Secolarizzazione per immagini. Tra Est e Ovest, tra Nord e Sud.

di Domenico Bilotti

(Università Magna Graecia di Catanzaro)

 

La storia della secolarizzazione è una storia normativa delle immagini. Lo ha espresso anche la Grande Camera della Corte di Strasburgo decidendo sul ricorso che riguardava l’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche italiane. Quella pronuncia, pur dando ragione, quanto al dispositivo, alla memoria difensiva del Governo italiano (l’esposizione del Crocifisso non viola l’articolo 9 della Cedu in materia di libertà di pensiero, coscienza e religione), ben enucleava la relativizzazione dei simboli religiosi nei processi avanzati di secolarizzazione. Il Crocifisso non è il simbolo politico di un partito, non esprime – in un retaggio culturale cristiano comunque ormai disincantato – totale adesione di fede. E, ad esempio, i cittadini britannici o scandinavi riconoscono nelle loro rispettive bandiere nazionali al più dei simboli coesivi della comunità politica (nemmeno ciò è sempre vero) ma difficilmente vedono in esse le ascendenze delle culture cristiane riformate e non da cui pur provengono. Il simbolo religioso resta evidentemente simbolo di “parte”, anche se trasferito in un sembiante semantico distinto da quello ecclesiastico, ma la secolarizzazione ha la forza di disinnescarne gli effetti divisivi riconoscendo il pluralismo, sì da non istituire alcun primato confessionista di una religione sulle altre. È davvero così in tutti i casi? E cos’è, soprattutto, la secolarizzazione?
Gli studiosi tendono a distinguere la secolarizzazione dal secolarismo. La prima sarebbe una situazione di fatto, che deriva da un processo resultativo. Quel processo consiste nell’attribuzione, nella sottrazione e nella separazione di competenze tra lo Stato (o, comunque sia, i poteri civili) e la Chiesa (o le forme istituite di religiosità positiva). Il secolarismo consisterebbe invece in una mentalità, in un habitus culturale e normativo, che descrive un approccio comune tendenziale al sacro.
L’uno e l’altro termine hanno una radice storica indiscutibilmente comune: le trattative per la conclusione della pace di Vestfalia (1648) che pone fine all’ultima e più aspra guerra di religione dell’ampio secolo “lungo” iniziato con la Riforma luterata (nel 1517) e con la Confessione augustana di tredici anni successiva, che fissava la giuridicità teologica interna ai nuovi movimenti religiosi. La pace di Vestfalia non rende di colpo l’Europa politica uno spazio aconfessionale del diritto -come non riusciranno a fare nell’immediato nemmeno le rivoluzioni borghesi dei due secoli successivi. Nasce semmai da una valutazione prudenziale, da un accomodamento coordinativo dei poteri (cuius regio eius religio), che serve a far cessare le ostilità.
Il diritto pubblico comparato dell’Europa del XIX secolo mette in luce un ulteriore passaggio istituzionale nella deconfessionalizzazione della sfera pubblica. Il Sacro Romano Impero, nella Dieta perpetua di Ratisbona del 1803 (!), a tre anni dalla sua particolarmente tardiva dissoluzione formale, emana la Reichsdeputationshauptschluss attraverso cui si provvede alla secolarizzazione degli ultimi principati ecclesiastici, baluardo dei vecchi assetti di potere, e si concordano cospicue restituzioni politico-patrimoniali ai principi laici. I rapporti di forza cambiano: the times they are a-changin’.
Amplissimo, e da allora ad oggi, il dibattito sulla secolarizzazione e sui suoi effetti. Ha significato l’emancipazione da un reticolo di prescrizioni giuridiche e norme consuetudinarie restrittive e poggiate su un moralismo invadente e preconfezionato? O ha completamente desacralizzato il discorso comune, sterilizzandolo da quei limiti etici a cui si demandava la fondamentale funzione, in definitiva, di “servare societatem”?
Quale che sia la nostra risposta, la più esatta delle quali però dovrebbe collocarsi in modo da non legalizzare ogni condotta e da non abolire qualunque istanza immateriale nei rapporti sociali, si è fatta strada l’idea che la secolarizzazione sia un processo esclusivamente euro-occidentale. Ancora una volta: se scambiamo il processo di secolarizzazione col suo particolare divenire storico in Europa e in Occidente, l’asserzione può essere corretta. Non così se consideriamo che ogni civiltà presenta al proprio interno istanze di liberazione dalle forme teologiche del controllo politico. La secolarizzazione nel Mediterraneo arabo-islamico non è perciò assente, è lotta civile solo molto più recente: è il fiordo di un percorso che avvia molto più tardi, anche perchè di molto successiva alla dinamica europea dei rapporti tra autorità civili e religiose è stata l’unificazione di quei popoli sotto le insegne di un monoteismo abramitico di orientamento così fortemente aggregativo. L’islamizzazione giunge dopo la cristianizzazione e, di là dai punti in comune, il diritto islamico e il diritto civile sgorgante dalla tradizione romano-canonica non solo al medesimo punto della rispettiva parabola.
Le istituzioni pubbliche del mondo arabo-mediterraneo confermano empiricamente questa suggestione teorica e ricostruttiva attraverso alcuni esempi guida che non concludono il ragionamento ma che ne indicano gli snodi essenziali. Il secolarismo arabo non si propone come apertamente anti-islamico: al contrario, agisce spesso proponendosi come vera modalità d’azione, procedurale e sostanziale, per preservare il nucleo valoriale della fede contro invadenze governative, gerarchiche, militari. In fondo, anche i primi pensatori occidentali, la cui riflessione fece da sfondo a una pacificazione sociale ordinata sulla separazione dei poteri, si proponevano quali gli uomini di autentiche fede e spiritualità che probabilmente essi davvero erano. Il secolarismo arabo ha un’ulteriore caratteristica: non si propone solo come architrave pur importante di diritti civili individuali (come era stato per lo stato liberale ottocentesco, che li rileggeva però sotto il cappello degli statuti proprietari), ma si professa ancor più come volano comunitario integrale di giustizia sociale. In questo modo, ha l’opportunità storica di presentarsi anche come formidabile strumento di emancipazione anti-coloniale, sebbene tale istanza rischi di fermentare un concetto di “nazione”, contro despoti e colonizzatori, prima in larga misura estraneo alla cultura araba. Stanno a dimostrarlo le storie dell’algerino Ahmed Ben Bella (1916-2012), del marocchino Mehdi Ben Barka (1920-1965) e, non tanto sorprendentemente, del palestinese di formazione cristiana Nayef Hawatmeh (1935), i quali danno vita, anche sul piano giusecclesiasticistico e filosofico-giuridico, a tre distinti e non contrapposti modi di ripensare l’Islamismo politico e il secolarismo arabo di orientamento socialista.
Bella è il primo presidente dell’Algeria libera, non pensa alla repubblica in termini laici, anche perchè è laico-secolare il regime giuridico del lungamente inviso e finalmente battuto invasore francese. Immagina l’ordine rivoluzionario in termini di radicale emancipazione politica ma questa lotta di parte (e secondo Bella anche “di classe”) appartiene ormai al vissuto storico del popolo algerino, se persino la riforma costituzionale del 1986 mantiene nel Preambolo tributo non meramente onorifico ai “padri” del Fronte di liberazione nazionale.
Decisamente minor fortuna ebbe Barka, ucciso a Parigi a seguito di un’operazione dei servizi segreti non dissimile da quella patita, poco più di un decennio dopo, dall’iraniano Shariati a Londra. Il motivo anticoloniale, nel contesto di una lotta politica che si affaccia sul fronte aperto della secolarizzazione, si associa qui a un più sistematico impegno terzomondista: Barka è un riferimento del fondo di solidarietà afroasiatica che sostiene economicamente e politicamente i Paesi non allineati. Tra gli appetiti postcoloniali delle potenze occidentali e le ambiguità sovietiche nel rapporto coi Paesi arabi, l’Islam può mantenere universale valenza ordinatrice, anche sul piano politico, se accetta moduli costituzionali federalisti, plurali, antiautoritari. Non c’è ancora separazione di giurisdizioni tra il precetto (religioso) e la norma (che detta l’obbligo politico), ma si accetta l’idea che i loro rapporti non possano prescindere da competenze pur meramente contingenti diverse.
È Hawatmeh che dal calderone palestinese approfondisce nei decenni lo spettro teorico di queste opzioni. Hawatmeh ambirebbe a sostituire lo Stato d’Israle con una confederazione palestinese, di orientamento chiaramente antisionista e altrettanto chiaramente non panarabo (imporre il panarabismo ai popoli e agli Stati arabi gli sembra un modo di eternare sotto le vestigia di una fede indivisa gli stessi poteri che hanno lottato e lottano nei conflitti militari).
Questi tre Autori non perorano l’inserimento costituzionale del principio di laicità: affermare il contrario sarebbe una forzatura inappagante sotto il profilo tecnico-giuridico. Accolgono e sostengono, però, in gradazioni diverse, assi fondanti del “giuoco” democratico: tripartizione istituzional-organizzativa dei poteri, riconoscimento delle autonomie territoriali, intervento statale a fini di redistribuzione economica, cessazione di pretese giurisdizionali e amministrative da parte delle elites religiose. È un programma politico lontano anni luce dal fondamentalismo e distante pure dal socialismo arabo nazionale, sperimentato sotto le dittature in Siria e in Iraq, ove si ambiva a sostituire i previgenti regimi con un mito fondativo nazionale che inglobasse a proprio uso e consumo anche i codici obbliganti di derivazione religiosa. Bella, Barka e Hawatmeh mostrano perciò una teoresi legali che aggancia alcune delle stesse necessità sociali che motivarono oltre tre secoli addietro l’avvio della secolarizzazione occidentale. In particolar modo: l’antiautoritarismo, l’autodeterminazione e la pacificazione interstatale al fine di garantire essenzialmente migliori condizioni di vita per tutti.
La secolarizzazione, anche ove colta nei suoi presupposti embrionali e non alla loro maturazione, può essere mosaico di differenze, in cornici di libertà. Ancor di più nel nostro mutevole scacchiere mediterraneo.

Dalla società tollerante alla società ‘rispettosa’

di Francesco Coniglione

 

Per capire il senso del discorso che vorrei qui non tanto svolgere, ma almeno abbozzare, è utile partire da quanto sostenuto da Fathi Triki nel suo contributo incluso nello stimolante volume Lumi sul Mediterraneo (a cura di A. Cecere e A. Coratti, Jouvence, Milano 2019). Qui viene fatta la distinzione tra Ensemblisme identitario e “vivere-insieme nella dignità”. Il primo non ammette la differenza, lo scarto e quindi finisce per governare gli uomini attraverso la dittatura, la violenza e la guerra; esso esclude il non familiare e quindi genera l’estremismo e l’identitarismo totalitario: «Detto in altri termini, la prossimità partecipa, in un modo o nell’altro, all’annientamento dell’individuo e rafforza il peso della comunità. È il motivo per cui uno scarto, una distanza sono necessari perché l’individuo recuperi la propria dignità, la propria ragion d’essere e la propria rispettabilità» (ivi, p. 26). Ad esso si contrappone la teoria del “vivere-insieme nella dignità”, la quale esige la liberazione dell’individuo dall’imperium della comunità e si fonda sul concetto islamico di mahabba cioè la socialità e la filìa, l’amore, che conduce a una forma di ospitalità, tratto comune delle culture del Mediterraneo. Questo “vivere insieme” rifugge all’uniformizzazione ed evita di cancellare le differenze, ma piuttosto è una «forma d’essere al mondo aperta ai cambiamenti di civiltà che abitano la sua [del Mediterraneo] storia: atteggiamento volontario di lottare contro ogni chiusura e ogni tentativo di distruggere i valori che hanno forgiato la sua fisionomia» (ivi, p. 27).

A prima vista si potrebbe pensare che tale concetto di “vivere-insieme nella dignità” sia una sorta di indicazione meramente postulatoria dallo scorso contenuto propositivo ed operativamente poco efficace, una sorta di appello ai buoni sentimenti che evita di affrontare le questioni cruciali che stanno al centro di quello che si è indicato – con efficacia propagandistica, ma con scarsa presa reale – come “scontro di civiltà”, che vede coinvolte in prima istanza le due sponde del Mediterraneo. Ma questa è una impressione che può permanere solo in un lettore superficiale; ed è la lettura dei saggi che accompagnano quello di Fathi Triki a dare delle importanti indicazioni per intendere in modo adeguato tale nozione, sviluppandone il contenuto in essa non sempre pienamente esplicitato.

Infatti, già il fatto che nel “vivere insieme” si rivendichi la «liberazione dell’individuo dall’imperium della comunità» pone in essere una significativa sintonia con quella “terza sfera” della laicità e della libertà di coscienza indicata da Foucault, cioè quella che si riferisce alla dimensione privata e personale (e che si aggiunge a quella temporale legata alla storia e a quella spirituale legata all’appartenenza comunitaria). È in sostanza l’esigenza che Paolo Quintili presenta nel suo contributo (“Politica e diritti tra Europa e Maghreb. Alle origini della nozione di ‘laicità’”, pp. 97-117): «Il problema della costituzione della laicità e del suo spazio inviolabile si esprime, a mio avviso, in questi termini. Come lasciare libertà di costituzione, nei diversi ambiti e contesti geo-storici determinati, a questa terza sfera, in ogni individuo, anzi, di più: come favorire, a livello culturale e istituzionale, la sua costituzione? Ciascuno di noi – uomini e intellettuali del XXI secolo, emancipati grazie all’operazione storico-culturale dell’Illuminismo – ha una propria “religione personale”, anche inconsapevole, taciuta, che s’esprime nell’intimità del dialogo con sé e prende poi corpo nell’agire quotidiano» (Quintili, p. 115). È una importante indicazione su come sia possibile “rileggere” e ritradurre nella nostra lingua dei concetti che per un islamico si pongono in modo diverso, appunto nella misura in cui è difficile, a sua volta, tradurre nella sua concetti che sono correnti nel nostro mondo intellettuale, come quello di “laicità”, del resto non sempre presente in tutti gli ambiti storico culturali in cui di fatto esso viene praticato. Ed infatti, come ci avverte sempre Quintili, nel contesto geo-storico arabo-islamico parlare di “laicità” avendo appunto come riferimento questa “terza sfera”, che pure abbiamo visto è implicita nel “vivere-insieme nella dignità”, fa correre il rischio dell’incomprensione, in quanto il suo equivalente arabo – eilmania – si confonde con l’ateismo e quindi con l’irreligiosità, la miscredenza e di conseguenza anche con l’immoralità, analogamente a come veniva intesa la parola “ateo” nel periodo di dominanza religiosa cristiana, cioè tra Sei e Settecento.

