante provò, apprendendo dall’Unità, che Lukács, durante il periodo di deportazione in Romania nel 1956-57 avrebbe trovato persino il tempo di leggere Menzogna e sortilegio.

L’emozione, che la Morante provò nell’apprendere che Lukács si era dedicato alla lettura del suo libro anche in quelle difficili condizioni di vita, è la stessa che trapela dalla lettera che indirizzò al filosofo ungherese dieci anni dopo. Il carteggio tra i due è carico di pathos, di forte emotività, confessata da Lukács con pudore; sentimenti che testimoniano la profonda umanità dei due protagonisti. Da un lato il vecchio filosofo, che per rispondere alla sua più giovane interlocutrice abbandona temporaneamente il lavoro di stesura dell’Ontologia, e dall’altro la più giovane scrittrice che si guarda attorno per cercare nella “torre di Babele” una lingua, affinché possa manifestare al filosofo tutta la sua devozione, entrambi colgono l’occasione per confrontarsi sui problemi del loro tempo. Entrambi avvertono il bisogno di prendere posizione a favore di coloro che lottano per ideali superiori o che subiscono, come nel caso di Angela Davis, le conseguenze dell’“essere contro”. È emblematico il coinvolgimento emotivo del vecchio Lukács nella vicenda Davis tanto simile a quella da lui stesso vissuta a Vienna nel 1919-20, quando a salvarlo dall’estradizione nell’Ungheria fascista di Horthy, fu una protesta di intellettuali tra i quali era anche Thomas Mann. Forse anche per questa ragione Lukács avverte l’esigenza di prendere posizione a favore della Davis e invita Elsa Morante, una delle pochissime voci della letteratura italiana contemporanea, a partecipare alla sua iniziativa. A tre anni di distanza dalla prima corrispondenza il filosofo marxista e la scrittrice che egli ha elevato ad esempio ormai raro di realismo critico trovano il modo di dibattere e di riflettere sui problemi del tempo. L’alta considerazione in cui Lukács teneva Elsa Morante fu espressa il 27 ottobre 1967, su Rinascita, in un articolo di Lukács, “L’Ottobre e la letteratura”. Quel “grazie” di Elsa Morante, nel telegramma di adesione alla petizione in favore della Davis, esprime la soddisfazione di essere partecipe non solo a quell’azione, ma ad un dibattito molto più vasto, al centro del quale stanno i problemi essenziali dell’uomo. Due personaggi, per altri aspetti tanto diversi, comunicano attraverso i problemi di fondo, rendendo retorica la domanda della Morante: «Perché è stata costruita la torre di Babele?».

Questo carteggio non può, ovviamente, esaurire tutto ciò
che accomunava Lukács ed Elsa Morante; probabilmente non sapremo mai cosa si dissero i due nelle loro conversazioni personali, tanto più ricche di valore umano che una semplice lettera. Possiamo, però, immaginare quale fosse la “lingua” nella quale si parlarono.    

Antonino Infranca

Lettera di Lukács ad Elsa Morante, lingua originale: tedesco

6/2/1968

Cara signora Morante,

il suo pacchetto e soprattutto la Sua dedica mi hanno causato una profonda gioia. È per me, che da lungo tempo scrivo critiche, necessario l’imperativo di fronte all’“oggetto”: «se io Ti amo, a Te cosa importa». Ma se si è critici, si è anche uomini e si avverte una gioia sincera per ciò se 1’“oggetto critico” – anche un essere umano, perfino un essere umano altamente onorato – reagisce in modo tale che ci si sente compresi e confermati. Questa era per me un’esperienza importantissima, e non è male, se La ringrazio compiaciuto di ciò.

Per ciò che riguarda il poema [probabilmente Alibi, N. d. C.], sempre più col passare del tempo ho “dimenticato” il mio molto problematico italiano, così che mi è impossibile leggerlo nell’originale. L’ho dato per questo motivo ad un giovane amico, che si ripromette di provvedere ad una traduzione ungherese. Ha qualcosa in contrario, che nel caso la traduzione riesca poeticamente, che essa appaia in una rivista locale?

Ancora una volta grazie di cuore e nella effettivamente sincera, pura e profonda venerazione

Suo

Georg Lukács

Lettera di Elsa Morante a Lukács, lingua originale: inglese

18 aprile I968

Mio caro amico Lukács (Spero che mi permettiate di chiamarla in questo modo)

ho ricevuto la Vostra lettera, sto cercando, in questa Torre di Babele della Terra, una lingua per scrivere una lettera a Voi! Il fatto è che la sola lingua nella quale posso scrivere senza errori è l’italiano. Ma sapendo che Voi non sapete leggere l’italiano, devo scrivervi nel mio cattivo inglese, sperando che possiate leggere in queste parole, almeno, il mio affetto!

Mi chiedete se sono d’accordo a pubblicare quel poema (che Vi ho spedito) in ungherese. Sarei felice se fosse accettato nel Vostro paese. Spero sempre di trovare qualche modo di venire colà, e visitarvi una volta. Non solo perché Vi ammiro, come tutti Vi ammirano, ma anche perché, per me, Voi siete uno dei pochi amici che ho in questo mondo. E questa amicizia è la cosa di cui sono più fiera – in tutta la mia vita – soltanto la Vostra amicizia è più di 1.000.000 di amici per me!

Sto adesso pubblicando un libro di storie-poemi. Il titolo è II mondo salvato dai ragazzini. Spero che Vi piaccia se non tutto, almeno in parte. Vorrei avere il dono delle lingue [in italiano nel testo N. d. C.] per tradurre almeno il meglio di esso nella Vostra lingua. Penso di trovare qualcuno per tradurre il meglio di esso, almeno, in tedesco e di spedirvi la traduzione. Perché fu costruita la Torre di Babele?

Grazie caro György Lukács, per ogni parola che Voi dite sulle mie parole e per averle letta, alcune volte sono tentata di non scrivere più libri e non lavorare più, perché mi sento molto stanca. Ma penso: Lukács apprezza la mia opera e questo pensiero mi spinge di nuovo al lavoro.

Vorrei spiegarVi molte cose e chiederVene molte! Ma il mio inglese non è abbastanza buono per ciò. Vi chiedo di ricordarmi qualche volta e spero di incontrarvi nel Vostro paese non appena sia possibile per me di venirvi.

Vostra Elsa Morante.

Con tutti i miei auguri a Voi e alla Vostra opera.

Lettera di Lukács ad Elsa Morante: lingua originale: tedesco

23/7/1968

Cara amica,

è per me addirittura doloroso vedere che non abbia risposto per molto tempo alla Sua lettera, sebbene compaia raramente nella mia vita una lettera che mi abbia procurato una tale gioia, come la Sua; una lettera che mi onora tanto – perdoni l’espressione patetica – come fa la Sua.

Dovevo tuttavia condurre a termine, in un periodo di caldo terribilmente deprimente, un lavoro, e le mie forze non erano più sufficienti per scrivere una lettera.

Anche adesso mi è difficile rispondere adeguatamente alla Sua lettera. Ma è per me una grande gioia che Lei mi annunci una Sua eventuale visita a Budapest. Poiché un incontro personale, una conversazione personale può essere sufficiente cento volte più che la migliore lettera – e sono un cattivo scrittore di lettere. Potrei soltanto dire che molto verosimilmente sarò a Budapest nuovamente dopo il 15 settembre. Certamente per tutto l’intero autunno e l’intero inverno.

Cosa posso dirle per lettera? Mi pare che l’unica cosa è che noi – sebbene ci siamo incontrati soltanto una sola volta – possediamo un fondamento comune, molto solido, per una seria amicizia. La più grande preoccupazione della mia vita è che tutta l’attuale civilizzazione lavora alla distruzione di ciò che è effettivamente umano per l’uomo. Nella lotta contro ciò si hanno pochi alleati. Lei è una di quelli. Nei suoi libri si avverte sempre che la sostanza umana è in ultima analisi ancora qualcosa di indistruttibile. In ciò oggi non si vuole credere e soprattutto non si vogliono trarre le conseguenze di ciò in nessun campo. Quanto grande sia questo problema si si vede dal fatto che si estende dalle questioni piùgenerali, più grandi, fino alle più intime della vita privata – su di ciò ci intratterremo sperabilmente presto personalmente.