Il “vivere-insieme” riconquista tuttavia il contenuto del concetto di laicità (e quindi, vedremo, di democrazia) attraverso una manovra ad aggiramento: già l’esigenza posta della liberazione dell’individuo dall’imperium della comunità funziona da esigenza critica affinché si eviti che tale vivere insieme si trasformi nel criticato “ensemblisme identitario”. Ma, ancor più, Fathi Triki si approssima al contenuto concettuale della laicità nel momento in cui fa scendere in campo la nozione – ripresa esplicitamente da Derrida – di “ospitalità”, quale antidoto alla possibile violenza del “vivere-insieme”; infatti, «ogni umanismo è fondato sull’ospitalità» (Triki, p. 36), giacché (come ha intuito Terenzio) «appartenere all’umano implica rivendicare la sua pluralità» (p. 37) nel fare il bene e nel fare il male. Per Derrida l’ospitalità è l’essenza dell’umano e Triki afferma che essa è «una condizione necessaria per ogni filosofia del vivere-insieme, perché essa permette alla dignità di compiersi e all’umanità di diffondersi» (p. 39). L’ospitalità è quindi il fondamento di ogni “vivere-insieme nella dignità” e può realizzarsi solo mediante la regola d’al-karam, ovvero la generosità (dell’accoglienza – karam al dhiafa) fondatrice della dignità, che si apre alla condivisione assoluta e senza condizioni della vita. Insomma «la dignità come karamah designa uno statuto onorevole, che l’altro deve riconoscere e che impone certi atteggiamenti coerenti con il senso dell’umano» (p. 41), offrendo una nuova dimensione dell’umanità, un «vivere insieme armonioso, ragionevole e confortevole».

In fondo – come avverte Mario Reale nel suo intervento (“’Vivere-insieme con dignità è un altro nome di ‘democrazia’”, pp. 67-96) – si potrebbe sostenere che tale nozione proposta da Fathi Triki non sia altro che un equivalente della democrazia, una forma istituzionale che farebbe uscire il “vivere-insieme” dalla sua “levità culturale e poetica”, dandole corpo organizzativo concreto, operatività politica. E ciò perché la democrazia sarebbe la soluzione della domanda fondamentale su come può l’individuo conservare la propria autonomia impegnandosi al tempo stesso a costruire “uno spazio di convivenza”, promuovendo diritti e unità, individualizzazione e socializzazione. Ma giustamente non può non nascere la domanda che Reale non evita di porre: è la democrazia in grado di soddisfare l’esigenza del vivere-insieme, cioè quella «socialità intensa, tramata di philia o di “disposizione affettuosa”»? (ivi, p. 59). È in sostanza questa la dimensione della ‘fraternité’, la cui esigenza si è espressa anche come “religione civile”. Una domanda a cui non si può che rispondere negativamente, giacché la democrazia da noi praticata «non consente […] un’irruzione di “socialità” nel suo ambito proprio di espressione» (ib.), anche se questa socialità si trova nei momenti in qualche modo rivoluzionari che preparano l’avvento della democrazia, «nel vigore del suo stato nascente» (p. 61), dove è implicito il riferimento alle riflessioni Francesco Alberoni (specie nel suo Movimento e istituzioni, Il Mulino, Bologna 1981).

Tale richiamo alla esigenza della socialità e di conseguenza alla ‘fraternité’ è importante in quanto è proprio in tale sentimento o forma di legame sociale che s’è visto, in molti teorici ma anche in diversi movimenti istituzionali, il modo per compensare e riequilibrare il tipico universalismo illuministico. Al senso di anomia che ne potrebbe derivare viene contrapposto un momento, un ambito, un ‘tempo’ nel quale possa vigere un nuovo senso di comunità, in cui sia possibile ricreare un sentimento di appartenenza, ritessendo quel legame sociale che in una società sempre più frammentata, universalistica e atomizzata tende ad attenuarsi. È questa appunto l’esigenza posta dal terzo termine del motto della Grande Rivoluzione: appunto la ‘fraternité’ mette in luce l’insufficienza di un’etica laica, quale quella implicita nell’universalismo illuminista e nella separazione tra sfera religiosa e sfera pubblica, che si differenzia da quella religiosa per il fatto di rivolgersi e argomentare sulla base della sola ragione, a differenza delle etiche religiose in cui è essenziale il riferimento ai testi sacri o alla rivelazione. Tale etica laica si esprime, ad es., in modo paradigmatico e quasi ‘puro’ nelle recenti parole di un grande scienziato, Richard Dawkins: «La mia utopia è un mondo nel quale le credenze sono basate sull’evidenza e la moralità è basata su una intelligente progettazione – una progettazione effettuata da umani intelligenti (o robot!). Né le credenze né la morale dovrebbero essere basate sui sentimenti della pancia, o su antichi libri, rivelazioni private o tradizioni clericali» (“Richard Dawkins Offers Advice for Donald Trump, and Other Wisdom”, in Scientific American Daily Digest, August 10, 2017).

Col far appello solo all’intelletto, questa etica dimentica però quelle che Blaise Pascal ha chiamato “le ragioni del cuore”, quelle medesime ‘ragioni’ che nell’epoca del trionfo dei lumi, Chateaubriand lamentava fossero assenti dai nuovi templi eretti dalla Rivoluzione francese, dedicati solo a un astratto concetto di Vero: «questi stessi templi, dove in altri tempi si contemplava un Dio conosciuto in tutto l’universo o le immagini di una vergine che consolavano tanti infelici, questi templi dico, erano dedicati a quella Verità che nessuno conosce e alla Ragione che non ha mai asciugato una sola lacrima» (Le génie du christianisme, 1802, Alfred Mame et Fils, Tours 1848, p. 21). Di converso, l’etica religiosa infiamma innanzi tutto il cuore e solo successivamente si trasforma in analisi razionale, la quale getta però un velo di freddezza sulla fede, come aveva ben capito un giovane Hegel. Ecco perché l’etica laica è così difficile non solo da rendere universalmente condivisa, ma anche di diventare forza motivante e propulsiva dell’agire per le grandi masse; essa è inevitabilmente aristocratica, condivisa e perseguita da pochi spiriti eletti che fanno del culto della ragione il faro della propria vita, così come è stato rimproverato alla proposta morale di Kant. Tuttavia, anche nelle religioni edificate sulla base di una forte adesione emotiva a principi di fede, l’amore predicato universalmente perde di forza, si illanguidisce e finisce per scolorare in un generico imperativo etico che lascia spesso freddo l’agire quotidiano del singolo. Sicché, a fronte del declino delle grandi strutture istituzionali – politiche come religiose – è sempre nata nella storia l’esigenza di rivalorizzare le comunità di base, di attaccarsi al campanile, alla “piccola società”, in cui il legame interpersonale viene ri-creato in un senso assai prossimo al re-ligare religioso, grazie alla prossimità fisica, alla stretta coesistenza. È quella esigenza propria alla “culture comunitarie” che si esprime in una sorta di ‘tribalismo mirante a una sorta di “reincantamento del mondo”, come ha messo in luce Michel Maffesoli (“Le culture comunitarie”, in G. Finis, R. Scartezzini, a cura di, Universalità & differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra identità sociali e culture, FrancoAngeli, Milano 1996, pp. 257-65).

In ciò si esprime il bisogno di rinsaldare, di ritessere, i rapporti che si sfilacciano, tanto più in società nelle quali vengono a cessare gli antichi legami comunitari. E se in passato erano stati gli ordini monastici a fungere da punto di accumulazione della solidarietà cristiana, successivamente sono state le varie associazioni confessionali tra laici ad adempiere questa funzione, come accade oggi con gruppi quali Comunione e Liberazione, i focolarini, l’Opus Dei e sul piano non religioso club quali i Lions, Rotary e tante altre forme di aggregazione in cui si cerca di mettere in atto e di vivere nel concreto, all’interno di un forte legame comunitario, la ‘fraternité’, in modo da riattualizzarla e continuamente confermarla.

Questa esigenza motiva la richiesta della ‘fraternité’, ad integrazione e completamento di liberté ed égalité. Con una importante differenza da queste ultime: se è facile dare un significato e un contenuto alla libertà, come anche alla eguaglianza, che sono concetti per molti aspetti anche normativamente definiti o definibili attraverso leggi e principi costituzionali, invece la ‘fraternité’ sembra essere, ad un superficiale sguardo, più un generico appello a un sentimento di reciproco ben volere, che un termine cui sia assegnabile un preciso contenuto concettuale. Esso tuttavia riceve una sua prima ragion d’essere dalla circostanza di fatto che libertà ed eguaglianza possono entrare tra loro in tensione: la rivendicazione della prima spesso è contraria all’esigenza della seconda, così come insistere eccessivamente sulla seconda può voler dire una limitazione della prima. Ecco allora che la ‘fraternité’ assume quasi una funzione mediatrice tra quei due opposti, mitigandone l’appli­ca­zione unilaterale e mortificante: grazie ad essa la libertà non può trasformarsi in assoluta licenza a danno degli altri e l’eguaglianza non può disconoscere l’autonomia e la personalità altrui, in quanto accomunati da un legame condiviso.

La ‘fraternité’ così intesa, pertanto, non si esercita in generale, non concerne tutti gli uomini, non è un principio universalistico che bisogna solo riconoscere e a cui è necessario semplicemente aderire con la forza dell’in­telletto. Ciò fa sì che essa sia qualcosa di più della semplice adesione ad un’etica laica, in quanto fornisce quelle motivazioni interiori che altrove sono tipiche della fede religiosa. Essa scaturisce dalla necessità di “riunire ciò che è disperso”, che, in antitesi alle società complesse ed atomizzate, si preoccupa di riconnettere le persone, di farle sentire nuovamente solidali, di dare loro il senso della comunità, di farle uscire dall’anomia tipica di individui eterodiretti formanti la cosiddetta “folla solitaria” (come ha detto David Riesman, La folla solitaria, il Mulino, Bologna 1999). Tale esigenza è stata condensata nel concetto di ‘reliance’ – di ricollegamento, ritessitura, riconnessione – che è stato forgiato dal sociologo belga Marcel Bolle de Bal (cfr.  “Reliance, déliance, liance: émergence de trois notions sociologiques”, Sociétés 2013/2, 2003, pp. 99-131) ed è stato quindi messo alla base del suo modo di concepire la ‘fraternité’, in contrasto a quella ‘deliance’ – la dissociazione, la frattura, la disaggregazione atomistica – che invece caratterizza le società contemporanee. Come ha scritto Edgar Morin (La méthode, t. VI, “Ethique”, Seuil, Paris 2004, p. 114), la ‘reliance’ è alla base degli altri imperativi etici, come tolleranza, libertà, fedeltà, amicizia, amore, rispetto, cortesia, e quindi tende naturalmente a rivolgersi agli altri, alla comunità, alla società, ed infine all’umanità. Ecco perché l’etica che deriva dal senso della fratellanza non contraddice quella laica, non contrasta con quella che può essere motivata religiosamente, ma si aggiunge ad esse, le tonifica, le rende vigorose e salde, le sostanzia con una forza emotiva che viene rinnovata continuamente.

Quanto detto da Morin mette in campo un concetto che ci sembra fondamentale, anzi il perno attorno a cui l’esigenza del “vivere-insieme con dignità” di Fathi Triki assume la sua piena pregnanza significativa: il “rispetto”. Lo introduciamo attraverso le parole che vi dedica – quasi per inciso – Bruno Montanari (“Per vivere insieme con dignità: riflessioni sul pensiero moderno”, pp. 67-96), ma che a nostro avviso costituiscono anche uno degli assi fondamentali intorno ai quali si svolge il suo argomentare: «Il rispetto è la concretizzazione pratica, nell’agire, della reciprocità: rispettare non vuol dire “tollerare” o “omologare”; non vuol dire agire come se le differenze non fossero significative. Al contrario, il rispetto implica il riconoscimento della differenza dell’“altro”, poiché essa è reciproca differenza. Nell’atteggiamento del “rispetto” non vi è un soggetto sociologicamente, culturalmente o politicamente dominante, come nella tolleranza: un soggetto tollerante ed uno tollerato. Nel rispetto c’è la presa d’atto di un come me originario e dunque strutturalmente reciproco. In sintesi, il rispetto è la traduzione pratica dello svolgersi individuale della strutturale e reciproca relazionalità dell’io di ciascuno» (p. 92).

È questo un punto nevralgico: il richiamo al rispetto è importante in quanto pone il proprio fuoco sulla circostanza che nel trattare con gli altri – verso i quali si deve avere del ‘rispetto’ – le azioni o comportamenti che possono essere intrapresi verso di essi non debbono essere suscettibili a venir commisurati con un metro oggettivo, che possa essere normato in maniera positiva. Quando si ha rispetto si deve innanzi tutto prendere in considerazione quello che è il riflesso soggettivo, interiore che un dato atto può avere in un altro soggetto, sicché la medesima azione può suscitare una lesione o una gratificazione maggiori o minori a seconda dell’individuo che viene da esse attinto. È la rilevanza di questa lesione o gratificazione che deve essere la ‘misura’ del ‘rispetto’: non si è rispettosi perché ci si comporta in un certo modo verso un individuo, che potrebbe anche essere indifferente alla ritualità di quel comportamento, ma solo nel caso in cui si è consapevoli del riverbero interiore che quel comportamento potrebbe avere in un soggetto; e ci si astiene o meno dal metterlo in atto, per quanto lo si ritenga secondo il metro dell’agente di lieve o trascurabile importanza. Solo in questo caso si ha ‘rispetto’. Ne deriva da ciò che il ‘rispetto’ è sempre contestuale e non può prescindere dalla storia dell’individuo, dal modo in cui la sua persona si è formata, onde non può essere dettato da una norma astratta di comportamento. La famosa regola aurea viene a ricevere una sua particolare accentuazione che la piega a una più profonda comprensione: non solo “non fare agli altri ciò che vorresti non fosse fatto a te stesso”, bensì “fai agli altri ciò che essi si aspetterebbero venga loro fatto, in modo da rispettare la loro interiorità”. Si ha una re-inversione della rivoluzione soggettocentrica di Kant: l’etica del rispetto non ha come perno la volontà legislatrice dell’Io, bensì l’oggetto verso cui è diretto, ovvero l’altro.

Solo in tale quadro l’ospitalità riceve una sua piena motivazione, in quanto questa è una delle forme in cui si manifesta più propriamente il rispetto. Nei confronti dell’ospite si assume un atteggiamento di ‘cura’ verso i suoi sentimenti, ci si industria per farlo sentire a proprio agio, capendone le esigenze e persino le idiosincrasie: gli si offrono pietanze che corrispondono ai suoi gusti, stanze che si conformano ai suoi modi di vivere, non si esibiscono forme di comportamento o manifestazioni di cultura che gli possano essere sgradevoli (ci si astiene, ad es. dal fare la croce e di ringraziare il signore prima dei pasti se l’ospite è di religione o sensibilità diversa). Come ha affermato recentemente Nunzio Galantino, «il rispetto è, in fondo, un prendersi cura in maniera viva e consapevole dell’altro, sia esso una persona, una legge o la natura nella quale viviamo e dalla quale siamo circondati» (“Accorgersi degli altri”, in Il Sole 24 Ore 13-10-19, p. 29). E questo avviene perché è la dignità il valore che si riconosce all’altro, in quanto solo verso chi è dotato di dignità, così come noi pensiamo di esserne, si può avere ‘rispetto’ e lo si può trattare con ospitalità. È questa quella dimensione ‘orizzontale’ che – da una prospettiva cristiana quale quella di Mons. Galantino – unisce alla dimensione verticale la dimensione orizzontale «che si fonda sull’uguale dignità delle persone, al di là della funzione e del ruolo» (ib.). Da questo triplice nesso – rispetto, ospitalità dignità – trova a nostro avviso tutto il suo pieno valore il “vivere-insieme nella dignità”.

Il ‘rispetto’ impedisce anche quell’atteggiamento che è tipico in ciò che Fathi Triki chiama “nuova colonialità”, caratterizzata dall’uso di ‘nobili’ nozioni tipiche della cultura occidentale – diritti umani, democrazia, guerra ai dittatori, intervento umanitario, diritto di ingerenza, missioni di pace ecc. – per poter intervenire in situazioni di crisi: la creazione artificiale di guerre perpetue (il Medio Oriente ne è un esempio quasi esemplare) è finalizzata a «distruggere l’edificio delle istituzioni statali, in nome, evidentemente, dell’ideale “democratico” e contro la dittatura, facilitando così lo sfruttamento a oltranza di tutte le ricchezze di questi paesi» (Triki, p. 31). Al cosmopolitismo e all’utopia di libertà illuminista viene sostituita la globalizzazione imperialista: l’ospitalità degli stranieri che vanno coi flussi migratori nei paesi occidentali avviene all’insegna del razzismo e della colonialità, con islamofobia, paura, accuse di terrorismo ecc., dimostrando quanto sia difficile il “vivere-insieme” in Occidente. Di tale colonialità fa parte integrante una strategia culturale fondamentale: la inferiorizzazione: «L’intellettuale del Sud è sempre inferiorizzato, raramente ascoltato e citato dai suoi pari del Nord […] questo rapporto di inferiorizzazione non tocca soltanto l’intellighènzia: esso è presente in tutti i tipi di rapporto fra le due sponde del Mediterraneo. È il motivo per cui, d’altronde, il vivere-insieme, in queste condizioni, non può che essere violento» (ivi, pp. 35-6). Il “vivere-insieme” non è nella dignità, in quanto tra coloro che partecipano di questo rapporto non v’è rispetto, ma si richiede solo l’ossequio formale a delle norme che di solito sono quelle del paese ricevente, ‘accogliente’.

Questo dimostra perché il laicismo possa essere visto con diffidenza dagli intellettuali che non si sono formati nella cultura occidentale, assorbendone sin dall’infanzia i valori, come anche, tra le righe, da Fathi Triki. Infatti esso, in ambito politico è un atteggiamento solo negativo: ci si astiene dal fare o esibire atteggiamenti di carattere religioso negli spazi comuni, e quindi si separa autorità civile e religiosa, in nome di una comune appartenenza a una entità sopraindividuale che – ecco l’accusa che viene fatta – spossessa delle identità le singole comunità. Donde uno dei paradossi o aporie della laicità: «nelle società chiuse o di lunga e grande tradizione religiosa, l’appartenenza comunitaria – con tutti i suoi segni, simboli e pratiche – è sentita, in molti casi, come avente un valore superiore alla stessa uguaglianza e libertà. In questi casi, perché si affermino i “diritti dell’uomo” (uguaglianza e libertà), occorre cambiare anzitutto il senso comune, operare cioè per quel cambiamento in un modo pacifico, attraverso i mezzi di formazione e di educazione delle coscienze, prima di affermare o rivendicare ogni possibile primato della laicità» (Quintili, pp. 108-9). Tuttavia questa aporia può essere aggirata solo se eguaglianza e libertà sono esercitate nell’ambito del rispetto, cioè quando si intende e si ha cura del riverbero interiore del nostro comportamento nell’altro; esso ha per questo aspetto uno statuto diverso dalla mera affermazione dei cosiddetti diritti umani, che sono l’estrinsecazione pratica dell’universalismo illuministico: il diritto all’esistenza, alla libertà e alla proprietà, diritti oggettivamente e positivamente configurabili. Il rispetto, invece non lo è: esso richiede, per così dire, una capacità ermeneutica di interpretare il sentimento altrui, una sensibilità che si può alimentare solo con cultura e formazione. Esso richiede una maturazione interiore che deve essere il frutto di un processo educativo lungo e arduo, implica «il bisogno di doversi prendere del tempo per accorgersi degli altri, per conoscere chi o cosa si ha di fronte, cosa pensa e cosa di conseguenza ci domanda» (N. Galantino, cit.). Ecco perché il rispetto è difficile da mettere in atto. Ne consegue la necessità dell’educazione, che non è solo quella esplicita, ma soprattutto la implicita, che si acquisisce nella pratica comunitaria, nelle comunità in cui il rispetto viene già esercitato. È, come avviene nella scienza, una conoscenza tacita: come l’uomo morale non è fatto dall’apprendere i precetti di un qualche catechismo o trattato delle virtù (lo sapeva bene Wittgenstein, che per questo disprezzava i preti moralisti), analogamente il bravo scienziato non è quello che apprende i principi della scienza nei manuali e nei trattati di metodologia, ma solo a contatto dei grandi scienziati, nei laboratori dove si fa scienza, nel concreto del suo esercizio. Per utilizzare due belle espressioni il rispetto è inscritto in una “forma di vita”, come direbbe Wittgenstein, o è come l’essere ‘iniziati’ a uno stile di pensiero, per dirla con Ludwik Fleck: ad esso «non v’è la possibilità di accedere […] per mezzo di una qualche strada genericamente umana, ovvero grazie a una cosiddetta strada “logica” o “razionale”. Tutti gli educatori sanno che l’introduzione a un qualsiasi ambito di pensiero deve sempre passare per un periodo di “apprendistato” nel quale opera solo l’autorità e la suggestione, e non una qualche generale e “razionale” spiegazione. Queste introduzioni hanno in tutti i campi il valore del sacramento iniziatico noto dall’etnologia. Ad ogni disciplina non è possibile accostarsi attraverso lo studio del suo compiuto sistema concettuale, bisogna che sempre vi sia una “introduzione” in parte storica, in parte aneddotica e dommatica. È questo un esercizio di sottomissione allo specifico stato d’animo del collettivo» (Stili di pensiero. La conoscenza scientifica come creazione sociale, a cura di F. Coniglione, Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 196). Solo grazie a questa educazione, a questo peculiare ‘apprendistato’ (del resto segnalato pure da Thomas Kuhn), che ha il vero e proprio carattere di un percorso esoterico, è possibile ‘vedere’ ciò che prima era invisibile; in particolare è possibile sentire e rendersi conto dei possibili riflessi delle nostre azioni nell’altro, sviluppare quell’esprit de finesse da Pascal ritenuto non meno importante dell’esprit de géométrie.

L’approccio qui delineato permetterebbe anche di vedere in una diversa luce quello che è stato indicato da Stefano Petrucciani come il paradosso dell’universalismo, insito nel proclamare il principio dell’eguale rispetto per tutti gli uomini e le loro culture, basato sulla loro dignità. Infatti, «il paradosso dell’universalismo sta nel fatto che esso per un verso riconosce la pari dignità di tutte le persone, le idee e le culture, mentre per altro verso implica in qualche modo l’idea che le culture che non si riconoscono nei principi dell’universalismo hanno un valore inferiore rispetto a quelle che invece lo fanno» (“I diritti umani e il paradosso dell’universalismo”, p. 119). Tale paradosso viene meno se l’universalismo è filtrato secondo l’etica del rispetto ed è sovraordinato a quei “diritti umani” che sono il tipico portato della cultura occidentale, in quanto solo questi ultimi di fatto comportano una “inferiorizzazione” dell’altro e quindi delle altre culture. Il rispetto invece richiede solo la reciprocità, è sempre bilaterale, scambiato, così come l’ospitalità, ponendo in campo quell’esigenza di socialità e ‘fraternité’ senza la quale l’universalismo, come anche i diritti umani restano morte impalcature che possono facilmente assumere un carattere vessatorio e un atteggiamento inferiorizzante.

Il che non vuol dire che si possano mettere da parte l’esigenza insita nell’idea di democrazia e i valori incarnati nei cosiddetti “diritti umani”, ma solo che queste non possono essere il modo esclusivo con cui si possono rapportare le culture, con cui si può interagire con l’altro, portatore di una storia e di una cultura autonoma e spesso assai lontana da quella occidentale. In fondo la proposta del “vivere-insieme con dignità” non solo non si contrappone ad essi, ma si propone come una necessaria integrazione che risponde a un bisogno fondamentale, ad un’esigenza che ha percorso tutta la storia delle società umane e che si è espressa storicamente in forme diverse (solidarietà, ‘fraternité’, stato nascente, legame fusionale, comunitarismo, “spirito tribale”, ecc.), pur essendo del tutto dimenticata nelle società secolarizzate, rette da una ragione strumentale se non addirittura mercantile, come quelle occidentali nella loro declinazione neo-liberale degli ultimi decenni. In fondo la proposta di Fathi Triki suggerisce di sostituire – con il concetto di “vivere-insieme nella dignità” – alla globalizzazione economica-finanziaria e al dominio neoliberista dei mercati, un’altra e più importante globalizzazione, quella culturale e politico-civile, attenta all’ecologia planetaria e ‘rispettosa’ della sensibilità degli altri. È la transizione dalla società tollerante alla “società rispettosa”.

 

 

Credere da laici: sacro e laicità nell’opera di Simone Weil

di Giulia Ceci

Finché la laicità rimane subordinata alla sovranità dello Stato è ancora incompiuta, troppo debole nel rivolgersi a cattolici, protestanti, ebrei, musulmani, «come se si trattasse di piccole frazioni territoriali del paese, come se si dicesse: «Marsigliesi, lionesi, parigini, siamo tutti francesi»

A dispetto dell’antica origine etimologica, la laicità è un concetto decisamente giovane dal punto di vista storico-filosofico, nonché ancora problematico nella sua espressione attuale. Si potrebbe dire, anzi, che quanto più il mondo contemporaneo si secolarizza e perde i suoi confini nel corrente mutamento della globalizzazione, tanto più il concetto di laicità diventa concreto.

Come mostrato da Paolo Quintili in Politica e diritti tra Europa e Maghreb. Alle origini della nozione di “laicità”[1], la laicità nasce in seno all’illuminismo, attraverso un processo di portata epocale che riesce a ricostruire le fondamenta dell’istituzione sociale sui diritti dell’uomo, passando dalla verticalità dell’autorità di ispirazione divina all’orizzontalità del vivere insieme. Tale processo culmina in quella versione della laicità che oggi si conosce come la sua primaria accezione, ossia la separazione dello Stato dalla Chiesa. Così sancisce il Décret sur la libertè des cultes, il 21 febbraio 1795[2].

Tuttavia, sebbene la laicizzazione dello Stato sia parte integrante della laicità, evidentemente quest’ultima non si esaurisce nell’estromissione della religione dalle leggi dell’apparato statale. Oggi più che mai, il concetto di laicità rilancia una domanda essenziale: citando ancora Quintili, «(…) quale spazio lasciare al senso del sacro ‒ come coscienza e sensibilità privata e individuale del divino ‒ fuori di ogni discorso o di posizione ecclesiastica istituzionale?[3]

Proprio sul senso del sacro come esperienza inalienabile dell’esistenza umana e irriducibile a qualsiasi posizione istituzionale, verte la riflessione di Simone Weil in merito allo spirito laico introdotto dai Lumi. La scarsa considerazione dell’opera illuminista da parte dell’autrice francese ha indotto più di qualcuno alla facile accusa di anti-laicismo. In realtà, come per molti altri temi, anche in questo caso il pensiero weiliano risulta piuttosto controverso. Occorre chiarire subito che il punto in discussione non è la laicità in sé, ma il suo successivo adattamento, coincidente con una svalutazione di quel sentimento religioso che pure precede la religione, cioè il bisogno pre-religioso di credere, una sensibilità al mistero del sacro che trascende la fede quanto a fedeltà a una determinata dottrina. Infatti: «La religione è stata proclamata cosa privata. Secondo le attuali abitudini mentali ciò non vuol dire che risiede nel segreto dell’anima, in quel luogo profondamente nascosto dove non penetra nemmeno la coscienza di ognuno di noi. Vuol dire che è oggetto di scelta, di opinione, di gusto, quasi di fantasia, qualcosa come la scelta di un partito politico o persino come quella di una cravatta»[4].  Ciò di cui Simone Weil non si accontenta ‒ e che, anzi, prevede ‒ è una svendita della laicità a quel relativismo un po’naïf delle collettività odierne. In altre parole, seguendo Quintili che adotta il linguaggio del semiologo e filosofo Tzvetan Todorov[5],  la terza sfera della libertà di coscienza, privata e personale, deve sfuggire al dogmatismo religioso senza cadere, per questo, in una traduzione superficiale e relativistica della laicità.

In tal senso, l’alternativa della visione weiliana si riferisce a una “civiltà mistica”, dove il termine mistico non deve trarre in inganno; esso designa una forma di spiritualità impossibile da affiliare, radicalmente estranea alla realtà naturale in tutte le sue declinazioni politiche e religiose. D’altra parte, solo in quest’ottica l’autrice francese riesce a concepire a pieno una civiltà europea. Non basta una somma di Stati sovrani: è necessario un dialogo interreligioso. La grande svolta dei Lumi, dunque, non ha centrato l’obbiettivo, laddove il suo scopo principale sarebbe stato esclusivamente quello di assicurare l’unità dello Stato nazionale. Secondo Simone Weil, essa rappresenta un’altra tappa di quel folle “rovesciamento dei mezzi nei fini” in cui può essere inquadrata la storia occidentale, ossia un relativo ‒ lo  Stato-Nazione ‒ viene fatto assurgere ad assoluto cui si deve la stessa osservanza che si dovrebbe a un obbligo incondizionale. Finché la laicità rimane subordinata alla sovranità dello Stato è ancora incompiuta, troppo debole nel rivolgersi a cattolici, protestanti, ebrei, musulmani, «come se si trattasse di piccole frazioni territoriali del paese, come se si dicesse: «Marsigliesi, lionesi, parigini, siamo tutti francesi»»[6].


[1] Nel volume Lumi sul Mediterraneo, a cura di Antonio Coratti e Antonio Cecere, pp. 97-117, Editoriale Jouvence, Milano 2019.

[2] Ivi, p. 110.

[3] Ivi, pag. 115.

[4] S. Weil, La prima radice, pag. 118, trad. it. di F. Fortini, SE Edizioni, Milano 1990.

[5] T. Todorov, Lo spirito dell’illuminismo, trad. it. di G. Lana, Garzanti, Milano 2007.

[6] S. Weil, op.cit., pag. 119.