Con calorosi saluti

Suo

Georg Lukács

Lettera di Lukács ad Elsa Morante, lingua originale: tedesco

Budapest, 30/11/l970

Cara signora Morante,

A questa lettera aggiungo il testo di un appello, che ho spedito a numerosi intellettuali, in difesa di Angela Davis, minacciata di condanna a morte. Credo che sia superfluo insistere sul significato per un uomo di sinistra di una protesta che costringerebbe alla ritirata la demagogia reazionaria, nella preparazione del processo e nel giudizio che ne è previsto. Le chiedo, perciò, di unire il Suo nome e la Sua attenzione all’azione, e di invitare anche altri intellettuali di un certo rilievo del Suo paeseda Lei conosciuti – ad unirsi. Ho composto il testo così in generale che questa firma non significa un’adesione ad un programma politico determinato. Ritengo, tuttavia, che naturalmente ogni Sua proposta può essere utile per un cambiamento e, allo stesso tempo, Lei può mantenere il diritto alla protesta individuale, sebbene vorrei osservare che una comune azione ha un effetto maggiore. La prego di spedirmi un telegramma nel caso che Lei volesse partecipare all’azione e mi faccia anche sapere a quali nomi ha comunicato la sua decisione di partecipare. La prego, inoltre, di pubblicare lo scritto di protesta e agisca a questo scopo sulla stampa del Suo paese, sempreché sia possibile. Manderò poi agli organi di stampa i nomi di tutti coloro che hanno preso parte all’azione.

Con cordiali saluti.

Suo

Georg Lukács.

Lettera di Lukács ad Elsa Morante, lingua originale: tedesco

30/12/1970

Cara signora Morante,

Molte grazie per la veloce risposta e la firma. Alla fine di questa settimana spedirò il testo dell’appello e la lista dei firmatari e dei patrocinatori locali alla grande Weltblätter. Aggiungo adesso la lista, e la informerò su ulteriori sviluppi.

Con cordiali saluti.

Suo

Georg Lukács

La psicologia dell’attore e l’io attoriale. Sdoppiamento o estraniazione?*

di Giulia Quinzi

#Rivoluzioni – Poesia Visiva

Il 2018 è stato l’anno di numerose e valide celebrazioni del Sessantotto e della “rivoluzione” declinata a vario titolo anche nel territorio delle arti visive. All’interno del ricco bouquet di ricerche riconducibili a quei decenni di fervente produzione artistica, la Poesia Visiva occupa un posto di assoluto interesse, alimentata com’è dal clima di contestazione di quegli anni eppure allo stesso tempo prosecuzione dello spirito avanguardistico di inizio Novecento. Lamberto Pignotti (Firenze, 1926), fondatore del “Gruppo 70”, nel fatidico ’68 si stabiliva a Roma e conduceva per una via del tutto originale la sua battaglia teorica e pratica per l’immaginazione al potere. La contaminazione fra i codici linguistici, l’esplorazione della multimedialità e delle nuove tecnologie, la spregiudicata decostruzione del sistema dei generi e, non da ultimo, la pratica inesorabile dell’ironia sono da sempre le armi della sua efficace guerriglia, che non disdegna la frequentazione del non-sense e del sarcasmo demolitore. La sua ricerca continua ancor oggi con la stessa leggerezza e con la medesima energia, interpretando in maniera coerente quell’idea di “avanguardia” che significa camminare senza sosta nel sentiero della sperimentazione linguistica, raggiungere una formula e andare subito alla ricerca di un’altra, giocare la partita del sistema artistico senza subire mai scacco matto.

Donne, cittadinanza e creazione in Tunisia

Partendo dalla costatazione che la laicità implica una totale libertà di coscienza e la protezione del cittadino contro una qualsivoglia autorità religiosa o potere politico che avrebbe il diritto di controllo sulla sua credenza o sulle sue scelte spirituali, si può affermare che, in base al diritto, la costituzione tunisina garantisce una vita laica.

Ovviamente, nella pratica quotidiana, per una parte dell’opinione pubblica, è ancora difficile accettare che la religione rientri nella sfera privata.

È per questo che spetta alla società civile, oggi più che un tempo, la responsabilità di intervenire e di lottare a diversi livelli, sia contro le mancanze, sia sulla separazione tra politica e religione, al fine di far evolvere le mentalità verso la civiltà e verso le libertà fondamentali che le sono inerenti.