Note a “Self Islam” di A. Bidar, éditions du Seuil, Paris, 2006

di A. Coratti

Il ruolo fondamentale sarà giocato dalla differenza, intesa come «aspirazione» e «diritto» e non più come segno di appartenenza ad altro o al medesimo

Da Eschilo a Platone, passando per Dante e Montesquieu, il rapporto tra “Oriente” e “Occidente” ha segnato la storia della letteratura europea. In epoca moderna, come evidenziato dall’intellettuale americano di origine palestinese Edward Said, avviene un fenomeno nuovo: per giustificare le proprie «imprese colonizzatrici», l’ “Occidente” inventa il «fantasma di culture arretrate»[1]. Di colpo la Storia (quella con la s maiuscola) è annientata. La culla della civiltà, la sorgente da cui i Greci e Platone stesso traevano ispirazione per fondare la base di quella che sarebbe poi diventata la “cultura occidentale” è improvvisamente accusata di essere sede di una cultura “inferiore”. Oggi è diffusa l’idea che sia in corso uno “scontro di civiltà” tra Oriente e Occidente, tra l’integralismo religioso e fondamentalista e la modernità laica e razionale.

La testimonianza del filosofo francese Abdennour Bidar risulta a questo proposito densa di significati per sfatare pregiudizi e vere e proprie allucinazioni di massa. In Self Islam, egli, nato in Francia da madre francese convertita all’Islam, ripercorre le tappe fondamentali della sua esistenza, in cui la fede in Allah convive, non senza sentimenti contrastanti e, a volte, vere e proprie contraddizioni, con la volontà di proseguire gli studi in filosofia presso la prestigiosa e laicissima École Normale di Parigi. Contraddizioni imposte dall’esterno, dagli sguardi degli altri, dalle richieste delle istituzioni, non certo all’interno di Bidar che, fin dall’infanzia, ha sentito crescere la propria fede religiosa insieme e parallelamente allo «spirito critico moderno», tipicamente e propriamente europeo[2]. Parlare di Self Islam, di una fede del tutto interiore, aderente totalmente alla propria personale storia, presuppone, infatti, l’azione purificatrice dello spirito critico europeo che si è sbarazzato «di tutto ciò che le religioni avevano accumulato di oscurantismo, superstizione e formalismo», non distruggendo, tuttavia, la «dimensione spirituale dell’esistenza»[3]. La differenza che Bidar evidenzia tra «età della religione» ed «era spirituale» ci pare fondamentale, ancor di più considerando il fatto che l’autore accusi tanto parte del mondo islamico, quanto il governo francese di confondere i due piani, non riuscendo entrambi a cogliere la complessità e le nuove opportunità aperte dal mondo globalizzato. Da una parte, il sufismo, che rappresenta l’ala mistica e ascetica dell’Islam, cui Bidar si era legato in un periodo di forte contrasto con il mondo occidentale, è accusato di non aver riconosciuto il valore spirituale della critica moderna alle religioni, restando ancorato alle sue tradizioni medievali e, soprattutto, di celare, dietro la facciata di «pacifica spiritualità», una realtà fatta di «intransigenza», «chiusura» e «sottomissione»[4].

Dall’altra parte, anche il governo francese resta imbrigliato nell’età della religione, contraddicendo gli stessi valori fondanti la propria storia rivoluzionaria: «oggi è la stessa Francia che classifica gli individui secondo il proprio gruppo etnico, religioso, culturale, come se sia necessario prima di ogni cosa considerare ognuno attraverso questa appartenenza. Come se bisogna rispettare il musulmano, l’ebreo, il Nero, l’omosessuale, prima di tutto per questa differenza. Come se si fosse musulmano, etc, prima di essere umano»[5]. Questo atteggiamento classificatorio appare anch’esso anacronistico, legato a un’epoca in cui si cercava a tutti i costi di «fabbricare unità» fondandole su principi astratti che diventavano però socialmente e politicamente rilevanti. È il caso del destino dell’Islam dopo l’11 settembre: di colpo diventato il «Grande Nemico» dell’Occidente, andando ad occupare il posto lasciato vacante dall’ex URSS dopo la caduta del muro di Berlino. Il terrorismo e l’integralismo islamico, sebbene fenomeno limitato all’interno dell’Islam, è immediatamente assunto a «minaccia suprema per l’ordine mondiale» e il suo spauracchio genera odio e sospetto, influenzando anche scelte politiche in tutte le nazioni europee come quelle relative all’annosa questione dell’integrazione di immigrati arabi, turchi, pakistani[6].

L’Occidente comincia ad interrogarsi sulla compatibilità dell’Islam con la democrazia tout court. D’altro canto, Bidar denuncia l’irrigidimento della posizione dei “musulmani europei” che, guidati dalla voce autorevole di Tariq Ramadan, rivendicano – proprio in nome del principio democratico di “libertà religiosa” – l’intangibilità dei dogmi e delle leggi del Corano. Bidar critica aspramente la contraddittorietà di questo atteggiamento che pretenderebbe di far appello a principi democratici per costringere di fatto la democrazia stessa a «tollerare l’intollerabile per essa: lo sviluppo di una religione nella sua forma più rigida e arcaica»[7]. Ciò comporterebbe inevitabilmente, secondo Bidar, la chiusura della comunità musulmana in se stessa e il tradimento della tradizione politico-filosofica della Repubblica francese secondo cui «tutti i cittadini della nazione condividono gli stessi valori»[8]. In realtà, lo «spirito del tempo» non permetterà una rinascita dell’Islam «in quanto religione», ovvero come culto di una verità eterna, unica e immutabile. È piuttosto da recuperare la dimensione spirituale dell’Islam, proclamata espressamente da alcuni passi del Corano stesso, in cui si legge, ad esempio, che «per ognuno c’è una direzione»[9]. I segni del passaggio dalla dimensione religiosa a quella spirituale sono del resto presenti – nonostante la vulgata di un Islam quasi completamente dominato da forze integraliste e dal fanatismo – all’interno degli stessi paesi islamici, anche i più retrogradi: «ovunque, più o meno velocemente, il vecchio islam autoritario, intollerante, religioso cede spazio a una cultura musulmana molto più aperta, che ha sete di libertà e uguaglianza»[10]. A questo proposito, l’autore cita, tra gli altri, l’esempio dell’India, dove «le donne reclamano la traduzione del Corano per poterlo leggere direttamente e personalmente, contro la verità imposta dai loro mariti»[11]. La questione della traduzione dei testi sacri è fondamentale per comprendere la storia dell’Islam, comparandola, ad esempio, alla storia del Cristianesimo. Come evidenziato da molti studiosi, la Riforma protestante ha segnato la nascita dello spirito critico moderno europeo[12] e una grave crisi dell’auctoritas della Chiesa di Roma, motivate entrambe anche e, soprattutto, dalla traduzione della Bibbia in tedesco. Per l’Islam, la situazione è diversa. Da sempre – afferma Bidar – le differenze notevoli nelle tradizioni culturali e negli stili di vita all’interno del mondo musulmano (che, come noto, si estende dal Marocco all’India e alla Cina), sono relegate in secondo piano rispetto all’immagine del «“vero musulmano”, del “buon musulmano”, pio credente che vive sul modello del Profeta»; gli individui non sono ancora riusciti a rivendicare il «diritto a sentirsi musulmani a partire da altri aspetti che non siano quelli strettamente religiosi»[13]. In realtà, «sotto il pretesto che il Corano sia stato rivelato in lingua araba, gli Arabi hanno esercitato un rigido imperialismo religioso sull’islam […] considerando le traduzioni del Corano come delle copie inferiori rispetto all’originale»[14]. La richiesta delle donne musulmane indiane e pakistane di far tradurre il Corano nella loro lingua per poterne leggere direttamente il contenuto ha, dunque, un significato rivoluzionario, andando a colpire direttamente al cuore tutte quelle interpretazioni del testo sacro che, nascondendosi dietro l’incomprensibilità della lingua, non hanno fatto altro che alimentare il potere e il controllo da parte del mondo arabo e, per lo più, maschile.

La proposta del Self islam passa per l’opera di traduzione dei testi sacri che consentirà la riscoperta per ognuno del proprio, personale rapporto con Allah e in questo modo la spiritualità (e non la religiosità) potrà riconciliarsi con il nostro proprio tempo, con questo «mondo divenuto così diverso, così molteplice», in cui ognuno manifesta un così forte «desiderio […] di voler esprimere la propria singolarità»[15]. Il ruolo fondamentale sarà giocato dalla differenza, intesa come «aspirazione» e «diritto» e non più come segno di appartenenza ad altro o al medesimo.


[1] E. Said, L’Orientalisme, Seuil, Paris, 1980

[2] A. Bidar, Self Islam, Seuil, Paris, 2006, p. 121

[3] Ibidem

[4] Ivi, p. 123

[5] Ivi, p. 84

[6] Ivi, p. 156

[7] Ivi, p. 157

[8] Ivi, p. 159

[9] Ivi, pp. 161-162

[10] Ivi, p. 164

[11] Ibidem

[12] Cfr. in particolare, M. Foucault, Qu’est-ce que la critique? Critique et Aufklarung, in Bulletin de la société française de philosophie, n. 2, 1990

[13] A. Bidar, op. cit., p. 35

[14] Ivi, p. 36

[15] Ivi, p. 87

Riflessioni e altre erranze intorno a “Lumi sul Mediterraneo”

di Davide Fischanger

C’è una parola che segue un tracciato preciso all’interno dei saggi presenti in Lumi sul Mediterraneo, una parola che in alcuni casi è dichiarata già nei rispettivi titoli (già a partire dall’intervento di Fathi Triki[1], motore di un dialogo a distanza), in altri appare in controluce ma senza che questa presenza in negativo le tolga consistenza generativa di senso e di proposta.

La parola è dignità.

Vorrei partire da questa parola per due ordini di ragioni: il primo è per riflettere intorno a questo libro tenendo accanto a me la sua specificità ovvero tenendolo presente come interlocutore; il secondo per potere usare il termine dignità come un filo che mi consenta di allontanarmi da questo libro, dalle sue ragioni, per farne riverberare il senso anche in territori di dibattito più lontani e apparentemente meno affini. In questo doppia messa a fuoco, verso il centro del libro e verso la sua periferia, mi sembra però di rispettare (non sembri solo un pretesto) lo spirito più originale di quest’opera, connotata appunto da un lavoro tra sponde (geografiche e culturali) distanti che racchiudono uno spazio di interazione comune.

Vorrei provare, preliminarmente, a dare una definizione di dignità. Ora, l’epoca moderna ha trovato una serie di parole dalla grande capacità di mobilitazione: libertà e uguaglianza (tralascio per ragioni che esporrò la fratellanza), giustizia sociale, diritti, rivoluzione, cambiamento… etc etc. Chiamo “mobilitanti” le parole con un significativo potere di suggestione pubblica e capaci di situare un gran numero di persone all’interno di un orizzonte di aspettativa tale da riuscire a muoverle collettivamente verso la realizzazione dei programmi sottesi alle parole stesse. Posta sotto questo segno la dignità, pur avendone alcune caratteristiche (ad esempio un certo qual grado di astrattezza) non mi sembra appartenere integralmente alla categoria sopra descritta. Per cercare in territori etimologici limitrofi, indignazione è una parola, di più recente fortuna, con un forte potere mobilitante, anche se rispetto a quelle “storiche” possiede un’accentuazione da un lato più ricattatoria (“chi non si indigna allora è complice”) dall’altro più soggetta a usura (ci si indigna un po’ per tutto). Ma la dignità sembra godere dello stesso statuto della fratellanza che, come osserva giustamente nel suo saggio Mario Reale[2], è la parola più trascurata del triplice motto coniato durante la Rivoluzione francese. Potremmo dire che entrambe le parole sono le meno ideologiche, perché la loro condizione di gratuità le rende meno adatte all’inserimento in un discorso. Ma si può anche ipotizzare che lo statuto semantico della nostra parola di partenza possa aver contribuito a attribuirle una condizione diversa, più sfumata o ambigua: la dignitas infatti indicava e indica anche il rango (e l’accezione è conservata anche nei principali vocabolari della lingua italiana), il grado, la posizione all’interno di una gerarchia. Questo slittamento da uno status a una condizione morale è interessante, come vedremo, perché in realtà i due significati tendono a stare l’uno dentro all’altro, se è vero che il senso di dignità presuppone un sentimento percepito di nobiltà negli atti e nelle parole di un individuo.

Se le parole mobilitanti, in quanto orizzonte di aspettativa e scopo di una lotta, possono essere paragonate a un grande schermo cinematografico, la dignità mi sembra piuttosto il fascio di luce che, generato da un proiettore, va a illuminare lo schermo stesso: ciò che è interessante di questo fascio di luce è il fenomeno che all’interno di esso ci fa scorgere del pulviscolo fluttuante e ci fa percepire la luce stessa. Quel pulviscolo è il riferimento alla concretezza (per usare un’espressione contenuta nella chiusa del saggio di Bruno Montanari[3]) delle individualità e dei rapporti umani rivelati da quella luce che, nel frattempo, trasporta i messaggi e le parole d’ordine sullo schermo. Il pulviscolo vaga, non ha sede, entra e esce dal cono di luce. Come rivelarlo, come dare conto della sua esistenza, della sua incostanza, della sua natura: questo è il tema della dignità. La sfida della dignità è la sfida del molteplice che, come il pulviscolo, è soggetto al riflesso della luce e anche a una certa refrattarietà: il molteplice, l’umano, è irriducibile agli schemi rappresentativi, anche ai più raffinati; il molteplice è l’altro che risponde in maniera imprevista alle mie aspettative, specialmente se le mie aspettative corrispondo al mio desiderio di fornire l’altro degli strumenti giuridici e morali per provvedere alla sua autodeterminazione e alla sua libertà. È il paradosso, citato nel saggio di Quintili[4], dell’emancipazione delle comunità ebraiche all’epoca della Rivoluzione Francese: come spiegare la resistenza alle riforme e all’abolizione dei “privilegi” (che erano in realtà termini di una segregazione secolare) da parte di comunità sottoposte per secoli alla discriminazione? Solo come a una testardaggine identitaria? un ritardo culturale rispetto ai necessari obiettivi posti dalla Modernità? Un mancato adeguamento al ruolino di marcia della Storia? In genere considerazioni di questo tipo descrivono, meglio di molte altre, lo sguardo di noi “moderni”: potremmo dire che questo sguardo, che è quello della civiltà occidentale, si sia andato a configurare a partire dalla storica “scoperta” del grande Altro, ovvero dall’arrivo dei conquistatori europei nelle Americhe (scoperta che convenzionalmente sui manuali di storiografia inaugura l’Età Moderna). Tzvetan Todorov ne La conquista dell’America (il cui sottotitolo emblematicamente recita: “Il problema dell’altro”) ricorda che è proprio questo evento epocale a porre sul tappeto la maggior parte delle questioni attualmente all’ordine del giorno: universalismo/relativismo, (presunta) arretratezza/progresso, superstizione/vera fede, distruggere/assimilare, propagare e imporre i propri stili di vita/tutelare le culture locali…

La rotazione dell’asse della storia avvenuta a partire dal 1492, ovvero dal Nord-Sud del sistema mediterraneo a quello Est-Ovest del sistema atlantico, è stato anche il principio fautore del consolidamento dell’identità europea (fino alle tappe della sua Costituzione come organismo politico e giuridico, come indicato nelle pagine di Macrì[5]), del suo cammino verso l’affermazione planetaria (violenta) e nello stesso tempo di quello sviluppo intellettuale che ha individuato e analizzato le questioni sempre aperte della laicità, dei diritti imprescindibili e universali di popoli e individui, dell’emancipazione di minoranze. È in questa consapevolezza che sta parte del paradosso segnalato fin dal titolo del saggio di Petrucciani[6]: nel fatto che mentre i paradigmi culturali europei (o occidentali) venivano esportati nel mondo attraverso “armi acciaio e malattie”(per ricordare un celebre saggio di Jared Diamond), attraverso il colonialismo o il consumismo, all’interno di quegli stessi paradigmi, grazie all’incontro/scontro con le altre culture, venivano elaborati dei processi di riflessione che mettevano in gioco e in scacco lo sguardo (e il ruolo) dell’Occidente.

La parola dignità è ciò che può tenere fermo questo sguardo, purché la dignità si faccia fissare, dato che la sua natura è sfuggente: Il grasso la cerca in una lama d’acciaio, il magro la cerca nel suo ultimo pasto, l’uomo vuoto la cerca in un campo di cotone, la dignità. Cosa stiamo ascoltando? Sono le parole di una canzone ma anche un piccolo saggio di filosofia morale. Le ha scritte il discendente americano di ebrei ucraini e lituani che all’inizio del Novecento hanno attraversato l’Oceano (da Est verso Ovest) per sfuggire alla povertà e ai pogrom. La canzone si intitola Dignity e, come eloquentemente spiega Alessandro Carrera, è una canzone “sulla società che ha criteri per tutto, tranne che per riconoscere il valore dell’essere umano”. L’autore si chiama Bob Dylan che qui sembra impegnato nella parte di un investigatore a cui stanno per ritirare la licenza, con un dito di barba di troppo e vestiti sempre stazzonati. Un vento freddo taglia come la lama di un rasoio / Edifici in fiamme, debiti non pagati / Mi affaccio alla finestra e chiedo alla cameriera / Hai visto la dignità? Bisogna essere sobri, non tanto per capire dove sta la dignità, ma per saper attraversare stanze sontuose e vicoli miserabili con la stessa determinazione a cogliere echi e visioni; bisogna farsi strada tra mazzi di chiavi smarrite e pacchetti di sigarette vuoti per imparare a fare le domande giuste, per smascherare gli impostori. Bisogna non fidarsi di chi ti mostra una fotografia della dignità: Dignity, infatti, never been photographed.

Se tu sei mio amico, entra in casa mia senza bussare alla porta. Se tu ignori chi sono, devi sapere che contavo i giorni che mancavano al tuo arrivo. Tu, fratello mio d’elezione, vulnerabile straniero. Che cosa stiamo ascoltando? domando ancora. Sono le parole di un esule e di un poeta, Edmond Jabès (da Sud a Nord, questa volta), racchiuse in un volume intitolato Il libro dell’ospitalità. Le riporto perché nell’ultima frase possiamo ravvisare un altro attributo della dignità (che non mobilita, che sfugge, che non è fotografabile) ovvero il fatto di essere vulnerabile. Nel riconoscere la vulnerabilità altrui mi faccio carico della mia: detto in altri termini, senza ferita nulla sarebbe sano, senza l’esule nulla sarebbe saldo. Elaborare un pensiero della dignità significa rinunciare a un principio maggioritario della realtà, della storia, delle relazioni tra individui; significa elaborare un pensiero della ferita che salva. Questa salvezza è soglia in attesa: esiste nella mano che invita a entrarvi e nel piede che la varca, nei due gesti presi in un unico evento (se è vero che ospite è parola che include tanto chi accoglie quanto chi è accolto). A stento può essere detta: si entrerà in silenzio senza bussare. Al massimo può essere evocata: ma nel computo dei giorni d’assenza.

Vorrei proporre un ultimo esempio. La storia è nota. Un uomo arriva naufrago presso un’isola. È solo, è nudo. La figlia del re di quell’isola lo scopre e lo invita al palazzo. Il re accoglie lo straniero chiedendogli prima se sia un dio o un uomo. “Sono uno sventurato” risponde l’uomo. Durante la cena l’uomo ascolta il canto di un aedo, vi si narrano le gesta di guerra di molti suoi compagni. L’uomo piange e il re lo invita a raccontare la sua storia. È l’antefatto del canto nono dell’Odissea, che è il canto dominato dall’episodio di Polifemo. Il ciclope negherà agli stranieri i diritti derivanti dalle leggi divine dell’ospitalità: per questo a lui Odisseo si presenterà come Outis, Nessuno. Ma cosa è accaduto all’inizio del canto? Odisseo si è svelato al re Alcinoo, ha dichiarato il proprio nome, la propria provenienza e ha rivelato la propria dignità regale, in una specularità opposta, nelle premesse come negli esiti, all’avventura col ciclope. Cosa è stato evocato dalle parole di Odisseo, prima di questo svelamento? Il consesso ospitale della reggia, il pane e la carne distribuiti sulle tavole, la condivisione e l’ascolto: la felice formula della degna relazionalità suggerita nella chiusura del saggio di Bilotti[7].

Ed è la stessa complicità dotta e amicale che ha riunito molte voci intorno alle proposte e alle riflessioni del filosofo tunisino Fathi Triki, sul vivre-ensemble dans la dignité. Ogni parola di questa formula dovrebbe essere custodita, apprezzata e poi affidata al vento, come si affida una storia. Dovremmo raccontare la nostra storia ornandola di parole preziose e vitali come se fossimo alla presenza di un re; dovremmo accogliere l’ospite, misero e cencioso, supponendo sempre in lui la dignità di un re in esilio. Dovremmo approfondire le sfumature semantiche che dalla parola dignità ci guidano ai suoi due principali attributi, all’essere dignitoso e all’essere degno di: il primo indica una condizione, il secondo un impegno.

E dovremmo imparare a vivere, contemplando e ascoltando il Mediterraneo, poema polimorfico di correnti, onde, suoni, voci.


[1]  F. Triki, “Dignità e umanità: una possibile convivenza mediterranea”,. in A. Coratti, A. Cecere (a cura di), “Lumi sul Mediterraneo”, Jouvence, Milano, 2019, pp. 21-42.

[2] M. Reale, “‘Vivere insieme con dignità’ è un altro nome di ‘democrazia’?” in ivi, pp. 43-65.

[3] B. Montanari, “Per vivere insieme con dignità: riflessioni sul ‘pensiero moderno’” in ivi, pp. 67-96.

[4] P. Quintili, “Politica e diritti tra Europa e Maghreb. Alle origini della nozione di ‘laicità’” in ivi, pp. 97-117.

[5] G. Macrì, “Costituzione europea interculturale (Multilevel) e nuovo umanesimo giuridico” in ivi, pp. 129-147.

[6] S. Petrucciani, “I diritti umani e i paradossi dell’universalismo” in ivi, pp. 119-128.

[7]  D. Bilotti, “Un principio di relazionalità nello spazio giuridico mediterraneo” in ivi, pp. 149-163.

Recensione a M. Reale, “Vivere insieme nella dignità” è un altro nome di democrazia?

in A. Cecere – A. Coratti, Lumi sul Mediterraneo, Jouvence, Milano, 2009

Nel saggio scritto in risposta a Triki, Mario Reale si chiede se il vivere-insieme teorizzato dal filosofo tunisino non sia, in fin dei conti, un altro nome di “democrazia”. Ovvero, se la democrazia non sia in fondo definibile come un vivere-insieme “istituzionalizzato” che nel corso della storia moderna (europea) si è dispiegato nell’ambito degli Stati-nazione, chiudendosi in confini spesso “inospitali”. Da una parte, Reale riconosce alla nazione il ruolo da protagonista giocato nei processi moderni di «democratizzazione primaria e fondamentale», dall’altra ne denuncia l’attuale inadeguatezza nel rappresentare il «traino della storia», ovvero nel costituire «il terreno decisivo di riferimento ideale e politico» in una dimensione globalizzata[1]. Cercare di lavorare su operazioni di mediazione continue tra dimensione nazionale e globalizzata, «senza combatterci tra lungimiranti globalisti e retrogradi sostenitori dello Stato nazione»[2], è la proposta per far fronte ai complessi rapporti economici, politici e culturali che da decenni determinano la tensione fra dimensione nazionale e globale e per costruire una via percorribile che renda il vivere-insieme un progetto politico concreto e non una nozione «abusata e quasi priva di senso, impiegata per difendere l’ideologia di una società pacificata e armonica»[3]. Ma il processo di istituzionalizzazione del vivere insieme passa necessariamente, secondo Triki, per la costituzione di una “vie sociale égalitaire” che attenui le differenze tra “nord” e “sud” del mondo e del Mediterraneo. In effetti, a dominare nel dibattito filosofico-politico degli ultimi decenni è stato lo scontro (spesso ideologico) tra “più libertà” da una parte e “più uguaglianza” dall’altra, mentre, come nota Reale, la domanda sulla fraternité, «la terza parola d’ordine della Rivoluzione francese»[4], è stata per lo più trascurata, assumendo un ruolo del tutto marginale nella tradizione politica dell’occidente. Nel Contratto sociale stesso – opera considerata da molti manifesto programmatico della più radicale forma di “collettivismo” della modernità –  Rousseau antepone chiaramente, in nome della costituzione della «grande Repubblica democratica», il «dominio della legge» alla esigenza di socialità, per lo più «messa sullo sfondo, solo implicita, se non proprio espunta»[5]. Il collettivismo in Rousseau sarebbe così fagocitato dal programma politico di porre “la loi au-dessus de l’homme”, avendo la legge come obiettivo primario quello di superare «la temibile dipendenza dell’uomo dall’altro uomo con il darsi a tutti non dandosi a nessuno», rendendo «gli uomini indipendenti e in un certo senso “solitari”»[6]. D’altra parte, è proprio in virtù dell’impersonalità, generalità e universalità, nonché della «reciprocità tra parti autonome» che la legge può farsi garante della «conservazione intatta delle individualità»[7], anche in nome della dignité che è nel titolo stesso del progetto filosofico trikiano, vivre-ensemble dans la dignité. In questo senso, vivere-insieme e dignità, comunità e individualità, rappresentano i due momenti da conciliare politicamente, allorché la tradizione democratica moderna pare privilegiare la tutela della sfera delle autonomie dei singoli. Per lo meno nella fase avanzata. Mentre la socialità emerge prorompente «nei momenti, sempre in qualche modo rivoluzionari […] che preparano l’avvento della democrazia e quindi nel vigore del suo stato nascente»[8], momenti in cui «è necessario mobilitare tutte le risorse “corali” del popolo, perché il vecchio scompaia e il nuovo sorga»[9]. Anche in questo caso, Reale propone uno scambio sinergico a partire dalla diversa storia dei popoli mediterranei e dalle diverse esperienze in corso sulle due sponde, l’una segnata dal fermento delle primavere arabe, ancora in movimento, l’altra alle prese con una storia democratica matura e ormai secolare, ma non priva, come sappiamo, di criticità.


[1] M. Reale, “Vivere insieme con dignità” è un altro nome di democrazia, in A. Cecere, A. Coratti (a cura di) Lumi sul Mediterraneo, Jouvence, Milano, 2019, p. 54

[2] Ivi, p. 58                                                                                        

[3] F. Triki, Vouloir vivre dans la dignité, tr.ita. A. Coratti, www.filosofiainmovimento.it/voler -vivere-nella-dignita/

[4] Ivi, p. 59

[5] Ibidem

[6] Anche per quanto riguarda la questione della “volontà generale”, Reale evidenzia il fatto che, «contro ogni forzatura collettivistica», essa va interpretata in quanto «frutto del “silenzio” tra i cittadini (che non devono avere “alcuna comunicazione tra loro”), ognuno dei quali nella sua intimità s’interroga, con un atto intellettivo e insieme morale, se la legge, comunque proposta dal governo, sia o no conforme alla volontà generale che è in lui» Ivi, p. 60

[7] Ivi, p. 60

[8] Ivi, p. 61

[9] Ibidem

Voler vivere nella dignità

di Fathi Triki

traduzione a cura di A. Coratti

 

Voler vivere diventa, nello stato attuale, un obiettivo primario per l’individuo la cui fragilità aumenta con lo sviluppo straordinario della tecnologia. Egli rischia, in qualunque momento, di finire emarginato a causa della disoccupazione, a causa dei più diversi inconvenienti, dell’isolamento, di ogni tipo di malattia, dell’inquinamento, delle sostanze nocive o della violenza sociale che aumenta senza tregua e, ai giorni nostri, a causa del terrorismo che si normalizza sempre di più e tocca tutti i paesi del mondo. Effettivamente, nelle nostre società, come ha scritto il sociologo tedesco Ulrich Beck, “la produzione sociale di ricchezze è correlata sistematicamente alla produzione sociale di rischi[1]”. Tali rischi, che si aggravano sempre di più, non derivano solamente da cause esterne come le catastrofi naturali, ma soprattutto dalla società stessa e dalle inattese conseguenze, spesso negative, dello sviluppo delle scienze e delle tecnologie, generando angoscia, paura e mettendo in pericolo non soltanto l’individuo nella sua libertà e nella sua esistenza singola, ma la società stessa. E’, senza dubbio, possibile parlare di disuguaglianza del rischio, poiché il sistema economico e politico nelle società iper-capitaliste protegge maggiormente le classi agiate e le classi dirigenti. Attualmente, nella logica di ciò che chiamiamo “risorsa umana”, si può anche parlare dell’uomo “usa e getta”, al quale proporre, per esempio, un contratto di lavoro a tempo determinato, per poi abbandonarlo, in un secondo momento, alla propria miseria.
Dunque, in questa nuova configurazione della società, non resta nient’altro che la vita, al punto che il “sistema dell’assicurazione”, a tutti i livelli della vita individuale e sociale, cresce continuamente e diventa, talvolta, padrone nel sistema finanziario stesso.