In questo, la lotta delle cittadine tunisine è esemplare all’interno del cosiddetto mondo arabo-musulmano.

È, in effetti, attraverso una lotta sostenuta, cautamente o in modo più diretto, che da alcuni decenni la donna tunisina aumenta l’efficacia della legge con modi di essere e di fare che la rendono cittadina a tutti gli effetti, diminuendo poco a poco le abitudini relative alla rigorosa rappresentazione islamica della donna.

Anche se, dal 1957, per volontà di Bourguiba, la donna ha beneficiato di diritti senza eguali all’interno del mondo arabo- musulmano, con l’abolizione del ripudio e della poligamia, con il diritto al divorzio giudiziario, con il diritto di voto e, più tardi, nel 1973, con la liberalizzazione totale dell’aborto, le donne hanno dovuto difendere e preservare costantemente questi diritti.

Ancora oggi, in linea con la nuova costituzione del Gennaio 2014, l’uguaglianza uomo/donna è in via di evoluzione con l’annullamento della circolare (del 1973) che impediva il matrimonio con un non-musulmano e con un dibattito, ancora in corso, sull’uguaglianza dei diritti concernenti le questioni ereditarie.

Tutte queste conquiste giuridiche vanno di pari passo con le lotte delle associazioni di donne democratiche, determinate ad essere riconosciute come cittadine a tutti gli effetti.

Ma uno dei fattori determinanti per l’emancipazione giuridica e sociale della donna è sicuramente la democratizzazione dell’insegnamento, avvenuta molto presto, subito dopo l’indipendenza. Il diritto al sapere e alla formazione professionale ha promosso forme di autonomia nel destino di generazioni di donne (2). L’accesso della cittadinanza nella scuola pubblica ha dotato la donna tunisina di una forza di partecipazione alla causa pubblica e, ancora di più, di una capacità di creazione nel campo delle arti. Il fatto di produrre delle opere che rendono sensibili delle realtà ma anche un possibile futuro apre un campo d’azione a carattere estetico che può far cambiare fortemente le mentalità per ciò che riguarda le solite rappresentazioni uomo/donna. Oggi, in Tunisia, le creazioni nell’arte plastica e nel cinema sono in gran parte opera di donne.

Soprattutto a partire dagli anni ’80, la frequentazione dell’Accademia delle Belle Arti di Tunisi ha conosciuto un numero considerevole di studentesse, in un momento di espansione delle gallerie nella capitale e di dibattito sul problema della “creazione artistica”. Alcune di queste studentesse hanno potuto continuare i loro studi in Francia e in Italia, arricchendo la loro esperienza artistica ed esponendo in gruppo o individualmente.

Il loro carattere forte e la loro passione creatrice ha permesso loro di trasgredire agli ostacoli socio-culturali che possono sempre rappresentare, per una donna, occasione di scoraggiamento.

Loro si sono imposte sulla scena pubblica lentamente ma in maniera particolarmente brillante in particolare per l’innovazione del loro metodo.

Le loro opere sono modi di fare e di pensare aperti alla diversità del sensibile, agli eventi, all’ambiente, nonché a ogni fenomeno socioculturale, specialmente riguardante le rappresentazioni della donna. Loro apprendono, attraverso un lavoro che evoca l’immaginario, il futuro della loro identità, per non parlare della loro “unicità”.

L’unicità è da intendere sia fenomenologicamente, sia socialmente.  La relazione con il mondo è quella che permette di mettere in risalto mutazioni, violenze, contraddizioni o, semplicemente, situazioni singolari che le artiste trasformano in arte al fine di rendere la ricezione più intensa.

Creare ricorda “resistere”, per citare l’espressione di Gilles Deleuze e Felix Guattari. Si tratta di “osare un futuro che è sempre un’avventura”; in questo l’artista “è colui che tenta una lotta incerta” perché aperto a tutte le possibilità, con la capacità di passare da una tecnica all’altra, secondo il processo di questa o quella opera.

Questo accordo con se stesso, con i suoi desideri, con il suo bisogno di produrre o, più semplicemente, di esprimersi, attraverso un metodo adeguato, è una caratteristica che accomuna, oggi, molti artisti tunisini, specialmente quelli della nuova generazione.