Voler vivere è, quindi, un’espressione rivoluzionaria poiché richiama alla lotta quotidiana per un ambiente sano, una vita sociale piena di uguaglianza, una società senza paura e senza rischi. Abou el Kacem Chebbi, poeta tunisino della libertà e dell’amore ha espresso, in tutt’altro contesto, questa volontà di vivere: “Lorsqu’un jour le peuple veut vivre, force est pour le destin de répondre,
force est pour les ténèbres de se dissiper, force est pour les chaînes de se briser[2]”.
Dalla rivoluzione tunisina del 17 dicembre 2010, questo celebre verso è diventato la parola d’ordine di protesta in parecchi paesi nel mondo. «Il popolo vuole» non esprime soltanto un atteggiamento per imporsi e un modo di dimostrare la propria capacità di resistere o la propria forza di partecipare al governo del paese e della società. Esso esprime anche una forma di restance, per utilizzare un termine caro a Derrida, in una vita minacciata da una politica mondiale fondata essenzialmente sulla morte. Effettivamente, restare in vita, restare coscienti, restare svegli e mobilitati è un mezzo per il popolo, come per l’individuo, di lottare contro lo sfinimento, le minacce e la morte. Voler vivere è, alla fine, un mezzo per lottare contro l’isolamento dell’individuo contemporaneo che, pur essendo presente all’interno delle formazioni sociali che costituiscono il suo mondo, si trova di fronte a un solipsismo inquietante. Facendo zapping davanti alla propria televisione, parlando davanti al proprio smartphone o, persino, leggendo il proprio giornale, l’uomo delle nuove tecnologie della comunicazione si sottrae alla presenza della parte umana e si chiude sempre di più dentro una sorta di cyber solipsismo dominante. Se si aggiunge a ciò, la straordinaria macchina mediatica che, attraverso le informazioni, i film, i giochi mirati ecc., aumenta quotidianamente i sentimenti d’isolamento, di paura e di angoscia, questo esilio diventerà, ineludibilmente, una prigione “sur le chemin sans gloire de la peur et de l’angoisse”. Non sto sostenendo, qui, la tesi retrograda di un voler vivere senza tecnologia e senza le acquisizioni di culture scientifiche e tecniche. Io penso semplicemente che bisogna rimettere in discussione il modo di usare questo patrimonio e sviluppare una visione umana della ragione e della tecnica. Ciò si farà attraverso l’esigenza del “ragionevole”, che sposa armoniosamente la ragione e l’affetto, l’argomentazione e l’immaginazione, la scienza e la creazione artistica e attraverso la necessità del vivere-insieme nella dignità, come via di accesso all’umano e all’universale.

La nozione del vivere-insieme è, ai nostri giorni, svalutata. È stata recuperata da ideologi e politici per difendere una certa armonia che essi vedono necessaria nella loro società. Essa può anche essere una trappola, poiché potrebbe veicolare un’immagine irreale e paradisiaca della società cancellando i conflitti, le lotte, le esclusioni e le violenze che accompagnano generalmente ogni raggruppamento sociale. Quando ho formulato una possibile filosofia del vivere-insieme nel febbraio 1998[3], durante il discorso inaugurale della Cattedra Unesco di Filosofia per il mondo arabo, mi sono ispirato a Hannah Arendt, alle sue riflessioni sul “pubblico” e “l’agire umano”. Il pubblico, per lei, designa “il mondo stesso in quanto comune a tutti e si distingue radicalmente dal posto che occupiamo in quanto individui»[4]. Questo mondo comune è legato all’agire umano, “agli oggetti fabbricati dalle mani degli uomini, alle relazioni che esistono fra gli abitanti di questo mondo”. Poi aggiunge, “vivere insieme nel mondo: vuol dire essenzialmente che un mondo di oggetti regge solamente tra coloro che li hanno in comune, come un tavolo è situato tra coloro che si siedono intorno ad esso; il mondo unisce e separa gli uomini nelle stesso momento[5]”. Il vivere-insieme, questo mondo comune, quindi, ci riunisce e ci divide contemporaneamente. “Una strana situazione che evoca una seduta spiritica nel corso della quale gli adepti, vittime di un trucco di magia, vedranno il loro tavolo sparire improvvisamente, le persone sedute una davanti all’altra non sono più separate, ma neanche legate, perché si tratta di qualcosa di concreto[6]”. Ciò significa, effettivamente, che l’uomo è sempre più solo nella società. Il vivere-insieme ha pertanto bisogno di essere pensato e spiegato affinché acquisisca un senso nella nostra attualità. Aristotele ha ben dimostrato che il vivere-insieme è una necessità biologica. Questo vuol dire che ogni animale, solo che sia, è obbligato nella vita e dalla vita a costruire una relazione con il mondo.
Ecco perché, la filosofia, a partire da Aristotele, cerca di spiegare il fine e l’obiettivo di ogni vivere insieme. Hannah Arendt, per esempio, lo vede nell’ “agire in comune”; Etienne Tassin[7] segue le tracce di Arendt e dimostra che la filosofia ha fallito nella sua elaborazione del vivere-insieme poiché non ha saputo superare il rapporto dominante-dominato nella società umana. È dunque necessario un ideale che dia un senso al vivere-insieme. Etienne Tassin lo trova nella figura della promessa che “è un atto di raccolta dal quale emerge una potenza, finalizzata non a dominare ma ad agire insieme[8]”.

In un libro pubblicato nel 1998 dall’Unesco[9] ho difeso il principio di dignità che deve regolare tutto il vivere-insieme e inscriverlo nell’ordine dell’ospitalità. La filosofia del vivere insieme nella dignità[10] ha aperto un interessante campo teorico che riprende alcuni concetti operativi come quelli di “umanità”, “giustizia”, “violenza”, “diritti”, per poi studiarli alla luce di questa nuova filosofia. La sfida, per noi, è difendere nella nostra cultura l’emergere dell’individuo libero contro l’unilateralità della comunità, senza che questo individuo sprofondi nella solitudine e nella dissociazione[11]. Difendere la libertà, il diritto alla differenza, l’alterità, significa, in fin dei conti, lottare affinché la dignità della persona sia il principio fondamentale per ogni vivere-insieme.

Quando il presidente della Repubblica tunisina, la domenica del 13 agosto 2017, ha aperto un fondamentale dibattito, proponendo di introdurre l’uguaglianza nelle successioni tra uomini e donne e l’annullamento della circolare del 1973 che proibisce alle donne tunisine di sposare non-Musulmani, egli non ha fatto altro che mettere in pratica lo spirito stesso della costituzione tunisina redatta dopo la rivoluzione, nel 2011, che sancisce che “i cittadini e le cittadine sono uguali nei diritti e nei doveri”. Faccio rapidamente un esempio della circolare del 1973 che proibisce alle donne tunisine di sposare non-Musulmani. Ecco il versetto coranico a cui fanno riferimento gli Ulema[12] per confermare questo divieto: “Non sposate le donne idolatre finché non avranno acquisito fede. Una schiava credente è preferibile ad un’idolatra libera, anche se ha il vantaggio di piacerti. Non fate sposare le vostre figlie con gli idolatri finché non avranno acquisito la fede. Una schiava credente è preferibile a una idolatra libera, anche se questa dovesse piacerti. Non date in spose le vostre figlie agli idolatri fino a che essi non abbiano acquisito la fede. Uno schiavo credente è meglio di un ateo libero, anche se quest’ultimo ha il vantaggio di piacervi perché gli atei vi indirizzano all’Inferno, mentre Dio, attraverso la sua grazia, vi invita al Paradiso e all’assoluzione dei vostri peccati. Dio spiega chiaramente i suoi versetti agli uomini, per portarli a riflettere (Al Baqara, 221). L’ipocrisia e la fallocrazia di questi Ulema hanno fatto in modo che l’interdizione si applichi solamente alle donne, nonostante il fatto che questo versetto riguardi chiaramente sia gli uomini che le donne. In più “le donne idolatre” e gli uomini idolatri non sono né gli ebrei, né i cristiani. Dunque, bisogna avere il coraggio di iniziare un dibattito ed anche una lotta per istituire definitivamente, in ogni caso, in Tunisia, la libertà e l’uguaglianza tra uomo e donna. L’identità è sempre stata evocata come argomento contro ogni mutazione sociale. Noi siamo musulmani e dunque tutto deve farsi nell’ordine dogmatico di questa religione. In questo senso, questa può essere pericolosa e mortale. Sappiamo, per esempio, che attualmente c’è una deterritorializzazione dell’islam politico. Essa ha avuto, come conseguenza, una nuova configurazione dell’identità dell’individuo. La base sulla quale si edifica questa identità è semplicemente l’Islam, proprio come viene vissuto ed applicato. Poco importa il luogo di nascita o di residenza, poco importa il paese dove i genitori e gli antenati hanno vissuto, noi siamo definiti dall’islamità e da tutta la simbologia che veicola questa appartenenza. Il principio dello Stato-Nazione è stato introdotto dalla colonizzazione e impiantato dai razionalisti progressisti in alcuni paesi islamici ma, una volta ottenuta l’indipendenza, l’appartenenza nazionale ha avuto problemi ad imporsi come criterio d’identità. Il Panarabismo, peraltro introdotto all’inizio da intellettuali arabi di religione cristiana, non ha potuto superare l’appartenenza all’Islam per ricostruire una nuova identità fondata sulle radici arabe. La facilità con la quale avviene il coordinamento nelle azioni dei gruppi islamici politici terroristici ovunque nel mondo, dalle Filippine agli Stati Uniti, passando per la Cecenia e la Nigeria, si spiega in parte con questa identificazione islamica senza confini, che si diffonde per tutta la territorializzazione politica.

La filosofia del vivere-insieme è in fin dei conti un’incursione nella strategia delle nostre abitudini, un incitamento a riflettere liberamente sui problemi della nostra cultura, della nostra società, sui problemi della donna, della libertà, della civiltà, della sessualità, delle minoranze, dei diritti, problemi che costituiscono “il nostro presente, che siamo noi stessi”, per adoperare una formula cara a Michel Foucault.
Che cosa ne è stato di questo vivere-insieme nella rivoluzione tunisina? Ci sono, nello svolgimento della storia, degli avvenimenti che gli storici chiamano “eventi fondatori”. I filosofi sottomettono questi eventi fondatori alla riflessione per decidere ciò che deve essere considerato come punto di partenza di una possibile profonda trasformazione dei modi di essere, seguendo l’esempio di Poulain, Badiou o Rancière. Si può, per esempio, considerare l’abbattimento del muro di Berlino come l’evento che ha permesso la fioritura della libertà, un po’ in tutto il mondo. Il trattato dell’Eliseo firmato nel 1963 tra la Germania e la Francia è, allo stesso modo, un evento fondamentale che ha reso possibile l’unità europea, garantendo una vicinanza sostenibile e duratura. La rivoluzione tunisina[13] può essere considerata, in larga misura, come un “evento fondatore” di cui un’attenta e minuziosa ricostruzione filosofica può mostrare che, attualmente, essa sta per sconvolgere la geopolitica del mondo. Le varie guerre che imperversano nelle regioni del mondo arabo e le diverse manifestazioni di violenza sociale e politica, ivi compreso il terrorismo[14], sono più o meno il risultato diretto o indiretto di questo evento fondatore. Yadh Ben Achour scrive nel suo eccellente libro Tunisie, une révolution en pays d’islam: “questa rivoluzione nel futuro sarà oggetto di profonde e numerose analisi e ricercatori verranno a scavare i solchi della storia per chiarire ancora meglio i dettagli della Rivoluzione tunisina[15]”. Innumerevoli ricerche e numerose pubblicazioni in arabo, in francese ed in inglese hanno già provato a riflettere sulla natura di questa rivoluzione, sul suo andamento e sugli impatti sulla situazione geopolitica del mondo arabo e islamico. Non sono d’accordo con quegli analisti che si sforzano di dimostrare che la rivoluzione tunisina, alla fine, non è che un “colpo di Stato”, una sorta di “complotto” voluto ed eseguito dagli imperialisti e dai loro alleati per destrutturare il mondo arabo. Senza disprezzare questa tesi, penso che alcuni servizi stranieri[16], e media occidentali ed arabi come Al Jazeera abbiano provato a deviare questa rivoluzione dal suo obiettivo ed abbiano preparato le condizioni per il suo insuccesso. Ciò non nega per niente i fatti storici accertati che danno alle differenti rivolte popolari che ha conosciuto la Tunisia dal 2008 un carattere rivoluzionario. Effettivamente, la rivoluzione tunisina è cominciata nel 2008 con lo sciopero dei minatori della regione di Gafsa[17]. Questo movimento è continuato malgrado l’atroce repressione da parte delle autorità, mettendo in atto, per mesi, diverse forme di resistenza. Esso ha contribuito a mobilitare una larga fetta della popolazione locale, provocando morti, centinaia di arresti, atti di tortura e imprigionamento che ha toccato il mondo associativo o sindacale così come quello dei giornalisti. Nata come rivoluzione operaia, ha ben presto coinvolto i laureati disoccupati della regione, poi tutti i disoccupati ed i giovani, quindi tutto il sud e le regioni occidentali che insorsero in seguito al suicidio di Bouazizi il 17 dicembre 2010. Quando la borghesia nazionale si è unita al movimento (presso Sfax e Tunisi) per denunciare l’ingerenza sull’economia e la politica del paese da parte della borghesia acquirente, affarista e mafiosa legata alla famiglia del presidente Ben Ali, la rivoluzione è diventata totale perché ha potuto inglobare tutte le classi sociali in Tunisia ed in tutte le regioni. La manifestazione del 14 Gennaio 2011 lungo il viale Bourguiba ha simboleggiato questa totalità in movimento. Ciò che è successo tra il 2008 e il 2011 è una rivoluzione popolare che doveva scuotere il regime in nome di una vita più giusta per tutte le categorie della popolazione. Questo, secondo me, è il significato più forte della parola Karama, dignità dichiarata e pretesa dai rivoluzionari. La rivoluzione tunisina è e deve essere considerata come un evento fondatore. Oggi, questa rivoluzione non sta solamente sconvolgendo la geopolitica mondiale, ma genera anche un nuovo modo di pensare l’essere-al-mondo.
Il movimento degli indignati, nato a Madrid nel maggio 2011, ovvero 4 mesi dopo lo scoppio della rivoluzione tunisina la cui parola d’ordine è dignità, è un esempio edificante dell’effetto della rivoluzione tunisina in Europa, del rinnovamento dell’azione politica cittadina e del modo di pensare filosofico e sociale.
La letteratura emersa a partire da questo movimento mostra il suo effettivo legame con la rivoluzione tunisina e con la “primavera araba” in quanto preconizza una rivoluzione culturale e intellettuale della sinistra, soprattutto europea. Un altro esempio viene dalla Francia; è il movimento Nuit debout[18]. È stato spesso affermato, durante le manifestazioni del movimento Nuit debout, che questa forma di azione politica di riunione e occupazione di luoghi pubblici non ha precedenti. È diventata, col tempo, una forma riconosciuta, ora usata come lo sciopero, la manifestazione, il sit-in, la rivolta. È anche una forma attuale e contemporanea di azione politica, esclusi i partiti, esclusi i sindacati, senza un leader, senza un programma. In realtà, è la rivoluzione tunisina che ha inaugurato questo nuovo modo di combattere al di fuori di qualsiasi forma di istituzione, senza una guida, senza un leader e senza partito politico.
Il movimento Nuit debout non si è potuto trasformare in rivoluzione, ma ha scosso l’ambiente politico in Francia e nel mondo. Ha provocato soprattutto un nuovo stile del vivere-insieme, all’insegna dell’amicizia nella lotta per la dignità.
Infine un terzo esempio: la campagna elettorale presidenziale del 2017 in Francia ha dato luogo ad un movimento politico intorno al candidato Jean-Luc Mélonchon che fu chiamato con un neologismo, “dégagisme”, facendo riferimento alla parola «dégage» adoperato dai manifestanti all’epoca della rivoluzione tunisina, il 14 gennaio del 2011. William Audureau scrive su Le Monde del 30 gennaio 2017 che il leader della sinistra francese, Jean-Luc Mélenchon, “rivendica apertamente” la filiazione con il movimento d’insurrezione popolare tunisino del 2011. I tunisini avevano, infatti, designato con il termine “dégagisme” la loro rivoluzione democratica nei confronti di Ben Ali e con “dégage” l’esortazione per tutti ad unirsi alla rivolta. La “rivoluzione del gelsomino”, popolare e non violenta, conclusasi il 14 gennaio 2011 con la fuga del presidente della repubblica Zine el-Abidine Ben Ali, ha suscitato ammirazione da parte di molti osservatori. In Belgio, in particolare, il collettivo di estrema sinistra teorizza espressamente il “dégagisme” e nel 2011 ne descrive l’originalità in un manifesto del “dégagisme”: “Per la prima volta, … non si tratta di prendere il potere, ma di rimuovere colui che lo detiene, liberando il posto che occupa».
Alcuni colleghi mi hanno contattato per dirmi che non potrebbero mai accettare di vivere insieme agli integralisti musulmani che hanno solamente un obiettivo: obbligare tutti a vivere secondo quello che loro hanno deciso come regole di vita o come Chariaa. Naturalmente, il “vivere insieme nella dignità” non ha l’ingenuità del pacifismo a qualunque costo. Il vivere insieme può svolgersi secondo l’ordine dell’ostilità o secondo l’ordine dell’ospitalità. Nello stato attuale, è l’ordine dell’ostilità che regna. “Lo stato normale, scrive Nietzsche, è la guerra, noi sigliamo la pace solo in epoche determinate”. È, dunque, impossibile coabitare con coloro che rifiutano ogni tipo di “vivere-insieme” e considerano l’esistenza solamente sotto forma di dominio e di ubbidienza, di esclusione e di interdizione, di violenza e di guerra. La vita è lotta, sofferenza, ma anche rischio ed invenzione. Il ruolo originario della filosofia, a mio avviso, è di persuadere l’altro che la vita vale la pena di essere vissuta e che il miglior modo sia quello di essere insieme nella dignità e ciò si farà attraverso la ragione e le leggi volute ed accettate da tutti. Spinoza lo afferma evidenziando che “la ragione insegna in maniera generale a cercare la pace, ma è impossibile giungervi se le leggi comuni della città non restano inviolate”.