I giovani artisti hanno trovato nei mezzi e nei modi di fare contemporanei un mezzo di creazione che risponde meglio ai loro desideri e che permette più libertà per poter rendere sensibile il loro vissuto.

Oggi, l’avvento della pratica delle installazioni e dei video d’arte è favorito da questa generazione di artiste che ha adottato un approccio plastico al quale il pubblico colto inizia ad aderire, malgrado la marginalità dei luoghi di esposizione.

Numerose giovani artiste contemporanee, avviate alle nuove tecnologie e alle nuove modalità di comunicazione, così come alla circolazione e al mix di immagini con la loro diversa rappresentazione, ampliano il loro campo di creazione. Esse rivendicano, allo stesso tempo, la loro singolarità artistica e una certa posizione “cittadina”; si confrontano con un ambiente più ampio, internazionale, che supera la ristrettezza delle identità culturali. In questo, l’immaginario costituisce un motore di emancipazione.

Le opere di queste artiste mostrano fino a che punto la loro creazione si allontani da quella dei loro predecessori, i quali avevano come “scrupolo” un certo estetismo pittorico tenendo ferma una dimensione, più o meno dichiarata, di appartenenza al patrimonio, in senso lato. Al contrario, oggi, è la dimensione, si potrebbe dire, esistenziale che ha la precedenza. È anche la relazione sensoriale in campo socio-politico che viene messa in discussione.

Le artiste cercano i dettagli impercettibili o sconvolgenti che sono al centro delle trasformazioni odierne del nostro mondo. È per loro un modo per affrontare il problema degli individui nella loro singolarità, di fronte alle tradizioni ma anche alla comparsa di diverse minacce contro le libertà, che provengono dall’interno o dall’esterno.

Le pratiche di arte contemporanea delle donne tunisine comportano una forza di dis-identificazione e soggettivazione, che sprigiona rappresentazioni alienanti. Lo spazio creativo riguarda tutti i fenomeni che influenzano il futuro degli individui in una società in cui la vigilanza è da porre prima di possibili ritorni all’egemonia religiosa.

La realtà storica è, naturalmente, nei momenti critici, ostacolata da fronti ideologici a carattere retrogrado per fare piazza pulita dei vantaggi della democrazia, al fine di sostituirvi questa o quella utopia legata al passato. L’arte rimane, in questo senso, un ricettacolo di contraddizioni vissute dalle cittadine che affrontano, nel loro desiderio di emancipazione, le ostinate rappresentazioni della condizione di disuguaglianza tra uomini e donne. È per questo motivo che si può dire che le creazioni artistiche sono anche un focolare sovversivo.

La pratica delle arti visive è una forma di resistenza contro l’uniformazione delle rappresentazioni della donna musulmana. Attraverso le virtù dell’immagine, l’arte diventa un mezzo per sottrarsi alle assuefazioni percettive.

Funziona come un processo di liberazione, per la sua dimensione che è al tempo stesso imprevedibile e instauratrice di un nuovo significato. La creazione che introduce non è solo dell’ordine dell’immaginario, ma un’iscrizione della diversità nell’esperienza dello “stesso”. Disfare una certa immagine tradizionale è cercare di liberarsi dai codici e dalle fossilizzazioni che incombono su ogni designazione e ogni identificazione.

Allo stesso modo, il cinema femminile tunisino è in forte espansione ed è uno specchio della società con le sue contraddizioni, evoluzioni e chiusure(4). Contro l’immagine televisiva della donna, trasmessa da molti canali satellitari nel mondo arabo, la sfida per i registi tunisini consiste nel liberare lo sguardo dalle rappresentazioni che sono diventate convenzionali e si sostituiscono in modo quasi formale alla realtà locale. Ciò rende possibile affrontare la dimensione esistenziale delle situazioni socio-culturali nella loro particolarità. È in questo senso che le artiste giocano la strategia della finzione della realtà. I loro dispositivi immaginari rendono l’immagine del reale diversa dalle rappresentazioni sensate portatrici di verità perché sono mimetiche o indicizzate; così forgiano le nostre rappresentazioni di eventi in prossimità fenomenologica.

Diversi film sollecitano il nostro sguardo e la nostra sensibilità in modo differente,

mostrando le immagini di donne che confrontano i divieti dettati dall’abitudine di una cultura in cui il religioso ritma il sociale. Essi offrono l’immagine di un nuovo tipo di vita possibile, nel rispetto delle libertà altrui.

È un cinema che osa, con molta libertà di tono, portando sullo schermo i temi-tabù che hanno fatto notizia, come lo stupro di una studentessa da parte di agenti di polizia nel recente film (2017) di Kaouther Ben Hania: “La bella e il branco”. Si tratta di produrre, diversamente, con un’attenzione concentrata sulle singolarità delle situazioni, immagini del presente che rispettino lo spazio / tempo di coloro che subiscono, nella loro vita quotidiana, gli effetti di violenze degradanti.

Questo film solleva la questione dell’impunità di fronte alla violenza sulle donne.

Si riferisce, in forma di fiction, ad un vero evento che ha avuto luogo nel 2016 e che ha provocato le proteste delle ONG al punto di smuovere la giustizia per condannare gli autori dello stupro. All’uscita del film, le organizzazioni femministe tunisine “Chouf” ed “Echi” ne hanno organizzato un tour di 100 proiezioni per un pubblico femminile in aree marginali o nelle case delle studentesse per rompere il silenzio e sensibilizzare l’opinione pubblica di Stato. Le discussioni si sono svolte dopo le proiezioni e una guida informativa sull’uso della giustizia è stata distribuita ad ogni riunione (3).

Dal gennaio 2011, ci sono stati diversi documentari e cortometraggi riguardanti la situazione delle donne tunisine e dei loro diritti. È soprattutto il caso di giovani registe come Chiraz Bouzidi il cui documentario “Ennajeh”, dal nome di un villaggio al centro della Tunisia (2013, 23 min), testimonia la fatica quotidiana di donne che raccolgono nelle discariche ciò che si può riciclare e vendere, al fine di provvedere ai bisogni delle loro famiglie. Allo stesso modo, il documentario di Sonia Chamkhi (2012, 64 min) porta sullo schermo la mobilitazione cittadina delle donne nelle prime elezioni libere dopo la rivoluzione del 2011.

Più incisivo e diretto è il film di Nadia El Fani “Laicité Inch’Allah” iniziato nell’agosto del 2010 prima della rivoluzione e che mostra le pratiche apertamente irreligiose delle donne libere che sfidano i tabù nel mese del Ramadan, che trasgrediscono i tabù riguardanti il comportamento detto “immorale”. Le riprese sono continuate dopo il gennaio 2011 per sollevare chiaramente la questione di una Costituzione laica che non avrebbe lasciato alcun dubbio sulla libertà di coscienza e sull’uguaglianza di genere. Questo film è stato censurato.

Anche i lungometraggi, opera di giovani registi non mancano di difendere le libertà tracciando il quotidiano delle giovani donne anche nel loro ambiente familiare, come nel caso del primo film di Leila Bouzid (2016). “A peine j’ouvre les yeux” che mostra la ribellione di una giovane ragazza contro tradizioni tenaci anche nel caso di un ambiente di piccola borghesia.

Questo film è in linea con i film che affrontano il problema del rapporto con il corpo come quello della regista Raja Amari, la storia di “Satin rouge” che ha messo in scena una vedova alla scoperta del suo corpo desideroso, attraverso l’uso della danza. Allo stesso modo, lo fa un film più vecchio di Moufida Tlatli “Le silence des palais” (1990), in cui si parla della segregazione della massaia secondo le consuetudini e le frustrazioni del corpo, nell’epoca Beycale. Il numero di donne registe che prendono iniziative per la produzione dei loro film non cessa di crescere e allo stesso tempo attira un vasto pubblico. Questo cinema femminile contribuisce certamente a rendere visibile una realtà celata da immagini e discorsi che portano un’ideologia conservatrice che non ha più legami con la realtà. Partecipa a una forma di democratizzazione delle mentalità.