[1] Arlette Bouzon, « Ulrich Beck, La société du risque. Sur la voie d’une autre modernité, trad. de l’allemand par L. Bernardi », Questions de communication, Aubier 2001, p.36

[2] Traduction de Abderrazak Cheraït, Abou el Kacem Chebbi, éd. Appolonia, Tunis, 2002

[3] Discorso pubblicato in un piccolo testo, Philosopher le vivre-ensemble, Tunis, L’Or du temps, 1998.

[4] Hannah Arendt, Condition de l’homme moderne, Agora, Pocket, p. 92, (traduction de Georges Fradier)

[5] Hannah Arendt, Condition de l’homme moderne, op. cit., p.93

[6] Ibidem

[7] Etienne Tassin, Un monde commun. Pour une cosmopolitique des conflits, Paris, Seuil, 2003

[8] Etienne Tassin, Un monde commun. Pour une cosmopolitique des conflits, Paris, Seuil, 2003, p. 104

[9] Taking action for human rights in the 21st century, Paris, Unesco 1998.

[10] L’idea del “vivere-insieme nella dignità” che ho difeso per la prima volta nel 1998 presso la sede dell’Unesco, mi ha permesso di ottenere il Diploma di Merito Scientifico dell’Istituto di Promozione della Filosofia Francofona di Kinshasa . L’idea è stata in seguito ripresa da diverse università, molte ONG e molti filosofi. A titolo d’esempio, cito la celebre casa editrice svizzera Peter Lang con la collaborazione dell’Università di Brema (Germania), che ha istituito una collana filosofica intitolata “filosofare il vivere-insieme”. Il filosofo francese Vincent Cespedes ha pubblicato on line un dialogo intitolato “Il vivere-insieme nella dignità. Le università del Cairo e di Zagaziz hanno introdotto questa idea nel loro programma. Molte tesi di laurea e di dottorato nelle università algerine e tedesche trattano questa questione. Lo spazio culturale Aykar a Tunisi ha organizzato un programma internazionale negli ultimi tre anni su tale tema. Recentemente il teatro Antoine-Vitez-Ivry ha pubblicato un libro «Vivere-insieme nella dignità» che raccoglie gli atti di una conferenza del 2015

[11] Giorgio Agamben, nel suo libro La comunità che viene, parla di “singolarità qualunque” che “non possono formare una società perché non dispongono di alcuna identità che possano far valere, di alcun legame di appartenenza da far riconoscere» (p.88). Per me, l’individuo che deve emergere nella nostra società non deve essere senza identità. Questa idea nichilista di Agamben è, per me, improduttiva. Certo, ogni Stato ha bisogno di identificare l’individuo, ma ciò non è una ragione sufficiente per militare in favore delle singolarità senza appartenenza o, allo stesso modo, di questa “singolarità qualunque che vuole appropriarsi della sua appartenenza stessa, del suo proprio essere-nel-linguaggio e che rigetta ogni identità e ogni condizione di appartenenza”. L’individuo à venir non deve sprofondare definitivamente nell’ “essere-nel-linguaggio” che è, fondamentalmente, un non-essere (Platone).

[12] Teologi, generalmente sunniti, della legge coranica e garanti del rispetto e della corretta applicazione dei principi dell’Islam

[13]Per avere un’idea degli avvenimenti della rivoluzione tunisina, cf. l’eccellente di Jean-Marc Salmon, 29 jours de révolution. Histoire du soulèvement tunisien, 17 décembre 2010 – 14 janvier 2011, Paris, Les Petits matins, 2016, 350 p.,

[14] Generalmente, si definisce il terrorismo come violenza causata da individui o da gruppi non-di-Stato in lotta contro un regime politico, ma causata ugualmente da un modo di governare (terrorismo di Stato). Bisogna evidenziare che questa definizione di terrorismo solleva, giustamente, dei dibattiti poiché pone la questione della violenza legittima e del diritto alla resistenza. Bisgona sapere che certi Stati utilizzano questo termine di terrorismo per designare l’opposizione legittima e spesso clandestina quando questi regimi sono autoritari o dittatoriali

[15] Yadh Ben Achour, Tunisie, Une révolution en pays d’islam, Tunis, Cérès Editions, 2016, p.30

[16] Cf. Mezri Haddad, La face cachée de la révolution tunisienne, Islamisme et occident, une alliance à haut risque, Tunis, Ed. Arabesques 2011

[17] La rivolta del bacino minerario di Gafsa è un importante movimento operaista e sociale che ha scosso l’intera regione mineraria del sud-ovest tunisino per più di sei mesi nel 2018

[18] Nuit debout è un insieme di manifestazioni svolte nelle piazze pubbliche, soprattutto in Francia, cominciate il 31 marzo 2016 a seguito di una manifestazione contro la “legge-lavoro” in Place de la République a Parigi.

Donne, cittadinanza e creazione in Tunisia

Partendo dalla costatazione che la laicità implica una totale libertà di coscienza e la protezione del cittadino contro una qualsivoglia autorità religiosa o potere politico che avrebbe il diritto di controllo sulla sua credenza o sulle sue scelte spirituali, si può affermare che, in base al diritto, la costituzione tunisina garantisce una vita laica.

Ovviamente, nella pratica quotidiana, per una parte dell’opinione pubblica, è ancora difficile accettare che la religione rientri nella sfera privata.

È per questo che spetta alla società civile, oggi più che un tempo, la responsabilità di intervenire e di lottare a diversi livelli, sia contro le mancanze, sia sulla separazione tra politica e religione, al fine di far evolvere le mentalità verso la civiltà e verso le libertà fondamentali che le sono inerenti.

In questo, la lotta delle cittadine tunisine è esemplare all’interno del cosiddetto mondo arabo-musulmano.

È, in effetti, attraverso una lotta sostenuta, cautamente o in modo più diretto, che da alcuni decenni la donna tunisina aumenta l’efficacia della legge con modi di essere e di fare che la rendono cittadina a tutti gli effetti, diminuendo poco a poco le abitudini relative alla rigorosa rappresentazione islamica della donna.

Anche se, dal 1957, per volontà di Bourguiba, la donna ha beneficiato di diritti senza eguali all’interno del mondo arabo- musulmano, con l’abolizione del ripudio e della poligamia, con il diritto al divorzio giudiziario, con il diritto di voto e, più tardi, nel 1973, con la liberalizzazione totale dell’aborto, le donne hanno dovuto difendere e preservare costantemente questi diritti.

Ancora oggi, in linea con la nuova costituzione del Gennaio 2014, l’uguaglianza uomo/donna è in via di evoluzione con l’annullamento della circolare (del 1973) che impediva il matrimonio con un non-musulmano e con un dibattito, ancora in corso, sull’uguaglianza dei diritti concernenti le questioni ereditarie.

Tutte queste conquiste giuridiche vanno di pari passo con le lotte delle associazioni di donne democratiche, determinate ad essere riconosciute come cittadine a tutti gli effetti.

Ma uno dei fattori determinanti per l’emancipazione giuridica e sociale della donna è sicuramente la democratizzazione dell’insegnamento, avvenuta molto presto, subito dopo l’indipendenza. Il diritto al sapere e alla formazione professionale ha promosso forme di autonomia nel destino di generazioni di donne (2). L’accesso della cittadinanza nella scuola pubblica ha dotato la donna tunisina di una forza di partecipazione alla causa pubblica e, ancora di più, di una capacità di creazione nel campo delle arti. Il fatto di produrre delle opere che rendono sensibili delle realtà ma anche un possibile futuro apre un campo d’azione a carattere estetico che può far cambiare fortemente le mentalità per ciò che riguarda le solite rappresentazioni uomo/donna. Oggi, in Tunisia, le creazioni nell’arte plastica e nel cinema sono in gran parte opera di donne.

Soprattutto a partire dagli anni ’80, la frequentazione dell’Accademia delle Belle Arti di Tunisi ha conosciuto un numero considerevole di studentesse, in un momento di espansione delle gallerie nella capitale e di dibattito sul problema della “creazione artistica”. Alcune di queste studentesse hanno potuto continuare i loro studi in Francia e in Italia, arricchendo la loro esperienza artistica ed esponendo in gruppo o individualmente.

Il loro carattere forte e la loro passione creatrice ha permesso loro di trasgredire agli ostacoli socio-culturali che possono sempre rappresentare, per una donna, occasione di scoraggiamento.

Loro si sono imposte sulla scena pubblica lentamente ma in maniera particolarmente brillante in particolare per l’innovazione del loro metodo.

Le loro opere sono modi di fare e di pensare aperti alla diversità del sensibile, agli eventi, all’ambiente, nonché a ogni fenomeno socioculturale, specialmente riguardante le rappresentazioni della donna. Loro apprendono, attraverso un lavoro che evoca l’immaginario, il futuro della loro identità, per non parlare della loro “unicità”.

L’unicità è da intendere sia fenomenologicamente, sia socialmente.  La relazione con il mondo è quella che permette di mettere in risalto mutazioni, violenze, contraddizioni o, semplicemente, situazioni singolari che le artiste trasformano in arte al fine di rendere la ricezione più intensa.

Creare ricorda “resistere”, per citare l’espressione di Gilles Deleuze e Felix Guattari. Si tratta di “osare un futuro che è sempre un’avventura”; in questo l’artista “è colui che tenta una lotta incerta” perché aperto a tutte le possibilità, con la capacità di passare da una tecnica all’altra, secondo il processo di questa o quella opera.

Questo accordo con se stesso, con i suoi desideri, con il suo bisogno di produrre o, più semplicemente, di esprimersi, attraverso un metodo adeguato, è una caratteristica che accomuna, oggi, molti artisti tunisini, specialmente quelli della nuova generazione.

I giovani artisti hanno trovato nei mezzi e nei modi di fare contemporanei un mezzo di creazione che risponde meglio ai loro desideri e che permette più libertà per poter rendere sensibile il loro vissuto.

Oggi, l’avvento della pratica delle installazioni e dei video d’arte è favorito da questa generazione di artiste che ha adottato un approccio plastico al quale il pubblico colto inizia ad aderire, malgrado la marginalità dei luoghi di esposizione.

Numerose giovani artiste contemporanee, avviate alle nuove tecnologie e alle nuove modalità di comunicazione, così come alla circolazione e al mix di immagini con la loro diversa rappresentazione, ampliano il loro campo di creazione. Esse rivendicano, allo stesso tempo, la loro singolarità artistica e una certa posizione “cittadina”; si confrontano con un ambiente più ampio, internazionale, che supera la ristrettezza delle identità culturali. In questo, l’immaginario costituisce un motore di emancipazione.

Le opere di queste artiste mostrano fino a che punto la loro creazione si allontani da quella dei loro predecessori, i quali avevano come “scrupolo” un certo estetismo pittorico tenendo ferma una dimensione, più o meno dichiarata, di appartenenza al patrimonio, in senso lato. Al contrario, oggi, è la dimensione, si potrebbe dire, esistenziale che ha la precedenza. È anche la relazione sensoriale in campo socio-politico che viene messa in discussione.

Le artiste cercano i dettagli impercettibili o sconvolgenti che sono al centro delle trasformazioni odierne del nostro mondo. È per loro un modo per affrontare il problema degli individui nella loro singolarità, di fronte alle tradizioni ma anche alla comparsa di diverse minacce contro le libertà, che provengono dall’interno o dall’esterno.

Le pratiche di arte contemporanea delle donne tunisine comportano una forza di dis-identificazione e soggettivazione, che sprigiona rappresentazioni alienanti. Lo spazio creativo riguarda tutti i fenomeni che influenzano il futuro degli individui in una società in cui la vigilanza è da porre prima di possibili ritorni all’egemonia religiosa.

La realtà storica è, naturalmente, nei momenti critici, ostacolata da fronti ideologici a carattere retrogrado per fare piazza pulita dei vantaggi della democrazia, al fine di sostituirvi questa o quella utopia legata al passato. L’arte rimane, in questo senso, un ricettacolo di contraddizioni vissute dalle cittadine che affrontano, nel loro desiderio di emancipazione, le ostinate rappresentazioni della condizione di disuguaglianza tra uomini e donne. È per questo motivo che si può dire che le creazioni artistiche sono anche un focolare sovversivo.

La pratica delle arti visive è una forma di resistenza contro l’uniformazione delle rappresentazioni della donna musulmana. Attraverso le virtù dell’immagine, l’arte diventa un mezzo per sottrarsi alle assuefazioni percettive.

Funziona come un processo di liberazione, per la sua dimensione che è al tempo stesso imprevedibile e instauratrice di un nuovo significato. La creazione che introduce non è solo dell’ordine dell’immaginario, ma un’iscrizione della diversità nell’esperienza dello “stesso”. Disfare una certa immagine tradizionale è cercare di liberarsi dai codici e dalle fossilizzazioni che incombono su ogni designazione e ogni identificazione.