Queste produzioni artistiche delle donne tunisine valorizzano la funzione vitale delle differenze e delle trasgressioni in campo culturale. Trasgredendo l’esperienza ordinaria, rendono possibile il liberarsi dalle prove e l’aprirsi a una visione critica delle rappresentazioni e delle modalità di identificazione concordate culturalmente. Questo dinamismo del campo artistico è quindi un processo di invenzione di una cittadinanza sociale che si basa sulla diversità inerente al fenomeno stesso della creazione e alla sua ricezione. Infatti, lo spazio di produzione culturale è, allo stesso tempo, uno spazio di convivenza che presuppone a priori la condivisione e il riconoscimento dell’autonomia di ciascuno; è proprio per questo che in Tunisia, attualmente, gli attori culturali e gli artisti sono consapevoli di partecipare al processo di democratizzazione della vita sociale come potere che si oppone all’autoritarismo che allarma ogni stato. Di fronte all’astrazione dei valori istituzionali di libertà e giustizia, rivendicano un’effettiva emancipazione in cui venga riconosciuta l’autenticità di ogni creatore nella sua capacità di inventiva, comunicazione e creazione di nuovi valori. In questo senso, la postura critica propria dell’arte diventa una sorta di auto-fondamento dell’atto creativo. La censura che è stata esercitata nel vecchio regime e che ancora minaccia, al momento attuale, opere giudicate sovversive dalle forze reattive, diventa così più insostenibile; questo dà luogo a un dibattito in cui la società civile è coinvolta nelle questioni della libertà di espressione e della libertà di coscienza e prende atto dell’importanza della cultura nel processo democratico. La natura esemplare dell’arte funziona da cavallo di battaglia per le rivendicazioni all’autonomia del singolo individuo cittadino.

Note:

(1) Le cifre parlano da sole: ci sono 75 deputati (donne) su un totale di 217, con il 60% delle donne in ambito medico, il 41%  magistrati, il 43% avvocati e il 60% laureate.

(2) Già, la seconda metà del ventesimo secolo è stata quella dei cambiamenti sociali dovuti all’avvento del pensiero riformista, specialmente riguardo la didattica, in generale (e quelli dal 1938) in cui abbiamo introdotto un programma moderno aperto su scienze e lingue (francese, italiano, turco) con, inizialmente, la creazione del Politecnico di Bardo, poi nel 1875 con l’istituzione del Liceo Sadiki promulgato da Sadok Bey nel 1875 (questo insegnamento arriva a distaccarsi dall’educazione religiosa tradizionale). Nel 1883 scuole francesi e italiane, maltesi e israelite, per ragazze, sono venute alla luce, ma il numero di ragazze musulmane era inferiore allo 0,2%.

La sensibilizzazione di un’educazione moderna per le ragazze avvenne principalmente attraverso gli scritti di riformisti pubblicati nella rivista El Manar nel 1898: Mohamed Abdou (1849/1905), Rachid Ridha (1865/1935), e in particolare l’egiziano Rifat Rafée At Tahtaoui (1801/1873) che difese l’idea di adattare la religione musulmana al progresso che l’Europa conobbe in materia di educazione delle donne (come nel suo libro takhlis al ibriz fi talkhis baris; l’apercu abrege de Paris); in seguito Kheiereddine Bacha influenzata da Tahtaoui reclamò ufficialmente in Akwam al Massalek l’educazione moderna per le ragazze.

Già prima dell’indipendenza, sono stati fatti tentativi per aprire spazi di istruzione e formazione per le ragazze, a cui all’educazione delle responsabilità domestiche doveva aggiungersi un insegnamento più vasto. Il 1 ° maggio 1900, fu inaugurata la prima scuola per ragazze musulmane nella medina di Tunisi che fu nominata Dar el Pasha.

(3) Il progetto “Images au-dessus de l’impunité” è stato avviato dalle associazioni Echos e Chouf, in collaborazione con FIDH, CNCI e IFT, con il contributo di Euromed, distribuzione HAKKA e Ciné téléfilms, con la partecipazione di l’associazione Beity, ATFD, AFTURD e CREDIF e il supporto di OOUN.

(4) Abdelkrim Gabous, Silence, elles tournent! Les femmes et le cinéma en Tunisie, edizioni Ceres, 1998.

Sonia Chamkhi, “Du discours social au discours de l’intime ou de la démystification de la violence “, in Patricia Caillé, Florence Martin (regista), Les Cinémas du Maghreb et leurs publics , Africultures n ° 89, Paris, L’Harmattan , 2012.

Rachida Triki

traduzione a cura di Alexia Banica