Allo stesso modo, il cinema femminile tunisino è in forte espansione ed è uno specchio della società con le sue contraddizioni, evoluzioni e chiusure(4). Contro l’immagine televisiva della donna, trasmessa da molti canali satellitari nel mondo arabo, la sfida per i registi tunisini consiste nel liberare lo sguardo dalle rappresentazioni che sono diventate convenzionali e si sostituiscono in modo quasi formale alla realtà locale. Ciò rende possibile affrontare la dimensione esistenziale delle situazioni socio-culturali nella loro particolarità. È in questo senso che le artiste giocano la strategia della finzione della realtà. I loro dispositivi immaginari rendono l’immagine del reale diversa dalle rappresentazioni sensate portatrici di verità perché sono mimetiche o indicizzate; così forgiano le nostre rappresentazioni di eventi in prossimità fenomenologica.

Diversi film sollecitano il nostro sguardo e la nostra sensibilità in modo differente,

mostrando le immagini di donne che confrontano i divieti dettati dall’abitudine di una cultura in cui il religioso ritma il sociale. Essi offrono l’immagine di un nuovo tipo di vita possibile, nel rispetto delle libertà altrui.

È un cinema che osa, con molta libertà di tono, portando sullo schermo i temi-tabù che hanno fatto notizia, come lo stupro di una studentessa da parte di agenti di polizia nel recente film (2017) di Kaouther Ben Hania: “La bella e il branco”. Si tratta di produrre, diversamente, con un’attenzione concentrata sulle singolarità delle situazioni, immagini del presente che rispettino lo spazio / tempo di coloro che subiscono, nella loro vita quotidiana, gli effetti di violenze degradanti.

Questo film solleva la questione dell’impunità di fronte alla violenza sulle donne.

Si riferisce, in forma di fiction, ad un vero evento che ha avuto luogo nel 2016 e che ha provocato le proteste delle ONG al punto di smuovere la giustizia per condannare gli autori dello stupro. All’uscita del film, le organizzazioni femministe tunisine “Chouf” ed “Echi” ne hanno organizzato un tour di 100 proiezioni per un pubblico femminile in aree marginali o nelle case delle studentesse per rompere il silenzio e sensibilizzare l’opinione pubblica di Stato. Le discussioni si sono svolte dopo le proiezioni e una guida informativa sull’uso della giustizia è stata distribuita ad ogni riunione (3).

Dal gennaio 2011, ci sono stati diversi documentari e cortometraggi riguardanti la situazione delle donne tunisine e dei loro diritti. È soprattutto il caso di giovani registe come Chiraz Bouzidi il cui documentario “Ennajeh”, dal nome di un villaggio al centro della Tunisia (2013, 23 min), testimonia la fatica quotidiana di donne che raccolgono nelle discariche ciò che si può riciclare e vendere, al fine di provvedere ai bisogni delle loro famiglie. Allo stesso modo, il documentario di Sonia Chamkhi (2012, 64 min) porta sullo schermo la mobilitazione cittadina delle donne nelle prime elezioni libere dopo la rivoluzione del 2011.

Più incisivo e diretto è il film di Nadia El Fani “Laicité Inch’Allah” iniziato nell’agosto del 2010 prima della rivoluzione e che mostra le pratiche apertamente irreligiose delle donne libere che sfidano i tabù nel mese del Ramadan, che trasgrediscono i tabù riguardanti il comportamento detto “immorale”. Le riprese sono continuate dopo il gennaio 2011 per sollevare chiaramente la questione di una Costituzione laica che non avrebbe lasciato alcun dubbio sulla libertà di coscienza e sull’uguaglianza di genere. Questo film è stato censurato.

Anche i lungometraggi, opera di giovani registi non mancano di difendere le libertà tracciando il quotidiano delle giovani donne anche nel loro ambiente familiare, come nel caso del primo film di Leila Bouzid (2016). “A peine j’ouvre les yeux” che mostra la ribellione di una giovane ragazza contro tradizioni tenaci anche nel caso di un ambiente di piccola borghesia.

Questo film è in linea con i film che affrontano il problema del rapporto con il corpo come quello della regista Raja Amari, la storia di “Satin rouge” che ha messo in scena una vedova alla scoperta del suo corpo desideroso, attraverso l’uso della danza. Allo stesso modo, lo fa un film più vecchio di Moufida Tlatli “Le silence des palais” (1990), in cui si parla della segregazione della massaia secondo le consuetudini e le frustrazioni del corpo, nell’epoca Beycale. Il numero di donne registe che prendono iniziative per la produzione dei loro film non cessa di crescere e allo stesso tempo attira un vasto pubblico. Questo cinema femminile contribuisce certamente a rendere visibile una realtà celata da immagini e discorsi che portano un’ideologia conservatrice che non ha più legami con la realtà. Partecipa a una forma di democratizzazione delle mentalità.

Queste produzioni artistiche delle donne tunisine valorizzano la funzione vitale delle differenze e delle trasgressioni in campo culturale. Trasgredendo l’esperienza ordinaria, rendono possibile il liberarsi dalle prove e l’aprirsi a una visione critica delle rappresentazioni e delle modalità di identificazione concordate culturalmente. Questo dinamismo del campo artistico è quindi un processo di invenzione di una cittadinanza sociale che si basa sulla diversità inerente al fenomeno stesso della creazione e alla sua ricezione. Infatti, lo spazio di produzione culturale è, allo stesso tempo, uno spazio di convivenza che presuppone a priori la condivisione e il riconoscimento dell’autonomia di ciascuno; è proprio per questo che in Tunisia, attualmente, gli attori culturali e gli artisti sono consapevoli di partecipare al processo di democratizzazione della vita sociale come potere che si oppone all’autoritarismo che allarma ogni stato. Di fronte all’astrazione dei valori istituzionali di libertà e giustizia, rivendicano un’effettiva emancipazione in cui venga riconosciuta l’autenticità di ogni creatore nella sua capacità di inventiva, comunicazione e creazione di nuovi valori. In questo senso, la postura critica propria dell’arte diventa una sorta di auto-fondamento dell’atto creativo. La censura che è stata esercitata nel vecchio regime e che ancora minaccia, al momento attuale, opere giudicate sovversive dalle forze reattive, diventa così più insostenibile; questo dà luogo a un dibattito in cui la società civile è coinvolta nelle questioni della libertà di espressione e della libertà di coscienza e prende atto dell’importanza della cultura nel processo democratico. La natura esemplare dell’arte funziona da cavallo di battaglia per le rivendicazioni all’autonomia del singolo individuo cittadino.

Note:

(1) Le cifre parlano da sole: ci sono 75 deputati (donne) su un totale di 217, con il 60% delle donne in ambito medico, il 41%  magistrati, il 43% avvocati e il 60% laureate.

(2) Già, la seconda metà del ventesimo secolo è stata quella dei cambiamenti sociali dovuti all’avvento del pensiero riformista, specialmente riguardo la didattica, in generale (e quelli dal 1938) in cui abbiamo introdotto un programma moderno aperto su scienze e lingue (francese, italiano, turco) con, inizialmente, la creazione del Politecnico di Bardo, poi nel 1875 con l’istituzione del Liceo Sadiki promulgato da Sadok Bey nel 1875 (questo insegnamento arriva a distaccarsi dall’educazione religiosa tradizionale). Nel 1883 scuole francesi e italiane, maltesi e israelite, per ragazze, sono venute alla luce, ma il numero di ragazze musulmane era inferiore allo 0,2%.

La sensibilizzazione di un’educazione moderna per le ragazze avvenne principalmente attraverso gli scritti di riformisti pubblicati nella rivista El Manar nel 1898: Mohamed Abdou (1849/1905), Rachid Ridha (1865/1935), e in particolare l’egiziano Rifat Rafée At Tahtaoui (1801/1873) che difese l’idea di adattare la religione musulmana al progresso che l’Europa conobbe in materia di educazione delle donne (come nel suo libro takhlis al ibriz fi talkhis baris; l’apercu abrege de Paris); in seguito Kheiereddine Bacha influenzata da Tahtaoui reclamò ufficialmente in Akwam al Massalek l’educazione moderna per le ragazze.

Già prima dell’indipendenza, sono stati fatti tentativi per aprire spazi di istruzione e formazione per le ragazze, a cui all’educazione delle responsabilità domestiche doveva aggiungersi un insegnamento più vasto. Il 1 ° maggio 1900, fu inaugurata la prima scuola per ragazze musulmane nella medina di Tunisi che fu nominata Dar el Pasha.

(3) Il progetto “Images au-dessus de l’impunité” è stato avviato dalle associazioni Echos e Chouf, in collaborazione con FIDH, CNCI e IFT, con il contributo di Euromed, distribuzione HAKKA e Ciné téléfilms, con la partecipazione di l’associazione Beity, ATFD, AFTURD e CREDIF e il supporto di OOUN.

(4) Abdelkrim Gabous, Silence, elles tournent! Les femmes et le cinéma en Tunisie, edizioni Ceres, 1998.

Sonia Chamkhi, “Du discours social au discours de l’intime ou de la démystification de la violence “, in Patricia Caillé, Florence Martin (regista), Les Cinémas du Maghreb et leurs publics , Africultures n ° 89, Paris, L’Harmattan , 2012.

Rachida Triki

traduzione a cura di Alexia Banica

Il secolarismo arabo come forma dell’islamismo politico

L’Islam dei giorni nostri, in particolare le teorie pubbliche della comunità politica fondate sulla precettistica religiosa, utilizza ancora la giustificazione teocratica offerta dalla fede per legittimare la propria azione. Paradossalmente, argomentazioni religiose adottano i giuristi tunisini che difendono il divieto della poligamia e argomentazioni religiose sfoderano gli opinionisti turchi che invitano Erdogan a riconsiderare la punibilità dell’adulterio femminile. È ancora più stucchevole che l’osservatore esterno, soprattutto se di cultura laico-occidentale o se di ascendenza islamica ma da tempo incardinato nelle culture e nelle accademie occidentali, entri nel dibattito pretendendo di spiegare ai musulmani come si debba essere musulmani, ai leader religiosi come si debba attuare la religiosità nelle relazioni sociali.

TRA IL DIRITTO SECOLARE E LA FILOSOFIA POLITICA LAICA: COSTITUZIONALISMO E CULTURA NELLA TUNISIA ODIERNA

La Tunisia sembra destinata a rimanere per gli atlanti non molto più che una virgola di interludio tra l’Algeria e la Libia. Eppure, la sua vitalità culturale, le sue transizioni costituzionali e i suoi moti popolari, accesi e vivaci, quanto spesso sofferti e testimoniali, certificano un’importanza anche di natura geo-strategica assai superiore alle apparenze. Questa indubitabile rilevanza si traduce in una facile suggestione emotiva per l’Italia insulare: la Tunisia è più vicina alla Sardegna e alla Sicilia che alle regioni libiche e algerine non mediterranee. Terra composita, quella tunisina, politicamente portata a un’innovazione perseguita con fierezza e originalità, a far data, almeno, dai moti repubblicani del 1954-1957. E anche terra dove la tradizione, l’uso, la consuetudine e il retaggio – elementi etnologici ed elementi giuridici, elementi letterari ed elementi politico-istituzionali – non si sradicano mai con l’accetta, ma resistono, progrediscono, talvolta si incistano, più spesso si evolvono. Lo conferma il diritto di famiglia repubblicano: la Tunisia è, o perlomeno è stata, emblema di una regolamentazione non esclusivamente coranica delle relazioni inter-privatistiche, non riconducibile, però, nemmeno all’intransigenza legalista del diritto francese statuale.

In Tunisia, sin dagli anni Cinquanta, istituti di civiltà avvicinano la donna e l’uomo, innaturalmente separati da vincoli attribuiti alla religione, ma di fatto imposti dalle interpretazioni teocratiche della spiritualità collettiva. Esiste un’età minima per contrarre matrimonio, la poligamia da mettere al bando è una spinta centrifuga, e non centripeta, rispetto alla familiarità tradizionale, la sposa deve poter acconsentire (non obbedire!).

Il diritto civile tunisino, in molti campi (dalla prospettiva laburista a quella commerciale, dalla famiglia alle successioni), è stato capofila della transizione maghrebina ed è patrimonio di conquiste sociali che non meritano di concedersi ad arretramenti e ad aggressioni.

Nel 2015, il “quartetto per il dialogo nazionale tunisino” (organo composto dalle associazioni degli imprenditori, sindacalisti, attivisti e avvocati) ha conquistato il Nobel per la Pace. Lo spirito di quella concertazione ampia, improntata a un pluralismo prudente, resta nella Costituzione, ma (e ce lo segnalano i complicati lavori preparatori) la Costituzione è anche necessità di compromesso e rappresentanza di forze sociali che furono meno propense alla repubblica democratica. E di agenzie che quel cambiamento avrebbero voluto orientare a proprio uso e consumo. La rivoluzione del gelsomino, insomma, proficua infiorescenza delle primavere arabe, anche di quelle che si sono chiuse con “l’inverno del nostro scontento”, è da difendere nella sua scaturigine primigenia di presidio e difesa della libertà e della dignità umane. Valga, però, un ammonimento biblico, qui assunto nella sua furente carica figurativa e non nella sua accezione giuridico-confessionale. Anche lupi vestiti da agnelli ordiscono insidie al futuro del popolo tunisino: bisogna guardarsene.

La lezione più importante che viene dalla recente storia tunisina non ne fa, d’altra parte, capofila per il solo mondo arabo: nella storia nazionale, l’elogio della dialettica e quello della riflessione, il vissuto dell’introspezione e quello della politicità, convivono fino ad animare un preciso cotè letterario. È tunisino, Rafik Darragi, di un Paese a lungo sottoposto al giogo francese eppure in costante comunicazione con l’intellettualità del circuito accademico parigino. Darragi è sovente ritenuto il più insigne studioso di Shakespeare, il massimo poeta inglese, emblema della Gran Bretagna (non della Francia!) quanto e più della Corona in quanto tale. Un mite accademico al cospetto del Bardo inglese. Un’altra contraddizione: lo schivo studioso davanti al poeta che ha fornito l’insuperata lettura pubblica del teatro, come unità di misura del potere e luogo di lotta a quello stesso potere.

Tunisino è pure Sadri Khiari, il maggior oppositore del discusso intellettuale di riferimento del mondo arabo in Occidente, Tariq Ramadan.

Il seme della dialettica e della tensione che si unisce al dono della riflessività è espresso nella vicenda poetica e biografica dello scrittore nazionale per antonomasia, Abu l-Qasim al-Shabbi: erudito illuminato, morto a venticinque anni, precoce cantore del bisogno di una riforma antiautoritaria, sin dal periodo del protettorato francese. Ora emblema di orgoglio patrio, ieri lirico che stigmatizzava il suo popolo: additarne i vizi, incitarlo alla lotta. Parole attualissime nel loro incedere lacerante, poco meno di cent’anni dopo, nella Tunisia che freme contro il carovita e l’austerità, ma che prova a difendere il pluralismo costituzionale senza frantumare il fragile equilibrio raggiunto con controparti anche dichiaratamente ostili alla repubblica laica. Una sfida che riguarda noi tutti, non solo i poeti che passeggia